Il cuore nella ciotola

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Il cuore nella ciotola
I COLLOQUI FIORENTINI – NIHIL ALIENUM
XII EDIZIONE
28 FEBBRAIO – 2 MARZO 2013
GIOVANNI VERGA: “IL SEMPLICE FATTO UMANO FARA’ PENSARE SEMPRE”
SECONDO CLASSIFICATO
SEZIONE NARRATIVA
IL CUORE NELLA CIOTOLA
Studente: Ludovica D'Ambrosio della classe 3 C del Liceo “Cicerone” di Sala Consilina.
Docente Referente prof.ssa Annamaria Colucci
Motivazione: La successione delle sequenze narrative ─ tra il presente e il passato, tra la scena
iniziale dell’autopsia e la memoria dell’infanzia, tra la vita attuale del protagonista e il suo tentativo di
ritorno al paese ─ scandisce un ritmo narrativo efficace e originale. Efficaci anche alcuni particolari
tematici (i tre saponi usati dal protagonista, e il puzzo che non se ne va). E l’intero racconto s’intona
molto bene al motivo tipicamente verghiano della «disperata rassegnazione».
La luce al neon si accese con il solito fastidioso sfarfallio, e come al solito Cesare smise di pensare; il
fascio di luce si rifletteva sul tavolo d’acciaio creando un irritante riverbero. Cesare prese la lama,
lucida, perfetta, letale e incise; il sangue zampillò fuori di un colore violaceo, era stagnante, da più di
ventiquattro ore quel sangue non circolava all’interno del corpo e dopo dieci secondi di rabbia la sua
foga si esaurì, e tutto tornò bianco, immobile, morto.
Cesare eseguì tutta la procedura in modo impeccabile. Scrisse il referto; e ci scrisse che il paziente X,
non identificato, era morto per abuso di farmaci ganglioplegici e considerando che dall’autopsia non
era emerso nessun problema aritmico che giustificava l’uso di tali farmaci, si poteva pensare al
suicidio, anzi si dichiarava il suicidio.
Dicono sempre che i medici vogliono giocare a fare Dio, vogliono giocare con la vita degli altri, ma
non è vero, Cesare aveva sempre giocato a fare Caronte, giocava con la morte, portava i morti dove
credeva che meritassero di stare; come ora, con la cartelletta nella mano sinistra e una bic nella
destra fissava la casella “suicidio”, ora con quella cartelletta in mano doveva decidere in quale girone
avrebbe passato l’eternità il signor X che disteso su quel tavolo non ancora risistemato e ricucito dava
l’impressione di essere destinato proprio all’inferno; Dio perdona, forse non tutti, Caronte esegue gli
ordini, forse di Dio, e Cesare forse non ci credeva in Dio. Così il girone fu quello, la casella venne
segnata e il settimo cerchio del terzo girone era pronto ad accogliere un altro ospite.
Caronte aveva trasportato un’altra anima all’inferno e soddisfatto poteva tornare a casa dopo aver
messo firma e timbro.
La porta si aprì, Cesare era pronto per andare via stava compilando le ultime scartoffie.
-“Che aveva?”
-“Niente, s’è ammazzato.”
-“Ah, la polizia lo sospettava.”
-“Che dice la polizia?”
-“Niente, non l’hanno ancora riconosciuto,era senza documenti,però le modalità sono da suicidio.”
-“Ah, beh, lo rimetti a posto tu?”
-“Si si tranquillo vai pure.”
Uscendo, Cesare lanciò uno sguardo veloce al quel cuore nella ciotola; stupido cuore, eri finito lì
dentro quando saresti stato bene al tuo posto. La porta si chiuse alle sue spalle con un tonfo.
L’acqua gelida sul viso lo fece rabbrividire; appoggio le mani al lavabo e senza asciugarsi si guardò allo
specchio, non si era mai riconosciuto ma adesso ormai quasi non si vedeva più. I capelli grigi, la barba
troppo lunga che lo smagriva, gli zigomi sempre più appuntiti e le occhiaie sempre più prepotenti,
non era vecchio, ma si portava addosso gli anni di una vita vissuta male. Prese a lavarsi
meticolosamente con i tre saponi diversi, gli era rimasta l’abitudine, anche dopo che sua moglie se
n’era andata, lei diceva che puzzava di morto, e allora Cesare si lavava con i tre saponi diversi, prima
lo sgrassante poi l’antibatterico e infine il detergente, talmente tanto che le sue mani erano diventate
ruvide e screpolate, e il lattice dei guanti si conficcava dentro i tagli aperti e li calcificava oltre a far un
male cane, però non serviva a niente la puzza di morto restava; e lei glielo aveva ribadito anche
quando con le valigie in mano sulla porta di casa gli gridò che a furia di starci con i morti era morto
anche lui, che si ci trovava bene perché lui non sapeva che voleva dire essere vivo, e che era come
suo padre: con la puzza di morto addosso ci sarebbe crepato, perché quello che sei non lo cambi mai.
