1 - Stilos
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Anno VIII n. 16 1 agosto 2006 ( I L Q U I Stilos N onna prese i biglietti e li buttò a terra con rabbia. Non aveva vinto, per la terza settimana consecutiva non aveva azzeccato nulla, neanche un ambetto da due lire, niente! La sua cabala aveva fallito ancora. Non si capacitava, e aveva già speso un milione che per le sue magre risorse erano già tantissimo. Eppure aveva giocato bene. Il 18 col 36 sulla ruota di Napoli. Aveva giocato i miei numeri: 18 i miei anni e 36 il numero di casa dove abitavamo: 18 è il doppio del 36. Era uscito invece il 18 e il 37. Una beffa. Quando infatti stracciò il biglietto lo morsicò e ci sputò sopra come sapeva fare, maledicendo la cattiva sorte che si prendeva gioco di lei, anzi, con quel 37 era come uno sberleffo, un riso in faccia del destino. «Cag vègna un càncar al lot e a chi l’ha invintè!» diceva tra i denti, come se quelle parole potessero scacciare l’influsso malefico che da qualche settimana incombeva sulla nostra casa. Nonna girava sempre con un foglietto in mano e una matita. Si segnava i numeri delle targhe delle macchine, lavorava su compleanni e ricorrenze, cercava nei numeri le misteriose corrispondenze di chissà quali influenze ancestrali e divinatorie, e poi le confrontava con le ultime estrazioni. Anche lei aveva giocato la morte del papa. Anzi, quando era morto Paolo VI aveva giocato per un mese il 6, l’88 il papa, e 90 la paura e la morte, perché «il giorno della morte del papa, i demoni si scatenano e allora c’è da stare attenti», diceva mia nonna.«Fino a quando non si fa un altro papa, siamo in mano ai demoni!». Il suo anno fortunato era stato il 33 compleanno. Quell’anno vinse con 3, 33 e 66 moltissime volte. Numeri che lei non amava perché trini, divini e diabolici nello stesso tempo, ma erano quelli che le avevano fatta vincere un piccolo gruzzolo che non le aveva fatto vedere un roseo futuro, bensì avevano accresciuto in lei una voglia di giocare tutt’altro che positiva. «Nonna, quando muori, portami i numeri che mi fai ricco. Così non vado più a lavorare» le dicevo. Nonna metteva le mani sotto la tavola e faceva le corna, poi cercava di darmi una sberla che io schivavo sempre con grande agilità, facendo ridere tutti. Invece nonna non rideva. «Perché il nonno non ti porta i numeri? Dove sarà adesso il nonno?» le chiedevo. Io portavo il nome di lui, del nonno morto che io non avevo mai conosciuto e questo nome per me era un po’ magico e un nome protettore, perché sapevo che continuavo la vita di qualcuno che la sorte, o il destino, aveva portato via troppo presto da questa vita. Nonno era morto quando nonna aveva tre bambine da sfamare ed era sola, e dallo sfollamento della montagna era venuta in città a vendere mutande e canottiere con una licenza da mercante che il comune rilasciava al proletariato più povero e nullatenente; così si offriva loro una opportunità senza spendere niente. Che s’arrangiasse un po’ la plebaglia. Così nonna aveva cominciato a giocare al lotto durante la guerra, per arroVIVE A PARMA. "IL TRAMONTO tondare il suo magro stipendio. Fu la SULLA PIANURA" (GUANDA, fame e la voglia di soldi a farla ingolo2005), "UN MEDICO ALL’Osire con il gioco della smorfia. PERA" (GUANDA, 2004) Nonna aveva imparato a fare anche il gioco delle carte. Prendeva un mazzo da briscola e poi «faceva il gioco». GUIDO CONTI Aveva imparato da una vecchia megera che abitava nella casa di città. Con quel sistema aveva indovinato che mia cugina, non ancora diciottenne, era tornata dalle vacanze incinta. Tutti avevamo riso meno Cristina che si ritrovò incinta dopo aver fatto l’amore per la prima volta in tenda con quello che sarebbe diventato poi qualche mese più tardi suo marito. Magie degli amplessi e delle arti divinatorie di nonna che si affinavano sempre di più. Quella volta nonna giocò l’1 perché era la prima volta, 57 la donna incinta, e 65 il matrimonio tutto sulla ruota di Milano, perché al mare, che comincia con M, erano andati i due giovani fidanzati. Nonna schiattò di bile nera quando uscirono i tre numeri, l’intero terno secco non su Milano ma su Venezia. - V come vacanza - disse mia mamma. «Se tu mi dessi ascolto qualche volta» l’aveva rimproverata sua figlia. In quel periodo studiavo. Passavo giorni e giorni chiuso in camera a studiare i filosofi greci e quelli cristiani, del motore immobile e della scommessa sull’esistenza di Dio di Pascal, la summa teologica, Kierkegaard e Nietzsche quando in verità, la più grande filosofa di tutti i tempi ce l’avevo giù in cucina che mescolava il minestrone e la domenica mattina molto presto urlava e mi tirava le ciabatte perché mi svegliassi. «E allora, cosa fate, continuante a dormire ancora un po’? Ma non sapete che il letto ammazza?» «E allora lasciami morire!» gli gridava mio fratello più grande che dormiva con me. Si rigirava bofonchiando e si tirava le coperte sopra la testa per non sentire le urla di nonna che arrivavano dal piano di sotto. La seconda tornata era verso le dieci e mezza, undici: «E allora, è quasi mezzogiorno! Cosa fate a letto, ci fate la muffa?» Poi, per la terza volta, nonna cominciava a lamentarsi con mamma, che non si poteva mica che due giovani come noi dormissero così tan- D I C I N A L E D E N La mania del lotto, la cabala e la smorfia di una accanita vegliarda che crede nei numeri: un crescendo di credenze e rovine nel ricordo di un nipote che aspetta ancora i numeri in sogno I L I B R I ) 1 euro «M’ha portato i numeri.» «Chi, lo zio Giovanni? Che numeri?» «435, 567». «Ma sono numeri di tre cifre - disse nostra madre. - Nel lotto non hanno senso.» «Appunto - disse nonna - mio fratello, quel cretino, si burla di me anche dall’aldilà». Io e mio fratello quella sera ridemmo come dei matti e da quel giorno cominciai a sospettare che dall’aldilà ci fossero problemi di comunicazione. Così nonna attaccò a tutta la famiglia la mania del gioco. Era diventata un’esperta anche di cabala e di smorfia. Sospettavamo che lei inventasse i numeri, così io e mio fratello al pari di lei, c’inventavamo i sogni. Raccontavamo di donne nude e peccaminose, di mutandine e reggiseno che volano di qua e di là, e lei, serissima, diceva 14 le donne senza veli e 57 il peccato. Mamma passava e ci dava il mestolo in testa: «Cretini!» ci urlava. Io e mio fratello ridevamo. «Ma non vedi che ti prendono in giro» rimproverava mamma a nonna. «I sogni sono cose serie» rispondeva nonna. Diventata massima esperta, interpretava, distingueva i casi e anche un cane non era sempre lo stesso numero. Il cane faceva 27 ma 34 era il cane che parla, perché nei sogni i cani parlano, 89 il cane che corre, 69 la cagna in calore e 45 il cane che morde al polpaccio, ma se azzanna un braccio, 77. Insomma l’universo intero stava diventano un immenso repertorio di numeri, un mondo da decifrare dall’1 al 90, primo grande passo verso l’1 e lo 0 che avrebbe portato al sistema binario dei numeri dei computer. Nonna, pensai, aveva intuito che il mondo si può leggere anche attraverso i numeri e le matematiche non esatte ma incerte della smorfia. Perché gli ambi uscivano spesso, meno i terni che però si beffavano di nonna uscendo su altre ruote. Nonna mangiava i biglietti e poi li buttava sempre prima di aver segnato accuratamente tutto. La sua capacità d’indovinare il mondo si avvicinava lentamente alla verità. Da nonna capii che la smorfia è solo il destino che, per prenderti in giro, ti fa le ghigne. Così un giorno decise, dopo un giro di carte, che il 36 ritardatario da ben 112 settimane sulla ruota di Milano era il numero della sua vita: l’asso di denari era uscito in dodicesima posizione dopo il 2 e il 3 sempre di denari. Niente spade, niente dolori e impedimenti. Nemmeno un bastoni, ma solo coppe, coppe piene di denari. Non le era mai capitato nella vita da quando faceva il gioco con le carte. Il primo ambo 36 e 63, i gemelli speculari, decise di buttarci ben centomila lire. Una fortuna. Non immaginavano quello che stava per accadere perché per nonna quello del lotto sembrava uno svago, un modo per tenere viva la sua attenzione al mondo. Invece stava cominciando un disastro economico dalla portata catastrofica perché ogni settimana, per poter recuperare il proprio denaro giocato, nonna era costretta ad aumentare la posta in palio. Nonna era diventata taciturna, si agitava in casa lavando piatti e pulendo continuamente per terra, chiedeva alle vicine se volevano pacchi di lenzuola e fazzoletti con uno sconto. Ci accorgemmo del dramma in atto quando nonna, dopo un sabato pieno di tensione, attaccata alla radiolina, ascoltò, tra mille sussulti per quel 31 e 38 sulla ruota di Milano che quasi la stesero a terra. Alla fine della settimana, il venerdì mattina, chiese un prestito a mamma, e si cominciò a sospettare della voragine che nonna aveva sperperato in poco più di sei mesi. Quasi dieci milioni, i risparmi di tutta una vita. Di fronte alla furia di mamma che l’insultava, - «te sei una matta, sei una da legare, e adesso cosa facciamo? Io di soldi non te ne do da buttar via!» - nonna si mise a piangere come non l’avevo mai vista fare. «Invece di dar retta a quelle carte, ma è possibile una follia del genere?» «È stato il nonno a dirmi di giocare, non sono state le carte, le carte me l’hanno solo confermato, va bene? Mi sono sognata mio marito che mi diceva di giocare, che mi sarei messa a posto per tutta la vita… insomma, è sempre tuo padre!» «E va ancora bene se non devi vendere la licenza!» Mamma era su tutte le furie, nonna invece insisteva piangendo che il nonno era tornato dall’aldilà con i numeri, che glieli aveva portati in sogno. Aspettammo altre quattro settimane poi, quando il venerdì prima nonna sognò di nuovo il nonno che le portava i numeri dicendole che quello era il sabato fortunato, anche mamma cedette di fronte al pianto convinto di nonna. Il numero 36 uscì con 136 settimane di ritardo, nonna azzeccò solo le vincite per il numero singolo e un terno da 100 lire, l’unico della sua vita, che le fruttò solo la metà di quello che aveva speso in quei mesi di follia. Ma quel terno valeva qualunque cifra. «Ve l’avevo detto che l’aldilà esiste. Il nonno m’è venuto in aiuto, m’ha detto quando giocare e abbiamo vinto». Nonna morì con la convinzione che l’aldilà esistesse veramente, che si sarebbe ricongiunta con nonno, ed io, ancora oggi, aspetto che lei mi porti i numeri dal paradiso, per il terno che cambi il mio destino verso promesse di una nuova felicità. Il gioco della nonna to. Mamma litigava con nonna perché non ci alzavamo, poi, mezzi rincoglioniti per aver dormito così tanto, io e mio fratello giravamo in mutande per la grande casa di campagna, con nonna che a malapena ci salutava o si lamentava più, come se vederci svegli fosse un piacere. «16 e 29» disse una mattina mia nonna. Tirava fuori un pezzo di carta e scriveva i suoi numeri. «72» diceva nonna, poi segnava sul foglietto. «Cos’è 72, il gatto morto?» diceva mio fratello ridendo. Nonna scuoteva la testa e ci guardava per dire che non capivamo niente. «Il mondo è fatto di numeri!» diceva mia nonna, e quando ripenso a quelle parole, penso che quella frase potesse star bene nelle pagine che raccontano la vita e la filosofia di Pitagora. Così una volta, per divertirmi alle sue spalle, di nascosto, le scrissi per ben due volte numeri fasulli imitando la sua scrittura, li infilai in tasca e vidi il suo sguardo smarrito quando rovesciò i foglietti con i suoi numeri e certi ambi e alcuni terni che non tornavano nella sua memoria. Poi sbuffava, dava una scrollatina alle spalle e si metteva a leggere le ultime estrazioni del mese, cercando chissà quali ritorni e combinazioni. Mia nonna il sabato pomeriggio alle cinque, e dopo il giornale radio, prendeva la radiolina a transistor e ascoltava le estrazioni della settimana. Allora diventava seria, con la faccia concentratissima. Scriveva tutto in un quaderno dove aveva le estrazioni di anni, per studiare le uscite, i ritorni e i ritardatari. Poi ci fu il periodo dei sogni. Ci accorgemmo che nonna sognava moltissimo. A tavola la interrogavamo. «E allora nonna, ci vuoi dire che numeri giochi questa settimana, chi ti ha portato i numeri dall’aldilà?» Per molte settimane nonna era quasi reticente nel rispondere. Era titubante, quasi si vergognava. «È vero che il nonno è venuto a trovarti?» «No, è venuto mio fratello.» «Chi lo zio Giovanni?» chiese quella volta mia madre. «Sì». Mamma stava zitta e cercava di capire cosa rimuginava la nonna. «E beh, si può sapere cosa ti ha detto?» Mamma sapeva che nonna con suo fratello non andavano d’accordo. © Conti per Stilos «Terno al lotto». Luglio 2006 S t los sguardi e riguardi pagina 2 Sellerio Novità Andrea Camilleri La vampa d’agosto Una nuova indagine per il commissario Montalbano. «Se il romanzo giallo è solo un “passatempo enigmistico”, un genere giocattoloso che induce il lettore a correre alla soluzione per appagarsi, La vampa d’agosto non è un romanzo giallo. Dentro la sua trama il lettore frena la corsa» (Salvatore Silvano Nigro). Honoré de Balzac Il parroco di Tours «Le leggi naturali dell’egoismo» in azione nella lotta feroce e meschina tra preti di provincia per un’eredità: un apologo sulla repressione del desiderio considerato all’origine del realismo letterario. Pierre Boileau, Thomas Narcejac I vedovi Chi può dire se Mirkine sia un amante ossessionato dalla gelosia, o un burattino nelle mani di un assassino? Boileau e Narcejac, la coppia del noir francese che piaceva a Hitchcock, col pretesto del giallo costruivano labirinti in cui realtà e finzione danzano avvinghiate, come negli incubi. Mario Soldati Cinematografo «Se per vero scrivesse soltanto le sue memorie di regista, ne uscirebbe un capolavoro» (Giovanni Comisso). Gli scritti intorno al cinema – intorno ai suoi set cinematografici – del più multimediale scrittore italiano. Giuseppe Bonaviri L’incredibile storia di un cranio Dal materialismo magico del maestro siciliano un’utopia cosmobiotecnologica. «Bonaviri è un visionario del linguaggio. Il suo sguardo spazioso impera come sempre sugli elementi; sul vitalismo rigoglioso e panico della natura» (Salvatore Silvano Nigro). Domenico Seminerio Il cammello e la corda Dall’autore di Senza re né regno un romanzo erotico, di gusto libertino: la passione carnale che ossessiona un prete si materializza in un giardino di Afrodite e risveglia dal tempo una tragica vicenda pagana. Jaime Bayly L’uragano ha il tuo nome Gabriel ama Sofía e sogna di scrivere un romanzo: avranno una figlia e di lui si interesserà un grande editore; ma Gabriel è gay. Un amore e una carriera normalmente difficili, ma dalla prospettiva di un omosessuale. Luciano Canfora 1914 Dalla radio al libro. Luciano Canfora spiega l’origine della Grande Guerra come primo atto della guerra civile europea e baratro in cui precipita la centralità dell’Europa. Franco Cardini Lawrence d’Arabia Dalla radio al libro. Lo storico dell’Oriente Cardini racconta il suo percorso di indagine nella figura storico-psicologica dell’agente di Sua Maestà suscitatore dell’orgoglio arabo: eroe o traditore? O tutt’e due? Sergio Valzania Sparta e Atene. Il racconto di una guerra Dalla radio al libro. Sergio Valzania, storico della guerra, racconta cosa successe tra ateniesi e spartani nella guerra peloponnesiaca per l’egemonia e come Sparta e Atene rovinarono entrambe. Joseph Addison, Richard Steele Parlando di donne. Lettere a un quotidiano inglese del ’700 Addison e Steele nel 1711 inventarono il primo quotidiano moderno, «The Spectator»; c’era anche la rubrica delle lettere, delle donne e per le donne: un gossip ininterrotto e un quadro irresistibile e vero dell’universo femminile di allora. www.sellerio.it ul rapporto fra autori e lettori J. M. Coetzee ha riflettuto a lungo, soprattutto nel libro intitolato Elizabeth Costello. La protagonista è un’anziana e celebre scrittrice australiana, una sorta di alter ego dell’autore sudafricano, che gira il mondo per tenere conferenze e ricevere premi; e due delle sei lezioni in cui è diviso il testo trattano appunto la questione della relazione ancìpite che s’instaura fra uno scrittore famoso e il suo pubblico. Nella prima di queste dissertazioni, riguardante la questione del realismo in letteratura, Elizabeth Costello esprime la diffidenza che nutre verso le folte schiere dei suoi estimatori. Questi vengono da lei chiamati, con una delle frequenti metafore zoomorfe cui Coetzee ci ha abituato, «pesci rossi», perché all’apparenza sono piccoli e innocui, ma in realtà risultano invadenti e voraci, in quanto desiderosi di spartirsi le spoglie della «balena morente». Nella quinta lezione la prospettiva s’inverte, scoprendo che i ruoli spesso sono interscambiabili, ed Elizabeth Costello ci mostra il punto di vista capovolto di lei lettrice, quando non aveva ancora scritto nulla e sognava di essere la moglie dell’illustre poeta Robert Duncan. «Non le sarebbe dispiaciuto farci un figlio, diventare una di quelle donne mortali del mito ingravidate da un dio di passaggio». Già un secolo fa Gustave Le Bon segnalò nella Psicologia delle folle la natura religiosa del rapporto fra idolo e ammiratore, e oggi più che mai lo star system è diventato il vero pantheon della mitologia contemporanea. Certo, l’idolatria morbosa si manifesta in modo più marcato in altre espressioni artistiche, tipo la musica o il cinema, che vantano maggior popolarità rispetto alla letteratura; e casi limite, come quello del fan Mark D. Chapman che assassinò John Lennon nel 1980, è improbabile che si verifichino fra gli appassionati dei libri, che restano ancora figli di un dio minore. Tuttavia i meccanismi psicologici, come la proiezione sul divo delle proprie aspirazioni frustrate, il fanatismo isterico e la spirale amore-odio-aggressività, alimentata dall’esasperazione della sua assenza fisica da un lato e dall’ossessiva presenza mediatica dall’altro, sono i medesimi anche in letteratura. Misery, il romanzo di Stephen King da cui fu tratto il film con James Caan e Kathy Bates, è una formidabile parabola sul rapporto fra autore e lettore, analizzato proprio nelle sue ossimoriche componenti di amore e odio. In maniera meno truculenta di King ma con anticipo notevole sui tempi, pure Mankiewicz aveva illustrato lo stesso tema nel film Eva contro Eva. L’am- S diffusa la convinzione che la nostra società sia una società violenta e che la letteratura noir in tutte le sue varianti, fino all’estremo del polar, sia il genere letterario che meglio la rappresenti; ne sia insomma la rielaborazione artistica più adatta. Non sono del tutto convinta della veridicità di questa affermazione. Penso che la Londra in cui viveva Shakespeare fosse una città più violenta, una città in cui si poteva incontrare la morte con maggior facilità che nelle nostre metropoli. La violenza è sempre stata presente nella storia umana in varie forme e indubbiamente il passato prossimo e il passato remoto non ne sono affatto esenti. Ma potremmo riflettere sul fenomeno davvero inusuale nella storia umana, e che ha un suo antecedente solo nella pax romana del II sec d. C., di un periodo abbastanza lungo non attraversato direttamente da guerre, almeno in questo lembo di mondo. Le ultime generazioni del mondo occidentale sono state eccezionalmente favorite dalla sorte. Chi non ha esperimentato una guerra, e io per prima perché appartengo a una di queste generazioni fortunate, sa poco di cosa significhi vivere nella costante paura di morire. Per queste generazioni la guerra è un evento visto alla televisione, qualcosa contro cui manifestare, una generica preoccupazione per le sorti del mondo. Non carne e sangue. Certo, le guerre in Bosnia si sono svol- È S tilos Una pubblicazione Domenico Sanfilippo Editore Nella illustrazione tempera su carta di Paolo Beneforti: "Scrittore" (1999) AUTORI E AMMIRATORI . Il mito di Diana e Atteone applicato al rapporto «insano» tra chi scrive e chi legge: la voracità e il desiderio possono ritorcersi contro. E la parabola di Elizabeth Costello di Coetzee: la devozione come forma di possessione fisica. Ma lo scrittore che gioco fa? Sindrome idolatrica l’autore è una divinità VIVE A MONZA. COLLABORA PER "LIBERAZIONE" E RIVISTE ON LINE QUALI "NAZIONE INDIANA", "LA FRUSTA", "CAFFÈ EUROPA" SERGIO GARUFI biente trattato era questa volta il teatro, e Bette Davis, l’interprete principale della pellicola, si mostrava consapevole del fatto che per gli appassionati del genere il teatro era un tempio e i grandi attori le loro divinità. Ma le capziose strategie adulatorie di un’anonima ammiratrice facevano ugualmente breccia nella sua iniziale sospettosità, finendo per palesare il reale intento dell’ambiziosa arrampicatrice, ossia quello di scalzarla dal piedistallo. La chiusa speculare, inoltre, suggeriva come del medesimo tranello possa essere vittima anche chi ne era stato a sua volta artefice. Quando era una semplice lettrice, Eli- zabeth Costello desiderava essere molto attraente «perché agognava il contatto col dio» Robert Duncan, aspirava a «colmare il vuoto che separa i due diversi ordini dell’essere». La devozione è quindi anche una forma di possessione fisica. Sempre nel libro di Coetzee si cita a questo proposito il film Frances (ispirato alla biografia di Frances Farmer), in cui Jessica Lange interpreta la parte di una diva di Hollywood che, ancora giovane e bella, per un esaurimento nervoso viene internata in manicomio e lobotomizzata. Gli infermieri, cioè proprio coloro che dovevano prendersi cura di lei, approfittando dello stato vegetativo la violentano a turno, e uno di questi afferma trionfante «voglio proprio scoparmi una star del cinema!»; esplicitando così l’orrido rovescio dell’idolatria: il risentimento omicida. In questo senso, oltre alla finzione esistono pure aneddoti storici significativi, come quello su Santa Elisabetta d’Ungheria. Divenuta presto vedova del re Ludovico IV, Elisabetta donò ogni suo avere ed entrò nell’ordine francescano, da allora in poi vivendo in assoluta povertà e prestando assistenza ai bisognosi e agli infermi. Agonizzante ma già in odore di santità, alla sua morte, avvenuta nel 1231, la cattedrale di Marburgo fu invasa da una folla di devoti esaltati che lottarono fra loro come furie e la spolparono per accaparrarsi una sua reliquia. Tornando alla letteratura e alle piccole divinità che popolano il provinciale olimpo italiano, un certo interesse ha destato un recente e pruriginoso articolo di Langone apparso su "Il Giornale". Intitolato "La maledizione del lettore maniaco", il pezzo raccoglieva diverse confidenze sul tema mostrando il dietro le quinte dei rapporti fra scrittori nostrani e fan psicopatici. Si va dalla lettrice di Giuseppe Montesano che, durante una presentazione del libro, prese il microfono e lo LETTERE E SOCIETÀ. Il thriller come specchio dei nostri incubi Ma noir significa violenza? VIVE A TRIESTE. HA PUBBLICATO RACCOLTE DI RACCONTI E UN ROMANZO "IL CIELO SULLA PRO- VENZA" (CAMPANOTTO 2004) MARINA TOROSSI TEVINI te proprio alle nostre porte, qualcuno di noi le ha viste e raccontate in diretta, la guerra in Iraq fa paura per le conseguenze incalcolabili che ne possono derivare, così anche i conflitti israelopalestinesi, il terrorismo semina minacce che insidiano i nostri sonni, ma tutto questo, pur nella sua inquietante presenza, mi sembra di minor impatto che la certezza di ritrovarsi sulla testa l’aviazione che sgancia bombe colpendo in prevalenza civili come è appena avvenuto in Libano e in Galilea. Gli episodi di violenza e di follia che sentiamo alla televisione, pur nella loro frequenza, mi sembra non siano sufficientemente numerosi per poter giudicare la nostra una società più violenta delle altre che ci hanno preceduto in Occidente. Si dovrebbe anche considerare che una parte abbastanza consistente di questa violenza è indotta dalla mancanza stessa di guerre, naturale collettore della violenza uma- Direttore responsabile Mario Ciancio Sanfilippo Coordinatore Gianni Bonina Anno VIII, n. 16 Martedì 1 agosto 2006 na. La cattiva coscienza dell’Occidente e la consapevolezza che la sua storia è irrimediabilmente macchiata dal sangue delle vittime di due guerre mondiali e dell’olocausto ci rende forse più sensibili di fronte alla parola «guerra», ma non la neutralizza. Gli ultimi decenni hanno visto affermarsi in Occidente un pacifismo spesso abbastanza retorico, che peraltro non ha posto fine alle guerre che imperversano in gran parte del mondo. In generale la guerra dall’Occidente è stata esportata. Salvo poi strapparsi i capelli e piangere sulla sventura dei popoli che ne sono coinvolti. La natura umana purtroppo non è una natura pacifica. E la storia non è storia di pace. Come scriveva Montale, «la storia non si snoda / come una catena / di anelli ininterrotta. / In ogni caso / molti anelli non tengono. / La storia / non contiene / il prima e il dopo. / Niente che in lei borbotti a fuoco lento /… La storia non è magistra / di niente che ci riguardi. / Accorgersene non serve / a farla più vera e più giusta». Comunque sarebbe inesatto affermare che la violenza sia assente dal nostro mondo, direi anzi che abbiamo tutti la sensazione di una sottile vio- Registrazione Tribunale di Catania n. 11/99 del 24/4/99 Spedizione in Abb. Post. Art. 2 comma 20b legge 662/96 Stampa I.E.S srl Catania Concessionaria pubblicità Pubblikompass tel.: 02.24424611 email: [email protected] REDAZIONE, AMMINISTRAZIONE E TIPOGRAFIA Viale Odorico da Pordenone 50 - 95126 Catania email: [email protected] - tel: 095.330544 lenza che lo percorre dall’interno. L’acuirsi delle differenze sociali, i solchi sempre più profondi tra regioni fortunate e non, tra le zone ricche e quelle povere del mondo, e l’accentuarsi delle tensioni intergenerazionali all’interno di una nazione stessa per lo scriteriato modo con cui sono state lasciate proliferare ingiustizie e assurdi privilegi fanno sì che tutti noi sentiamo palpabile una sensazione di sotterranea tensione e abbiamo la sensazione di star seduti comodi, - oh come comodi!