Carlo Dossi la desinenza in A - IIS Severi

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Carlo Dossi la desinenza in A - IIS Severi
Carlo Dossi da “La desinenza in A”
Questo brano è tratto da un libro molto divertente, anche se di lettura non sempre agevole: La desinenza in A .
Il titolo allude alla desinenza che spesso nelle lingue antiche (come il greco e il latino) e in molte lingue
neolatine (come l'italiano) caratterizza il genere femminile. Si tratta di una serie di narrazioni che delineano
una galleria di ritratti di donne che, diverse per età e condizione sociale, hanno come unico scopo tiranneggiare
e sottomettere gli uomini al proprio arbitrio, anche attraverso subdole manovre e ricatti sentimentali. L'autore
milanese costruisce un palcoscenico (non a caso le suddivisioni, si potrebbe dire i capitoli, vengono chiamati
“atti” e “scene”) dove recitano bambine e vecchie, suore di clausura e madri di famiglia: tutte, indistintamente,
sono perfide, volgari, maligne, vanitose, bugiarde, e vessano uomini stupidi, banali, ipocriti, creduloni. Pur
essendo ancora scritto nell'800, il libro è splendido esempio di scrittura moderna e antinaturalistica che,
soprattutto attraverso un ardito sperimentalismo linguistico, dà origine a una rappresentazione dai toni
grotteschi e sarcastici.
1. Nell'episodio Una donna che ama il narratore racconta un fatto di cui è stato testimone (ed egli pagherà “a
caro prezzo” la presenza sul luogo del misfatto): un gesto “d'amore” che il giovane Nino Fiore “subisce” dalla
sua tremenda amica Gea. Il racconto è gestito dall'io narrante che, ferocemente misogino e antifemminista,
rovescia tutti i luoghi comuni sulla bellezza e la dolcezza di una donna innamorata: Gea viene definita una
«disgrazia» (e difatti tale si rivelerà), un «basto… imbottito d'amore»; ella spia il giovane, lo tortura con assurde
scenate di gelosia, gli impedisce, anche con la violenza, di godere la compagnia degli amici. Nel lungo soliloquio
finale dove Gea, vanamente frenata dal narratore, dà sfogo al suo irrefrenabile amore, ella si rivela interessata
(«[Nino] le rasciugava… le lagrime con qualche taglio di veste e, rispetto agli sgraffi, ci provvedeva col taffetà»),
ignorante e volgare. Il giudizio negativo si estende anche ai personaggi maschili, incapaci di difendersi con
onore da simili calamità: Fiore è un imbelle; gli amici sono dei gaudenti che, con allegra amoralità e cinismo,
suggeriscono all'amico quale unico consiglio di sposare Gea per essere definitivamente libero.
2. La prosa di Dossi è immaginosa, fatta di ironici rovesciamenti di senso che “spiazzano” le aspettative del
lettore (esempi significativi di questa scrittura sono frasi quali «[Gea circondava Nino] di quella perenne ostilità
in cui ogni donna fedele non manca di tenere il suo uomo», «Gea [è] gentile come il ginepro e i ricci delle
castagne») e di fantasiose metafore o similitudini, quali «una fila di bottiglie nere… a bocca aperta come i
cadaveri», «le mani calde di onestà e di barolo», «serrarsi le porte della cittadella del capo», «pace non venne
mai così in fretta», «rannicchiare la confusione dietro una lunga bottiglia di Reno». Egli gioca con le parole
attraverso bisticci e doppi sensi; mescola vocaboli arcaici e desueti («eburneo», «obliati») lombardismi e
dialettismi di ogni regione, latinismi ed espressioni tipiche del parlato, voci straniere e neologismi. Il miscuglio
provoca inaspettati effetti comici: il divertimento è inoltre qui acuito dalla parlata della donna che si esprime in
un romanesco fortemente popolareggiante. L'effetto comico che scaturisce fra la presunta onorabilità di Gea
(«sso sempre stata una donna onorata») e la sua effettiva volgarità è piuttosto notevole; esso tuttavia si
potenzia per il fatto che il dialetto di Roma, all'epoca non ancora molto conosciuto, doveva suscitare un'ilarità
ben superiore a oggi, abituati come siamo a spettacoli cinematografici dove grandi attori si servono con grande
abilità del romanesco.