Cesare le avrebbe voluto dire che lui non era come suo padre e tante altre cose, ma si limitò a
guardarla andare via, e quando la porta si chiuse, realizzò che il gin che aveva in mano era davvero
buono, ed era una bellissima sensazione quella di bere un buon gin quando fuori fa quel brutto
tempo. Che tempo faceva dentro Cesare non se l’era mai chiesto.
Immerse il viso nell’asciugamano che profumava di ammorbidente all’acqua marina, inspirò; e si
ricordò che il mare aveva un altro odore, il mare profumava di estate e di sole caldo, il mare aveva
l’odore del sale e il sale aveva un altro odore. L’odore del sale ti restava nel naso e nei polmoni per
mesi interi, lo sentivi sulla pelle, nei capelli, nelle cose, nei gesti delle persone, lo sentivi ovunque; te
lo portavi addosso.
Si guardò allo specchio, e passò le dita sulla cicatrice sul gomito sinistro, sentì il sale bruciargli
addosso: lo scoglio era appuntito, il piede poggiato male e la mano,allora troppo piccola, non afferrò
in tempo, il sangue cominciò a colare caldo e veloce e sua madre gli aveva sempre detto che “se ti fai
male poi prendi il resto.”, gli altri ragazzini urlavano e piangevano, a guardarli in faccia si riconosceva
la paura, quella che hanno anche i grandi quando c’è di mezzo il mare, quella paura che ti rende già
vecchio, e invece il mare era lì, calmo, silenzioso; i vecchi pescatori amici del nonno gli avevano detto
che il mare toglie le ferite, allora con un tuffo giù tutto si sarebbe risolto.
L’acqua era fredda ma il sangue spariva per davvero, si dissolveva in una nuvola rosa, allora era vero,
il mare guariva; ma bruciava, non aveva mai provato tanto dolore, risalì per prendere aria, per
tornare a riva, ma non riusciva a muoversi come voleva, il braccio lo tirava giù, era lento e goffo, c’era
l’acqua intorno ma lui sentiva il fuoco dell’inferno, cominciò a dimenarsi e più si dimenava più
beveva, più beveva e più la gente urlava e più la gente urlava e più lui si dimenava e beveva, più
beveva e più andava giù, finché non vide solo una luminosa macchia gialla sfocata circondata dal blu
del mare.
Si risvegliò in una stanza bianca dentro una branda con sopra un crocifisso e tanti letti uguali intorno,
addosso aveva solo una camicia celeste troppo grande, pensò, per un momento, di essere morto; gli
avevano sempre detto che la morte rende tutti uguali. Alzò il braccio e srotolò la benda colorata di un
giallo cencioso, sotto c’era la sua pelle ricucita per circa venti centimetri. Sentì dei passi piccoli e
veloci, quelli di sua madre, allora non era morto e la sua mano in pieno viso glielo confermò
definitivamente, doveva aspettarselo il resto.
Ora la mano era passata sulla guancia, accarezzandola, sorrise e andò in salotto e accese la tv
cambiando tutti i canali: il mezzo busto del telegiornale che legge le notizie sportive, la ballerina in
minigonna, il gioco a quiz dove chiedono di che colore era il cavallo bianco di Napoleone per farti
vincere un milione, il film sulla fine del mondo e il reality dove la gente, come le scimmie nelle gabbie
degli zoo, doveva convivere il più possibile senza uccidersi. Spense. Si alzò andò a prendere il giornale
nella sua ventiquattro ore di pelle marrone: in prima pagina delitto d’amore scritto in grassetto, si sa,
l’amore vende in tutte le salse, poi nel resto del giornale 9 suicidi, 5 omicidi, 11 rapine, 7 scippi, 3
stupri, 13 incidenti, 16 scioperi, 6 manifestazioni, 12 occupazioni, 19 truffe e 11 tentate rivoluzioni.
Eccola, la vera fine del mondo era questa.
Chiuse il giornale, si alzò sbuffando e andò verso il mobiletto dei liquori, si versò del gin e poi andò
alla finestra, era notte profonda, la città dormiva, c’erano solo le sue luci a tenergli compagnia; ma
era solo, perché ognuno è inevitabilmente solo, e come se improvvisamente capisse il catastrofismo
dell’esistenza umana e della fine che inevitabilmente ognuno di noi stava vivendo, decise che sarebbe
ritornato, perché a lui mancava la luce delle lampare.