- su una polveriera che da un giorno all’altro esploderà. La violenza è quindi nell’aria, ma si tratta di una violenza implosa, di una violenza che avvertiamo più a livello inconscio che cosciente. In questo senso - certo - si potrebbe anche accogliere l’idea che il thriller sia lo specchio dei nostri incubi e della nostra cattiva coscienza. Ma forse non è così, forse la letteratura noir, così intrisa di sangue e di delitti, non ci rispecchia profondamente, ma rispecchia paradossalmente l’aspetto ludico e annoiato della nostra società. Indubbiamente nella giungla c’erano più emozioni. Nelle nostre giungle metropolitane l’esistenza dell’anima- Abbonamenti Annuale 20 euro Conto corrente postale n. 218958 intestato a: Amministrazione Stilos Viale O. da Pordenone, 50 - 95126 Catania Distribuzione nazionale Parrini & C. S.p.a. accusò di aver recluso in manicomio un personaggio che lei pretendeva di incarnare; all’ammiratrice di Alberto Bevilacqua, che lo assilla da dieci anni inviandogli lunghe lettere con cadenza settimanale senza mai ricevere risposta; fino al caso clinico del tale che contattò Tullio Avoledo presentandosi come l’Anticristo, e imputando al narratore friulano di aver saccheggiato la sua biografia personale per redigere L’elenco telefonico di Atlantide. Langone cita inoltre esempi di incontri sessuali a cui un giovane scrittore di grande notorietà non si sottrasse, con il prevedibile strascico di minacce e insulti pubblici da parte dell’ammiratrice inferocita per essere stata prontamente liquidata dopo la consumazione. Dal che si ricava che i reading, gli incontri ai festival letterari e le presentazioni di libri non sono altro che una sottile forma di tortura, un ricatto, la consumazione di una vendetta. La presenza fisica dell’autore esorbita qualunque decenza, è una kenosi intollerabile; altro che ierofania. L’unica relazione possibile fra scrittore e lettore è quella platonica. Il mito di riferimento di queste vicende sembra dunque quello di Diana e Atteone, in cui viene ribadita l’impossibilità di «colmare il vuoto che separa i due diversi ordini dell’essere». Nella versione narrata da Ovidio nelle Metamorfosi (e illustrata dal Parmigianino negli splendidi affreschi di Fontanellato), il figlio di Aristeo, durante una battuta di caccia in compagnia dei suoi cani, scorse la dea mentre faceva il bagno nuda a una fonte. Diana allora lo punì trasformandolo in cervo e facendolo sbranare dai suoi stessi cani. La voracità dello sguardo di Atteone, che non rispetta l’intimità dell’altro, trova qui una risposta simmetrica nella voracità dei cani. In pratica, Atteone è divorato dal suo stesso desiderio. Ma se scrivere (nel senso di pubblicare e diventare personaggi pubblici) significa darsi in pasto, bisogna pur ammettere che sovente l’improvvido contatto è incoraggiato proprio dagli autori; forse desiderosi di incontrare il loro lettore ideale (cioè colui che intenda al volo ogni impercettibile ammiccamento del testo), o forse solo bisognosi di conferme sul loro valore. Non si spiegherebbe altrimenti la decisione di molti scrittori (come Andrea G. Pinketts, Emanuele Trevi e Matteo B. Bianchi) di inserire nei loro libri i propri numeri di cellulare o indirizzi email. Insomma, viene il sospetto che l’ignara e pudica Diana in realtà provochi scientemente. Scelta più che legittima, e per certi versi perfino encomiabile; basta che poi non vada a lamentarsi da Langone. le uomo è meno inquietante. Il bus che ci porta al lavoro con ogni probabilità raggiungerà la fermata prescelta senza schiantarsi, i colleghi saranno subdolamente pericolosi ma indubbiamente non in grado di mettere a repentaglio la nostra esistenza, le file interminabili negli uffici metteranno a dura prova la nostra pazienza e il nostro umore, ma non ci regaleranno altro che piedi doloranti e arrabbiature, le quotidiane routinarie incombenze ci costringeranno a devolvere molte ore alla ripetitività, ma non ci daranno che scarse scosse di adrenalina. La giornata per molti di noi trascorrerà senza che il cuore abbia significativamente accelerato i suoi battiti. L’abitante delle giungle metropolitane cerca allora qualche succedaneo che lo stimoli, magari senza fargli correre troppi rischi, perché fondamentalmente è un pauroso. Jeffery Deaver, uno dei più noti scrittori di thriller, ha affermato in un’intervista che l’uomo di oggi predilige la letteratura noir perché ha bisogno di emozioni. La lettura di un buon thriller è un po’ come la ruota di un luna park o una corsa sulle montagne russe. Chi ci va non vuole certo cadere ma soltanto provare il brivido che quella paura artificiale gli procura. Viene spesso da pensare a quanto sia artificiosa la nostra vita e a quanto poco corrisponda ai nostri bisogni autentici. Speriamo che nessuno ci regali una vita più vera. Ai lettori Il 15 agosto Stilos non sarà in edicola Le pubblicazioni riprenderanno con il numero del 29 agosto S t los autori italiani FRANCESCO RIGATELLI agdi Allam ha dietro gli occhiali tondi tartarugati lo sguardo scaltro del raffinato egiziano. Il vice direttore ad personam del "Corriere della Sera", come racconta nel suo nuovo libro Io amo l’Italia. Ma gli italiani la amano?, ha fatto della sua provenienza mediorientale un privilegio, scegliendo di trasferirsi dal natio Egitto come mediatore culturale con l’Occidente. «Da piccolo vedevo l’Italia come patria ideale di valori positivi. Poi il paese è cambiato e soprattutto è mutata la situazione mondiale. Ora c’è molto da fare e la classe politica non pare decisa». Allam invece è molto deciso. E a trovarselo di fronte pare che il suo pensiero sia frutto di lungo dissidio, non il caso di un momento. Questo gli ha portato molti nemici (ha quattro carabinieri di scorta), numerose critiche e il sospetto di essere un uomo dei servizi segreti di mezzo mondo. Con lui, che pure d’estate non ha lasciato nell’armadio il completo grigio anche se lo indossa sopra una polo blu, si sfiora anche l’attualità della caldissima situazione mediorientale. Per chi ha trascorso in Israele giorni felici, affrontare questi temi significa essere dispiaciuti e disillusi. Una vista di Gerusalemme antica dal Monte degli ulivi, le belle sere di mezza stagione nella terra di tutti i paesaggi, dove si trovano il verde più verde, quattro mari, i deserti del Negev e dell’Aravà, sono un grande ricordo macchiato. Per Allam quella che ci manca è una cultura della vita. Pensarla come lui significa riconoscere il diritto di Israele all’esistenza senza se e senza ma; essere favorevoli ad una soluzione basata sullo Stato palestinese che conviva al fianco di Israele pacificamente e nel rispetto delle reciproche esigenze di sicurezza; denunciare e condannare il terrorismo e la cultura dell’odio, della violenza e della morte che lo alimenta. Per lui «i musulmani sono al contempo i carnefici e la maggioranza delle vittime. Il terrorismo islamico è il principale nemico dei palestinesi, dei popoli musulmani e dell’umanità. È un terrorismo aggressivo, non reattivo, perché dobbiamo partire dalla realtà dei burattinai non dei burattini, e che quindi il terrorismo non sia mai giustificabile». Per lui «non si può mettere sullo stesso piano l’attentato terroristico di chi massacra perché disconosce il diritto altrui a vivere, con la rappresaglia militare di chi si difende dal terrorismo». Allam non contesta «coloro che portano la barba lunga e indossano la tunica bianca per il fatto in sé, ci mancherebbe. Il problema si pone quando un certo modo di vestire, di ragionare e di comportarsi mira ad affermare un’identità islamica contrapposta all’identità italiana, con le sue proprie leggi, scuole, banche, comunità ghettizzate, insomma uno stato teocratico all’interno dello stato di diritto. È quello che si è verificato in Gran Bretagna e che è sfociato nel 7 luglio. Lì i predicatori d’odio erano arrivati a legittimare la presenza di un loro "esercito di combattenti islamici" che si addestrava alla Jihad alla periferia di Londra e che ne ha inviato a centinaia in Afghanistan, Balcani, Israele e Iraq. Tutto questo è una realtà che non concerne un gruppuscolo di terroristi isolati, bensì l’attività di migliaia di musulmani che in Gran Bretagna dispongono di moschee, scuole, banche, tribunali islamici. Bisogna partire dal rispetto dalla salvaguardia del bene dell’Italia, nella consapevolezza che esso coincida con il bene di tutti coloro che scelgono l’Italia come patria d’adozione e hanno a cuore l’interesse dell’Italia. Dobbiamo partire da una certezza per approdare a una certezza. La nostra certezza sono le leggi, i valori e l’identità nazionale italiana. Che vanno certamente rispolverati e fatti propri in primo luogo dagli stessi italiani». Stilos ha intervistato Allam. Come ha conciliato la vita privata con quanto fa pubblicamente? L’autobiografia è uno strumento che ho ritenuto di usare come quando si entra in casa d’altri: è buona norma condividere regole e valori. Così ho trovato uno stile narrativo aperto per presentarmi come sono e rendere il lavoro più penetrante. C’è stato un processo interiore che mi ha portato a scrivere questo libro, racconto di una vita e proposta costruttiva piena di soluzioni. L’Italia del 1972, quando arrivai qui, non era quella di oggi. Allora c’erano 40 mila immigrati. Oggi 3 milioni di regolari e 700 mila irregolari. Anche il mondo attorno era diverso. Ma quell’Italia era adeguata ad af- M Nella foto Magdi Allam, autore per Mondadori di Io amo l’Italia. Ma gli italiani la amano? MAGDI ALLAM . «Quando arrivai c’erano 40 mila stranieri, oggi sono quasi 4 milioni. Il modello multiculturale è fallito dappertutto. L’Islam suscita malintesi. L’incontro tra pregiudizio basato sull’ignoranza e luogo comune basato sull’ideologismo genera le peggiori situazioni» IL LIBRO MAGDI ALLAM "Io amo l’Italia. Ma gli italiani la amano?" pp. 310, euro 17 Mondadori, 2006 Questo bel paese ha due facce diverse Un’autobiografia e insieme un rapporto sull’Italia, paese nel quale è bello vivere perché ha un sistema di valori «giusti» ma che poco fa per combattere il montante fondamentalismo islamico che trova spazio anche nel nostro Paese in maniera strisciante. Immigrazione, l’Italia non sa gestire la sfida frontare le sfide di allora, mentre quella di oggi non lo è. Sia, al tempo della globalizzazione, economicamente sia a livello di sicurezza. Le politiche di integrazione sono alla fine dell’agenda politica italiana. Tutt’altro si è fatto in Inghilterra. Ma dopo l’attentato terroristico il sistema multiculturale londinese è considerato sorpassato. Come quello inclusivo francese dopo le rivolte nelle periferie. Che strada per il futuro? Bisogna imparare dagli errori commessi da chi ci ha preceduto sul piano dell’accoglienza. Il modello multiculturale è considerato sostanzialmente fallito in Inghilterra come negli Stati Uniti e nel Canada. Ma anche quello francese che tendeva ad assorbire tutto in un’unica cultura ha segnato il suo tempo. Ora bisogna trovare una cornice culturale unitaria e allo stesso tempo, lateralmente, garantire un certo pluralismo. E il ruolo della Chiesa e della religione cattolica dev’essere un riferimento valoriale che esprima la tradizione della società italiana. L’islam riconosce il mistero della verginità di Maria. Non riconosce invece la figura divina di Gesù, lo considera un profeta non Dio. E per i musulmani Gesù non sarebbe morto in croce. Certamente l’Islam non accetta il dogma della Trinità e si attiene a un rigido monoteismo. I teologi e gli intellettuali musulmani liberali propendono comunque per una piena accettazione dei cristiani e degli ebrei come «Gente del Libro», riconoscendo loro pari dignità salvifica rispetto ai musulmani. Quelli estremisti invece condannano cristiani e musulmani perché avrebbero storpiato e oltraggiato la vera fede in Dio. Inutile aggiungere che io combatto la visione estremista e sono impegnato a favorire una civiltà del rispetto, della vita, dell’amore e della pace. Qual è il pregiudizio più comune che incontra quando discute di Islam? L’idea di un Islam come blocco monolitico che riflette in modo acritico dei dogmi della fede. Questo va a coincidere con un luogo comune che fa comodo anche agli estremisti islamici Vittorini C nuove A lettere T A L O G O che vorrebbero musulmani tutti a loro immagine e somiglianza. L’incontro tra pregiudizio basato sull’ignoranza e luogo comune basato sull’ideologismo genera le peggiori situazioni. Il rispetto che l’Occidente colto ha verso l’Islam è ricambiato dai musulmani moderati? Una volta la risposta era sì. Negli anni ’50 e ’60 mia madre musulmana non ebbe difficoltà a farmi studiare dalle suore cattoliche. Una volta la persona primeggiava sull’ideologia. Ora no, soprattutto nei confronti di Israele e degli Stati Uniti. Troviamo persone schierate contro il terrorismo ma contemporaneamente sono antioccidentali. Colpa di una sbagliata cultura dominante anche tra i moderati. Quali sono gli interessi specifici dietro al terrorismo? Chi agita le masse usando come instrumentum regni la religione? La storia dei burattini e dei burattinai è fondamentale per capire la situazione. Il terrorismo esiste per causa dei burattinai, non per i burattini inconsapevoli. Gli Osama Bin Laden che investono nel terrorismo per prendere il potere in Arabia Saudita, ad esempio. E organizzazioni come Hamas ed Hezbollah fanno la stessa cosa: terrorismo per obiettivi di potere. L’idea che qualcuno lavori per costruire un grande califfato la persuade? Sì. Osama Bin Laden e i «Fratelli musulmani» mirano a questo obiettivo. E i secondi lo fanno in modo ancora più subdolo. Sono convinto che il Wahhabismo, di cui Bin Laden è la manifestazione più schietta e violenta, e i «Fratelli musulmani» (di cui Hamas è diramazione in Palestina), i grandi burattinai del terrore e dell’odio, siano in assoluto il principale pericolo non solo per l’Occidente, ma per l’insieme dei musulmani. Tuttavia oltre a questi problemi strutturali ve n’è oggi uno congiunturale: l’Iran, che costituisce la minaccia più impellente e seria, dal momento che il suo regime mira a dotarsi dell’atomica e a distruggere Israele. Iran e Siria. Qual è il loro ruolo? Utilizzano il terrorismo contro Israele per distogliere l’attenzione interna- ELIO VITTORINI "Lettere 19521955" pp. XVI-397, euro 75 Einaudi, 2006 Finalmente riprende la pubblicazione delle lettere vittoriniane, rimasta interrotta da due decenni al 1951 e uscita in una veste grafica diversa da quella con la quale si presenta adesso il volume delle lettere del periodo ’52-55. Proposito di Einaudi è di riproporre anche i volumi precedenti e di completare l’opera. Nel tomo appena uscito figurano le lettere che riguardano l’età in cui Vittorini si spese maggiormente come editor. Ragioni del discorso zionale dalle crisi che li concernono e finirebbero per porli sotto le sanzioni internazionali. La Siria, che tra l’altro ospita numerosi leader di gruppi estremisti, è stata costretta a ritirare i suoi soldati dal Libano dopo l’avvio dell’inchiesta Onu - che la vede seriamente coinvolta - sull’assassinio dell’ex premier libanese Rafic Hariri. L’Iran di Ahmadinejad invece rappresenta la più seria minaccia attuale alla sicurezza. La corsa al nucleare e la reiterata volontà di distruggere Israele danno vita a un binomio che impone un deciso intervento da parte della comunità internazionale. La minaccia ci riguarda tutti, visto che in quell’area giacciono i due terzi delle riserve petrolifere mondiali. Che si debba agire mi sembra evidente. Non si può mercanteggiare con chi disconosce il diritto alla vita di tutti. E sbagliamo di grosso se pensassimo che non ci riguarda. Di certo, anche se il mondo intero assumerà un atteggiamento altalenante, Israele non potrà fare a meno che tutelare il suo diritto ad esistere. La soluzione migliore sarebbe il rovesciamento del regime dall’interno. C’è una massa di giovani insoddisfatti e desiderosi di un cambiamento liberale, gente che vuol vivere dignitosamente e normalmente. Anche per questo il nuovo Hitler iraniano soffia sul fuoco dell’anti-ebraismo. Senza il nemico esterno, gli diventerebbe arduo mobilitare il fronte interno. Ma temo che non sia un’ipotesi realistica nel breve termine. A cosa alludeva secondo lei Vladimir Putin quando al G8 di San Pietroburgo ha dichiarato che Israele nella sua risposta all’offensiva degli sciiti di Hezbollah in aiuto strumentale ai sunniti di Hamas presenti a Gaza mirasse a qualcosa di più dello sgombero dei confini libanesi? Non lo so. Ma bisogna chiarire che la crisi è iniziata il 25 giugno scorso quando Hezbollah ha attaccato una postazione israeliana uccidendo due soldati israeliani e sequestrandone un terzo. Questa è la successione dei fatti da cui si evince come nasce il ciclo di violenza. Poi c’è stata la rappresaglia militare. E l’8 luglio scorso un nuovo attacco di Hezbollah. Bisogna PAOLA CANTÙ ITALO TESTA "Teorie dell’argomentazione" pp. 187, euro 14 Bruno Mondadori, 2006 Un argomento quale che sia è tanto più valido se è sostenuto da argomentazioni valide. In altre parole, alla base di ogni discorso e della possibilità di dargli una forza persuasiva agiscono delle buone «ragioni». Sono proprio le ragioni che i due autori (entrambi docenti universitari, la Cantù di Filosofia della scienza a Genova e Testa di Storia della filosofia a Parma) indagano allo scopo di fornire nuovi strumenti di tipo sofistico.. insomma spiegare che qui in gioco c’è il diritto di Israele ad esistere, violato da gruppi terroristici che attaccano senza alcuna giustificazione e come strumento di Siria e Iran il cui obiettivo dichiarato è far fuori Israele dalla carta geografica. Purtroppo in Italia è difficile da capire, ma questa è la partita in gioco. Sull’Iraq invece a che punto vede la situazione? È un fatto largamente ammesso che gli americani abbiano commesso degli errori prima, durante e, soprattutto, dopo la guerra in Iraq. Ma questi errori, seppur gravi, a mio avviso non inficiano la legittimità sostanziale della guerra in Iraq, per le stesse ragioni per cui considerammo legittime le guerre in Bosnia e in Kosovo pur in assenza di una risoluzione dell’Onu e senza il luogo comune sull’interesse petrolifero. Agli iracheni a cui è stato chiesto se sia giusta o meno la guerra che li ha liberati del regime tirannico di Saddam, la maggioranza ha risposto positivamente. Anche se non mancano le critiche all’operato americano e anche se si auspica la rapida fine della presenza militare straniera. Gli iracheni sono più di altri consapevoli del fatto che il terrorismo internazionale islamico ha trasformato il loro paese nel fronte di prima linea della sua guerra santa contro l’Occidente e i musulmani che rifiutano di sottomettersi al suo arbitrio. Questa guerra del terrorismo è una realtà, piaccia o meno, con cui dobbiamo fare i conti. E non nasce certamente dall’attacco militare americano in Iraq il 20 marzo 2003, così come si può facilmente evincere dagli attentati dell’11 settembre 2001. Non è certamente insignificante il fatto che, grazie al rovesciamento del regime di Saddam, l’Iraq si stia incamminando seppur faticosamente verso la democrazia. E che l’esempio iracheno abbia svolto un ruolo rilevante nella sconfitta dei siriani in Libano, fino a costringerli al ritiro militare per ritrovarsi sul banco degli imputati per l’assassinio dell’ex premier libanese Hariri. Ugualmente il vento della democrazia in nuce in Iraq ha portato effetti benefici per i paesi arabi del Golfo e del Medio Oriente, che si sono trovati costretti ad aprirsi sul piano delle libertà e dei diritti dell’uomo. Prima abbiamo parlato di laicità dello stato. Israele è una repubblica democratica dai grandi esempi per la sua zona. Pare però che, forse per la sua posizione alle porte d’Oriente, stato e religione, pur distinti, siano più sovrapposti che nella media occidentale. Israele è uno stato laico in cui la dimensione religiosa è presente. L’identità nazionale fa riferimento al concetto di nazione come di religione. È anche uno stato democratico dove in parlamento sono presenti anche forze estremiste. Ha un’identità ebraica che si coniuga in modo laico allo stato. Il sionismo di fatto è un’idea non religiosa. Sharon quando abbandonò il sogno della grande Israele, obbligò i coloni con la forza a lasciare Gaza e la Cisgiordania (le Giudea e Samarea bibliche), il che dimostra come l’identità laica di Israele prevalga su quella religiosa. Israele ha diritto di difendersi. Ma pare anche a lei - come per la risoluzione Onu bocciata dal veto Usa e come notato da Franco Venturini sul "Corriere della Sera" - che la democrazia mediorientale abbia fatto un «uso sproporzionato della sua forza» in Libano e a Gaza? In Italia si fa fatica a capire che Israele è seriamente minacciato. Se non elimina Hezbollah ed Hamas come organizzazioni terroristiche mette seriamente a repentaglio il suo diritto ad esistere. Ma era necessario distruggere il centro di Beirut, bombardarne l’aeroporto internazionale e bloccare il traffico aereo, marittimo e terrestre, isolando completamente il Libano? Non sono uno stratega militare ma se l’hanno fatto sarà stato per impedire che affluissero rafforzi militari dall’Iran per Hezbollah. Se consideriamo i morti civili e militari, le case e i ponti distrutti non possiamo che rammaricarci per tutto ciò che è successo. Ma se vogliamo veramente il bene dei palestinesi e dei libanesi, che gli uni abbiano un loro stato e gli altri vivano sicuri, noi li dobbiamo emancipare dal terrorismo che nuoce a Israele e anche a loro. Sembra paradossale ma il governo libanese, l’Egitto, la Giordania e l’Arabia Saudita hanno condannato Hezbollah che controlla il Libano del sud. Mentre il presidente francese Chirac ha deplorato Israele e l’Italia tentenna. pagina 3 S C A F F A L E GIULIANO DEGO, Seren la celta, pp. 331, euro 10,20, Bur 2006 Seren, la regina celtica, deve vendicare crudelmente le figlie stuprate e se stessa, picchiata a sangue: per questo intreccia la sua esistenza con quella di Nerone. La sua vendetta deve essere terrificante. Le vicende si susseguono tumultuose e sbalorditive per la loro crudezza e per un amore tormentato. Un evento imprevedibile calmerà la sua sete di sangue. Il romanzo è ambientato nella Britannia romana e nella corrotta Roma imperiale. Thriller dalla potenza diabolica, rende merito alle qualità di Dego. PAOLO PORTOGHESI, Leggere e capire l’architettura, pp. 442, euro 9,90, Newton Compton 2006 Questi saggi sono stati scritti nell’arco di cinquant’anni con testi diversi ma uniti da un unico tema, l’architettura: una conoscenza che può migliorare o peggiorare la qualità del nostro modo di essere e della nostra vita. Diventa importante non solo per gli esperti ma per tutta l’umanità avere dimistichezza e conoscenza di città e paesi per favorire un dialogo culturale politico e sociale tra le generazioni. GIUSEPPE PEDIALI, Camilla e i vizi apparenti, pp. 246, euro 8,00, Garzanti 2006 Fosca è nell’età difficile di una tredicenne e di lei si deve occupare Camilla, una poliziotta conoscente di Carlo Merighi che non riesce a far fronte alla figlia scontrosa ed imprevedibile. Ma forse il problema della ragazza è la bella mamma. Il soggiorno nella ricca villa di famiglia darà una svolta «nera» al rapporto. Camilla allora userà la sua arguzia ed il suo intuito femminile più sottile di quello maschile. FEDERICA DE PAOLIS, Lasciami andare, pp. 204, euro 14, Fazi 2006 Nicola ha tutto, un lavoro di antiquario, una moglie amorevole ed efficente, ma tuttavia la sua tranquillità viene turbata dalla morte per droga del fratello Paolo. Perde la pace ed il suo equilibrio. Con l’anima inaridita conosce Giulia, capricciosa ed inquieta e, nonostante ciò lui vorrebbe annullare tutto il suo passato sparendo. Gironzola senza meta e nella sua mente rimbomba come un grido unìinvocazione: «Lasciami andare». Romanzo su una generazione che nonostante la giovane età non spera più. MANLIO CANCOGNI, Caro Tonino, Jacopo Cappuccio (cura), pp. 63, euro10, Diabasis 2006 Cancogni racconta la tragica alluvione che distrusse la Versilia il 19 giugno di dieci anni addietro. La gente nel panico esplose assieme alla terra. Cardoso divenne una trappola per i tre torrenti che vi confluivano. Cancogni, fissando nella sua memoria lo stato d’animo, i sentimenti e la paura della sua terra scrisse il racconto sotto forma di lettera inviandola al fondatore di Italia Nostra, Antonio Cederna. Non fa una cronistoria ma racconta la storia individuale e collettiva che oscilla tra la gioia dei ricordi e la disperazione. Cancogni ha pubblicato molti racconti e dopo la guerra si dedicò al giornalismo per poi ritornare alla letteratura nel 1956. ETTORE RANDAZZO, La giustizia nonostante, pp. 117, euro 12, Pendragon 2006 «Io sono l’avvovato che con l’inconsueto ed impacciato disagio chiedo al mio cliente l’acconto mentre nella mia mente si profila la strategia per la sua linea difensiva. Alla mia richiesta, con la faccia corrucciata, l’imputato mi rivolge la fatidica domanda: "Ma almeno avremo giustizia?" Poi tace ma so che mi direbbe: "Vuoi subito l’onorario tu che in questo guazzabbuglio hai le mani in pasta e ti nutri di quel sistema giudiziario che mi ha coinvolto ingiustamente?"». La giornata tipica dell’avvocato e del suo cliente fino alla sentenza. Randazzo, penalista, si diverte e diverte descrivendo il mondo giudiziario. 4 a passione per il teatro di Dacia Marini è dimostrata dal suo ultimo libro I giorni di Antigone, una raccolta di articoli pubblicati sul "Corriere della sera" e su "Io Donna" nell’arco di cinque anni. È il personaggio di Sofocle a dare l’imprinting al senso di queste riflessioni dove la Maraini testimonia il nostro tempo con rinnovata tensione e pacato equilibrio. Il coraggio di Antigone eletto come chiave per cambiare una società che sta declinando le sue scelte nel nome della violenza e dell’irragionevolezza. Stilos ha intervistato l’autrice. Nelle sue lettere e articoli si riconoscono alcuni temi che le sono cari: la politica, l’amore per la natura, la difesa dei diritti delle donne, la condanna della violenza, il mondo della scuola. E nel riflettere sulle grandi questioni dell’umanità, lei incarna il ruolo dello scrittore come lo ha definito la sudafricana Nadine Gordimer: ovvero «testimone del suo tempo e della sua cultura». Come vive nel suo quotidiano di donna le responsabilità di questa dimensione di testimone? Penso anch’io come Nadine Gordimer che lo scrittore sia un testimone del suo tempo . Ma non perché abbia una intelligenza o una sensibilità superiore agli altri, bensì solo perché possiede le «parole per dirlo». Günter Grass ha detto: «La scrittura e la vita mi hanno insegnato che non posso scegliere liberamente i miei soggetti. Per la maggior parte mi sono assegnati dalla storia». Si identifica con l’immagine dello scrittore il cui destino si presenta in termini politici, per dirla con Thomas Mann? Sono d’accordo che i soggetti di un romanzo non si scelgono, perché sono loro che scelgono noi. Non parlerei però di storia ma, proprio rimanendo nell’idea della testimonianza, per me sono i personaggi che vengono a chiedere di essere raccontati. Sono più vicina a Pirandello che a Thomas Mann. L’idea dello scrittore demiurgo che sta al di sopra delle cose come un piccolo dio onnisciente e decide in astratto gli argomenti che vuole trattare mi pare presuntuosa e irreale. Lo scrittore deve avere l’umiltà di ascoltare i suoi personaggi e raccontare le loro storie cercando di capirli prima di giudicarli. Lei scrive di una televisione che ha deviato lo sguardo dalla realtà, e ha addirittura «inventato un Paese di divi e di mistificazioni che non corrisponde assolutamente alla realtà». Eppure la televisione è diventata il punto di riferimento di adulti e bambini viziando la loro capacità di percepire la realtà di esprimere un senso critico. La televisione viene usata sempre più come una educatrice. Non crede che alla base di questo ci sia il decadimento del valore della famiglia, una famiglia senza tempo, senza dialogo, senza spazi in cui condividere le esperienze, dove sfuggono di vista le vere priorità? Non c’è dubbio che la famiglia è in grave crisi. Alla vecchia famiglia patriarcale non è stata trovata una sostituzione. Ci si limita ad arrangiarsi con nuove forme di convivenza allargata. I matrimoni doppi, tripli, quadrupli ormai sono una consuetudine, ma non si sono elaborati dei valori da sostituire a quelli vecchi della famiglia piramidale basata sul capo maschio con sotto la moglie e i figli. Nuovi modi di vivere la famiglia non possono essere L S t los IL LIBRO DACIA MARAINI "I giorni di Antigone" pp. 204, euro 15 Rizzoli, 2006 Gli «scritti civili» usciti sulla stampa La tutela della condizione della donna, e con essa la sua definitiva emancipazione nel mondo dove soffre ancora la subalternità, può avere riferimenti e legami con la salvaguardia della natura, anch’essa violentata. La scrittrice abruzzese raccoglie in questo volume gli articoli che sul "Corriere della sera" e "Io Donna" sono usciti investendo questi due temi, forse i più sentiti nella sua sfera d’impegno civile e politico e certamente tra i i più ricorrenti nel complesso della sua opera. DACIA MARAINI . Antigone assurta a simbolo della reazione non violenta del genere femminile: «Mi è sempre piaciuto in lei la capacità di disobbedire senza usare l’aggressività e la violenza. Antigone non getta bombe, non usa il coltello o la spada. A me piace questo: essere coraggiosi» La donna e la natura impegno su due fronti VIVE A LERICI (SPEZIA), AUTRICE DI LIBRI PER RAGAZZI, POESIA E TEATRO. SVOLGE ATTIVITÀ DI MEDIATRICE INTERCULTURALE VALENTINA ACAVA MMAKA lasciati al caso, alle iniziative delle coppie che poi sfociano in conflitti terribili senza una elaborazione approfondita di tutta la collettività. E mi pare che questo manchi. La chiesa non aiuta, perché invece di riconoscere la realtà, la nega. Le istituzioni politiche vivono di incertezze e paure. I grandi mezzi di comunicazione poi o rappresentano una stupida e assolutamente falsa «gioia di vivere» che in realtà si trasforma in gioia di vendere e di comprare, oppure si dedicano al rimpianto del passato nelle forme più retrive. Manca la voglia di costruire un nuovo tipo di famiglia, con tutte le sue contraddizioni e le sue difficoltà, ma lontana cento miglia da quella patriarcale, una famiglia dove entri anche l’omosessualità, dove entri la convivenza fra figli di padri e madri diverse, la convivenza pacifica e rispettosa di amori vecchi e nuovi. La natura è sua amica, lo si legge nelle sue lettere, nei suoi articoli, ma traspare anche dai suoi testi. Ricorda un episodio della sua vita in cui la presenza di un animale (o un incon- tro) o di un albero ha modificato una sua scelta o l’ha aiutata a prenderne una? Non posso raccontare un episodio preciso perché sia gli animali con cui ho convissuto (cani, gatti, uccellini - ma non in gabbia -, cavalli, un anatroccolo, una capretta) che le piante che ho curato e che contemplo nel loro nascere, mi sono necessari e hanno accompagnato tutte le giornate della mia vita. In questi giorni sono in ammirazione di fronte ad un nocciolo di avocado che ho infilato in un barattolo di vetro tre mesi fa e ora sta mettendo le radici e che vedo crescere in trasparenza nell’acqua. Una meraviglia. D’altronde il mio ultimo romanzo Colomba credo che dimostri con evidenza il mio interesse, la mia passione per tutto ciò che è natura, pur non nascondendomi le insidie, i pericoli, le minacce che a volte la natura nasconde. Non sempre la natura è amica dell’uomo. Spessissimo però, sempre più spesso, la natura diventa nemica dopo che l’uomo l’ha inquinata, devastata, rovinata e calpestata, come stiamo vedendo con gli incendi di foreste che provocano rovinose valanghe, con l’imbrigliamento e la cementificazione dei fiumi che provocano catastrofici allagamenti e inondazioni o anche il riscaldamento dell’atmosfera che fa sciogliere i ghiacciai. Lei parla di una cultura della pace possibile identificando nella presa er comprendere la potenza di- ROBERTO SAVIANO. Una storia dal vero della rompente di questa biografia non autorizzata dell’ultimo ventennio della camorra il lettore deve costantemente tenere presente che i fatti, le persone e le storie raccontate sono assolutamente reali. Saviano diquelle persone. Partendo da tracce immostra pagina dopo pagina il coraggio di filtrare questo allucinante universo VIVE AD AFRAGOLA. INSEGNA percettibili, si affida completamente al suo intuito per riuscire a ricostruire il attraverso il suo sguardo, sempre atMATERIE LETTERARIE NELLE funzionamento degli ingranaggi che tento a entrare nelle pieghe profonde SCUOLE MEDIE. COLLABORA fanno muovere, con inattaccabile predi una realtà che i più ignorano e che CON "IL DIARIO" E "PULP" cisione, la complessa organizzazione gli altri non vogliono vedere. Per far criminale, da lui definita Sistema. questo decide di diventare la voce narGIUSEPPE RONCIONI «Camorra è un termine inesistente, rante del suo libro, mettendo in gioco da sbirro.