“Una donna che ama.
Il viso di Nino Fiore era in piena illuminazione. Ne' suoi occhi ridenti si raddoppiava la stella di gasse, che nell'alto
brillava; sulle rosse sue guance, sulla punta del naso, nell'eburneo sorriso dei denti, dardeggiàvano i lampi degli
argentati e dei vetri, ond'era sparsa la tàvola, benchè il vero olio a tutta questa illuminazione gliel avesse fornito
piuttosto una fila di nere bottiglie, cinque come i birilli, e a bocca aperta come i cadàveri. «¡O amico!» egli esclamò,
porgèndomi di sopra la tàvola ambedùe le mani, calde di onestà e di Barolo, «è il primo pranzo, in un anno, che
m'abbia fatto buon sangue. Mi par tornare, ti giuro, dalla Brianza.»
¿Eccome no? Non era lì a funestarlo con la velenosa sua ombra quel manzanillo ambulante di Gea. Perocchè Nino,
fruga e rifruga, dopo quattro amorose che non lo amàvano niente, ne avèa, per sua maggiore disgrazia, trovato una
quinta innamoratìssima. Una Gea, dico, gentile come il ginepro e i ricci delle castagne, la quale, gelosa perfin degli
amori ch'egli già avèa obliati, sforzàvagli le serrature dello scrittojo e gli dissuggellava le lèttere, lo spiava alla rima
degli usci e lo braccava travestita in istrada; una Gea, che, rotolata qual pomo della discordia tra i suòi amici e lui, non
perchè la volèssero tutti, ma perchè ella non volèa nessuno, gli proibiva, fuori, l'altrùi compagnìa, toglièvagli in casa la
propria, circondàvalo insomma di quella permanente ostilità in cui ogni donna fedele non manca di tenere il suo
uomo. Nè crediate che l'uomo facesse quì almeno le mostre di èssere tale. Egli si contentava, agli assalti della lingua di
lei, di serrarsi le porte della cittadella del capo, le rasciugava, quando poteva, le làgrime con qualche taglio di veste, e,
rispetto agli sgraffi, ci provvedeva con del taffetà. Poi dicèa agli amici, tanto per iscusarsi «non nego, ella ha
difettacci... ma, se non altro, io posso infine gloriarmi che una donna mi ama. Ciò, per mè, non è poco. E, del resto,
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vuòi l'abitùdine, la quale m'ha fatto di Gea un indispensàbile incòmodo, vuòi la ragione dei dèbiti così-detti d'onore,
che òbbligano appunto per la mancanza dell'òbbligo...» «Spòsala allora del tutto,» interrompevamo noi, «e
lìberatene.»
Comunque; pare che Nino avrebbe anche potuto far senza per tutta la vita di un sìmile basto, per quanto imbottito
d'amore, se il solo deporlo qualch'ora, gli dava tanta allegrìa. E davvero, quella marinata di scuola gli avèa rifatto
l'umore. Nino dimenticava il morello de' pizzicotti e si sentiva rimessi i tacchi nella sua stima, quantunque vantasse ciò
a mezzavoce e fra due tìmide occhiate.
Io intanto gli riempìi il bicchiere. Die' il vino un risettuccio modesto, poi tornò serio; di quel serio, peraltro, ch'è f'atto
di giocondità, non di broncio.
«Oh come stò bene!» ripetè Nino con un sospiro di soddisfacimento, brindeggiàndomi insieme dagli occhi e dal càlice.
«¡Vèngano ora tutte le Gee del mondo...! ¡Le sfido!»
¡Non l'avessi mai detto! Nel largo spiazzo dell'osterìa dove noi sedevamo, si udì il ruotolìo di una carrozza a gran
corsa. Ahimè! Pace non venne mai così in fretta.
Ed ecco aprirsi con violenza lo sportello del brougham. Il viso di Nino ridiventò opaco; la mano di lui ridepose il
bicchiere.
Era lei. Stralunata, spettinata, col cappellino che le cadeva da un lato e lo scialle dall'altro, non la mostrava da capo a
piedi, nella sua alta figura arsa di rabbia, un indizio che amore vi avesse, non dico già preso stanza, ma fatto mai sosta.
Per mè, anche a serva, le avrèi risposto un bel no.