Posò la valigia nell’ingresso e andò verso l’unica finestra che c’era, tirò su la persiana impolverata, la
luce entrò timidamente, cercando di penetrare la barriera di umido e abbandonato che si era creata.
Trattenne il fiato; lì fuori, oltre la finestra, era ancora più bello di quanto ricordasse, di quanto avesse
mai potuto idealizzare in tutti quegli anni. Dentro,invece, faceva freddo, il tempo aveva modificato
tutto, e tutto quello che vedeva intorno a se sembrava rimproverargli qualcosa. Cercò la vecchia stufa
a gas e l’accese, incredibilmente funzionava ancora, si ci sedette di fianco guardandosi in giro. Tutto
gli ricordava qualcosa ma un qualcosa che non è nulla, eppure,ogni singola cosa gli sbatteva in faccia i
ricordi della sua vita, senza che lui potesse farci niente, si alzò e si appoggiò al pilastro della finestra e
guardò le montagne innevate e il blu dell’infinito ai loro piedi.
Se lo era sempre chiesto, cosa ci fosse oltre quelle montagne che tolgono l’aria,che soffocano
tutto,oltre quelle misere case di pescatori, si era sempre chiesto cosa ci fosse fuori. Fuori da quel
cerchio naturale, da quel recinto fatto di terra e rocce e mare cosa c’era?
Era andato via per scoprirlo, aveva sempre avuto una strana attrazione per il mondo, per quel mondo
che non conosceva, quel mondo che gli veniva raccontato. Aveva voglia di vederlo il mondo,di sentire
il suo sapore,di cogliere il suo odore, di osservare i suoi colori, dicevano ne fosse pieno. Aveva
aspettato tutta la vita di poter oltrepassare quelle montagne che ostruivano il suo panorama sul
mondo, eppure quando era arrivato il momento, aveva avuto paura. Paura. Paura che il mondo lì
fuori non fosse fatto per lui, e poi chi glielo garantiva che oltre quelle montagne non ce ne sarebbero
state altre,e poi altre e poi altre ancora. E se poi non gli sarebbe piaciuto il mondo fuori? O peggio, se
lui non sarebbe piaciuto al mondo?! Se per lui, tutto il mondo fosse stato troppo?!
-“Ci sono certi posti, Cesare, che sono come delle persone, per loro dovresti rinunciare a tutto, anche
a te stesso.”
-“Io credo…”
-“Ci sono certi posti, che ti legano a loro per sempre, per quello che sei tu e che sono stati gli altri
prima di te. Ci sono dei posti che ti conoscono meglio di te stesso, dove non puoi evitare di essere
quello che sei.
-“Sai cosa disse tuo padre a tuo nonno quando decise che non voleva fare il pescatore? Disse che
odiava la puzza del pesce, non voleva puzzare come lui. Lo senti l’odore di tuo padre Cesare? Di cosa
odora? Dimmelo”
-“Di morto”
-“Ecco, si è inventato becchino tuo padre, per non restare pescatore. Ma non è cambiato nulla.”
-“Perché?”
-“Perché puzza sempre di qualcosa, e non è riuscito a cambiare nulla, ha cambiato solo l’odore.”
-“Che cosa vuoi dire?”
-“Voglio dire, che la vita molto spesso decide per te, chi nasce tondo non può morire quadrato, non
puoi fingere di essere qualcuno che non sei e che non sei mai stato. Quello che guadagni, quello che
indossi, quello che dici, dove vivi, dove lavori, sono solo dei riempitivi, la vita quella vera la devi
sentire dentro.”
-“Io credo che le cose si possono cambiare, le persone, le situazioni, i posti, o almeno uno deve
provarci. Anche gli odori.”
-“Cosa vuoi per te?!”
-“Un altro odore.”
-“Vai, ma decidi per sempre, perché ti distruggerebbe riconoscerti come non ti sei mai voluto vedere
quando tornerai.”
Ne seguirono molte di discussioni così, più feroci e più dolci, con piatti che si rompevano e lacrime
che non si fermavano, ma alla fine la promessa di non tornare gli fu strappata alla partenza, quando il
viso rigato di lacrime supplicava pietà, e a quella pietà Cesare non seppe non cedere. Con gli anni la
pietà di quel momento divenne rabbia, e la rabbia acceca; così quando la telefonata lo avvertì della
sua morte Cesare rispose “Non posso ritornare, fatele un bel funerale e poi mandatemi il conto.”, di
certi momenti in cui si ci crede forti si ce ne pente per tutta la vita. Ma glielo aveva detto lei che da
quel posto non si ci salva, ed era vero, glieli aveva portati tutti via, uno ad uno, eppure nessuno
riusciva ad avercela con quel posto, neppure lui.