[…] Il termine con sui si dese stesso, i propri pensieri, la propria vita, per dare il via al suo "viaggio nel- Si nasconde la faccia tra le mani, per finiscono gli appartenenti a un clan è l’impero economico e nel sogno di cancellare quella scena che gli si è Sistema. […] Un termine eloquente, dominio della camorra". L’inizio è crudelmente inchiodata nel cervello. Il un meccanismo piuttosto che una protagonista resta struttura. L’organizzazione criminale bruciante. Corpi fermo e ascolta, coincide direttamente con l’economorti che cadono R e c e n s i o n i lìtrattenendo nello mia, la dialettica commerciale è l’osda un container stomaco il disgu- satura del clan». Bastano pochi colpi sospeso nell’aria. ROBERTO SAVIANO sto. Non si accon- per sbriciolare i rassicuranti luoghi «Sembravano ma"Gomorra" tenta del terribile comuni, abituati a liquidare la canichini. Ma a terra pp. 331, euro 15,50 aneddoto. Vuole morra come fenomeno criminale cirle teste si spaccaMondadori, 2006 capire chi sia il bu- coscritto alla Campania, la cui sovano come fossero rattinaio che muo- pravvivenza è garantita dallo stato di crani veri. Ed erano crani». È un addetto alle gru, im- ve i fili di quella faccenda. Inizia ad in- barbarie in cui vive una parte della piegato nel porto di Napoli, che parla. dagare, per capire dove erano dirette popolazione degna del quarto mondo. P di coscienza il raggiungimento della meta. Purtuttavia sembra una meta lontana. Al di là delle istituzioni, quali sono i soggetti maggiormente impegnati nel contribuire prima di tutto al «disarmo culturale» necessario per instaurare una cultura del dialogo e della pace? Quale peso può avere uno scrittore in tal senso? Secondo me la più grande ricchezza del nostro paese in questo momento sono i volontari: gente che in tutta l’Italia si rimbocca le maniche e si mette al servizio dei più poveri, dei malati, degli esclusi. E lo fanno gratuitamente. Di loro si parla pochissimo, mentre si parla in continuazione di stupidi fenomeni televisivi. È una aberrazione. Senza i volontari il nostro paese sarebbe umanamente e culturalmente molto più povero. In quanto agli scrittori, non tutti hanno questa coscienza sociale. Ma ce ne sono parecchi che prendono posizione per la pace e io sono con loro. Lei riconosce alle donne del Sud del mondo una forte potenzialità futura nella promozione di una cultura della pace. Come immagina si incontreranno la donna occidentale fedele al suo stereotipo e la donna africana o indiana del futuro? Le donne occidentali hanno guadagnato molti diritti e qualche volta non ricordano più le fatiche che sono state fatte dalle loro nonne per ottenere camorra Testimonianza sul sistema Distorsioni che diventano un comodo cuscino per lo stesso sistema, che negli anni, colpa anche del colpevole silenzio delle Istituzioni, ha esteso su scala mondiale il giro dei propri affari. Un’organizzazione che diventa la rappresentazione deleteria del capitalismo spinto alla deriva, dove tutto, le cose, le persone, la natura, gli scarti di questa società, diventano merce su cui speculare. Saviano non annacqua mai le immagini che descrive. Resta coerente con la sua intenzione di descrivere quello che vede senza mediazioni. Un’attenzione costante alle parole, mai sprecate o malate di facile sensazionalismo, ai dettagli minimi, ma decisivi per rendere quanto più possibile evidente la complessità del sistema, all’interno del quale il protagonista continua a spostarsi, imponendo alla sua vespa delle sghembe traiettorie, per non restare soffocato Nella foto Dacia Maraini, che da Rizzoli ha pubblicato I giorni di Antigone questi diritti, primo di tutti quello del voto, che è il risultato di battaglie durissime in cui molte suffragette hanno perso la salute e la vita. Questo l’abbiamo dimenticato. La parola «suffragetta» oggi fa quasi ridere e le giovani non sanno quasi nulla su cosa è stato il fenomeno e quanto sia stato importante per i diritti di cui oggi godono le donne in occidente. Molte pensano che i diritti delle donne siano naturali ed eterni. Non sanno che la storia può anche tornare indietro, che i diritti una volta ottenuti bisogna difenderli e proteggerli altrimenti si possono perdere. Non sarebbe la prima volta che succede. È avvenuto in molti paesi dell’Africa che io conoscevo bene e in cui le donne avevano una grande libertà. Con il fondamentalismo religioso questi diritti improvvisamente sono spariti. In molti paesi, come la Nigeria che pur essendo povero era pieno di vita e di iniziative d’avanguardia, si è tornati a usanze del Medio Evo. Nessuno avrebbe mai pensato che la lapidazione di una adultera potesse tornare realtà nel 2006. Eppure è così. Recentemente ha partecipato, insieme con altri 14 scrittori, al sostegno del Progetto Bajo Flores (Le storie cambiano la vita, Mavida), donando i diritti di un suo racconto "Fame". Quanto iniziative come questa possono ancora oggi considerarsi «armi di lotta» valide contro l’ignoranza, il superpotere, le ortodossie, l’intolleranza? Non penso che siano iniziative risolutive, ma qualcosa contano. Non solo per la raccolta di fondi, ma soprattutto per la creazione e la diffusione di una sensibilità al tema. Diversi anni fa alla domanda «se c’è un libro che non ha ancora scritto ma che vorrebbe scrivere?», lei rispose che non era ancora riuscita a parlare dell’esperienza del campo di concentramento in Giappone. È vero, il libro sul campo di concentramento aspetta ancora di essere scritto. Sono esperienze tanto dolorose che non sono ancora riuscita a raccontarle in pieno. Ma spero di farlo prima che diventi troppo tardi. Lei richiama all’urgenza di un gesto come quello di Antigone, quasi a simbolo salvifico dell’umanità. Un invito alla riflessione prima dell’azione, all’ascolto e all’osservazione prima del giudizio, ovvero ad un modello di umanità diverso da quello con il quale ci confrontiamo in modo sempre più diffuso oggi: arrogante, intollerante, egoista. Quello che mi è sempre piaciuto in Antigone è la sua capacità di disobbedire senza usare l’aggressività e la violenza. Antigone non getta bombe, non usa il coltello o la spada. Antigone seppellisce il corpo morto del fratello perché, come lei dice, la legge dell’amore dettata dagli dei è più forte di quella della città dettata dal governatore. A me piace questo: essere coraggiosi, combattere le ingiustizie e le prepotenze senza usare altre prepotenze, senza fare del male agli innocenti, senza ferire e bruciare, colpire e uccidere, solo con atti di indignata pietà. E non si trattava di atti puramente simbolici, perché Antigone sapeva benissimo di rischiare la vita. Antigone disobbedisce ma senza nuocere ad una mosca. È questo che mi piace e vorrei fosse un esempio per tutti coloro che desiderano cambiare il mondo. La violenza non serve, servono azioni di esempio, servono gesti quotidiani di compassione e di amore. dall’irreversibile puzzo di morte che gli soffoca il respiro. Più volte sente sul collo il fiato del pericolo che rischia di interrompere il suo cammino. Anche se ha paura, non mostra mai definitivi segni di cedimento. Stringe i denti e tiene sempre presente in mente l’esempio di Pasolini che aveva messo le mani sul marcio dell’Italia e lo aveva combattuto con le parole sulle pagine dei giornali. Seguendo la sua scia, il protagonista inizia ad articolare il suo «io so»: «Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e dove prendono l’odore. L’odore dell’affermazione e della vittoria. Io so cosa trasuda il profitto. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova». Una testimonianza che per lui diventa una necessità morale. L’unica maniera per dare vera dignità alla sua vita. Alla fine del viaggio, però, scopre che non ci sono paradisi da conquistare. Ma soltanto una devastante angoscia, che gli resta incollata addosso come una stomachevole gelatina, e lo spinge a gridare «maledetti bastardi, sono ancora vivo». Catone pagina autori italiani ANDREA CARRARO ONOFRI AL VELENO Se avete fegato e cervello leggetevi Sensi vietati di Massimo Onofri. L’autore non ha bisogno di presentazioni. Parlano per sé le numerose opere che ha sulle spalle - due fra tutte: Ingrati maestri (Theoria), un libro che fu apprezzato e fece parecchio rumore e La modernità infelice. Saggi di letteratura siciliana del Novecento (Avagliano) - oltre alle splendide recensioni di narrativa italiana che settimanalmente, ormai da vari anni, ci regala sul settimanale "Diario". Onofri è uno dei critici italiani contemporanei più affidabile, almeno dal mio punto di vista. Sensi vietati (Gaffi editore) è una raccolta di commenti che il critico ha scritto per il quotidiano "La Nuova Sardegna", rivelando una parte di sé ancora sconosciuta a noi suoi affezionati lettori e forse anche a se stesso: commenti sapidi, perfidi, pieni di buon senso e di passione razionalista, spesso accesi dall’acre fiamma del sarcasmo e dell’irriverenza: da Moravia a Platinette, dai cantautori ai politici, dai letterati da salotto televisivo ai poeti, da Sanremo all’inserto "Alias" del "Manifesto", la lente di Onofri spazia su tutto, dall’alto al basso, dall’orizzontale al verticale. Ci vuole fegato per incassare tutte le staffilate che Onofri elargisce a destra e a manca, certo colpendo anche qualche nostro mito. Ci vuole intelligenza perché Onofri è intelligente e pretende molto dal suo lettore. In ogni riferimento, alto o basso che sia, ritrovi sempre la sua penna avvelenata, il suo talento a cogliere l’inautentico, la patacca, il falso e a denunciare il conformismo culturale. E senza servitù verso alcuna bandiera. Onofri è un lacissimo individuo, uno che non crede a nessun Dio e detesta il kitsch spiritualista dilagante nell’arte e nella letteratura contemporanea. Egli ha un gusto sicuro, deciso e, come dicevo, non guarda in faccia a nessuno, ma proprio a nessuno. Sentite come tratta uno dei miti viventi della nostra Cultura: «Com’è possibile che una settimana sì, e l’altra pure, "Alias" si trovi a celebrare uno scrittore come Arbasino, quello senz’altro più rappresentativo della ciarliera borghesia italiana apparentemente moralista (d’un moralismo che non saassume mai responsabilità e non paga dazio), ma in realtà penosamente querimoniosa?». E sentite cosa dice di un altro intoccabile, il «presuntuoso Francesco De Gregori, che col suo specioso analogismo, le sue mal registrate metafore, si crede poeta mentre fa solo cattiva letteratura da spiaggia». Condividiate o meno le sue posizioni radicali e idiosincratiche, dovrete rispettarle perché è corretto e culturalmente attendibile chi le formula e i suoi argomenti non tradiscono mai elusività. Certe derive midcult di De Gregori, del resto, non si possono non riconoscere - nei testi - anche se si sono amati alcuni suoi pezzi come nel mio caso. Insomma, non è necessario essere d’accordo interamente con Onofri per apprezzare questo encomiabile libro che gronda intelligenza e passione. Si possono proporre nobili ascendenze per Sensi vietati - lo Sciascia di Nero su nero anzitutto, scrittore amatissimo dall’autore che su di lui ha scritto un paio di libri e perfino il Barthes di Miti di oggi - ma è già stato fatto da Filippo La Porta sul "Corriere della Sera", che ha riconosciuta altresì l’assoluta forza e originalità di questa prova pamphlettistica di Onofri, apprezzando la «temeraria indifferenza a logiche molto diffuse di appartenenza e a schieramenti culturali precostituiti, che nel nostro Paese derivano da una velenosa pervasività della politica». insieme di testi editi ed inediti, che compongono l’edizione di Tutte le poesie, esprime la lunga fedeltà di Silvio Ramat al mestiere (e alla vocazione) di poeta. Il libro appartiene a quel tipo di letteratura che si dispone su diversi piani. Può essere letto infatti come resoconto di un destino individuale e collettivo: taccuino che segnala gli spostamenti geografici dell’autore, registra le oscillazioni del suo pensiero nel sottosuolo della memoria e allinea la straordinaria campionatura delle fonti letterarie, ricostruisce addirittura un’esperienza di fede non portata a maturazione, ma di sezione in sezione si trasforma anche in un diario della condizione esistenziale che appartiene più in generale agli uomini del Novecento, divisi tra il tramonto delle certezze, l’ironia del disincanto e l’illusione di credersi ancora eroi. Passando in rassegna le singole raccolte, non sfuggono i riferimenti a fatti di cronaca (la guerra in Corea, il Maggio francese, la sciagura ferroviaria BolognaFirenze del 1978), a personaggi storici (Sandro Pertini, Che Guevara, Giorgio La Pira), a canzoni (Ma l’amore no), perfino a eventi sportivi che hanno segnato la nostra epoca: la tragedia di Superga, i mondiali di calcio del 1950, la rivalità ciclistica tra Coppi e Bartali. Più che fornire all’autore la palma del poeta civile o del testimone, come forse sarebbe più giusto affermare, la capacità di passare dal livello della scrittura privata (che nutre di memoria familiare sia alcuni componimenti lontani sia il più recente «racconto in versi» Mia madre un secolo) al piano dell’immaginario comune anche ad altri individui diventa uno dei tratti di maggiore originalità del volume, un elemento in grado di attribuire compattezza strutturale alla ricerca letteraria di Ramat, germinata in un’aura post-ermetica e rimasta costantemente fedele a un’idea di poesia che, esprimendosi in una cifra ironica, prevede una interrogazione costante sul senso etico del vivere. La città di origine rappresenta il nucleo dove ricondurre ogni filo del destino. Così appare Firenze nei versi giovanili delle Feste di una città (1959), pubblicati per le edizioni della rivista fiorentina "Quartiere", in cui sembra allegoricamente popolata da maschere e giostre di cavalieri impegnati in tornei. E rimane luogo cruciale anche quando nei componimenti più maturi si racconta il distacco da essa: un addio che, come Dante, costringe Ramat alla condizione di apolide e di fuggiasco. Il corpo centrale del libro segnala in maniera quasi ossessiva le coordinate di questo viaggio centrifugo, proiettato nella vana ricerca di un nido dove fermare il volo. E nel simbolico atlante figurano le mappe di altre realtà urbane: Padova con le sue ramificazioni tentacolari, Venezia che viene assimilata a un girasole, e poi Milano, Torino, Genova, Palermo, Parigi, senza dimenticare le mete del Nord Europa (Germania, Inghilterra) e gli sconfinati scenari degli Stati Uniti. Obbedendo a una caratteristica tipicamente novecentesca, Ramat veste i panni di un Ulisse senza Itaca. La sua poesia si nutre di questi andirivieni, che approdano spesso a corsi d’acqua come già era stato in Ungaretti, e accarezza sottilmente il tema della polis come ricerca del «luogo felice» o, secondo quanto egli stesso afferma in un ’ L LINNIO ACCORRONI Interviste SILVIO RAMAT "Tutte le poesie" pp. 1442, euro 50 Interlinea, 2006 L SILVIO RAMAT . Raccolte le poesie dell’erratico cantore fiorentino che ha girato il mondo per arrivare sempre nella sua città: portandosi appresso l’etichetta di «poeta esule e sognatore» Mistica dell’andirivieni di un Ulisse domestico VIVE A MILANO. INSEGNA ALLA CATTOLICA. "L’AMERICANO DI CELENNE" (MARSILIO, 2000, PREMIO BERTO E MONDELLO) GIUSEPPE LUPO testo delle 40 poesie (2001), come tensione a individuare la «forma della Città Ideale» (Il rombo della Dora). È chiaro che qui il riferimento va a Ivrea e all’utopia olivettiana degli anni Cinquanta, ma non sarebbe errato interpretare il desiderio di segnalare su carta nomi e architetture di città quale metodo con cui inseguire un sogno ambizioso: ricostruire da qualsiasi altra parte del mondo l’immagine di una Firenze che appartiene ai poeti, agli intellettuali e agli artisti. A quest’idea, che ha il sapore di una religione laica ed è resa esplicita in Un secolo in un sogno («energici o sommessi / mi sfiorano mi oltrepassano in volo / i nomi persi, i nomi-stemmi che / tra mura come queste furono letteratura / e arte»), la poesia di Ramat obbedisce anche quando il dolore personale prende il sopravvento sulla memoria, nessun luogo è buono per accasarsi e l’atteggiamento del poeta tende ad assomigliare a quello dell’«esule che sogna» (Salvataggi). Stilos lo ha intervistato. Nel suo immaginario poetico quale ruolo ha avuto e conserva tuttora Firenze? Ho vissuto a Firenze fino ai miei quarant’anni, e tra quelle mura ho coltivato le prime - e non solamente le prime - ambizioni di poeta. Più che nell’«immaginario poetico», il meraviglioso della mia città consisteva nel potervisi, in un giorno qualunque, imbattere fisicamente nella poesia: nelle persone, e vorrei dire nei «corpi», di Betocchi e di Bigongiari, di Luzi e di Parronchi… Per soddisfare una analoga sete di concretezza, di tangibilità, altri si obbliga a faticosi pellegrinaggi; io no, bastava uscissi di casa per incontrare facilmente Alfonso Gatto o Leone Traverso… Con una telefonata potevo fissare di lì a mezz’ora un appuntamento: alla "Nazione" con Bilenchi, al «Vieusseux» con Bonsanti, al «Paszkovski» con Macrì e sodali exermetici... Insomma, in una Firenze già decaduta sul piano dell’imprenditoria culturale (la crisi irreversibile della Vallecchi), resistevano però e dimoravano alcuni miti coriacei, colonne della mia formazione, e non fu un caso che tra il 1966 e il ’68 io lavorassi a un lungo saggio sull’ermetismo, col quale idealmente coronavo una mia stagione vitale, dotata di una splendida mitologia. Firenze ombelico del (mio) mondo. Altra cosa è la L’ A U T O R E Oltre venti libri di versi raccolti in uno Fiorentino di nascita e di formazione, da quasi cinquant’anni Silvio Ramat costruisce e alimenta un dialogo ininterrotto con la poesia, costituendosi una posizione di prestigio tra le voci più significative del nostro tempo che si è espressa in una ventina di libri: da Gli sproni ardenti (1964) a Corpo e cosmo (1973), da In parola (1977) a L’inverno delle teorie (1980), da Orto e nido (1987) a Pomerania (1993), da Numeri primi (1996) a Per more (2000) fino a Mia madre un secolo (2002), solo per citare i titoli più importanti. Tutte le opere del vasto repertorio ramatiano sono state ora radunate sotto il titolo onnicompresivo di Tutte le poesie, volume che rende omaggio all’intera ricerca dell’autore e che è completato da due raccolte inedite e un illuminante saggio introduttivo di Giuseppe Langella. città - spoglia ormai di quei miti - nella quale, dal 1980 a questa parte, rimetto piede ogni tanto, con la circospezione e il disagio dell’ospite. Eppure, in tale stato d’animo mi capita di addentrarmi, senza dover mentire a me stesso, in un «eventuale» che poi non si è realizzato e (magari per vie che, come in Luzi, «sentono l’esilio») vi accompagno qualcuno che forse sono io stesso, avventurato in qualche sua vicenda probabile. Questo è un «immaginario» che non potrebbe avere altra scena se non Firenze. Leggendo il volume si nota che lei dissemina nei testi una serie di autoritratti: dal «convitato smarrito» al «chierico divagante», dal «maldestro scriba» al «poeta esule e sognatore». Ma qual è la sua fisionomia di poeta? In me le autodefinizioni si susseguono, e tante. Ma sull’immagine di un io-poeta similcrepuscolare, quale affiorava senza un filo d’ironia nelle liriche dei vent’anni, direi che l’abbiano avuta vinta specificazioni ulteriori: ad esempio quella del poeta che si consuma nel proprio esercizio di faber, coi rischi di astrattezza che ciò comporta. Dopo, è venuta quella del «chierico divagante», che insegna privo d’autorevolezza e maldestramente, come d’altro canto «maldestro» era stato a suo tempo lo «scriba» ossia lo scolaro in difficoltà con penna e calamaio. Credo di aver tentato, più volte, di bilanciare col richiamo alla matericità del fare poetico quella piena degli affetti che è un fiume prodigioso ma solo se non lo si lascia debordare. La più felice - augurale - definizione del poeta, anzi della poesia, l’ho proposta, credo, in una lirica del 1994, Come canta: dove l’auspicio è che la voce il verso - si assimili nel suono a quello armonioso del motore di una Lancia d’epoca, facendosi «leggera assorta inutile / vena del mormorìo». Nelle Rose della cina (1998) lei definisce Montale la «nostra maggior musa» e in un testo di Per more (2000) sottolinea con ironia di essere nato nel ’39, l’anno delle Occasioni. Ricordiamo anche che lei è autore di saggi notevoli sulla poesia montaliana. Cosa rappresenta per lei l’esperienza del poeta ligure? C. MAZZACURATI - C. PAOLINI. Un’intervista in Dvd a parola uccellino, oseleto, non si scriveva, c’era. "Uccellino" invece si poteva scrivere in 12 modi, perché si poteva scrivere con una o due "c", con una o due "l" e poi con vocali diverse, fino a do- scorci, dell’autoesilio volontario ne Il dici varianti, di cui una sola è legale… dispatrio in quel di Reading a fondamentre le altre sono illegali. Ma resta re una cattedra di italianistica in terra sempre irrisolta la questione se l’uc- d’Inghilterra, proseguendo poi con le cellino, pur scritto giusto, sia o non sia foneticamente schioccanti ed aderenl’oseleto del dialetto». Forse proprio tissime traduzioni dall’inglese in altoquesto piccolo, delizioso aneddoto vicentino dell’Amleto e di un corona linguistico, in cui il gioco delle varian- poetica che va da Donne a e.e. cumti nella scrittura di mings in Maredè una parola diventa maredè. R e c e n s i o n i paradigma della L’incontro fra tre conflittualità irriCARLO MAZZACURATI veneti, di età e ducibile fra dialetMARCO PAOLINI (cura) provenienza diverto e lingua, può sa, tutti e tre «pic"Luigi Meneghello" essere individuato coli maestri», sia Dvd, euro 20 come spia ed empur in contesti diFandango, 2006 blema di un corversi, è l’occasiopus narrativo, quello di Luigi Men- ne da cui nasce la realizzazione di queghello, che è l’incarnazione di una sto dvd-intervista, con libretto accluso, stendhaliana promesse de bonheur. della Fandango, una chicca che i «meUna promesse de bonheur che va dal- neghelliani» non possono certo lasciarla trilogia di Malo - Libera nos a malo, si sfuggire. La guest star è per l’appunPomo pero, Bau-séte - a Fiori italiani to lui, Luigi Meneghello, nato a Malo fino alla narrazione, per spunti e per nel 1922. Basterebbero il suo volto e la « S t los Meneghello, vita in video sua voce, da soli, a rendere prezioso questo dvd: una voce esile, in bilico fra gravitas ed ironia, attenta ad inseguire il filo di una memoria vividissima, capace non solo di focalizzare particolari apparentemente irrilevanti, ma di saperne contestualizzare il senso e la centralità fondante: i temi scritti alle elementari, il colore di una vecchia tuta da motociclista, una battuta materna, un appunto sul rovescio di una busta… Meneghello stesso, andato via in giovane età dall’Italia, decodifica questa stupefacente capacità prensile spiegando: «I miei ricordi precedenti si erano fissati per sempre. Io non ho assistito ai radicali mutamenti che, mese dopo mese, anno dopo anno, decennio dopo decennio, trasformavano la vita e la lingua degli italiani. Io ero via, lontano. E questo ha fissato la memoria, penso». Mentre risponde alle domande, sul suo volto, attraversato da un lieve reticolo di righe, i due occhi compiono una singolare gara d’espressività: a seconda dell’argomento, si dilatano per tentare di persuadere chi ascolta o si strizzano fino a trasformarsi in fessure impercettibili, quando a prevalere è l’understatement d’alta classe, l’humour dissacrante, la contagiosa comicità di cui Meneghello è naturale depositario. Dietro la macchina da presa, a documentare in modo asciutto, senza vezzi o gigionerie, questo dialogo-ritratto sta un altro veneto, il padovano Carlo Mazzacurati, regista affermato e di lungo corso, classe 1956, lo stesso anno del bellunese Marco Paolini che, dismettendo i panni a lui consueti della star teatrale, indossa quelli dell’intervistatore. L’intervista procede per «sfregola, lampi-sgiantizi, cortocircuiti», condotta sul filo di una reciproca, divertita curiosità e sincera ammirazione. Qua e là, presenza silenziosa e discreta, con un volto bello, d’al- Nella foto Silvio Ramat, che da Interlinea ha pubblicato la collazione Tutte le poesie Montale rimane veramente la «nostra maggior Musa» (Dante l’aveva detto di Virgilio). Io non stravedo per le raccolte senili, da Satura in poi, ma chi ha scritto Ossi di seppia, Le occasioni e La bufera incide il proprio nome a lettere indelebili nell’albo della poesia d’ogni età. Non sono più lo «scabro» e l’«essenziale», griffes arcinote della giovinezza montaliana, a catturarci, sì invece la forza dell’affabulazione, da Arsenio ai Mottetti, da L’anguilla al Sogno del prigioniero, componimenti nei quali si saldano le virtù della concisione e della durata, il taglio episodico esatto e una capacità allegorica non inferiore a quelle