«Ah, ècchete, brutto porco!» ella gridò, correndo a noi e indicando con il ventaglio il mio pòvero amico, che invano
cercava di rannicchiare la confusione dietro una lunga bottiglia di Reno, come la gru della fàvola; «¿è cquesto l'affare
de promura? ¿è cquesta l'oretta e po' so' de ritorno?» e dindonava la testa. «Ah, tu credevi de falla alla Gea? ¿de
scirpaije li sordi e annàtene 'n punta de piede, senza ch'er core me facessi la spia? ¡Ppe santa Pizzuteta! ¡T'ensegnarò
io a stane allegro ffora de ccasa!»
Nino fe', a lei, un supplichèvole gesto che domandava perdono, e un altro a mè che domandava soccorso; per cui: «Se
c'è colpa, o signora,» intervenni, «è mia tutta. Chi l'ha invitato sono io...»
«¿Vvoi? ¿chi ssete vvoi? ¿forzi quarcuno de quelli sciampagnoni amichi sui che lo pòrtono via da lavorà, e je fanno
sfruscià li sartarelli in scarrozzate e bottije, come ssi llui fussi un Roscirde? ¡er pòvero paino!... ¿Invità, dite vvoi?...
¡Accidenti alli vostri inviti!» e agguantato, di colpo, due capi della tovaglia, strappò giù tutto, e vetri e terraglie,
aggiungendo superbamente, «so' rromana de Rroma, io!»
«¡Non fate scàndali!» esclamài, rattenendo, se non altro, la tàvola.
«¡Li scànnoli li ffate vvoi!» ripetè l'infuriata. «¡Me furmini Ddio ssi tutt 'sta roba nu' annava a finì in quarche ventraccia
da cquattro bajocchi!... ¡Badate be'! buggiaroni, che ssi ciò la corona, ciò anche er cortello.»
«Oh tacete!» feci.
«¿Tacene io? er siggnor Iddìo 'un cià ddata la lingua pe' stà zitti. Voijo parlà, strillà, finche ce perdo er fiato, voijo che
tutto er monno conoschi cquante profidie ha ignottite 'sta ciurcinata da cquer traditore giudìo... Sì, dico a tè, sor Nino
Fiore, che scrivi la llitteratura; a tè, che ddopo d'avemme fatto pperde una profossione,» (¿che professione? pensài)
«in dove ce sarèi arriuscita una siconna Maribranne, perchè ciavèo una vosce... 'un fò pe' dì... una vosce,»e strillava da
seggiolaja, «de sirafino; e ddopo d'avemme arruvinata e fatto lassà i più bell'òmmini sposarecci de Rroma, assai meijo
spalluti e cquadrinosi de tè, come discèa la bonànima de mi madre, ¡ecco cquane! me butti ner monezzaro, me butti,
come li cocci d'un orinale. ¡E managgia ssan Mucchione 'un ciò mai messo niente, io, ne li capelli a' sto vassallo cane.
Lo dichi llui, si j'avanza un po' de vverità in cquer coraccio suo... ¡Parla, infame! ¿'un sso sempre stata una donna
onorata, io?»
Nino alzò gli occhi verso la stella del gasse, come a dire: ¡pur troppo!
«Ebbè, in compenzo...» e lì parèa che la voce di Gea si avvicinasse ai confini del tènero ed anche dell'ùmido; quando,
mutato tuono di botto «¡Su, mascarzone!» sclamò, afferrando per un braccio il mio amico. «¡Alò, monta in botte!» e,
tiràndoselo dietro, chè il vino di lui s'era vôlto in tant'aqua, cacciollo nella carrozza e gli siedette alle coste.
Partìrono a precipizio.
Quanto a mè, rimanevo intontito come chi uscisse da una batterìa di cannoni in salva o da un gioco di campane in
volata. Senonchè, un'altra nota, meno sonora ma non men disgustosa, venne a ridarmi a' miei cinque sensi - una nota,
che un cameriere mi offriva sul più bel piatto dell'osterìa (e intanto e' sorrideva, il furfante), scritta fittìssima, ma più
da vetrajo che da oste, e in cui, sull'imo della prima facciata, vedèvasi calligraficamente un «di grazia, volti.»
Voltài.
Ci lìberi Iddìo da una fèmmina nostra - ed anche da una... altrùi.”
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