Chiuse gli occhi e cercò di immaginare il suo volto, quegli occhi castani, profondi e rassicuranti, da
piccolo si tranquillizzava anche a guardarli da lontano, e poi avevano imparato a parlare anche così
loro, con lunghi sguardi che si dicevano tutto da soli. Li adorava quegli occhi, si ci perdeva, i suoi non
erano così: erano azzurri, come quelli di suo padre e come il mare, ma aveva passato la vita a cercarli
degli occhi come quelli ma non li aveva trovati.
Si raddrizzò, guardò fuori, prese la giacca, chiuse la porta e corse verso la spiaggia. Non stava
guardando una cartolina, era lì per davvero. I piedi leggeri andavano da soli come se non ci fosse
bisogno di ricordare la strada, non riusciva a trattenere il sorriso, era come avere di nuovo dieci anni.
Prese in mano un sassolino, uno di quelli piatti, e lo lanciò in mare, fece quattro saltelli sull’acqua e
poi affondò; era la prima volta che gli riusciva. Suo padre diceva che non sapeva farlo perché non era
un pescatore, non conosceva il mare.
Si mise a ridere,sempre più forte, e poi esplose in un singhiozzo di lacrime.
Sempre singhiozzando si arrampicò sugli scogli, li conosceva come le sue tasche quegli scogli, poteva
salirci ad occhi chiusi, senza sbagliare un passo, senza mancare una presa, conosceva ogni insenatura,
ogni spuntone e ogni vuoto; però ci risalì come quando aveva dieci anni, con le mani tremanti e il
cuore che pompava al massimo. Non aveva più niente dentro: né rabbia, né amore, né odio, né
entusiasmo, solo una deludente rassegnazione, solo il vuoto. Il mondo non si può cambiare, le
persone non si possono cambiare, il destino, soprattutto quello non si cambia. Lui c’aveva provato a
cambiarle le cose, ma aveva sempre l’odore di morto addosso, come suo padre; che suo padre li
seppellisse e che lui li sezionasse, i morti, era un discorso a parte che non interessava nessuno.
Nemmeno a sua madre. La verità è che non puoi combattere in eterno, ad un certo punto si cede, si
cede a quello che sei e hai finto di non essere. Lui era l’esempio di una vita incompleta che esiste per
rendere incompleto l’universo. Aveva assaporato il successo, la vita vera, e la felicità, solo per
rendere la sua disfatta ancora più atroce, aveva sentito il profumo della vita ma non ha potuto mai
arrivarci. Sua madre aveva ragione,la vita è come la corsa del cane che vuole mordersi la coda; è una
corsa lungo la circonferenza che inevitabilmente finisce dov’è iniziato.
Immaginò di essere il prossimo X, il prossimo cadavere non identificato di una fredda aula autoptica,
immaginò il suo cuore in una ciotola di alluminio che il prossimo macellaio guarderà pensando che
era meglio se fosse rimasto al suo posto, a fare quello a cui era destinato, quello per cui esisteva,
senza sapere e senza capire. Se non nasci cuore, se nasci con una quantità di organi tutti ammassati
in un corpo che sembra sempre troppo piccolo, fragile e inutile, non puoi sapere per cosa sei nato, a
cosa sei destinato, per chi o per cosa esisti. La tua vita si schianta nel mondo senza un perché, e senza
il tuo permesso e senza avertelo nemmeno mai chiesto. Allora si ci sforza di cercare un motivo, ma
più si va avanti e le convinzioni si sgretolano, e resti ancora più solo, in un mondo che non è fatto per
te.
Se non sei cuore,tutto cuore, un incessante battito, sei destinato a fallire. Se sei un po’ di tutto sei
destinato a non farcela. Cesare ce lo aveva messo il cuore, tutto quello che sapeva di avere, ma non
era bastato; non era bastato a sua madre, a sua moglie, al suo lavoro, ed ora quel cuore dilaniato e
consumato non bastava più neppure a lui e alla sua vita. O forse non gli era mai bastato, ma non se
ne era mai reso conto.
Si sedette sulla punta dello scoglio, infilò la mano nella tasca della giacca, prese il bisturi e si arrotolò
la manica destra, si impresse lo stesso marchio che imprimeva ad altri da anni; guardò giù, il mare
increspato sbatteva contro lo scoglio e gli schizzi gli bagnavano le mani e il viso, chiuse gli occhi e
inspirò, sentì il sale salire nel naso e scendere giù nei polmoni, quell’odore gli allargava il cuore.