di Yeats o di Eliot. Giuseppe Langella, nella importantissima prefazione al volume, individua in lei una certa inclinazione narrativa. Oltretutto la forma del poema si addice a numerose sue raccolte. Come coniuga il senso di smarrimento con la tendenza all’epos? Il «poema», che ho caricato di una speciale responsabilità costruttiva negli anni ’70 ma anche poi nel corso degli ’80, ha fra l’altro il compito di esorcizzare, con la sua postulata energia di trazione, quello «smarrimento» cui si riferisce la domanda. O meglio: dev’esser stato proprio lo «smarrimento», paradigmatico o risofferto di persona, a suscitarmi, in quella fase, la speranza che una forma sia pur cauta e misurata di «epos» valga a esorcizzare quegli «smarrimenti» che sulla pagina si manifestano in una dispersione della sostanza verbale. Nel libro scorre, sotterraneo, il fiume dell’autobiografia personale e familiare. La sensazione è che questa dimensione domestica cresca nelle raccolte degli ultimi dieci anni. Quale valore lei attribuisce alla poesia degli affetti? Più che da una repentina invadenza della «poesia degli affetti», l’innegabile prevalere, nei miei ultimi dieciquindici anni (sempre all’interno del flusso autobiografico) dell’elemento familiare suppongo derivi dal bisogno di una sempre più sistematica (e talora quasi «scientifica») ricognizione delle radici. In quel pianeta io aprii gli occhi alla luce e cominciai a camminare; tuttora vi intuisco la persistenza di zone segrete, di verità (relative, certo) che, a comprenderle, aiutano a capire anche gli «altri», l’«altro» del mondo. Lei ha attraversato, da poeta, la stagione della neo-avanguardia, senza peraltro aderire. Anzi alcuni suoi testi non risparmiano accenni polemici nei confronti di quella stagione. Ci può fornire le ragioni delle sue scelte? Ero fieramente avverso (e come potevo non esserlo, in quella Firenze?) all’organizzata protervia della neoavanguardia. Inerme, contrapponevo Petrarca e i poeti barocchi, Luzi e Sereni (ma anche Fortini e Zanzotto) alla violenza sommaria perpetrata contro una tradizione lirica a cui ingenuamente, lirico in erba, mi vantavo di appartenere. Dall’antologia dei Novissimi (1961) al Parnaso di Sanguineti (1969), patii quel periodo come un insulto al buon senso e all’armonia. Il mio Ermetismo (1969) fu una risposta flebile e isolata. Oggi non m’interessano più quei fatti o misfatti. Al solito, i più dotati hanno retto, singolarmente, alla prova del tempo. E, s’intende, più negli esiti creativi che non nelle pagine di teoria. tri tempi, somigliante, in maniera impressionante, a "La madre" di Boccioni, l’amata Kate, la donna di una vita a cui Meneghello continuamente si rivolge e a cui chiede consigli, ottenendone in cambio impercettibili assensi. Fuori dalle vetrate dello studio ogni tanto si indovina qualche scroscio di quella pioggia che tanto spesso ricorre nelle narrazioni meneghelliane: del resto, come scriveva nell’incipit di Libera nos a malo, «si incomincia sempre con un temporale». Il tentativo di Paolini, peraltro abbandonato ben presto, di far rientrare questa intervista nel solco dei consueti bilanci di fine carriera, quando un artista, dopo lunga ed onorata carriera, dovrebbe tirare le fila di un intero percorso creativo ed esistenziale («Quando sei nato?» è l’esordio ultratradizionale con la quale si apre), viene spazzato via dalla fluttuante ricerca mnestica dell’autore, che, attraverso frammenti, ellissi, aneddoti, ricordi, autocensure, ci incanta con il fascino di una conversazione affabulante e magnetica, intessuta della stessa malìa evocativa e liricheggiante che rendono bellissime ed indimenticate tante sue pagine. pagina 5 Ossigeno autori italiani BENEDETTA CENTOVALLI BETTY WOODMAN Quaranta gradi a New York non sono uno scherzo, eppure anche con questa temperatura la città conserva un fascino unico, nonostante l’uso terroristico dell’aria condizionata tenuta a manetta nei locali e nella metropolitana a propiziare laringiti o peggio. Girare per strada è impossibile, accessibile solo la sera il lungofiume, la città che si affaccia sull’acqua, quella meno turistica e più segreta, quella che preferisco da sempre. Su una panchina davanti all’Hudson ci si può dimenticare di quello che ferisce, stare per qualche istante in armonia, sospendere il morso del dolore. Ma l’enorme ciambella ha stretto nel suo cuore Central Park, e sul fianco del parco il Metropolitan Museum apre adesso il suo tetto per lo spettacolo del tramonto che da questo particolare punto di osservazione disegna un profilo della città suggestivo tra palazzi d’epoca e moderni grattacieli, tenuti a distanza d’occhio dal verde sfumato e possente dell’enorme polmone cittadino. Qui al Met è ospitata in questi giorni una spettacolare retrospettiva delle ceramiche di Betty Woodman, che spazia dalle sue tazze da tè alle grandi installazioni. Una visione che colpisce per la bellezza e la singolarità delle opere esposte e per la loro identità multipla o incrociata, che sfugge allo statuto di arte decorativa o di oggettistica d’arte per giocare a mescolarne le possibili letture e i possibili riusi. Già all’entrata del Museo si viene accolti da due meravigliosi vasi, sovrastati da una specie di pannello sontuosamente decorato che li nasconde. L’occhio è subito attratto da questi sipari dipinti in modo magistrale, opere a sé stanti che vivono della pura energia del colore, quando l’artista non ricorre alle rappresentazioni figurative. «Too Matissey» è il commento più comune davanti ai suoi lavori. Effettivamente vi si ritrova la fantasia e la libertà coloristica di Matisse. Ma nella Woodman tutto viene rivisitato secondo il suo peculiare temperamento, non solo Matisse, ma anche Picasso, Mirò, insieme con tanto cubismo, surrealismo e espressionismo astratto. Il risultato è straordinario e coinvolgente, attraversa la pittura per arrivare alla scultura, quasi un progetto avanguardistico che provoca l’arte pittorica verso la condizione materica della ceramica, non costringendo la superficie dipinta dentro la forma tridimensionale ma liberandola dal riferimento all’oggetto d’uso. La forte personalità delle ceramiche della Woodman è data proprio dal dato sculturale che svetta in modo del tutto autonomo soprattutto nelle opere più imponenti. Un’artista che usa le ceramiche come punto di partenza per i suoi poemi fantastici, per le sue visioni multiculturali. Impossibile non ricordare la scuola dei Della Robbia, per quello sfondamento dell’oggetto d’uso e della decorazione in puro dato artistico, classico e moderno allo stesso tempo. Con le sue atmosfere mediterranee o asiatiche (notevoli i pezzi di ispirazione giapponese), all’età di settantasei anni, Betty Woodman vive tra New York, in un loft sulla West Seventeenth Street, e una casa in collina all’Antella, appena fuori Firenze. Nata a Newton, Massachusetts, si era trasferita nel 1948 a New York per studiare all’università l’arte della ceramica, per poi ritornarvi stabilmente nel 1980. Il miracolo artistico e l’incanto delle opere di Betty Woodman risiedono proprio nell’invenzione di mondi possibili che dai suoi vasi o dalle sue altre quotidiane forme d’uso proliferano e potenziano la nostra stessa capacità di suscitare universi. Se questa è solo decorazione, allora evviva la decorazione! pagina 6 ian Antonio Stella, nato ad Asolo (Treviso) 53 anni fa e cresciuto a Vicenza, è l’inviato più da "Repubblica" del "Corriere della Sera". E se passasse di là diventerebbe il più da "Corriere" di "Repubblica". Non è un eroe, ma un gentiluomo che veste spesso la giacca blu, abita vicino Venezia («Non dico dove perché scrivere di mafia e ’ndrangheta può essere più pericoloso che andare a Bagdad») e quando parte da lì per fare il suo mestiere, si porta dietro dal Nord Est quantomeno la cadenza della parlata. Il suo ultimo lavoro è una raccolta di ritratti inediti della classe dirigente del centrosinistra italiano che continua il ciclo inaugurato col centrodestra in Tribù Spa (Feltrinelli). Non fu facile allora pubblicare quel libro: «Inizialmente doveva essere su destra e sinistra ma gli esordi della Casa delle libertà furono tanto ridicoli che lo dedicai solo a loro. Ci volle coraggio e un po’di temerarietà perché erano nel momento di massimo potere - racconta oggi l’autore. - Ci furono infatti le proteste di Maurizio Gasparri e, molto garbate, di Gianni Letta. Tanto che la Mondadori, con cui avevo già pubblicato Lo spreco e Chic, non si comportò bene e preferì che il libro si esaurisse senza ristamparlo. Dovetti sbattere la porta, anche se poi facemmo la pace quando permisero a Feltrinelli di comprarne i diritti e ripubblicarlo». Ora l’editore è Rizzoli, da cui l’anno scorso è uscito il romanzo Il maestro magro e per la quale il giornalista del "Corriere" sta preparando un nuovo libro sul Cinquecento a cavallo tra Venezia ed Istanbul. Stilos lo ha intervistato riuscendo ad avere un appuntamento solo alle 7 di mattina di un giorno di fine luglio. Un libro annunciato, questo? Ci tenevo a farlo perché un giornalista onesto deve trovare le pulci a chi comanda. Come lo feci nel 2001 lo rifaccio oggi con questa sinistra. Fatta di qualche fuoriclasse, ma anche di molti ronzini. E soprattutto troppi galli che si alzano la mattina solo per il loro personale chicchiricchì fottendosene dello spirito di gruppo. Prodi lei lo mette tra i fuoriclasse o tra i ronzini? No, allora, capiamoci. Credo che le definizioni secche non abbiano alcun valore. Non le faccio. Non è giusto: le persone sono molto più complesse. Chi vuole legga il libro e ne tragga le conseguenze su questa o quell’altra persona. Ci basta la citazione che lei fa della definizione che ne diede Sergio Magliola, ex presidente Finsider: «Gronda bonomia da tutti gli artigli». Prodi a parte, allora quali sono i ritratti che le sono venuti meglio? Posso dire quelli che mi hanno divertito di più. Sono Franco Giordano di Rifondazione, di cui non condivido la politica ma è una persona umanamente ricca, seria e con interessi extra politici che mi fanno guardare a lui con simpatia. E Valerio Zanone, che credevo un noiosone e che invece è tutt’altro. Ma ora ci spieghi perché ha scritto questo libro. L’ho dovuto fare come seguito di un’o- G ALFIO SIRACUSANO autori italiani GIAN ANTONIO STELLA . Una galleria di uomini politici della nuova maggioranza parlamentare: quasi un atto dovuto e bipartisan dopo quella che raggruppò i leader del centrodestra in "Tribù Spa". Un ritorno alla nota giornalistica di attualità di un notista che freme per la narrativa IL LIBRO GIAN ANTONIO STELLA "Avanti popolo" pp. 268, euro 17,50 Rizzoli, 2006 Ritratti inediti in ordine alfabetico Avanti popolo è un insieme di ritratti inediti (non usciti su giornali) dedicati a capi, gregari e comprimari dell’attuale centrosinistra, ordinati in successione alfabetica. Capi del centrosinistra il catalogo è questo mio VIVE A MILANO. SCRIVE PER "LA STAMPA", "QUOTIDIANO NAZIONALE", "CAPITAL", "CLASS" E "STYLE" FRANCESCO RIGATELLI pera. Anche se non vedo l’ora di tornare ai romanzi. Poi qui, come in Tribu Spa, al di là dei singoli ritratti, c’è il tentativo di cogliere in ciascun personaggio un dettaglio per costruire un quadro d’insieme. C’erano due modi di raffigurare le contraddizioni e le delusioni date agli elettori dalla sinistra di oggi. Uno politologico-sociologico che analizzasse tutte questi aspetti. L’altro, quello che ho scelto, di proporre un ritratto collettivo. Lei che è un giornalista indipendente, seppure simpatizzi per la sinistra, ha trovato qualche difficoltà? La penso come Montanelli. Quando fondò "La Voce" disse: «Chiunque vinca gli faremo la guardia». Questo è quello che credo di fare io. Ma se lei dovesse definirsi, che direbbe? Sono un moderato di sinistra. Un liberale di sinistra, mettiamola così. Che dovendo scegliere tra certi scriteriati di sinistra e sobrie persone di destra come Helmut Kohl, penso voterei il secondo. Ma in Italia la destra è impresentabile quindi, almeno per ora, il problema non si è posto. Anche Montanelli, uomo di destra, scelse di votare la sinistra piuttosto che una coalizione con Bossi. Così a parti rovesciate faccio io. Ha citato Montanelli, il grande esempio quando si tratta di ritratti e incontri. Come si rapporta il suo lavoro a questo? Ho amato molto Montanelli. Soprattutto dopo averlo conosciuto e aver visto la sua umanità. I suoi ritratti sono impareggiabili. Nel mio piccolo cerco di disegnare il profilo collettivo di una sinistra che molto spesso sembra non avere niente in comune se non l’antiberlusconismo. Sull’Afghanistan gli otto sventurati che rifiutano ogni approccio di buon senso al problema sono un esempio di questo. Capisco la necessità di una democrazia e di una coalizione plurale, ma la nostra sinistra lo è troppo. Lei è noto per avere un grande archivio da cui coglie le citazioni per incastrare i politici quando si smentiscono. Per esempio scopriamo chi chiamò per primo «Piacione» Francesco Rutelli o quando Walter Veltroni spiegò a modo suo il comunismo: «Significa imparare che in autobus bisogna cedere il posto alle vecchiette» e ancora l’insospettabile vita mancata da camionista di Giuliano Amato: «Ero già inserito nella carriera universitaria quando mi decisi ad affrontare l’esame per la patente D». Come funziona? L’archivio è quanto di più personale ci possa essere. Come le mutande, le canottiere o i calzini. È assurdo pensare che volta per volta ci si possa rivolgere ad un archivio infinito. Quando devo scrivere ho poco tempo e ho bisogno di contributi specifici. L’archivio dev’essere organizzato in funzione della necessità. E preselezionato così da trovare subito ciò che serve. Il mio è contenuto nel computer e in tante penne Usb disperse nelle tasche di tante giacche. Anche il giornalista Marco Travaglio è un archivista. Che differenza c’è tra voi? Lui è un vero talento giornalistico. Spero passi l’ondata giustizialista di sinistra perché si sleghi. La sua definizione di giustizialista e cronista giudiziario è riduttiva. Lui è molto di più e molto meglio. Detto questo, non condivido tutto quello che scrive. A volte dissento. E credo che sia un peccato che lui carichi così gli articoli non dando spazio al grande giornalista che è occupandosi di più di ciò che non è giudiziario, inchieste, corruzione. Fermo restando che le sue battaglie di questi anni, compresa la denuncia di Onorevoli wanted. Storie, sentenze e scandali di 25 pregiudicati, 26 imputati, 19 indagati e 12 miracolati eletti in Parlamento (Editori Riuniti) non è solo condivisibile, ma sacrosanta. Il suo giornalismo può risultare più leggero di quello di Travaglio. Si sente un mielista? Devo molto a Paolo Mieli. Condivido buona parte della sua filosofia giornalistica. Però non sono… cioè mi sembra riduttivo anche per lui… cosa vuol dire mielista?. Prendiamo la polemica tra "Corriere della Sera" e "la Repubblica" con l’articolo di Giuseppe D’Avanzo contro le scelte giornalistiche di Paolo Mieli. Il mielismo è una storia complessa. Se è stare sulla notizia, arrivarci con un taglio personale, cogliere il presente diversamente, fare un giornale che abbia GIOVANNI RUSSO. Personaggi di una Roma d’antan l giornalista ha un privilegio e insieme un obbligo: il privilegio di poter osservare la realtà con l’occhio del cronista che ha facoltà di non tenere solo per sé quello che vede, e specularmente l’obbligo, quasi deon- realtà «interna» della cronaca romana tologico, di fare partecipi gli altri di frequentando i luoghi del suo mito - e quello che ha visto. Ne viene fuori qui per luoghi intendiamo anche le una specie di etica del registrare per «persone» che di quei luoghi furono memoria e del guardare il tempo per «maschere», attori recitanti nella comcategorie che trascendono il tempo, sì media dell’arte che è la vita. Regida costruire dentro le coordinate del strandoli nella brevità di istantanee proprio percorso di vita il percorso precise e all’apparenza disincantate, dei luoghi - in extenso intesi - in cui ma che messe assieme costruiscono un quadro compiuto: di una città che essa vita si è svolta. Può dirsi questo dopo aver letto il bel emerge dalle macerie della guerra e si libro che Giovanni Russo ha pubblica- costruisce a poco a poco una fisionoto con Rubbettino, Con Flaiano e Fel- mia internazionale che la rende non lini a via Veneto, fatto di brani assai dissimile da Parigi o da Londra, e che, mentre supera la spesso brevi che retorica immagiregistrano modi R e c e n s i o n i ne di sé come d’essere e aspetquinta del potere ti della città di GIOVANNI RUSSO fascista, non diRoma, oltre che "Con Flaiano e Fellini smette i suoi interventi su suoi a via Veneto" panni eterni di problemi anche pp. 210, euro 14 accomodante minimi, a partire Rubbettino, 2006 bonomia un po’ dagli anni Sespacioccona un po’ cinica, dove cultusanta fino a primi del Duemila. Venuto a Roma da Salerno giovanissi- ra anche di alto profilo e spirito inemo, ed entrato subito nella condizione sausto di carriera si incontrano e il del giornalista (del "Mondo", poi del calembour diventa la figura del disin"Tempo", oggi del "Corriere") con re- cantato galleggiare sul mondo del lativo obbligo e privilegio, Russo poté sempre visto, perché Roma è sempre sin dagli anni Sessanta osservare la Roma e a Roma-caput mundi tutto è I S t los C’era una volta via Veneto già avvenuto e tutto può ancora avvenire. Qui, tra le pagine del libro, avvengono cose minime, perlopiù (con le massime sullo sfondo), che hanno però il sapore del fabuloso se proiettate nella memoria retrospettiva di un salto epocale che comunque la città compì col dopoguerra. Perché la rifece, ampliandola di periferie, la nuova irresistibile immigrazione, che allargandone il perimetro ne ingigantì i problemi, e le diedero lustro i fasti di un fare cultura con parole e immagini che si arricchì della nuova centralità della città. Capitale e più che capitale. Ed è su questi versanti che Russo dà il meglio di sé: quando racconta i nuovi quartieri e la nuova umanità che li popola (ad esempio parlando dei co- Sopra Gian Antonio Stella, autore per Rizzoli di Avanti popolo. In basso Giovanni Russo, che da Rubbettino ha pubblicato Con Flaiano e Fellini a via Veneto una visione complessiva della società, allora io sono sicuramente mielista. Se invece l’idea di qualche sciocchino è che il mielismo sia mischiare insieme il morboso interesse per la politica e per il gossip allora io non sono per niente mielista. Ma non credo che il mielismo sia questo. Come lo racconta per chi come noi non ci ha capito granché l’ultimo scontro tra "Corriere" e "Repubblica"? Lavoro al "Corriere" da tanti anni però con "la Repubblica" ho un rapporto buonissimo. Sono stati molto generosi con me. E non ci voglio entrare in questa storia, devo essere sincero. Non mi sono mai appassionato alle lotte tra giornali concorrenti, sono insofferente all’autoreferenzialità di certi discorsi. L’unico sito che leggo di gossip è Dagospia. Giorgio Bocca lamenta: il difetto del giornalismo italiano è che non si fanno più inchieste. Questo un po’ è anche vero. Però non esagererei. Sì, i giornali si fanno sempre più il martedì per il mercoledì e questo chiude ulteriori spazi perché non crescono certo giornalisti inchiestisti se le inchieste non si fanno. Ma c’è gente che fa un ottimo lavoro: Marco Lillo e Peter Gomez su "L’Espresso", Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo su "la Repubblica", Paolo Biondani e Luigi Ferrarella, il più bravo cronista giudiziario italiano, sul "Corriere". Se poi mi si dice che non ci sono più inchieste del tipo: dove va la Jugoslavia all’inizio del terzo millennio, allora questo sì. Però rispondo: meno male! Stella, colpisce che un viaggiatore conservi il suo attaccamento alla terra natale. Come fa a conciliare il desiderio di attualità e il paesino dove vive? Non credo alla figura dell’apolide. Devi avere un posto dove tornare. Sto benissimo a Milano, a Torino. A Roma mi sento a casa mia, ancor più che a Milano. Poi faccio due spettacoli teatrali a settimane in tutta Italia. Da Lugano ad Agrigento. Due sull’immigrazione e uno sulla resistenza per documentare con immagini e musiche le storie che racconto nei libri. Ora stiamo per rispolverare contro il razzismo Neri, froci, giudei & Co. che abbiamo fatto una sola volta al Piccolo di Milano. Tutto è nato improvvisando un mix tra parole e musica con Gualtiero Bertelli al Teatro dei Leoni a Mira, che ha dato spazio ad attori come Osvaldo Paolini. Allora lei fa teatro e ora sta preparando un libro di storia sul Veneto. In più, ha confessato di aver scritto Avanti popolo perché doveva stangare anche l’altra metà del Parlamento dopo averlo fatto col centrodestra. Se no, probabilmente, avrebbe continuato la scia dei romanzi. Non è che si sta un po’ disappassionando dalla politica? Eh, insomma. Ci sono delle cose che deludono.Vedere Gasparri che dopo aver fatto per anni il liberista si schiera coi tassisti del tutto strumentalmente mi dà fastidio. Così come notare alcuni sventurati di sinistra prendere posizioni sballate sull’Afghanistan è noioso. In ogni caso, detesto chi non si assume le proprie responsabilità. E ce ne sono tanti, da una parte e dall’altra. munisti del Trionfale e della loro vita di sezione), o quando racconta i mitici caffè di Piazza del popolo (che vuol dire pioppo, populus alla latina) o di via Veneto, il Rosati il Canova il Cafè de Paris, o l’osteria di Cesaretto, o gli studi di via Margutta (da Margutte pulciano che morì dal ridere), dove si davano convegno i personaggi «in» della nuova Roma del cinema e della letteratura: Flaiano, Fellini, Mazzacurati, Moravia, Rotella e tutta la schiera dei giovani e a poco a poco non più giovani scrittori pittori giornalisti attori attrici che faceva da corte ai principi della battuta. Che poteva esprimersi in un sonetto romanesco di Antonello Trombadori o alimentarsi del gossip signorilmente elaborato sugli amori di questo o quella o esplodere nelle geniali invenzioni verbali di Mazzacurati (che di un pittore con qualche vizietto parlava di «latrin lover» e di Filippo De Pisis parlava come di un «incantatore di sergenti») o nella verve senza fine di Ennio Flaiano, che di sé diceva «mi spezzo ma non m’impiego» e con sottile disprezzo chiamava «diambuli» quelli che restavano estranei al fascinoso mondo notturno della «dolce vita» così come la si viveva in quella via Veneto di allora. Che Fellini, non diambulo e geniale inventore di immagini, vestì dei panni di Anita Ekberg che si immerge come una dea antica nella Fontana di Trevi. S C A F F A L E ALBERTO CASIRAGHY, Quando, pp. 81, euro 10,50, Book 2006 Novantanove aforismi «quieti e inquieti», con tre disegni, altrettanto quieti e inquieti, di Alda Merini, in questo libretto di Casiraghy, poeta, editore, pittore, violinista. Paiono, come disse Giuseppe Pontiggia, «una intersezione tra la leggerezza degli haiku, i frammenti moderni degli antichi e le invenzioni dei surrealisti». VALERIA MONTALDI, Il monaco inglese, pp. 459, euro 18,50, Rizzoli 2006 Ambientato nel chiaroscuro medioevale, il romanzo della Montaldi evoca gli intrighi dell’età comunale, tra monasteri dove si consumano inganni e crimini, streghe, raggiri, fughe, delitti. Tutto inizia quando in una notte del 1246 un incendio distrugge a Milano la casa di Guglielmo, rispettato mastro muratore che muore tra le fiamme insieme alla moglie. MARTA MORAZZONI, La città del desiderio, Amsterdam, pp. 138, euro 12, Guanda 2006 Si entra in questo libro e si scopre Amsterdam, così come va ancora scoprendola la Morazzoni, turista non più occasionale, che nella bellissima città olandese trascorre cinque giorni all’anno, cinque giorni che, anno dopo anno, aggiungono un tassello o rinforzano un passo della sua conoscenza della città. Una conoscenza, impreziosita di rimandi colti, che ci restituisce con una accattivante scrittura di viaggio. LUIGI MALERBA, Lettere ad Ottavia, pp. 86, euro 13,00, Archinto 2006 Malerba ci narra di Ottavia, che giunge a Roma capitale del cinema, provinciale ingenua ma bella, e vi si perde. Sono gli anni Cinquanta, popolati di registi famosi, colmi di imbrogli, cambiali e profittatori. Ottavia scrive undici lettere al suo fidanzato con sincerità infantile. Undici lettere inventate da Malerba che ne fa un racconto a puntate per chi è abituato ad un mondo raffinato e ingannevole che produce sogni e delusioni, divora tutte le cose belle e vomita il veleno di chi ci ha creduto. PIERO NEGRI SCAGLIONE, Questioni private, pp. 267, euro 21, Einaudi 2006 Il giornalista Scaglione ci offre una biografia accurata di Beppe Fenoglio. Nato ad Alba, figlio di un macellaio, alunno preparato e studioso, fu stimolato da chi credeva in lui a coltivare l’amore per la letteratura, il teatro e la poesia; tutto questo legato all’attaccamento alla sua terra. Dopo la guerra dovette lavorare non rinunciando agli studi. Scriveva tanto e, quarantenne, frequentava ragazzi divertendosi, raccontando barzellette e mimando i film. HANS TUZZI, Il maestro della testa sfondata, pp. 274, euro 8, Guanda 2006 In una notte fredda a Milano viene ritrovato il cadavere di un autista di autobus con la testa sfondata. Questo, nel suo tempo libero, lavorava presso un libraio trovato anche lui ucciso giorni prima. I due omicidi sembrano essere collegati ed il commissario Melis indaga nel mondo dei librai trovando la soluzione e rivelando i segreti della bibliofilia. Melis porta a termine un’accurata indagine nei salotti della Milano bene e nell’ambiente degli artigiani offrendoci il romanzo della città. Tuzzi è lo pseudonimo di uno scrittore italiano autore di due guide all’antiquariato e dei gialli del commissario Melis. AUGUSTO CAVADI, E, per passione, la filosofia, pp. 188, euro 16,50, Di Girolamo 2006 Una introduzione a una scienza che continua a riguadagnare interesse nel pubblico anche italiano: con un trattamento divulgativo che non si priva però di definire concetti con proprietà di linguaggio, l’autore (insegnante di filosofia in un liceo di Palermo) scrive una storia della filosofia sottraendo pesantezza. Forse però fin troppa. S t los segreti di Roma completa l’analisi approfondita dei luoghi del cuore di Corrado Augias, che dopo essersi occupato di capitali come Parigi, New York e Londra decide di raccontare la città dove è nato e ancora oggi vive. Augias non fa mistero di amare sia Roma che Parigi ed è per questo che nella capitale francese conserva una sorta di rifugio in un appartamento a Montparnasse. I segreti di Roma si può leggere come una raccolta di racconti e di aneddoti storici legati alla capitale. Non mancano i misteri e i delitti, dalla leggendaria fondazione da parte di Romolo e Remo per proseguire con gli eccidi di Lucrezia Borgia, dei nazifascisti durante la guerra di liberazione, sino al delitto Pasolini e ai fatti di cronaca nera dei tempi recenti. Nel volume non possono mancare i ricordi di Cinecittà come fabbrica degli incantesimi e di una Roma da Dolce vita. Troviamo la storia di un papato corrotto da potere temporale, nepotismo, lussi, vendita di indulgenze e perdita di valori cristiani. Ripercorriamo la storia della capitale attraverso i sonetti del Belli, le poesie di Pasolini, gli inni del Carducci e i monumenti che sono solo lo spunto per dare il via al racconto. Il volume è talmente denso di storie che è impossibile riassumere il contenuto. Augias ci consegna un’opera significativa per conoscere meglio la nostra capitale, compiendo un’opera di divulgazione storica che si richiama alla lezione di Indro Montanelli. Lo stile piano e accessibile è un punto di forza di un libro che è di facile lettura come un romanzo giallo, ma al tempo stesso è profondo come un documentato saggio storico. Stilos lo ha intervistato. Perché colleziona città? Le città sono il massimo concentrato di umanità esistente. Le città parlano con quello che c’è ma anche con quello che non c’è, a patto ovviamente di saper vedere anche ciò che manca. Saper leggere una città è una delle massime gioie conoscitive di cui disponiamo. Come mai da tempo preferisce la forma del saggio a quella del romanzo per raccontare la società contemporanea? È cominciato con Parigi dieci anni fa. Il libro ebbe un tale immediato favore che la voglia di continuare è stata irresistibile. Durante la mia vita professionale sono vissuto in varie città estere così ho continuato con New York, poi Londra e infine Roma, che è la mia città. Ricordiamo i suo romanzi che diventarono sceneggiati televisivi, la trilogia di Giovanni Sperelli… Volevano raccontare un periodo difficile della storia italiana? Volevano mettere insieme due predilezioni e due esigenze. Un thriller, più esattamente una trilogia di spy stories, e il racconto di un periodo storico che giudico fondamentale, il decennio che va dal 1911, cinquantenario dell’unità e data della guerra di Libia, al I IL LIBRO CORRADO AUGIAS "I segreti di Roma" pp. 422, euro 18,50 Mondadori, 2006 Manuale per l’uso della città eterna Non è una guida turistica né un libro di storia, ma un manuale di istruzioni all’uso della capitale, o meglio: una chiave di accesso nei «segreti» di una città nata per custodire misteri e schiudersi a esplorazioni collaterali e irregolari: dall’intrigante nascita di Romolo e Remo al delitto di Giulio Cesare fino agli eccessi dei Borgia per arrivare alle illusioni magiche di Cinecittà, il libro documenta la profonda conoscenza che Augias ha della sua città, e in questo senso è forse superiore a quel I segreti di Parigi che pure è stato da tutti ammiratissimo. CORRADO AUGIAS . Dopo Parigi, New York e Londra una storia sui generis della capitale d’Italia, anzi un trattato di geografia che si serve della storia per visitarla allo scopo di conoscerla dal di dentro. «Chi non conosce la città non sempre ha la vita facile. Parigi funziona meglio» La dolce vita di Roma al sapore di mystery VIVE A PIOMBINO. "SERIAL KILLER ITALIANI" (OLIMPIA, 2005). PROSSIMO "ALMENO IL PANE FIDEL. CUBA QUOTIDIANA” (STAMPA ALTERNATIVA) GORDIANO LUPI 1921, vigilia della marcia su Roma. Giovanni Sperelli come personaggio principale fu un divertimento: immaginare un fratello commissario di polizia per il dandy dannunziano Andrea Sperelli Fieschi d’Ugenta, protagonista del Piacere. Come è avvenuto il suo incontro con Parigi? La prima volta ci arrivai in autostop dopo la maturità. Fu amore a prima vista anche grazie alle molte letture fatte. Posso dire di aver coltivato la lette- sce presso Il Saggiatore un inte- PIERLUIGI PELLINI. ressante pamphlet su (contro) la Riforma Moratti firmato da Pierluigi Pellini, normalista, cervello in fuga per qualche anno, oggi (giovane) professore associato di letterature comparate. Il pamphlet è diviso in cinque parti. La prima contiene la dichiarazione di guerra: alla ministra, a VIVE A ROMA. RICERCATRICE cui, secondo le regole del genere, non DI LETTERATURA INGLESE A ROvengono risparmiati insulti («alla miMA TRE. "CAPODANNO AL TENnistra, è evidente, dell’università non NIS CLUB (SELLERIO, 2002) importa nulla»); alla sua Riforma («poche pagine, scritte in un italiano SIMONA CORSO alquanto approssimativo […], una bufala»); alla Crui e al suo presidente To- stato le poche e illusorie novità introsi, accusato di scarsa fermezza e tra- dotte dalla Riforma. Segue un capitoballante orgoglio; alla stampa, che, lo, al vetriolo, sui concorsi universitacome sempre, ha fatto una gran confu- ri, in cui l’autore dichiara che anche i sione e, con l’eccezione del "Sole 24 rimedi introdotti in questo ambito soore", ha mostrato di capirci assai poco; no peggiori del male. Il libello si chiuall’esercito di professori e ricercatori, de infine con un decalogo, in cui gli affetto da cronico spirito di rassegna- argomenti salienti vengono riassunti in dieci prescriziozione e tragico fani, alcune molto talismo. Segue una disamina dei R e c e n s i o n i specifiche, altre molto generiche. vari articoli di legPIERLUIGI PELLINI Condivisibile mi ge, arricchita da "La riforma Moratti non sembra l’assunto uno studio delle esiste" generale: che la varianti registrate pp. 91, euro 7 tanto famigerata nel passaggio dalIl Saggiatore, 2006 Riforma Moratti la bozza originadi fatto non cambi ria al testo definitivo. Nel passaggio da una versione al- granché le cose. Nonostante il gran l’altra Pellini vede un’inesorabile ca- polverone sollevato dalla stampa di duta dal male al peggio. La versione destra e di sinistra, le uniche due nofinale, in cui «le poche idee buone vità sono l’aumento del carico didattidella ministra» sono andate perdute su co e la reintroduzione dei concorsi pressione dell’opposizione, è descrit- nazionali per le prime due fasce di inta come un testo «mal scritto, tecnica- segnamento. Quanto al primo punto, mente confuso e politicamente abbor- temo che abbia ragione Pellini quando racciato». La terza sezione affronta il dice che le cose continueranno ad anben più difficile compito di avanzare dare come andavano: i professori coproposte alternative dopo aver conte- scienziosi seguiteranno a lavorare co- E Nella foto Corrado Augias, autore per Mondadori di I segreti di Roma ratura e la saggistica francesi quasi come quelle italiane. Parigi è una città meno bella di Roma, se vogliamo, dove però si vive meglio. Preferisce vivere a Parigi o a Roma? A uno che aveva scritto in una notina biografica «vive tra Parigi e Roma», un bello spirito rispose: allora vive in cima al Monte Bianco. Io vorrei riprendere la frase in senso proprio. La mia residenza è Roma ma vado a Parigi appena posso e ci resto quanto posso. Il suo rapporto con New York com’è? Difficile. Ci sono rimasto quattro anni e sarei potuto restare per sempre ma non ce l’ho fatta. Mi mancava l’Europa. Forse se ci fossi arrivato a vent’anni sarebbe stato diverso, chissà. E con Londra? Molta ammirazione, nessun affetto. Di Londra ammiro ciò che è e ciò che rappresenta. Gli inglesi nei loro rapporti interni sono stati maestri di tolleranza. Il discorso sui loro rapporti esteri, a cominciare dalle colonie, sarebbe diverso. La Gran Bretagna - includo anche Irlanda del Nord, Scozia e Galles - ha una letteratura grandiosa, dimostra ammirevoli modi civilizzati, una tenacia collettiva degna di ammirazione. Pregi e difetti di Roma. Roma, nella sua parte storica, è una delle città più belle del mondo. La cura che ne hanno avuto le ultime amministrazioni l’ha migliorata. Tralascio il discorso sulle periferie che comunque hanno anche conosciuto dei miglioramenti. Chi apprezza la bellezza a Roma ha di che colmare gli occhi, e Un pamphlet sulla nuova scuola Moratti, la riforma persa me facevano anche prima della legge, e quelli assenteisti troveranno il modo di aggirare il nuovo obbligo. Quanto alla reintroduzione dei concorsi nazionali, non sarei così catastrofica. Una commissione composta da cinque membri tirati a sorte (per quanto estratti da una lista eletta dai membri del settore) mi sembra sempre meglio di una commissione creata ad arte per un determinato concorso (leggi: un determinato candidato). Che poi i «baroni», come teme Pellini, troveranno comunque (oggi, come ieri, come domani) il modo di spartirsi i posti, dovrebbe essere materia di riflessione per gli storici del costume e per i sociologi, e per i neo-professori (i «baroni» di domani), prima ancora che per i politici. Giuste le critiche ad alcune incongruenze della Riforma: che, nonostante il professato impianto meritocratico, stabilisce «quo- C A T A L O G O Relativismo la logica di Gulliver te riservate» nei concorsi; ventila l’abolizione dei concorsi per ricercatore, salvo poi differirla di 12 anni (!); crea una gran confusione tra varie categorie di «professori» a vario titolo: quelli per contratto, quelli per regolare concorso, quelli retribuiti, quelli a titolo gratuito, quelli chiamati «per chiara fama», eccetera eccetera. Ottime mi sembrano inoltre alcune proposte avanzate dall’autore: ridurre drasticamente i settori scientifico-disciplinari; fissare a 65 anni il limite massimo d’età per tutti, sì da consentire il ricambio generazionale; introdurre la mobilità dei docenti (l’immobilismo uccide la ricerca); aprire le porte dell’università agli stranieri. Accattivante (anche se ahimè lontana) mi sembra la proposta di modificare drasticamente il reclutamento, introducendo il modello anglosassone dell’assunzione, su decisione del diparti- MARCO AIME "Gli specchi di Gulliver" pp. 98, euro 12 Bollati Boringhieri, 2006 Il relativismo è fonte di diversità e smarrimento dell’identità o è mezzo di comunione con l’altro? Aime indaga il tema assumendo Gulliver: che non vuole sottomettere il popolo straniero né conquistarne la terra, ma è curioso di conoscere e vuole capire. la mente. Chi non conosce la città non sempre ha la vita facile. Da questo punto di vista Parigi funziona meglio, le amministrazioni pubbliche per esempio e i trasporti sia urbani sia interregionali. Uno dei capitoli più intriganti del suo libro è quello che descrive la congiura contro Giulio Cesare. La scena delle ventitré pugnalate è descritta con lo stile del narratore noir più che con il distacco del saggista. Un’altra parte da romanzo horror è quella che descrive Cesare Borgia detto il Valentino mentre uccide il giovane Perrotto. Sembra di vedere quel sangue che salta in faccia al papa e che gli macchia di rosso la tonaca bianca. Sono passaggi voluti o la passione per il delitto le ha preso la mano? L’omicidio di Cesare è l’archetipo di ogni delitto politico. Preparazione, esecuzione, conseguenze. Sono contento che si giudichino quelle pagine degne di un racconto noir. Infatti la mia intenzione è proprio questa: raccontare la storia vera, ciò che è veramente accaduto (per quanto ne sappiamo) invece di una storia creata dalla fantasia del narratore, sia pure contro uno sfondo reale. Aver abbandonato per ora i romanzi non mi ha fatto dimenticare la gioia di poter narrare. Da cosa deriva il suo interesse per delitti e misteri? Questa domanda mi è stata fatta molte volte. La mia risposta, chissà se è vera, è che rimasi molto impressionato da adolescente dalla lettura dei Tre moschettieri. Quel romanzo mi sconvolse, per molto tempo quasi non riuscii a pensare ad altro. Quell’impressione profonda derivava, ritengo, dal sapiente impasto che c’è nel libro tra avventura, erotismo, storia, ardimento, bene contro male. Un suo libro che non ho letto (ma che mi procurerò presto, anche perché sono livornese) è la biografia romanzata di Amedeo Modigliani. Cosa la affascina nella vita di questo geniale pittore? Più che fascino curiosità. Cercare di sapere che cosa successe a Modigliani quando arrivò a Parigi e si ridusse a diventare un povero ubriacone, lui che era un figlio educato e ben vestito della buona borghesia ebraica livornese. Credo di aver risolto l’enigma. Quando Amedeo sbarcò a Montparnasse capì che tutto ciò che aveva fatto fino a quel momento non serviva a niente e che doveva cominciare daccapo. Ci mise più di dieci anni. Perché è così difficile parlare di libri e fare programmi culturali in televisione? Non è così difficile. Basta sapere che si parla a nicchie di spettatori ed essere pronti a pagare le conseguenze in termini di ascolto. Quali sono i suoi programmi per il futuro come scrittore, giornalista e conduttore televisivo? Continuare a fare quello che faccio, finché potrò, in tutti i sensi. mento, tramite titoli e colloquio. Tale riforma dovrebbe essere abbinata al divieto drastico di carriere interne, che del resto è la regola nelle università americane. Sacrosanto mi sembra l’appello di Pellini a lanciare una politica seria di borse di studio per gli studenti meritevoli ma privi di mezzi economici, e un piano di miglioramento delle strutture universitarie. L’autore non si pronuncia però sui mezzi attraverso cui reperire il denaro; e qua e là ripete che un’università indipendente è un’università finanziata prevalentemente dal denaro pubblico. In un articolo apparso sul "Sole 24 ore" del 19 maggio Luigi Zingales propone la sua formula (liberistica) per risollevare l’università italiana: aumentare le tasse universitarie, istituendo borse di studio per gli studenti bravi ma senza risorse, e prestiti (statali) per quelli senza risorse anche se meno bravi; e garantire a ciascuna università totale autonomia, finanziaria e didattica. «Solo quelle che offriranno un servizio superiore al costo conclude Zingales - saranno in grado di sostenersi con i proventi delle rette. Le altre si adegueranno o chiuderanno, con grande beneficio della collettività». Quella di Zingales è una provocazione, che prendere alla lettera sarebbe deleterio, ma sui cui forse è necessario riflettere. Credo che i fautori, come Pellini, di un’università moderna, meritocratica, aperta ai giovani e agli stranieri, non possano ignorare la provocazione di Zingales, che del resto insegna in una di quelle università (la University of Chicago) a cui in molti guardiamo con invidia. pagina 7 Finisterre autori italiani ARNALDO COLASANTI IL CAPPELLO DI MAGRIS Le sale del monastero di Pedralbes, a Barcellona, sono larghe e imponenti ma anche rattrappite da un brivido gotico, come se fossero unghie che s’incarniscono sotto la roccia del monumento. Lì (che è anche una bellissima sezione del fondo Thyssen-Bornemisza), giravano lenti un padre e un figlio, lui settantacinque anni, piccolo di statura, dall’eleganza semplice e pulita, e l’altro forse già cinquantenne, con un che di goffo e di infantile, a volte delicatamente tenuto per mano. Avevano il passo discreto, ma con un muoversi sicuro. Erano visitatori, come colui che li sta guardando (uno scrittore italiano) e che racconta questa storia. I due passavano davanti al Beato Angelico e poi di fronte alle ombre cupe di Antonio Anselmi, il ritratto di Tiziano, mentre il padre, quasi sussurrando, stava lì a spiegare quel quadro o quella luce, mentre forse il ragazzo invecchiato si distraeva un po’, fissando il canarino in fuga nel Ritratto di una dama di Pietro Longhi. Il figlio comunque sta a sentire. Accenna con la testa (scrive Claudio Magris, l’osservatore) e «ogni tanto mormora qualcosa». È bello vedere la loro familiarità: ma è anche strano, acquisita un che di ridicolo, il fatto che un padre vecchio stia ancora lì ad insegnare ad un bambino avvizzito, cinquantenne, con gli occhi vacui. Magris deve aver sorriso e forse deve aver cacciato via come una mosca quel piccolo imbarazzo. Se ne sarebbe andato alla sala successiva, lasciando quella coppia fuggita da una pagina di Azorin, se non fosse accaduto questo che racconta: «Giunto davanti al Ritratto di Marianna d’Austria, regina di Spagna, si china per leggere il nome dell’autore, poi si rizza si scatto e, rivolgendosi al figlio, gli dice, in un tono di voce un po’alto: Velàzquez! e si toglie il cappello, alzandolo il più possibile». Un padre insegna per tutta la vita: la sua gioia basta alla gioia del figlio. Ora li vediamo bene: i suoi occhi tondi e vuoti sono quelli di un ragazzo gravemente Down; sono gli occhi di chi non ha niente, se il sorriso innamorato di un padre. Due persone si bastano, scrive Magris, «come si basta l’amore». Il togliersi il cappello è un gesto regale: il dolore non stronca più, non inacidisce il tempo della vita. Un miracolo basta, anzi sovrabbonda alla felicità dell’esistenza. Mentre racconto questa storia (e siamo al Todi Arte Festival, sto presentando L’infinito viaggiare) Magris mi guarda. Sembra incuriosito (troppa intimità!, in fondo è solo una presentazione di un libro e poi d’estate! non se l’aspettava il ricordo di questa paginetta) ma è felice. Stringe un po’ le palpebre, mi parla senza parole, sta zitto. Ma con lo sguardo dice a noi tutti quello che, come scrittore, sta raccontando da un po’di anni. Ecco, lo Spirito soffia dove vuole e nessuno sa da dove il mondo riconquisterà il senso. Ma l’uomo spera. Come l’ebreo di Roth, ogni uomo ha in sé il privilegio di essere una creatura «eternamente illesa» e sta lì, nella vita, a brucare quel po’di erba, fiutando sulla nuca la luce del sole. Siamo tutti ciechi. Per questo pensiamo: e l’amore è una luce nera e brunetta. La sala comunale di Todi è piena. La gente ha capito. Se non sarebbe buffo, mi immagino che tutti oggi indossino un cappello, chi tondo, chi piccolo, chi immenso. Ma solo Claudio Magris sembra adesso toccarsi con le dita le falde. Ma sì: si sta togliendo la bombetta, alzandola il più possibile. Ringrazia regalmente la vita. Claudio Magris, L’infinito viaggiare (Mondadori) 8 L ’ Europa finisce con il Mare Nostrum o continua oltre il Mediterraneo trovando propaggini naturali nei Paesi oltremare? Scommettendo sul senso asseverativo della domanda un gruppo di studiosi italiani, coordinati da Alessandro Barbero, hanno messo mano a una storia che non solo comprenda quell’entità ancora oggi non del tutto definita che è il Vecchio Continente ma che si estenda addirittura alle altre ed estranee civiltà dirimpettaie: un viatico forse in vicinanza del libero scambio o il ripristino di quel libero scambio che si riconosceva nell’antica lingua comune del sabir. Il programma si concluderà nel 2010, al ritmo di tre volumi l’anno per un totale di quindici e si intola appunto Storia d’Europa e del Mediterraneo (Salerno Editrice). Una nuova sintesi storica, ancorché autorevole, può sembrare velleitaria, e tuttavia le premesse contenute nella presentazione di Barbero sembrano di stimolante attualità, e non mancheranno di far discutere. La storia, del resto, non deve anche (o forse soprattutto) far discutere? Chiarendo sempre più il passato per illuminare sempre meglio il presente? Stilos ha intervistato Barbero, autore di numerosi libri di storia, fra cui per ultimo 9 agosto 378. Il giorno dei barbari (Laterza, 2005). In tempi di globalizzazione, tra chi crede che si possano esportare con la forza i sistemi politici e chi paventa o propugna scontri di civiltà, giovano le grandi sintesi storiche? Non rischiano di essere onnicomprensive, e quindi di giustificare tutto? Io direi che le grandi sintesi giovano soprattutto in quanto smontano il passato e ne mostrano la complessità, contrastando l’idea dominante che la storia sia a senso unico o che comunque ci sia una civiltà, una razza, una religione in qualche modo predestinata a trionfare. Quale ruolo può svolgere la storia nell’attuale dibattito politico-culturale? La storia oggi è indispensabile per contrastare certe derive che s’intravvedono fin troppo bene. Serve a capire che la civiltà occidentale, come la conosciamo oggi, è il frutto di uno sviluppo faticoso, contraddittorio, esaltante ma anche tragico; a creare consapevolezza degli errori commessi in passato, aiutando, magari, a non commetterli più; a relativizzare convinzioni e valori (il che non significa assolutamente azzerarli, ma avere coscienza di come si sono costituiti, e avere rispetto per chi, attraverso un percorso diverso, è arrivato a convinzioni e valori in parte diversi). Insomma serve a creare persone consapevoli di com’è complessa la realtà umana, attrezzate per non cadere vittime della propaganda e delle semplificazioni, rispettose della diversità. Mi pare di aver capito, dal piano dell’opera, che una delle idee portanti sia che le cosiddette «identità» debbano fare i conti con le infinite occasioni di meticciato che i fatti storici hanno prodotto nel corso dei secoli. È così? Direi di sì, anche se naturalmente non voglio cadere in una prospettiva falsamente rassicurante, politically correct, pretendendo che il meticciato sia sempre e soltanto un fattore positivo. Può esserlo, ma può essere anche causa di insicurezza e di destabilizzazione, e far finta che non sia così non è il miglior modo per affrontare i problemi posti, ad esempio, dall’immigrazione. Il punto cruciale su cui l’approccio storico è indispensabile, e può davvero aprire gli occhi, sta nel fatto che la storia ci fa toccar con mano come le identità collettive, etniche o religiose, siano in realtà costruite, manipolate, negoziate, e soggette a trasformarsi nel corso del tempo. Non sono dei dati «naturali» e appunto «dati» una volta per tutte: le nazioni nascono e scompaiono, e nel corso della loro esistenza spesso si creano delle mitologie e reinventano la propria identità; Šlovskij C preso A in parola Nella foto Alessandro Barbero, che per la Salerno sta curando l’opera di quindici volumi Storia d’Europa e del Mediterraneo IL LIBRO ALESSANDRO BARBERO (cura) "Storia d’Europa e del Mediterraneo" Collana in quindici volumi Salerno Editrice, 2006 Così si coniugano civiltà contrastanti Quindici volumi per un’opera monumentale che assume uno sguardo unico sul Mediterraneo, coniugando vicende e culture diverse e a volte contrastanti. Un progetto ambizioso che dall’età antica arriva a quella contemporanea riepilogando cinquemila anni di storia e rintracciando filiazioni, processi storici e saperi comuni. ALESSANDRO BARBERO . «Se una delle sfide di oggi è il confronto fra il Nord e il Sud del mondo, il Mediterraneo è chiaramente una delle frontiere calde in cui va in scena questo confronto. Ecco che vale la pena di riscoprire come le civiltà che oggi si fronteggiano abbiano in realtà una lunga storia comune» Il pluri-Mediterraneo ha una sola filiazione VIVE LENTINI. "LA PIAZZA ROSSA" (RUBBETTINO, 1999), "LA PIAZZA NEGATA" (RUBBETTINO, 2000), "I FILI STRAPPATI" (IRIDE, 2006) A ALFIO SIRACUSANO come le religioni mutano nel corso del tempo. La storia è un immenso serbatoio di esempi di questa continua trasformazione, reinvenzione e (qualche volta) anche cinica manipolazione delle identità collettive: conoscerla significa immunizzarsi contro il pericolo più grave che corre oggi l’umanità globalizzata, cioè l’esasperazione delle contrapposizioni e la tendenza a lasciarsi manipolare da chi predica soluzioni sbrigative. Per Umberto Eco, per ogni problema complesso c’è una soluzione semplice, ma è sbagliata. E io aggiungo che proprio la storia offre continuamente la dimostrazione di questa verità. Perché è importante rispondere alla domanda «cos’è l’Europa»? E perché non lo è solo per noi europei? Perché oggi la risposta a questa domanda non comporta solo conseguenze teoriche, può influenzare scelte politiche da cui dipende il futuro di tutti noi. Ed è importante non solo per noi europei, perché non è affatto ovvio che cosa voglia dire «noi europei». Studiare la storia millenaria dell’Europa significa accorgersi che essere europei ha voluto dire cose diverse da un’epoca all’altra; che non c’è mai stata una precisa coincidenza fra l’idea di Europa e la realtà geografica del continente (i cui confini, com’è noto, non sono affatto precisi neanche da un punto di vista strettamente geografico); e che insomma chi non è europeo oggi potrebbe benissimo esserlo in futuro. Il che ci ricollega alla domanda precedente, alla fluidità di identità che nel corso dei secoli sono sempre state rinegoziate... Premesso che la civiltà romana si sviluppò attorno al mediterraneo, che la rottura vera rispetto ad essa si ebbe con la crisi della sua funzione di cerniera nord-sud, e che il pro- ENZO ROGGI "Le autoblinde del Formalismo" pp. 144, euro 13 Sellerio, 2006 È una conversazione del giornalista Roggi, che è stato corrispondente de "l’Unità" a Mosca negli anni dal 1966 al 1970, con Viktor B. Šlovskij, il massimo rappresentante del formalismo russo. Questa lunga intervista, rilasciata nel 1968, all’apice del dissenso dopo i fatti della Cecoslovacchia, è divenuta un’autobiografia politica umana e intellettuale del teorico russo, ma anche una storia della cultura sovietica. blema dei rapporti con l’Islam riporta in primo piano questo bacino, qual è oggi, o quale dev’essere, il ruolo di questo mare? Può essere centro di una nuova ecumene? Oggi siamo più prudenti di quanto non lo fossero i Romani nell’usare il termine «ecumene»: loro credevano che il mondo finisse alle colonne d’Ercole, noi sappiamo che l’Europa e il Mediterraneo sono solo uno degli ambiti trainanti d’un mondo globalizzato in cui, poniamo, il Nordamerica o l’Asia orientale hanno un ruolo almeno altrettanto importante. Ma certamente, se una delle sfide di oggi è il confronto fra il Nord e il Sud del mondo, e se il nostro futuro dipende dalla capacità di indirizzare questo confronto verso l’integrazione anziché lo scontro di civiltà, ebbene, il Mediterraneo è chiaramente una delle frontiere calde in cui va in scena questo confronto. Ecco che vale la pena di riscoprire come le popolazioni e le civiltà che oggi si fronteggiano a Nord e a Sud del Mediterraneo abbiano in realtà una lunga storia comune. Ovviamente anche in questo caso bisogna evitare la visione strumentale, politically correct, che insiste soltanto sulla fecondità degli scambi reciproci: il confronto è stato nei secoli anche lotta feroce; ma quello che conta è che c’è comunque una storia in comune, e c’è dunque uno spazio condiviso su cui è possibile pensare di costruire un futuro. Spiluccando tra le anticipazioni: la Roma italica viene raccontata dentro la prospettiva delle poleis greche, e solo in seguito se ne individua il significato universale, come di una Ecumene che si proietta per secoli. Vuol dire respingere a priori l’ideo- logia della «diversità» e quindi della «superiorità» romana? Cominciamo dal generale, per poi tornare al caso particolare di Roma. Che cos’è la superiorità? Non si può negare che vi siano (come in passato) paesi o civiltà più ricchi e altri più poveri, più potenti militarmente oppure meno potenti. Personalmente mi spingerei anche ad affermare che spesso i paesi più ricchi e più potenti hanno anche una società più complessa e articolata, che è al tempo stesso causa ed effetto della loro superiorità economica e militare. Quello che bisogna evitare, è credere a) che questi paesi siano perciò anche moralmente superiori, e b) che la loro superiorità sia inevitabile e derivi dal fatto che sono abitati da una razza superiore; queste sono due mitologie pericolose quanto ricorrenti, di cui la storia dimostra facilmente l’assoluta vuotezza. I fattori che portano alla crescita di un paese e magari alla sua trasformazione in potenza mondiale sono tanti, complessi, magari anche contraddittori, e il lavoro dello storico consiste nel rivelarne l’intreccio senza credere che dati biologici o destini manifesti dovessero produrre questo risultato. Detto questo, la scelta di trattare le origini di Roma e la sua prima espansione all’interno dei volumi di storia greca rispecchiava, in origine, semplicemente la realtà: la Roma dei secoli VIII-IV era una polis italica che aveva ripreso, con un certo successo locale, il modello imposto su scala mediterranea dai Greci, e ha senso studiarla solo all’interno di quel contesto; la separazione fra storia greca e storia romana come se fossero due ambiti distinti (e, nella testa della gente, anche successivi cro- Senso vietato di Massimo Onofri Il mio Paese L’Italia invero è una nazione Proprietà di un testo letterario da Libero a Liberazione FRANCO BRIOSCHI "La mappa dell’impero" pp. 257, euro 11,50 Net, 2006 Se sia possibile definire la letteratura e individuare le proprietà specifiche di un testo letterario: di ciò si discute in questo libro che riappare a oltre vent’anni dalla prima edizione. Nonostante gli anni trascorsi il testo di Brioschi che ha insegnato Critica e teoria della letteratura e Stilistica e semiotica del testo all’università di Milano appare ancora attuale, segno della validità del sistema delle teorie letterarie. Lettere ad un amico nologicamente!) è irrazionale e antistorica; allo stesso modo, la Roma ecumenica è tale solo grazie alla simbiosi con la civiltà ellenistica, che le fornisce gran parte dell’attrezzatura intellettuale indispensabile per dominare il mondo - tanto che oggi gli storici più attenti cominciano a parlare di «impero greco-romano» (titolo di un recentissimo libro di Paul Veyne). La nostra è stata dunque una scelta puramente scientifica: ma sono molto contento se, come la sua domanda mi fa capire, può anche essere letta in una più generale chiave programmatica, di demitizzazione di tutte le pretese fatali necessità storiche. Nella sua introduzione affiora il mistero dell’influenza ebraica: «un popolo minuscolo, spesso vinto e dominato da conquistatori stranieri... tuttavia capace di dar vita a una concezione religiosa cui oggi aderisce , sotto forma delle tre grandi religioni monoteiste, la maggioranza dell’umanità». Ma questa influenza sarebbe stata tale se non si fosse aggiunta, forse con effetto moltiplicatore, alle altre: la filosofia greca e l’arte statuale romana? No certo, e questa è precisamente la dimostrazione di quello che ho tentato di dire prima: nello sviluppo storico non ci sono né esiti inevitabili né cause uniche (che sono i due principali fraintendimenti di chi non è abituato agli studi storici), ma sempre un intreccio di fattori che produce risultati inaspettati. Solo a cose fatte diventa possibile districare i fili, e capire come si è arrivati a quei risultati. E allora si corre il rischio di pensare che a quei risultati si dovesse arrivare per forza, che una qualche legge o necessità storica li abbia prodotti: ma se così fosse, se davvero ci fossero delle leggi e delle necessità scientificamente riconoscibili, gli storici saprebbero predire il futuro, mentre com’è noto non lo sanno fare per niente... Mi pare di aver colto una tesi molto suggestiva tra i fondamenti della collana: che l’Islam dei primi secoli fu una continuazione del mondo antico nel versante meridionale del bacino mediterraneo non meno entusiasta di quanto avvenne nell’Europa continentale cristiana. Abbiamo insomma, occidentali e non occidentali, le stesse radici. Se vogliamo restare ai fatti e non fare propaganda. Questo è un aspetto su cui insistiamo tanto più in quanto è del tutto estraneo alla cultura dell’uomo della strada, che percepisce il mondo arabo e islamico come totalmente alieno. Ma anche chi ha studiato spesso si limita a ricordare che i filosofi arabi nel Medioevo ci hanno trasmesso le opere della filosofia greca senza trarne poi conseguenze più ampie. Il fatto che gli arabi fossero uno dei popoli dell’impero romano; che l’Islam sia al limite una variante della tradizione ebraicocristiana (per i teologi medievali i musulmani erano eretici e non pagani); che l’impero arabo, e poi quello ottomano, si siano organizzati sul modello dell’impero romano; e che il pensiero greco sia all’origine di tutto il pensiero arabo - ecco una serie di fatti storici ovvi, notissimi agli specialisti, ma piuttosto sorprendenti per il sentire comune. Poi, naturalmente, anche qui bisogna stare attenti: le radici comuni non sono tutto: quanto contano le radici nella costruzione di un’identità che ormai dura da millenni? Accanto alle radici comuni ci sono altre esperienze fondanti che il mondo cristiano-occidentale e quello islamico non hanno condiviso (l’Illuminismo, per fare un esempio), e altre ancora che li hanno visti schierati su fronti opposti (le crociate, il colonialismo). L’importante, allora, è semplicemente capire che l’attuale sensazione di estraneità, anzi di opposizione frontale, fra Occidente e Islam non è inevitabile, non è dettata dall’essenza originaria di queste due civiltà, ma è il frutto di un percorso storico accidentato, e come tale è soggetta a possibili, futuri mutamenti. ANNA M. ORTENSE "Alla luce del Sud" R. Prunas e G. Di Costanzo (cura) pp.143, euro 16 Archinto, 2006 Anna Maria Ortense scrive delle lettere al suo amico Pasquale Prunas confidandogli i suoi progetti, le inquietitudini e la sua vissuta povertà. Chiede di collaborare al suo giornale "Sud, giornale di cultura" nel ’46. In quegli anni scrive il suo libro più famoso, Il mare non bagna Napoli: lei non l’aveva vista ed era il suo amico Prunas a dirle come erano realmente e storicamente le cose. La Ortense figura oggi tra i maggiori autori del Novecento. Diogene pagina T A L O G O S t los autori italiani SOSSIO GIAMETTA LA LOGICA E L’ISTINTO Dato un festival di filosofia sull’instabilità (Roma, 11-14 maggio), tirar fuori il responso nietzschiano: «L’uomo è l’animale non ancora stabilizzato». Che, come al solito, è accettato acriticamente. Cioè senza vedere lo schopenhauerismo mal digerito e il darwinismo che, nonostante la ripulsa di Darwin, Nietzsche si trascina dietro, come il fantasma che si aggirava allora per l’Europa. La differenza fra l’uomo e l’animale è fatta da Schopenhauer. L’animale reagisce agli stimoli quasi meccanicamente, perché inchiodato dai suoi istinti. L’uomo invece con libertà, si dice, perché non ha istinti fissi. Certo la differenza di reazione è immensa. Ma a causa della libertà nell’uomo? Nel Breviario spirituale ripubblicato dalla Utet Martinetti osserva che l’attività umana ha origine istintiva anche quando sembra razionale, perché in questo caso la ragione serve l’istinto. Niente libertà allora? Qualcosa c’è. «Ogni giorno porta con sé le sue esperienze e ciascuna è la condanna di un’illusione, un ammaestramento che dissipa un errore». L’uomo non può fuoruscire dall’orizzonte in cui la sua natura, origine, condizione, educazione lo rinchiudono, ma va tanto più verso la libertà, la saggezza, la ragione, quanto più va verso l’unità dello spirito, si eleva a un punto di vista universale, acquista stabilità nel pensiero e nell’azione. Per aspera ad astra. Ma non aveva detto Nietzsche stesso che la spiritualità è solo l’affinamento degli istinti? E parlare di pulsioni invece che di istinti non cambia le cose. La libertà-instabilità dell’uomo, si dice, è inquietante perché non consente di prevedere i comportamenti. Invece, se si conosce una persona, si sa come si comporterà in una data situazione, il debole debolmente, il forte fortemente, Jago slealmente, Otello passionalmente. Per mancanza di codici istintuali l’uomo si sarebbe dato codici logici e codici morali. Che accozzamento! I codici istintuali non mancano affatto, come abbiamo visto, e quelli logici e morali hanno origini logica e morale. Non mirano a sopperire all’instabilità ma all’eccessiva stabilità istintuale, all’animalità con l’umanità, nell’uomo e negli animali, se questi hanno coscienza, come Lorenz crede fermamente. «La logica, ideata in ambito filosofico e applicata in ambito scientifico, è stata la prima forma di stabilizzazione del pensiero e del linguaggio che ha consentito agli uomini di intendersi e di comunicare tra loro» dice Galimberti ("la Repubblica" 5.5.06). La logica? No l’istinto che muove la fantasia. La logica, ideata in ambito logico e applicata sia in filosofia sia in scienza, in quanto favorisce l’individualità, crea differenza e instabilità, contrasto e conflitto. Si veda se i filosofi, specialisti della logica, vanno d’accordo fra loro. Le morali, in particolare, come le religioni, non riducono gli spazi conflittuali ma li accrescono. La mancanza di un rigido codice istintuale metterebbe a rischio gli uomini. Ha messo a rischio soprattutto gli animali, su cui l’uomo ha affermato un potere assoluto, anche di giocarci e di maltrattarli, secondo Spinoza. È vero invece che l’età della tecnica costringe a una stabilità di pessima lega, cioè a condizionamenti sempre più pesanti. Sempre però a ridosso del maggiore benessere che procura in primo luogo. Sicché bisogna cercare di correggerne gli effetti infausti, ma non si può eliminarla, neanche volendolo (e sarebbe follia). S t los autori italiani PATRIZIA DANZÈ on è facile viaggiare bene: è quello che abbiamo detto io e Corrado Ruggeri quando abbiamo deciso di scrivere questo libro, perché bisogna soprattutto ricominciare a pensare di viaggiare». Folco Quilici, gran viaggiatore in tutto il mondo, parla del libro che ha scritto insieme con Corrado Ruggeri, romano, caporedattore del "Corriere della Sera", viaggiatore anche lui per passione e per lavoro. Sì, viaggiare non è un manuale, né solo un libro di consigli per il viaggio, ma è comunque un testo/guida da leggersi prima di affrontare un viaggio, il nostro primo viaggio o l’ennesimo di tanti itinerari. Come viaggiare? e dove andare? Con chi partire e quando andare via? Cosa ha tolto al viaggio la globalizzazione e cosa gli ha regalato? E come una coppia di viaggiatori, che il mondo l’hanno attraversato, assaggiato, vissuto in mille modi, anche estremi, può dare consigli al viaggiatore medio che dà per scontata la sua vacanza? Stilos ne ha parlato con Quilici. Lei viaggia da tanto tempo nei cinque continenti e ha visto da vicino tante cose; è dalle sue esperienze che è nato questo libro? Devo dire prima di tutto che i continenti sono sei; sin dal mio primo film ho infatti battezzato così il mare e tanti poi lo hanno riconosciuto giacché è veramente un continente a sé. Per ritornare al libro, esperienze a parte, la spinta è stata l’aver conosciuto Corrado Ruggeri, con cui l’ho realizzato. Siamo entrambi viaggiatori accaniti, avvelenati e inguaribili; lui, viaggiatore con lo sguardo del giornalista, col piglio moderno di chi ha visitato più di settanta paesi e scritto reportage da tutti i continenti, io con lo sguardo antico e profondo di chi viaggia per scoprire le radici dei popoli, le caratteristiche etniche, le tradizioni. Dare consigli non è facile, soprattutto quelli per i progetti più audaci: cosa consigliate dunque a chi vuole mettersi in viaggio? I consigli sono tantissimi e sono stati concepiti liberamente, un po’ dove ci portava il discorso: dai consigli pratici e provocatori di non mettersi in viaggio con le valigie, tanto arrivano dove non si vuole o non arrivano affatto, a quelli più polemici e forse più discutibili, di non leggere da una guida scritta le informazioni sul paese dove si andrà, ma di scoprirlo e lasciare spazio alle sensazioni, alle emozioni per viverlo e, casomai, leggere al ritorno e non da guide «tecniche», da freddi manuali, ma da saggi, romanzi, reportage che sicuramente danno dei luoghi una visione più vera di quella realistica delle guide turistiche. I consigli vanno da come sopportare una vacanza forzata in campagna, magari per motivi di salute, a come sopravvivere a quella cosa terribile che sono i villaggi turistici, fermo restando che poi anche quella vacanza può rivelarsi utile, a viverla con una buona dose di autoironia. Ma soprattutto il consiglio principale è sapersi adattare al paese in cui si va e non cercare di portarsi dietro i propri pregiudizi e voler affermare le proprie abitudini. Il libro che lei ha scritto in collaborazione con Ruggeri vuole essere non solo un invito a muoversi, a vedere, a scoprire, ma anche un’affermazione di libertà. In che senso? Il mondo moderno sembra ci voglia condizionare con mille paure, con la guerra continua sulla scena mondiale, con gli attentati, con gli stati canaglia e, paradossalmente, sembra bloccarci « N FOLCO QUILICI . Suggerimenti preziosi di un viaggiatore impenitente e instancabile: non soltanto su come comportarsi all’estero ma soprattutto sullo spirito di cui dotarsi per spostarsi nel mondo e preferire lasciare il gruppo saltando un museo ma conoscendo la gente da vicino Istruzioni di viaggio allo scopo di perdersi e limitarci nel viaggiare nonostante oggi un maggior numero di persone viaggi perché viaggiare è diventato più facile per tutti, per alcuni punti di vista. Quando ero giovane potevo girare per l’Afghanistan tranquillamente; si veniva accolti amichevolmente, si potevano ammirare paesaggi splendidi, opere d’arte e aree archeologiche. Certamente oggi si può viaggiare meno di quando ero ragazzo, per due ragioni: sia perché, a parte i paesi in guerra, ci sono dei paesi veramente impraticabili, come la Colombia e il Brasile, dove ci sono «guerre» di altro tipo; sia perché c’è il pericolo dei viaggi organizzati, che sono molto comodi economicamente ma condizionano il viaggio perché impediscono di vivere il viaggio autenticamente. Viaggiare è un obbligo per chi ama la libertà, è questa la cosa basilare; e più ci capiamo con la gente che incontriamo altrove, più siamo liberi. Abbiamo il dovere di viaggiare perché abbiamo il dovere di conoscere e di essere liberi. Uno dei gusti del viaggio è anche quello un po’ di perdersi. Come bisogna «perdersi» in un viaggio per gustarlo? «Perdersi» ovviamente come un fatto positivo, lasciando i compagni di gita e di gruppo, se in gruppo si viaggia necessariamente o di propria volontà. Io l’ho fatto in Cina ai tempi di Mao; ricordo che mi attardai e persi il mio gruppo. È stato il pezzo più bello della Cina che ho visto. Certo poi una guardia mi fermò e mi riportò in albergo, ma quella mattinata è valsa tutto il viaggio. Perdersi è anche andare per strade e dintorni non contemplati da IL LIBRO FOLCO QUILICI CORRADO RUGGERI "Sì, viaggiare" pp. 190, euro 16 Mondadori, 2006 Un invito a muoversi affermando la libertà Come, quando, con chi, perché viaggiare. Un libro che si presenta come un invito a muoversi, vedere, scoprire, ma come affermazione di libertà. Un testo che è una guida per viaggi intelligenti e divertenti. una guida, entrare negli interni, stare a contatto con la gente, vedere un museo in meno rispetto a quello che c’è nella tabella di marcia e guardare da vicino come si vive. Perdersi è anche stare di più a contatto con la natura. Trovo che in Italia è ancora poco di moda andare nei posti dove viaggiare significa stare a contatto con la natura. Se si va lontano si va a Tokio ma non, ad esempio, nella Nuova Scozia. Bisognerebbe non partire tutti «oggi», nello stesso tempo delle ferie estive. Il Giappone, ad esempio, è splendido in autunno, così come il Sudafrica e il Botswana a luglio, perché non sono dei paesi troppo caldi. Naturalmente «perdersi» è anche un moto interiore, un volersi allon- tanare, un voler andare altrove anche mentalmente. Chi ci riesce meglio? Il giovane o l’adulto? Non c’è differenza tra un giovane e un adulto. Bisogna considerare il modo in cui si voglia «perdersi». Bisogna evitare come molti ragazzi che vedono dieci città americane in quindici giorni. Quello è il miglior modo di non vedere nulla anche se sembra di aver visto tanto. «Perdersi» nel viaggio bisogna volerlo intensamente; anche un adulto che viaggia, mettiamo, in visita organizzata, può migliorare la qualità del suo viaggio esigendo determinate cose; per esempio, immergersi nella cucina locale, perché la cucina è un grandissimo salvacondotto e ci consente di avvicinarci maggiormente al luogo in cui siamo e alla gente che incontriamo. O pretendere di avere un albergo con vista se il luogo che visitiamo è eccezionale per il panorama, o magari scegliere di rimanere nel centro storico del luogo in cui ci si trova, e pazienza se l’albergo non è a cinque stelle con piscina e sauna e se si sta in un alloggio più modesto. Nel vostro libro affrontate anche l’argomento del viaggio per chi è portatore di handicap. Ci sono dunque vacanze possibili per i disabili? Certamente. Corrado Ruggeri è partito da un’inchiesta molto interessante condotta da lui stesso sui viaggi per persone diversamente abili. Oggi non è più così disastroso fare un viaggio per chi è disabile; il turismo ha fatto molti passi in avanti in questo senso. Le iniziative non vengono più lasciate solo alle organizzazioni di volontariato e solidarietà, ma c’è un turismo co- Nella foto Folco Quilici e Corrado Ruggeri, autori per Mondadori di Sì, viaggiare siddetto «accessibile» che è in forte espansione e non si parla più di tolleranza, ma di organizzazione. È bello viaggiare senza sentire il peso della disabilità, sapendo di essere trattato come qualsiasi altro cliente. È questa la vera scommessa. Qualche tour operator ci ha già pensato. Noi, ad esempio, come «Parchi naturali italiani» abbiamo organizzato in Sicilia, nel bellissimo mare davanti a Siracusa, delle immersioni per i ciechi. Una cosa eccezionale, tutt’altro che assurda per chi non vede, almeno stando alle testimonianze. Nel vostro libro avete parlato di tanti modi di fare vacanze; in un capitolo però proponete «qualcosa di diverso per mare», né in barca né su navi mastodontiche da crociera. E allora? La crociera per mare è bellissima e non su grandi e a volte pacchiane navi di lusso, né su troppo spartane golette a vela, ma sulle navi mercantili che dispongono di alcun cabine passeggeri. Le rotte sono svariate e vanno dalle isole atlantiche come Ascensión e l’isola di Sant’Elena ai mari del Nord sino alla Micronesia e al Canada e ad altre terre straordinarie. Bisogna pensarci almeno un anno prima e informarsi presso le compagnie di navigazione, ma le emozioni sono assicurate perché gli scali di queste navi durano sempre uno, due o più giorni e permettono di scendere a terra e di girare. E anche la vita a bordo non è male, come neppure la cucina perché ai marinai piace mangiare bene. Come proposta alternativa all’aereo o alla nave il treno è ancora valido? Validissimo. Non tanto la Transiberiana, viaggio lungo ed estenuante in cui praticamente non vedi nulla per arrivare al nulla, quanto la ferrovia che attraversa il Canada. Un viaggio magnifico perché questo grande paese ha un paesaggio che varia continuamente e attraversarlo con un treno che dispone di ampie vetrate e ottimi comfort è veramente un’esperienza unica. Ci sono viaggiatori e viaggiatori; ma cosa non bisogna aspettarsi da un viaggio? Bisogna invece aspettarsi di tutto e nello stesso tempo bisogna aspettarsi niente. Non bisogna pensare che in un viaggio incontreremo l’uomo o la donna della nostra vita, e magari può anche capitare, perché no? Non bisogna aspettarsi di potersi ammalare e perciò portarsi dietro un’intera farmacia, ricordandosi che anche nel Sahara si trova l’occorrente per curarsi. E bisogna partire leggeri, sia come bagagli che come pensieri e vivere il viaggio per quello che può offrire di sensazionale, proprio nel senso di sensazioni da vivere, come la famosa «camera con vista» di cui si parla nel libro, cioè vivere un panorama già come una vacanza. E rieccoci a casa, come si dice nel capitolo conclusivo del libro. Come vivere allora il ritorno? Organizzandosi subito per ripartire. Almeno io faccio così, un po’ come quando sto per finire di scrivere un libro e già mi accingo a scriverne un altro. Nel vivere il ritorno a casa bisogna evitare di pensare che quello che abbiamo lasciato sia cambiato perché noi siamo cambiati. Mia madre diceva che quando tornavo da un viaggio e mi veniva la febbre, era perché provavo un senso di sgomento per il fatto di ritrovare tutto uguale. Ecco perché, appena si può, è bene ripartire subito, così come è bene ripartire subito se durante il viaggio si è provata una paura forte o si è vissuta un’avventura difficile. Visita il nostro sito! Edizioni Dedalo pagina 9 S C A F F A L E ROBERTO TOSCANO, La violenza le regole, pp. 115, euro 8, Einaudi 2006 La violenza nasce con l’uomo escludendo il dialogo con lo stesso uomo. Si rende necessario creare regole ed istituzioni che riducano tale minaccia. Occorre studiare argomenti e strumenti che contengano tale violenza. Prima però ci chiederemo di fronte a quale tipo di violenza siamo posti, quale sia l’origine. Il terrorismo si allarga e irrompe ovunque, come fermarlo? Toscano, diplomatico ed intellettuale, ci guida e ci fa luce attraverso questo allarmante argomento. SILVANA MAURI, Ritratto di una scrittrice involontaria, Rodolfo Montuoro (cura), pp. 291, euro 15, Nottetempo 2006 Rodolfo Montuoro ci presenta una scrittrice di 86 anni molto brava che però non ha mai voluto considerarsi tale. Non ha mai pensato alla scrittura permanente sulla carta ma sulla sabbia. Lei era solo una narratrice orale ma Montuoro l’ha costretta a lavorare con sé per tenere un diario che ci tenesse informati della sua esperienza nei lunghi anni bui delle guerre, della vita e della morte di personaggi famosi e tutto esce dalla sua penna divenendo voce. Sposata con Ottiero Ottieri, ha lavorato per quarant’anni per Bompiani e oltre vent’anni per la Scuola per librai Umberto ed Elisabetta Mauri. FEDERICA BOSCO, Cercasi amore disperatamente, pp. 241, euro 9,90, Newton-Compton 2006 Cercasi disperatamente, disperatamente cercasi. Per Arianna è così. Cerca l’amore disperatamente in ogni luogo, in casa, in un pub, sulla spiaggia. Lei quell’amore lo vuole ad ogni costo ed in ogni modo. Lo sogna, lo accarezza, lo vive ad occhi chiusi. Inseguendolo corre, inciampa, sorride, rinciampa e ride. È follemente innamorata dell’amore tanto da compiere pazzie. È un’eroina maldestra e strampalata. Aperta a ogni sorpresa della vita, non si aspetta però che entrando in una banca per incassare il suo primo assegno si trovi di fronte a una banda di rapinatori. Federica Bosco scrive una frizzante storia d’amore nel suo stile pieno di battute e gaffe. Ha esordito come scrittrice con il romanzo Mi piaci da morire ma è anche una esperta di gossip e tv. ANDREA STELLA, Due ruote sull’oceano, pp. 189, euro 15, Longanesi 2006 È il diario avvincente e commovente di un grande sogno: costruire un catamarano per disabili e andare per mare. Lo ha fatto Stella, che promuove attività sportive per persone diversamente abili ed è lui stesso disabile da quando, nell’estate del 2000, a Miami rimase vittima di un oscuro incidente. Da allora è stata una battaglia continua che lo ha condotto a sposarsi, a costruire «Lo Spirito di Stella», il suo catamarano, il primo al mondo per disabili, con il quale è ritornato a Miami, sfidando l’Atlantico. Prefazione al libro di Giovanni Soldini. www.edizionidedalo.it M. Vianello - E. Caramazza Mario Guarino - Fedora Raugei Enzo Marzo Luigi Tranfo Genere Spazio Potere Gli anni del Disonore Le voci del padrone Verso una società post-maschilista Dal 1965 il potere occulto di Licio Gelli e della Loggia P2 tra affari, scandali e stragi Saggio di liberalismo applicato alla servitù dei media prefazione di Andrew Samuels Il tramonto del mito americano Perché il potere è monopolio maschile, malgrado la sua gestione si sia rivelata sempre e dovunque fallimentare? È possibile un cambiamento? Gli autori avanzano una teoria che impone una profonda revisione delle scienze sociali. Dalla Seconda guerra mondiale a oggi, la biografia di un uomo che si intreccia alla storia del potere in Italia, mai completamente svelata. Un pamphlet sulla libertà d’informazione, sullo stato dei media nel presente e in un futuro condizionato da rivoluzionari mutamenti tecnologici. La crisi dell’imperialismo americano mette a nudo le antinomie sociali ed economiche di una società schizofrenica e disperata. Ivan Cavicchi Daniele Gouthier - Elena Ioli Irène Diamantis Nico Pillinini Malati e governatori Le parole di Einstein Storie di ordinaria fobia Ecce gnomo Un libro rosso per il diritto alla salute Comunicare scienza fra rigore e poesia Psicoanalisi delle paure irrazionali prefazione di Marco Travaglio Fantasmi, ratti, il buio, l’altezza: come si cura la fobia e quale contributo può dare la psicoanalisi? L’autrice ci propone una serie di affascinanti casi clinici, descrivendo le fobie più comuni, ma anche altre più insolite e bizzarre. «...le vignette di Pillinini sono di una perfidia rara...» prefazione di Tullio De Mauro È necessaria una nuova strategia della sostenibilità per prevenire, attraverso il benessere, il pericolo dell’antieconomicità dei crescenti costi dei sistemi sanitari pubblici. Un viaggio al confine tra scienza e linguaggio, per scoprire come nascono le parole e le metafore scientifiche alla base dell’edificio della scienza e della sua comunicazione. Contraddizioni di un mondo a rischio M. Travaglio pagina 10 S t los PATRIZIA DANZÈ STELLA MAGNI . La condizione di una donna detenuta perché accusata un pianeta sconosciuto quello su cui si ferma Stella Magni, cancelliere presso la Procura della Repubblica di Taranto e già autrice del romanzo Danza nella notte (Marsilio), con il quale nel 2003 ha vinto il premio «Rhegium Julii», Selezione opera prima. La Magni ha avuto modo, per il suo lavoro, di osservare da vicino la dimensione carceraria femminile, ha visto cose, che da «liberi», fuori, non si possono neanche immaginare; in quella vita c’è scivolata dentro, ne è stata «contaminata», vi si è «sporcata» e perciò ha deciso di raccontarla in un libro, Le detenute (Avagliano), che non è un dossier né un’inchiesta giornalistica ma che al primo e alla seconda attinge gli elementi realistici trasposti con un linguaggio lirico in un romanzo di forte impatto emotivo. Stilos ha intervistato la Magni. Un affondo nel mondo carcerario femminile il suo romanzo: come e da cosa nasce? Nasce dagli incontri che per la mia attività lavorativa ho avuto nel corso degli anni con i familiari dei detenuti. Mi è capitato di aiutare le giovani mogli di uomini appartenenti a clan malavitosi, magari semplicemente a scrivere una istanza da presentare al magistrato, così come ho avuto modo di incontrare le mogli di alcuni «colletti bianchi» arrestati per presunte truffe. Da queste esperienze è nata l’esigenza di approfondire il tema della detenzione, e dopo la lettura di diversi saggi e dopo molte navigazioni su internet la decisione di scrivere soprattutto di detenzione al femminile. Quel mondo l’ha interessata a tal punto da diventare una storia narrata? Sì, anche perché il passo successivo alle letture è stato quello di decidere di incontrare le detenute e affrontare con loro i temi che erano emersi dalle mie ricerche. Ho chiesto ed ottenuto di incontrare diverse volte le donne ristrette nel carcere veneziano della Giudecca, esperienza che si è rivelata fondamentale per poi affrontare la stesura del romanzo. Le emozioni che si vivono incontrando chi è ristretto e ha lasciato fuori da quelle mura gli affetti più cari, ha lasciato fuori «la vita vera», è qualcosa che ti resta cucito addosso per sempre. Così come non dimenticherò mai lo sguardo di quei bambini detenuti con le loro madri. Mai. Perché proiettare la storia nel 2011? Perché avevo deciso di far coincidere l’arresto di Elena, la protagonista della storia, con i fatti di Genova del 2001 e con l’attentato alle Torri Gemelle di settembre dello stesso anno. Avevo bisogno di non perdere le emozioni e le considerazioni che i fatti accaduti in quei mesi avevano provoca- della morte di un carabiniere in un corteo no-global. È la prima a capire che l’11 Settembre è un fatto ancora più grave di quello personale. Il mondo penitenziario e il mondo esterno in uno specchio di rimandi ’ E ENZO VERRENGIA IL LIBRO STELLA MAGNI "Le detenute" pp. 184, euro 13 Avagliano, 2006 Ritorno a Roma per finire in carcere Elena, avvocato penalista, vive a Dublino con il figlio tredicenne Marco, ma torna a Roma per rivedere gli ex compagni di scuola. L’occasione coincide con un corteo no-global nel quale Elena si trova coinvolta. Nei disordini muore un giovane carabiniere e lei viene accusata e incarcerata. Vuoi il valore della vita? Vedi la scala dei pericoli to in ciascuno di noi e quando poi si è trattato di far raccontare ad Elena, anni dopo la scarcerazione, la sua esperienza di detenuta mi è venuto naturale riportare tutto all’anniversario dei dieci anni dai primi avvenimenti. La vita si ferma per Elena un mese prima che il mondo intero si fermi per la tragedia delle Torri gemelle. Che relazione hanno nella sua storia i due fatti, l’uno quasi privato e l’altro mondiale? Era mia intenzione sottolineare come anche un evento tragico come l’essere accusati di aver ucciso un carabiniere durante una manifestazione no-global, paradossalmente, passasse in secondo piano nella vita di Elena di fronte a quanto stava accadendo in quei giorni nel mondo. Raccontare lo sgomento e il senso di impotenza di chi in carcere pensava ai propri figli fuori in balia di pericoli invisibili e processi di cambiamento inarrestabili. Però lei sorvola sui fatti del G8 o, meglio, li riduce ad una manifestazione alla quale Elena assiste neanche troppo convinta. «l’altro mondo», quello che ci vive accanto ma che risulta più facile fare finta che non esista. La cosa sorprendente di questa storia (ed è anche il pensiero di Elena) è che Elena diventa una «privilegiata» proprio per aver toccato con mano la realtà del carcere. Come vive il «privilegio» del carcere il suo personaggio? Elena è avvocato penalista e la conoscenza del carcere nella condizione di detenuta sarà sconvolgente sotto più profili per lei. Il «privilegio» è legato al fatto che l’incontro con le donne detenute, prima a Rebibbia e poi alla Giudecca, le ha spalancato improvvisamente le porte su un universo femminile, emozionale, di rapporti interpersonali così assolutamente vivi, veri, profondi, tali da ribaltare tutte le sue convinzioni e tali da portarla con una naturalezza estrema, che non sospettava di possedere, all’abbandono di quanto di convenzionale c’era stato fino ad allora nella sua vita. In fondo il carcere è proprio questo che fa: smantella il convenzionale e fa venire fuo- CLAUDIO DAMIANI. La consapevolezza della poesia amiani ha sempre avuto attenzione per il tratto realistico delle cose che entrano in poesia, dal suo esordio di Fraturno, del 1987. In Attorno al fuoco tuttavia la vicinanza della materia poetica all’e- È una fase, presto cambierà. Oggi si sistenza dell’autore è talmente visibi- pensa più che altro a rigenerare il corle che finisce per trasportare anche po, poi si penserà anche a rigenerare la chi legge quando, inesorabilmente, le mente. Faccia solo questa consideravicissitudini del quotidiano, la sosta in zione: quando io ero piccolo la maggiardino, le escursioni sull’altopiano gioranza degli italiani mangiava carne di Campitello, le gioie familiari, trase- solo una volta a settimana. colano in una visione metaforica del Non sarà che il verso autentico è presente come tempo della guerra. sempre pacato anche quando urla, Neanche sul registro dello scoramen- ed è difficile reggere la concorrenza to e del pessimismo si perde la conti- con un arte che cerca troppo spesso guità fra poeta e composizione. Perché risonanza mediatica? Certamente. L’urla guerra di Dadella poesia (e miani non ha nulI n t e r v i s t e lo dell’arte in genela di nuchilistico re) è chiaro e nitie titanico al negaCLAUDIO DAMIANI do (e proprio per tivo. È semplice"Attorno al fuoco" questo abissale), mente il riflesso pp. 100, euro 10 perché intorno a di ciò che si ritroAvagliano, 2006 esso è il silenzio. va intorno uno L’urlo della telequalunque dinanzi a questo trapasso millenaristico. visione è represso, coperto dal rumoDalle pagine di Attorno al fuoco esce re, dalla cloaca della chiacchiera. Indunque una spinta a riappropriarsi del- tendiamoci: tutto ciò è voluto, perché lo strumento lirico come codice condi- è vero che il medium condiziona il viso di linguaggio. Da un lato il poeta, messaggio, ma non è assolutamente che può arrivare immediatamente al vero che il medium è il messaggio, ansenso della pronuncia; dall’altro il let- zi questa è una delle cretinate più clatore, che non ha più bisogno dell’ope- morose che abbiamo dovuto sentire, e ra monumentale per acquisire nuovi subire, in questi decenni, e chissà andati in termini emotivi, dai quali de- cora per quanto subiremo. Voglio dire durre motivi di riflessione. Stilos ha che ci può essere silenzio, e arte, anche in televisione. È un silenzio diverintervistato Damiani. Mai come oggi la poesia rappresen- so, d’accordo, come il silenzio del cita il modo più diretto di rigenerare nema è diverso dal silenzio della poei processi di lettura. Invece viene sia. spesso confinata al velleitarismo di Attorno al fuoco è un atto di fede chi s’improvvisa versificatore e verso la propria cerchia di riferimento. Quali sono stati i meccanipubblica a proprie spese. D Credo di non aver sorvolato completamente sui fatti di Genova di quei giorni, ho ricordato la morte di Carlo Giuliani, ho parlato del processo ai poliziotti dopo i fatti accaduti alla caserma Diaz, ho raccontato come proprio in quei giorni fosse rinato nei giornalisti, per esempio, la necessità di una informazione diversa, l’informazione che nasce dalla strada. Una parte della storia, che poi approfondiva le tematiche relative alle lotte dei no-global, è stata alla fine sacrificata per centrare appunto l’attenzione sui problemi relativi alla espiazione di una pena. Il personaggio di Elena prende forma e spessore solo nello stato della carcerazione. Il suo «prima» è solo accennato e ha semmai significanza solo in rapporto agli anni del carcere. È vero, Elena vive come personaggio soprattutto in relazione al suo periodo di detenzione. Volevo far risaltare come una esistenza normale e tutto sommato ritenuta fino a quel momento appagante fosse messa completamente in discussione dall’incontro con Costituirsi in una cerchia smi più attivi nell’ingranaggio che mette in moto la trasposizione lirica di se stessi? Più che una fede verso la propria cerchia, mi sembra che in Attorno al fuoco ci sia una fede in un fuoco che genera cerchie, nuclei sociali e biologici, un fuoco creativo che contiene distruzione anche, ma non può essere allontanato, o rimosso. Penso che nel libro ci sia questa consapevolezza che noi non possiamo allontanarci da lui, e che, nel nostro esistere, inevitabilmente attorno a lui ci disponiamo. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, io non penso di trasporre me stesso liricamente, penso invece di allontanarmi da me stesso, di dimenticarmi. I meccanismi che mi fanno scrivere si riassumono forse in un bisogno di dire qualcosa che ho visto è mi ha sorpreso per la sua bellezza e vi- vacità indescrivibili. In una poesia, lei arriva a coinvolgere direttamente una persona molto cara che le detta i versi. Sì, è una descrizione di un cane abbandonato dettatami da mia figlia Domitilla quando ancora non sapeva scrivere. Io l’ho trascritta tale e quale me l’ha dettata lei e dunque non l’ho scritta io, ma in tanti altri casi m’è capitato di trascrivere dei fatti così come sono avvenuti, e potrei anche in questo caso dire che io non ho scritto, non ho aggiunto niente. In effetti io non penso quando scrivo, non creo qualcosa, ma semplicemente descrivo qualcosa che ho visto, o mi è successo. Mentre in molti scelgono di raccontarsi in prosa, specie tra i cosiddetti giovani autori, sempre meno sono quelli che approdano a una poesia compiuta e non velleitaria. Perché? Io non scrivo in prosa perché non ci riesco, e ammiro e anche invidio chi ci riesce. Naturalmente quelli che ci riescono bene sono pochi, e devono poi lottare contro i cosiddetti editor, che vogliono tagliare lì e aggiungere là, vogliono questo e quell’altro, ma allora dico io: perché non lo scrivono direttamente loro il romanzo? Quelli che giungono a una poesia compiuta e non velleitaria non sono pochi a mio avviso: è solo che hanno poca visibilità editoriale. Ma lo stesso succede ai narratori che scrivono racconti, perché gli editori vogliono solo romanzi, o a quei narratori che non vogliono scrivere i romanzi che gli editori invece Nella foto superiore Stella Magni, autrice per Avagliano di Le detenute. In basso Claudio Damiani, che per la stessa Avagliano ha scritto Attorno al fuoco ri quanto di vero c’è in ciascuno di noi. La detenzione di Elena è frutto di un clamoroso errore giudiziario. Ha pensato a qualcuno in particolare vittima, come il suo personaggio, di ingiustizia? No, anche se nei giorni che hanno preceduto la pubblicazione del libro proprio Taranto, la città in cui vivo e lavoro, è stata al centro di grandi polemiche per presunti errori giudiziari. L’idea di una pena da scontare da innocente è qualcosa che annienta anche i più forti. Ha conosciuto qualcuno come Elena? O come qualcun’altra delle donne che appaiono nel libro? Le donne che descrivo nel romanzo sono frutto della fantasia, ma è pur vero che mentre scrivevo avevo negli occhi le voci, gli sguardi, anche le lacrime delle detenute che ho incontrato. A tutte loro però non ho mai chiesto il perché fossero lì, ma come stessero affrontando psicologicamente e fisicamente il percorso rieducativo della lunga detenzione. A parte Agata. Agata, appunto. Le sue parole sembrano quasi il coro di una tragedia classica. Agata nasce dalle parole scritte di una donna che non ho mai incontrato ma della quale ho letto alcune lettere. Agata mi prende in modo particolare, nelle pagine di Agata c’è quanto di più reale potessi dire sull’argomento. Agata esiste, ma non ha ammazzato il marito, ha un’altra storia che ho preferito tutelare. Agata è la detenuta più vera di tutto il romanzo. Così come è vero l’episodio da lei raccontato della uccisione assolutamente a caso di un agente di polizia penitenziaria avvenuta nel carcere di Taranto. Come si inseriscono nella storia da lei narrata i personaggi di Romeo Corbera e di Fernando? La vita di Romeo, giovane magistrato alle prese con una inchiesta che porterà all’arresto di un noto politico e di suo figlio, entrambi imprenditori nel settore dell’informazione, e Fernando, fotografo di moda che per percorsi allucinati e inspiegabili diventerà la trans più famosa di Milano, è la dimostrazione che niente è paradossale nell’esistenza, semplicemente tutto è vita. E fino a quando è la vita nella sua totalità ad interessarci potremo dire di averla davvero vissuta. Entrambi fanno parte dell’esistenza di Elena, ed entrambi alla fine non hanno nulla di quel convenzionale che prima dell’arresto faceva così parte della sua vita. La storia di Fernando mi emoziona in modo particolare perché di uomini come lui ce ne sono sempre di più e di conseguenza di famiglie coinvolte in scelte drammatiche come quella di trovarsi di fronte un genitore che ad un certo punto dell’esistenza si accorge di avere preferenze sessuali diverse da quelle fino ad allora manifestate ce ne sono oramai tante. vogliono che siano scritti. Nei Paesi di lingua anglosassone, la poesia conosce incessanti ricambi generazionali. Da noi no. L’Italia ha una tradizione poetica immensa, che può anche schiacciare, in certi casi. Nella letteratura italiana la poesia l’ha fatta sempre da padrone. Oggi c’è una rivolta non tanto verso la poesia, quanto verso la letteratura, ma è una rivolta debole, che come ho già detto non durerà. Che poi in Italia non ci siano ricambi generazionali lo trovo positivo. Ciò che è importante è che ci sia dialogo tra le generazioni. Prima ce n’era poco, adesso ce n’è di più. In poesia in Italia chi vuole cambiare tutto, per le ragioni che ho detto prima, fa ridere, come hanno fatto ridere le avanguardie di tutte le stagioni. «Avagliano Poesia» è un coraggioso tentativo di riportare la poesia nel circuito distributivo del libro. Se ne possono configurare dei criteri di scelta, valutazione o anche solo affinità dei curatori nei confronti delle successive proposte? Con Andrea Di Consoli, direttore editoriale di Avagliano, ho un’intesa perfetta, lo ammiro come scrittore, sia di poesia che di prosa, e come persona. Il nostro obiettivo è quello di allargare il pubblico della poesia e metterlo soprattutto in comunicazione con l’attuale stagione poetica, che è di una grande vitalità. Quello che è incredibile è che contrariamente all’ermetismo e alla neoavanguardia che allontanavano il pubblico, la poesia delle ultime generazioni ha in molti casi una forza comunicativa e una chiarezza inaspettata, un’aderenza impressionante alla nostra vita e al nostro tempo. Per leggerla, poi, non c’è bisogno di laurea, come era prima, né di appartenere a una setta segreta. Eccebombo autori italiani AURELIO GRIMALDI IL GRANDE MARLOWE Potenza del cinema! Prima dell’uscita del film Edoardo II di Derek Jarman, il nome di Christopher Marlowe era per me un assai lontano ricordo liceale della serie «Palloso poeta del ’600 inglese». Ricordo madornalmente sbagliato persino nel secolo (Marlowe, nato nel 1564, lo stesso anno di Shakespeare!, è interamente vissuto nel ’500, essendo morto ad appena 29 anni durante una rissa di taverna); ma anche nel giudizio: poeta niente affatto palloso, tutt’altro. Ma nonostante il clamore dell’antico film di Jarman devo ammettere che fino a pochi mesi fa mi ero limitato alla lettura, appunto, del solo Edoardo II, che trovai magnifico e di gran lunga più sconvolgente del film (squilibrato e propagandistico come tutte, secondo me, le opere di Jarman). Ma finalmente, nei soliti imperscrutabili disegni dei lettori maniacali, giunse anche per il vostro redattore, alla non verde età di 48 anni, il momento di cimentarsi nella lettura di altre opere del grande Christopher: La tragica storia del dottor Faustus (1588), L’ebreo di Malta (1589), Tamerlano il grande (1593). Li ho letti d’un fiato, tutt’e tre, con diverse emozioni: L’ebreo di Malta non mi piacque per niente. Il Faustus mi lasciò moderatamente soddisfatto. Il Tamerlano mi entusiasmò al massimo grado. Marlowe, tipaccio irascibile e violento, omosessuale dichiarato nelle stesse plaghe d’Albione (ma ben tre secoli prima!) del perseguitato Oscar Wilde, morto, come si è detto, ad appena 29 anni (quanti altri capolavori, dunque, abbiamo perduto a causa di una rissa in una lurida bettola?), era, strutturalmente, secondo il vostro redattore, ben più originale del suo coetaneo e più celebrato Shakespeare. Non solo l’Edoardo II è sconvolgentemente coraggioso nel raccontare una passione storicamente omosessuale del ’300 (quando Shakespeare, a prescindere dalla sua accertata bisessualità, si guardò bene dall’affrontare simili tematiche), ma anche il Tamerlano mostra una sua complessione psicologica, e insieme di tessitura drammatica, che mi sono parse inconsuete e ammirabili. Tamerlano (ispirato al personaggio storico di Timur) si erge come personaggio immenso, invincibile, cinico, sanguinario, eppure, a modo suo, leale e sentimentale. E viene circondato, dalla mente insieme classica e anticlassica di Marlowe, da personaggi, apparentemente prospettici, di uguale e plastica grandezza. Il suo primo avversario è il re di Persia, raccontato come uomo debole ma leale. Il fratello di questi lo tradisce, gettandosi nelle comode braccia dell’invincibile Tamerlano che però, ottenuta la vittoria, anziché mantenere le mirabolanti promesse, lo uccide senza pentimenti («e ben ti sta, traditore…» pensa crudamente il lettore). Poi tocca all’imperatore turco Bajazeth, fierissimo e arrogante, a sua volta sconfitto e catturato dall’Invincibile. Bellissima la scena dell’orgoglio smisurato del grande Turco, rinchiuso in gabbia, umiliato ma mai domo: uno scontro tra titani. E poi la bella Zenocrate (attenzione: è un nome femminile!), la quale ama, riamata, il terribile condottiero. È costretta ad assistere a tutte le sue più truci vittorie, alla conquista e distruzione delle città dei suoi padri, e persino (altra scena indimenticabile) all’uccisione delle vergini di Damasco, che si erano prostrate, invano, al trionfatore. Il tutto raccontato con uno stile lirico di certo pomposo, ma pieno di accensioni poetiche, di musica suadente, di parole affilate. Viva il grande Christopher! Christopher Marlowe, Tamerlano il Grande autori italiani l lettore non ha scampo. Bastano due pagine di Capriole in salita per capire che l’inchiostro di Roveredo è vita. O meglio, è la sua vita. La prima, a dirla tutta, quella dura e violenta, quella delle giornate etiliche e della memoria cancellata, quella che ha conosciuto il dolore sordo del manicomio e l’universo crudele del carcere. Lui che ha vissuto all’estremità di tutto, che sa cosa significa essere considerato un reietto, si è dato in pasto «ai guardoni» spogliandosi di ogni ricordo. A vincere è stata la sua scrittura, con cui è riuscito a far diventare materia letteraria una vita allo sbando, piena di cicatrici indelebili. Ad una prima lettura, il libro in alcune parti sembra quasi monotono, ripetitivo, e niente affatto consolatorio; ma non può essere che così, anche perché è la prima vita di Roveredo ad essere ripetitiva fino allo sfinimento. Del resto, cosa può cambiare in una giornata, dopo aver bevuto litri di alcol? Quale diversivo può incontrare un uomo che non vede l’ora di rifugiarsi in qualche bar? E quale dinamica positiva può avere la sua prima vita, quando i lavori durano, sì e no, qualche settimana? Ecco, a questi interrogativi risponde con un uso del pudore e del rossore calibrato con grazia ma senza concessione alcuna a una tentazione quale che sia di autogiustificazione di autocommiserazione Capriole in salita, libro autentico, che aiuterà molti alcolisti, quelli vogliosi di uscirne, a guardarsi dentro e a capire che il gomito alzato è un meccanismo che porta all’annullamento e a considerare l’esistenza come qualcosa di insensato. Stilos ha intervistato l’autore. Con Capriole in salita il lettore le entra nel sangue. Che effetto le ha fatto questo denudamento letterario nella vita reale? È stato un denudamento voluto, perché Capriole è un libro terapeutico, che mi ha permesso di uscire dall’abbraccio soffocante della vergogna. Nel disagio, soprattutto in questa società che si difende col dito puntato, di vergogna... si può anche morire. Per stare dalla parte dei cattivi, una persona se le deve andare a cercare. Nel suo caso, il suo alter ego di carta è più un casualista che un ricercatore... Curiosità: quando è diventato uomo Pino Roveredo? Pino non è mai diventato uomo. Pino sta studiando per diventare uomo, e spero lo diventi il più tardi possibile, perché in questo mondo che ha sempre tanta fretta e che non hai mai tempo per nessun tempo, le cose, la gente, i sentimenti, è meglio incontrarli e incrociarli il più lentamente possibile. Solo così si può capire il valore. S t los I MARISA CECCHETTI Interviste PINO ROVEREDO "Capriole in salita" pp. 170, euro 14 Bompiani, 2006 distaccata su una vita divisa tra un prima e un dopo: dalla perdizione alla redenzione. Il racconto di un personale percorso di salvezza dall’etilismo Bevevo sorsi di euforia che erano morsi di aceto VIVE AD AVEZZANO. "SENZA (PENDRAGON, 2004), "MARE NERO" (EDIZIONI DELL’ARCO, 2006) NUMERO CIVICO" GIANNI PARIS Lei è nato da genitori sordomuti: cosa ha significato? Continuo a ribadire la fortuna di avere avuto due genitori con gli affetti rumorosi, perché ai sordomuti è vietata la superficialità della delega, così, quando abbracciano, abbracciano, quando baciano, baciano, quando accarezzano, accarezzano... Ha vissuto per tanti anni in collegio. Oggi, nella sua seconda vita, che rapporto ha con i suoi figli? Io ho vissuto in un istituto dei poveri, che è completamente diverso dal collegio. Noi eravamo obbligati ad imparare la disciplina, marciare per ore sotto la scritta «Credere obbedire combattere» (anni Sessanta) che nessuno aveva avuto la premura di cancellare, il gioco era vietato e non ci concedevano l’attenzione di un abbraccio neanche la misera di un minuto al mese. Ripeto: un minuto!... Ecco, ai miei figli, riservo e dedico tutto il contrario di quello che ho vissuto. Ora che la sua vita non è più insensata, come guarda una bottiglia di Montepulciano? Macché Montepulciano! Io bevevo sorsi di euforia che si sono trasformati in morsi di aceto e disperazioni. Gli stessi sorsi che oggi frequentano i ragazzi che hanno l’età dei nostri figli, e che continuano a non allarmare, perché il vino culturalmente passa, e spesso confondendo l’uso, con l’abuso. Lei è l’esempio vivente che il fango alle ginocchia può essere pulito. Qual è stata la persona che ha preso la bacinella con l’acqua e le ha tolto definitivamente quel fango? Il fango non si toglie, magari depositato negli angoli del ricordo, ma lui rimane, perché la dipendenza è un conto in sospeso che si può saldare solo con la morte! Riguardo all’aiuto, io ho avuto la fortuna di aver avuto e avere una compagna e moglie che ha continuato a tener viva una speranza, quando io mi ero ormai giurato alla rassegnazione. Oggi, è ancora lei che continua a soffiare dentro la mia forza di volontà. Il manicomio. Per molti è una definizione, un non luogo. Per lei invece cos’è? Il manicomio e tutte le atrocità che so- FEDERICA DE PAOLIS. Sentimenti laceranti e realismo l triangolo è una figura nota al cinema e alla letteratura e così frequente nel costume che Federica De Paolis si mette decisamente in gioco scegliendolo per il suo primo romanzo, Lasciami andare. Lui è Nico- bina con il muso da bagascia». Mala, antiquario trentenne, economica- rianna è come una macchina, abitudimente realizzato, quadro di Balla alla naria, agisce a parla poco. Giulia è parete, Rolex, Porsche in garage. Lei «una ragazzina che c’è e non c’è, che cinque minuti è Marianna, non s’incazza e cinque «la donna dei suoi R e c e n s i o n i no». Il gemello di sogni ma di polNicola, Paolo, «il so… Un metro e FEDERICA DE PAOLIS più bravo della sessantacinque di "Lasciami andare" classe», è morto certezze, due tette pp. 205, euro 14 «con un laccio da sturbo, una falFazi, 2006 emostatico a tenecata da gendarre stretta la vena me». L’altra è Giulia, dalle unghie rosicchiate e dai tesa», così Nicola, senza il suo doppio, capelli fluenti, che «sembra una bam- ha attraversato un buio lungo, da cui lo I PINO ROVEREDO . La testimonianza cruda e Trentenni colti nel vuoto ha tirato fuori la moglie. L’incontro con Giulia è un flash che gli trasforma la vita. Mondo piccolo borghese, quello di Nicola, con feste dove tutti «se ne restano a bisbigliare nelle loro bare», alcool, canne come cannoni, e lei, «dagli occhi vivi, argentei, lo sguardo acceso, pulsante… anarchica», che entra subito nella sua «costellazione di pensieri». Ma anche Paolo ha avuto una relazione con Giulia e ha conosciuto persino Marianna. Questo mette alla prova il già delicato equilibrio di Nicola. La De Paolis definisce abitudini e psi- cologia di un protagonista maschile a cui dà debolezze e sensibilità femminili, infatti Nicola sente il bisogno di confessarsi con la moglie e per questo amore sarebbe disposto a lasciare la famiglia. Marianna invece è di un cinismo spiazzante: «Tu ti fai le tue scopate e io le mie, e poi tutti a casa tranquilli, è chiaro?» Eppure Nicola ricorda la passione che li ha uniti e riconosce che Marianna è ancora il suo equilibrio. Allora dove vanno a finire i sentimenti? Ci troviamo di fronte ad un eterno presente di sentimenti, anzi, «tutto è presente. E da vivere sempre». pagina Nella foto Pino Roveredo, autore per Bompiani di Capriole in salita no girate dentro sono la testimonianza di quanto possa essere infame e malvagia la mente dei sani. Il carcere. Ovvero una lavagna piena di regole non scritte. Socialmente una detenzione aiuta o si rischia di non avere mai le chiavi? Io al carcere non devo mezza virgola della mia salvezza, anzi credo sia stato un motivo per allungarmi le salite. Questo vale anche per tutte quelle migliaia di detenuti che si vedono marchiare e respingere da una società, società che non prevede la salvezza di una rieducazione e di un inserimento. Sbaglio se dico che la più forte emozione della sua vita è rappresentata da quel vestito di raso bianco?... Anche... Però sarebbe castrante dare una classifica alle emozioni. Oggi ho la fortuna di crescere con le emozioni, senza il bisogno di esibirle allo specchio, ma unicamente con la consapevolezza di avere il privilegio di viverle. Ed è tanto, davvero tanto... Autodistruzione e rinascita. In matematica andrebbero d’accordo. Nella vita quasi sempre no. Lei ha usato qualche alchimia sperimentale per mettere un «uguale» tra le due parole? Io conosco il bene perché per anni ho frequentato il male. Io conosco il valore della carezza perché per anni sono stato al centro di uno schiaffo. Non è obbligatorio, però, per raccontare una rinascita, spesso bisogna avere la proprietà di una distruzione. Ecco la scaletta sociale... Che posto attribuisce alla letteratura? Dico la verità, anche per difesa: più che attribuirmi, preferisco essere attribuito. Se fosse costretto a catalogarsi come scrittore, quali parole userebbe? Un autista di parole, che trasporta le emozioni del cuore sul piacere immenso della pagina. Oggi che rimbalza da una città all’altra per parlare anche di Capriole in salita, quale sensazione prova ogni volta che inizia a girare il suo nastro autobiografico? Di raccontare una storia possibile, possibile per chiunque. In un Sert di Napoli, ad esempio, come in molte scuole italiane, Capriole è diventato un libro-terapia, questo per dire che, quando parlo del disagio, parliamo tutti con la stessa lingua. In quale parte del mondo vorrebbe vivere per un po’? In un mondo dove lo specchio è una giustizia, dove non hanno inventato lo sparo, dove l’abbraccio è una consuetudine, dove vengono cancellati gli ultimi in classifica, così i primi non hanno più senso, e dove la ricchezza è fatto spirituale e non materiale... Ma esiste, questo mondo? Agile nella struttura, con un registro linguistico ampio, che si apre al romanesco e al gergo giovanile, col dialogo scattante - la scrittrice è dialoghista cinematografica e insegnante di sceneggiatura -, Lasciami andare è il ritratto amaro e critico del vuoto esistenziale su cui fluttuano questi trentenni affermati. Giovani che da un lato hanno come riferimento una certa ipocrisia diventata cultura, dall’altro, a dirla con Zygmunt Bauman, una fluidità, una liquidità di situazioni che caratterizza il nostro tempo. Il realismo esasperato che mette continuamente a fuoco la sessualità, come se fosse un valore nuovo, fin nelle fantasie più private, forse non stupisce più, abituati come siamo al video, al cinema e ad un certo genere di pubblicazioni più o meno provocatorie. V 11 O C I PREMIO FLAIANO A RAFFAELE LA CAPRIA IL SUPERPREMIO Al cileno Antonio Esteban Skármeta è andato il Premio internazionale Flaiano, conferito all’autore de Il postino di Neruda per l’alto valore artistico e civile della sua opera. I premi Narrativa sono andati a Raffaele La Capria per L’amorosa inchiesta (Mondadori), all’algerino Amara Lakhous per l’innovativo noir Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio (Ezioni e/o) e allo spagnolo Enrique VilaMatas per Il mal di Montano (Feltrinelli). Inoltre la Giuria presieduta da Jacqueline Risset ha assegnato i Premi Flaiano per l’italianistica - promossi in collaborazione con il ministero per gli Affari Esteri - alla russa Larissa G. Stepanova per Leggere la grammatica, agli statunitensi Lucia Re e Paul Vangelisti per Amelia Rosselli. Variazioni belliche e all’israeliano Ariel Rathaus - uno dei maggiori traduttori in ebraico di letteratura italiana - per Scienza nuova di Giambattista Vico. Il Superflaiano è stato assegnato a La Capria, in sostituzione del quale a ritirare il riconoscimento è stata la moglie Ilaria Occhini che ha letto brani del suo L’amorosa inchiesta, pubblicato da Mondadori quest’anno. PREMIO S. MARINELLA CARLO AZEGLIO CIAMPI VINCE CON IL “DIZIONARIO” Nell’ambito del Premio culturale «Città di Santa Marinella» la Giuria ha deciso l’assegnazione del Premio al libro di Carlo Azeglio Ciampi Dizionario della democrazia (Edizioni San Paolo). Il libro viene insignito del premio in quanto espone i principi e i valori della democrazia. La cerimonia di consegna ha avuto luogo il 28 luglio nel Castello Odescalchi di Santa Marinella (Roma). PREMIO NAPOLI A GIORNALISTA EGIZIANA IL "PARLAMENTO 2006" Samia Nkrumah con l’articolo "The changing face of Italy" pubblicato sul "Al-Ahram Weekly" è la vincitrice del Premio di giornalismo internazionale "Napoli-Parlamento europeo 2006". La giornalista egiziana affronta il tema dell’integrazione delle diverse comunità immigrate in Italia. Figlia dell’ex presidente del Gana Kuami Nkrumah, leader della liberazione del suo Paese agli inizio degli anni Sessanata, e di mamma egiziana di religione cristiano coopta, è lei stessa di intrecccio tra diverse culture. La giuria, presieduta da Francesca Ratti, direttore generale dell’Informazione del Parlamento Europeo, lo ha scelto tra gli articoli pervenuti alla Fondazione entro il 15 giugno 2006 e pubblicati, durante lo scorso anno, sul tema dell’immigrazione e dell’amicizia tra i popoli. Samia Nkrumah sarà premiata domenica 17 settembre (ore 21, piazza Dante) nel corso della serata finale della cinquantaduesima edizione del Premio Napoli. pagina 12 CENTO ANNI DOPO LA RIABILITAZIONE Il 12 luglio 1906 la Corte di Cassazione francese dichiara la completa innocenza di Dreyfus, dopo 12 anni dall’inizio del caso giudiziario e politico. Parte del successo è riconosciuta alla presa di posizione della comunità culturale, a cominciare da Émile Zola e Bernard Lazare a sentenza di condanna pronunciata contro il capitano dell’esercito francese Alfred Dreyfus, ebreo di origine alsaziana, si rivela immediatamente, agli occhi di un osservatore attento e privo di pregiudizi, come l’ennesimo crimine giudiziario reso possibile da un Consiglio di Guerra inquisitorio e corporativo, dal clima di intolleranza che albergava nella società francese, dalla necessità di trovare un capro espiatorio nell’ultimo disperato tentativo di difendere un esercito logorato nella sua credibilità in seguito alla sconfitta subita a Sedan e al fallimentare tentativo bonapartista del generale Boulanger. Di fronte al rischio di vedere completamente screditato un esercito che follemente perseguiva la revanche nei confronti della Germania, non si ha nessuna esitazione ad immolare un ebreo. La condanna alla deportazione a vita ed alla degradazione militare, emessa all’unanimità nel più assoluto disprezzo delle regole e delle procedure, dopo un processo celebrato a porte chiuse con la motivazione che erano in giuoco vitali interessi nazionali, è identica, nella causa e nel fine, alla sentenza contro gli untori, che faceva osservare a Manzoni: «Si dirà forse che, in faccia alla giurisprudenza, se non alla coscienza, tutto era giustificato dalla massima detestabile, ma allora ricevuta, che ne’ delitti più atroci fosse lecito oltrepassare il diritto?». Ma, nel caso di Dreyfus, si va oltre: si condanna un uomo per condannare un intero popolo. La mattina del 5 gennaio 1895, nel cortile della Scuola militare di Parigi, Dreyfus viene degradato: il suo grido angosciato - «Sono innocente!» - si sovrappone, come un debole controcanto, alla melodia principale di una folla minacciosa che grida «Morte all’ebreo!», «Morte al Giuda traditore!». Quella mattina, tra il pubblico di giornalisti, è presente Theodor Herzl, inviato speciale del quotidiano viennese "Neue Freie Presse". La disumanità di quella colorita rappresentazione che aveva al centro della scena un ebreo, le urla di odio della folla al suo indirizzo, cambiarono il corso della sua vita: nella sua mente lucida e irrequieta nasceva il programma sionista. La straziante scena dell’ufficiale ebreo degradato svelava, ancora una volta, che l’ennesima persecuzione stava per iniziare, che gli ebrei non potevano considerarsi al sicuro neppure in seguito alle leggi emancipatorie e proprio nel paese che, patria dei lumi e di Voltaire, per primo li aveva resi liberi cittadini. Una millenaria persecuzione che Bernard Lazare, l’intellettuale anarchico che per primo, e in piena solitudine, prese le difese di Dreyfus, ripercorre nei cimiteri ebraici d’Europa nella disperata ricerca della propria identità e di cui lascia una dolorosa e indelebile traccia nel suo libro testamento "Le Fumier de Job": «Il vecchio guardiano racconta leggende; cominciano tutte così: "In quel tempo ci fu una persecuzione contro gli ebrei", ecco un tempo indeterminato! Quel tempo è ogni tempo». Dalla violenta campagna di stampa che anticipa l’autodafè e continua con inaudito accanimento dopo la senten- L S t los primo piano Condannare un uomo per dannare un intero popolo VIVE A PERUGIA. "L’ERRORE GIUDIZIARIO. L’AFFAIRE DREYFUS, ZOLA E LA STAMPA ITALIANA” (MOBYDICK 2004) MASSIMO SESTILI za, emerge con assoluta chiarezza la correlazione tra nazionalismo sciovinista ed antisemitismo: pur nelle evidenti differenze storiche, sociali, politiche e ideologiche, questi due movimenti trovano un punto di saldatura nella Francia di fine Ottocento. Tra gli scrittori impegnati ad alimentare questo clima di tensione, troviamo Maurice Barrès , autorevole voce di un nazionalismo violentemente xenofobo, che cura per "Le Figaro" la rubrica «Contre les étrangers»; mentre l’odio antisemita è alimentato e diffuso da Édouard Drumont, autore, nel 1886, de "La France Juive". Questo testo, con le sue 150 edizioni, può essere considerato a pieno titolo il manifesto del movimento antisemita francese. Nel 1892, Drumont fonda e dirige "La Libre Parole", che ha come sottotitolo «La France aux Français»: il quotidiano è la maggiore voce degli antidreyfusard, e chiede ripetutamente la condanna di Dreyfus. Molto attivo in tal senso è anche Max Regis, direttore del quotidiano algerino "L’Antijuif", che nel 1897 fonda la «Lega antisemita di Algeri». Nella campagna elettorale per l’elezione del sindaco della capitale algerina, che lo vedrà vincitore, chiude i suoi comizi con la seguente frase: «Noi arrossiremo l’albero della nostra libertà col sangue ebreo». I toni sono ormai talmente accesi che il diplomatico italiano Raniero Paulucci di Calboli poteva annotare nel suo diario: «È una buona professione alla fine del secolo XIX quella dell’antisemita». Tuttavia, di fronte alla canaglia antisemita nazionalista e xenofoba, che cerca di addossare all’ebreo le responsabilità di una crisi morale e politica che rischiava di sgretolare la giovane terza Repubblica, i più tacciono e voltano lo sguardo con gelida ipocrisia. Solo Bernard Lazare sa cogliere il pericolo dell’antisemitismo, riuscendo a individuarne oltre agli aspetti politici e sociali anche quelli psicologici: «L’antisemitismo è una forma dell’ipocrisia cristiana: il cristiano si emenda prestando i propri vizi agli ebrei; è anche una forma dell’egoismo cristiano». La vicenda di Alfred Dreyfus non è dunque solo un banale, per quanto deprecabile, errore giudiziario; ma un vero e proprio affaire che investe con inaudita violenza la società civile, la stampa, la politica, gli intellettuali. Un affaire che quotidianamente trova alimento nel clima di intolleranza che avvolge la società francese e che Voltaire aveva già denunciato nel caso di Jean Calas: «Parecchie persone che in Francia si chiamano devote dissero ad alta voce che era meglio lasciar mettere alla ruota un vecchio calvinista innocente, che esporre otto consiglieri della Linguadoca a riconoscere di essersi sbagliati. […] Non si pensava che l’onore dei giudici consiste, come quello degli altri uomini, nel riparare HANNO SCRITTO Giudizi sull’errore giudiziario Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame «L’operar senza regole è il più faticoso e difficile mestiere di questo mondo» Voltaire, Trattato sulla tolleranza «Non si pensava che l’onore dei giudici consiste, come quello degli altri uomini, nel riparare i loro errori» Victor Hugo, Napoleone il piccolo «Uno strano ordine, codesto che ha per base il disordine supremo, la negazione d’ogni diritto! L’equilibrio fondato sull’iniquità!» Bernard Lazare, L’affaire Dreyfus: un errore giudiziario «Fu dopo una campagna speciale contro gli ebrei nell’esercito che fu possibile un tale accanimento» Charles Péguy, La nostra giovinezza «La questione allora, per noi, non consisteva affatto nel sapere se Dreyfus fosse innocente o colpevole. Ma nel sapere se si avrebbe avuto o no il coraggio di dichiararlo, riconoscerlo innocente» Anatole France, Crainquebille «Disarmare i forti e armare i deboli, significherebbe cambiare l’ordine sociale che ho il compito di conservare. La giustizia è la sanzione delle ingiustizie stabilite» André Gide, Il caso Redureau «Si vedrà che il giurato, per soddisfare il suo sentimento della giustizia, non ha altra risorsa che dire: no, a dispetto di ogni evidenza; il che lo porta spesso a dire sì, a dispetto di ogni giustizia» Jakob Wassermann, Il caso Maurizius «Un fiuto quasi bestiale lo ha condotto sulla pista; e l’uomo dal berretto a visiera vi ha avuto una parte quasi pari a quella del fantasma del padre d’Amleto» Jean Giono, L’affare Dominici «Ma nulla è chiaro; si soffoca; degli uomini normali qui respirano male. Ci piacerebbe aprire tutte le porte» Leonardo Sciascia, Il contesto «L’errore giudiziario non esiste» Jules Verne, Un dramma in Livonia «È un magistrato indipendente, onesto, che ascolta solo la propria coscienza e non subisce pressioni politiche» pagina Nell’illustrazione Alfred Dreyfus viene degradato pubblicamente nel cortile della Scuola militare di Parigi. Questa raffigurazione diventerà un’icona GLI EBREI PERSEGUITATI NELLA TERRA DI VOLTAIRE LO STRAPOTERE DELLA CASTA MILITARE La condanna alla deportazione a vita ed alla degradazione militare, emessa all’unanimità nel più assoluto disprezzo delle regole e delle procedure, dopo un processo celebrato a porte chiuse con la motivazione che erano in giuoco vitali interessi nazionali, è identica, nella causa e nel fine, alla sentenza contro gli untori, che faceva osservare a Manzoni: «Si dirà forse che, in faccia alla giurisprudenza, se non alla coscienza, tutto era giustificato dalla massima detestabile, ma allora ricevuta, che ne’ delitti più atroci fosse lecito oltrepassare il diritto?» La straziante scena dell’ufficiale ebreo degradato svelava, ancora una volta, che l’ennesima persecuzione stava per iniziare, che gli ebrei non potevano considerarsi al sicuro neppure in seguito alle leggi emancipatorie e proprio nel paese che, patria dei lumi e di Voltaire, per primo li aveva resi liberi cittadini. L’affaire divenne tale - superando l’ambito di un mero processo per spionaggio - quando l’opinione pubblica fu mobilitata da Zola con i suoi reiterati e coraggiosi interventi nella stampa. Ma soprattutto divenne tale per la risonanza mondiale. Su "La Stampa" di Torino del 10 settembre 1899, in prima pagina, a commento della condanna di Dreyfus a 10 anni di fortezza, si legge quanto segue: «In Francia, Stato che appoggia la sua forza e la sua grandezza, come molti altri, in un vasto ordinamento militare [e l’accenno velato era alla Germania guglielmina, all’Inghilterra imperiale, alla Russia zarista: ma soprattutto alla Germania], s’erano già pubblicamente manifestati gravi sintomi che intaccano questo sistema». Era una giusta diagnosi. Si trattava di un sintomo dello strapotere della casta militare, che portò alla catastrofe del 1914. i loro errori». Seguendo la strada tracciata da Voltaire, Bernard Lazare scrive "Une erreur judiciaire: la vérité sur l’Affaire Dreyfus", pamphlet che ha avuto il grande merito di segnalare tutte le irregolarità del processo e di sollevare forti dubbi sulla colpevolezza del capitano ebreo. Irregolarità e dubbi che Lazare comunica a Scheurer-Kestener, vice presidente del Senato, e a Émile Zola che, il 16 maggio 1896, aveva iniziato la sua battaglia contro il crescente antisemitismo, con la pubblicazione sul quotidiano "Le Figaro" dell’articolo «Pour les Juifs». È l’inizio del movimento dreyfusard: la pubblicazione del J’accuse di Zola, sul quotidiano "L’Aurore", diretto da Georges Clemenceau, sarà decisivo per arrivare alla scoperta della vera spia nella persona del comandante Esterhazy e, dopo ben altri due processi, alla definitiva assoluzione di Dreyfus. Zola firma una delle più grandi requisitorie che siano mai state pronunciate contro la ragione di stato e in favore della giustizia: uno scritto che rimarrà nella storia per la forza e il coraggio espressi nel voler difendere i valori irrinunciabili di uno stato di diritto. Il leader socialista Jaurès racconta che Guesde in una riunione affermò: «La lettera di Zola è il più grande atto rivoluzionario del secolo». Recentemente Vincenzo Consolo, a proposito di Zola, ha parlato di una «scrittura posseduta dalla storia». La battaglia civile per il riconoscimento dell’innocenza di Dreyfus si intreccia dunque con l’opposizione al movimento antisemita e la difesa dei valori repubblicani. La stesura del manifesto degli intellettuali, firmato tra gli altri da Marcel Proust, Anatole France, Charles Péguy, Georges Clemenceau, Jean Jaurès, André Gide e Octave Mirbeau, è l’evento che segna la nascita del moderno intellettuale engagé, figura fondamentale per lo sviluppo di quel vasto movimento dreyfusard, che difenderà la Terza Repubblica traghettandola, con «lo spirito di Verdun» e la ritrovata unità nazionale, verso la vittoria nel primo conflitto mondiale. Tuttavia, la profonda lacerazione creata nella società francese dall’affaire non sarà mai del tutto rimarginata: il collaborazionismo del governo di Vichy ne è l’esempio più evidente. Con l’affaire Dreyfus, l’errore giudiziario entra prepotentemente nella letteratura, diventando un vero e proprio genere letterario in continua evoluzione rispetto all’iniziale pamphlet di denuncia. Se il caso è solo giudiziario, l’affaire è politico: la vicenda di Dreyfus esce dalle aule giudiziarie per investire tutta la società francese, provocando uno scontro politico epocale che cambierà completamente le sorti della terza Repubblica. Per interpretare un fenomeno di tale portata i modelli rappresentati da Voltaire, Bernard Lazare o Victor Hugo, Émile Zola, non sono più sufficienti perché risentono dell’urgenza dell’intervento immediato di denuncia. Il trauma provocato dall’affaire è tale da richiedere un esame approfondito dei cambiamenti avvenuti nella coscienza di un popolo che ha saputo dividersi e combattere in nome di valori forti, quali la verità e la giustizia. ALFIO SIRACUSANO L’AFFAIRE DREYFUS P Cronologia 1894 25 settembre 1895 6 ottobre 15 ottobre 29 ottobre 16 dicembre 19 dicembre 22 dicembre 5 gennaio 21 febbraio 13 aprile ottobre 1 luglio marzo 1896 agosto 6 settembre 18 settembre 6 novembre 1897 29 giugno 29 13 15 25 1898 ottobre novembre novembre novembre 11 gennaio 13 gennaio 14 gennaio 7-23 febbraio 24-25 febbraio 26 febbraio 2 aprile 18 luglio 13 agosto 30 agosto 1899 26 settembre 1 giugno 3 giugno 5 giugno 1 luglio 8 agosto 14 agosto 9 settembre 19 settembre 21 settembre 1900 1901 1902 14 dicembre 1904 1906 29 settembre 5 ottobre 5 marzo 12 luglio 13 luglio 1908 1923 1930 21 luglio 6 giugno maggio 22 ottobre 1935 I servizi segreti francesi intercettano una lettera (bordereau) indirizzata all’addetto militare tedesco dell’Ambasciata tedesca a Parigi, colonnello Schwartzkoppen. I sospetti cadono sul capitano Alfred Dreyfus, ufficiale stagista allo Stato Maggiore Arresto del capitano Alfred Dreyfus Émile Zola parte per l’Italia Ritorno dall’Italia di Zola Alfred Dreyfus compare davanti al Consiglio di Guerra All’unanimità Dreyfus viene condannato dal Consiglio di Guerra alla deportazione a vita ed alla degradazione militare Dreyfus viene degradato pubblicamente nel cortile della Scuola Militare di Parigi Dreyfus viene tradotto all’Isola del Diavolo nella Guyana francese Dreyfus arriva all’isola del Diavolo Il fratello di Alfred, Mathieu Dreyfus, scrive al presidente della Repubblica Félix Faure Il tenente colonnello Henry Picquart viene nominato direttore dell’Ufficio Statistica Picquart entra in possesso di una carta-telegramma (petit-bleu) proveniente dall’Ambasciata tedesca ed indirizzata al comandante Esterhazy Picquart si convince che l’autore del bordereau è il comandante Esterhazy. Divenuto pericoloso, Picquart è trasferito in Africa Nel timore che possa evadere, Dreyfus viene messo ai ferri Appello di Lucie Hadamard, moglie di Dreyfus, alla Camera dei Deputati Sollecitato da Matthieu Dreyfus, Bernard-Lazarc scrive Une erreur judiciaire. La vérité sur l’Affaire Dreyfus, vivace arringa in favore del condannato Picquart, rientrato a Parigi, confida al suo amico avvocato Leblois tutte le sue scoperte intorno all’affaire Dreyfus. Leblois rivela tali segreti al senatore Scheurer-Kestner. Scheurer-Kestner, vice presidente del Senato, interviene in favore di Dreyfus presso il presidente della Repubblica Zola si convince dell’innocenza di Dreyfus Matthieu Dreyfus denuncia pubblicamente Esterhazy con una lettera aperta al “Temps” Zola, dalle colonne del “Figaro”, inizia la sua campagna in favore di Dreyfus con un articolo dal titolo M. ScheurerKestner Il comandate Esterhazy viene assolto all’unanimità dal Consiglio di Guerra Il quotidiano “L’Aurore” pubblica la lettera di Zola al presidente Félix Faure dal titolo J’accuse “L’Aurore” pubblica un manifesto firmato da molti intellettuali che chiedono la revisione del processo Dreyfus Difeso dall’avvocato Labori, Zola viene processato dalla Corte d’Assise della Seine e condannato ad un anno di prigione ed al pagamento di una multa di 3000 franchi Come risposta al processo Zola, il senatore Trarieux fonda l’Associazione dei Diritti dell’Uomo Il colonnello Picquart viene radiato dall’esercito La Corte di Cassazione cancella l’arresto di Zola del 23 febbraio La Corte d’Assise di Versailles condanna nuovamente Zola ad un anno di prigione. La sera stessa Zola parte in esilio per l’Inghilterra Il maggiore Henry confessa al ministro Cavaignac di essere l’autore del falso. Viene arrestato e il giorno seguente si uccide o forse viene ucciso Zola apprende del suicidio del colonnello Henry, falsario e spergiuro, la cui confessione apre la via alla revisione. Esterhazy si rifugia in Inghilterra La domanda di revisione di Lucie Dreyfus viene accolta Viene arrestato du Paty de Clam La Corte di Cassazione annulla la sentenza contro Dreyfus del 1894 Zola torna in Francia Dreyfus viene trasferito a Rennes Inizia il nuovo processo a Dreyfus davanti al Consiglio di Guerra di Rennes Attentato a Rennes contro l’avvocato Fernard Labori, difensore di Dreyfus Il verdetto conferma il primo giudizio: Dreyfus è dichiarato colpevole con circostanze attenuanti a 10 anni di detenzione Il presidente della Repubblica firma la grazia per Dreyfus Con suo fratello Mathieu, Dreyfus, libero, si riunisce con la sua famiglia e si trasferisce a Carpentras in casa della sorella Viene emanata una legge di amnistia per tutti i reati relativi all’affaire Dreyfus Pubblicazione del volume La verité en marche, raccolta di articoli scritti da Zola a proposito dell’affaire Improvvisa morte di Zola Funerali di Zola. L’orazione funebre viene pronunciata da Anatole France La Corte di Cassazione dichiara ammissibile la domanda di revisione inoltrata per Dreyfus La Corte di Cassazione riabilita Alfred Dreyfus Dreyfus viene reintegrato nell’esercito con il grado di comandante d’artiglieria. Reintegrazione nell’esercito del colonnello Picquart con il grado di Generale di brigata. Qualche settimana più tardi, Clemenceau, divenuto presidente del Consiglio, lo nomina ministro della Guerra del suo nuovo governo Dreyfus viene decorato dalla Legion d’onore Le ceneri di Zola vengono traslate al Panthéon Esterhazy muore a Haependen in Inghilterra Muore Mathieu Dreyfus. Pubblicazione dei Diari del colonnello Schwartzkoppen, l’addetto militare tedesco, che discolpano completamente Dreyfus Muore Alfred Dreyfus rofessore Canfora, a leggere il J’accuse di Zola sul caso Dreyfus si rimane increduli e stupefatti. Ma com’è potuto accadere uno scandalo del genere? Erano così torbidi gli anni della Terza Repubblica? La storia della Terza Repubblica fino, all’incirca, allo scoppio della guerra (1914) è tutt’altro che una gloriosa storia democratica. La Repubblica nasce sul sangue dei comunardi ed in un clima politico e culturale in cui il nemico principale è l’(eventuale) ripetersi di esplosioni rivoluzionarie. I generali che hanno «salvato» la Francia dal «comunismo» hanno un peso enorme sui nuovi assetti che stanno per determinarsi. Basti ricordare solo alcune circostanze: per anni la neonata Repubblica non ha una Costituzione; per anni il rischio di un presidente monarchico alla magistratura suprema della Repubblica è realtà; infine si assisterà al tentativo di golpe, catastrofico ma sintomatico, del generale Boulanger. Per non parlare del tentativo tra il serio e il farsesco di riportare sul trono un «legittimo» re di Francia, il mancato Enrico V, tentativo che diede spunto ad una delle migliori e più riuscite e più mordaci poesie politiche di Carducci, La sagra di Enrico V, per l’appunto. Questa situazione, qui tratteggiata a grandi linee, presenta anche un tratto specifico e allarmante: la debolezza del movimento socialista. Anche questo è un effetto dello schiacciamento della Comune. Tale debolezza pone per anni i due (piccoli) partiti socialisti, rivali o concorrenziali, in posizione di subalternità. Sarà Jean Jaurès a conseguire una riunificazione, che, necessariamente, avrà luogo su posizioni moderate. Questa debolezza delle due «anime» della sinistra francese, quella giacobina e quella socialista, crea una situazione favorevole all’affermarsi di gruppi di pressione e ad una mentalità di destra. È il primo centenario della Rivoluzione (1889) che dà alla Francia la percezione di quanto il conflitto apertosi esattamente un secolo prima sia ancora aperto. È abbastanza chiaro che una delle componenti dell’affaire fu l’antisemitismo. Che evidentemente in Francia era molto più profondo di quanto non si creda. Quanto contribuì l’affaire a metterlo a nudo come problema europeo? L’antisemitismo fu di certo una essenziale componente dell’intera vicenda. Le radici dell’antisemitismo in Francia erano antiche e profonde. Ma non va dimenticato che il fenomeno era europeo e si potrebbe dire endemico: dall’Inghilterra di Houston Stewart Chamberlain alla Russia dei falsi «protocolli di Sion», dalla Germania di Paul de Lagarde e dell’Alldeutscher Verband alla Francia di Gobineau e di Charles Maurras. Come dimostrano molteplici e assai note ricerche, da quelle di Poliakov al recente volume di Giorgio Fabre intitolato Mussolini il razzista. La formazione di un antisemita, la componente complessivamente razzista (alimentata dalla gestione della politica coloniale) si salda con lo specifico razzismo antisemita o antiebraico: senza eccezio- 13 CANFORA Si preferì graziarlo ma la colpa gli rimase CENTO ANNI DOPO LA RIABILITAZIONE ni e con specifici esiti nei vari paesi. Peraltro il perdurante anti-ebraismo della chiesa cattolica fa la sua parte. Per il mondo cattolico (e non solo per esso) la massoneria è cornice e terreno di coltura dell’ebraismo. Combattere la «presa» massonica sulla società e sui gangli nevralgici del paese (di ogni paese d’Europa) diventa, spesso, anche una «caccia» alla (paventata) penetrazione ebraica al vertice dello Stato. In una situazione siffatta si intende come si sia pervenuti alla scelta di assumere il capitano, ebreo, Alfred Dreyfus come «capro espiatorio» e come, nonostante l’enorme indignazione suscitata, si sia, alla fine, battuta la strada della indiscriminata «grazia» anziché quella dell’annullamento della sentenza di condanna. Restando ancora sull’antisemitismo francese: si può dire che Vichy, con le sue complicità (a partire da quella di Pétain, non a caso uomo della casta militare), affonda lì le sue radici? Non è mai possibile una netta individuazione delle radici di eventi storici. Nel caso particolare si può sommariamente dire che le radici tanto di Vichy quanto del processo contro Dreyfus, quanto del costante pericolo di deriva a destra della Terza Repubblica, sono da ricercarsi molto indietro. Sono da ricercarsi in quella inesausta «guerra civile» tra le due «nazioni», compresenti nella stessa Francia, che incomincia col 1789/1793 e che non si esaurisce nemmeno col naufragio di Vichy. In questo senso François Furet parlò, a ragion veduta, della «grande Révolution» come di un fenomeno ancora aperto e largamente incompiuto. Peraltro la Rivoluzione aveva una base nell’identificazione tra «Repubblica» e «Nazione», però aveva stabilito di considerare appartenenti alla «nazione» i nati su suolo francese. E aveva, anche nella sua fase bonapartista, favorito la emancipazione degli Ebrei. Come mai i socialisti francesi non presero subito le parti di Dreyfus? Che l’antisemitismo sia «il socialismo degli idioti» è diagnosi esatta e icastica di August Bebel, ripresa in seguito numerose volte ed in momenti diversi. Penso, tra l’altro, al saggio di Isaac Deutscher L’ebreo non ebreo. Ma il fenomeno più macroscopico in tal senso è quello ben noto anche se rimosso: il «nazional-socialismo» tedesco, al cui fondamento c’è il razzismo con specifica polarizzazione anti-semita. Il socialismo «nazionale» è una breccia nel fondamento internazionalista del socialismo, e può portare ad esiti imprevedibilmente gravi, specie quando si incomincia a individuare il «nemico» non più in un’ottica di classe ma «nazionale» o si assume come «classe nemica» un popolo, una «nazione», da demonizzare. Che, negli anni della vicenda Dreyfus, tutto questo stesse incubando è chiaro anche dalla dimensione internazionale che prese l’affaire. La divisione fu trasversale e travalicò i confini nazionali. Non va infine dimenticato che, proprio nel fuoco di questa vicenda, Theodor Herzl diede il primo impulso alla nascita di un movimento che desse una speranza agli Ebrei, il movimento sionista: anch’esso, a suo modo, una costola del socialismo. L’Action française di Maurras nac- française, nonostante la sua pesante compromissione col regime di Pétain, si può ben dire che, all’origine, essa discende dal revanscismo anti-rivoluzionario e monarchico-militaristanazionalista della destra francese che non aveva mai accettato la Rivoluzione. Quando l’affaire diventò veramente tale? In genere si tende a dire che ciò avvenne quando di esso si impadronì l’opinione pubblica. Fu dunque questa la novità dirompente: il fatto che per la prima volta il potere politico (qui militare) dovette misurarsi con l’opinione pubblica sollevata da un intellettuale che aveva posto la questione morale? L’affaire divenne tale - superando l’ambito di un mero processo per spionaggio - quando l’opinione pubblica fu mobilitata da Zola con i suoi reiterati e coraggiosi interventi nella stampa. Ma soprattutto divenne tale per la risonanza mondiale. Su "La Stampa" di Torino del 10 settembre 1899, in prima pagina, a commento della criminale condanna di Dreyfus a 10 anni di fortezza (condanna dovuta ai falsi di Henry), si legge quanto segue: «In Francia, Stato che appoggia la sua forza e la sua grandezza, come molti altri, in un vasto ordinamento militare [e l’accenno velato era alla Germania guglielmina, all’Inghilterra imperiale, alla Russia zarista: ma soprattutto alla Germania], s’erano già pubblicamente manifestati gravi sintomi che intaccano questo sistema». Era una giusta diagnosi. Si trattava di un sintomo dello strapotere della casta militare, che portò alla catastrofe del 1914. L’affaire è soprattutto il sintomo di ciò che la casta militare, con le sue attinenze politiche e non solo politiche, avrebbe fatto di lì a poco. Altro che «democrazie»! Cent’anni dopo, e col Novecento alle spalle, lo possiamo dire: nel caso Dreyfus ci fu molto di staliniano, ma il contesto era «democratico», pur in un senso molto lato. Uno Zola poté comunque esserci, e alla fine Picquart fu riabilitato. Lei è critico nei confronti della democrazia, ma in questo caso non crede che essa abbia acquisito qualche merito? Non ci fu nulla di staliniano nel processo. Non fu un processo sommario di giustizia «rivoluzionaria» quale quella che operò in Francia durante il Terrore robespierrista o in Russia con Lenin e Stalin. Fu un processo ipocrita in cui le regole della procedura erano apparentemente rispettate. Perciò fu qualcosa di molto peggio della giustizia rivoluzionaria: allo stesso modo la finta democrazia è, per molti versi, molto peggio dell’aperta dittatura. Quanto è utile, oggi, ricordare la vicenda di Dreyfus? Se è vero che quarant’anni fa Sartre dovette vestire i panni di Zola, e che ancora oggi, solo per fare qualche esempio, Guantanamo turba le coscienze e certo fondamentalismo taglia le teste? La storia non si ripete meccanicamente. Sartre e molti altri, più capaci e moralmente più retti di lui, contrastarono un altro orrendo affaire della Francia «democratica»: l’uso della tortura in Algeria. Oggi questo accade a Guantanamo, ma è un alibi stolto dire che lo si fa per combattere il terrorismo. Guantanamo alimenta il terrorismo. que in quella temperie. Fu preannuncio del fascismo, come si dice? E in che senso? Nacque l’Action française. Certo, nell’affaire Dreyfus, Charles Maurras si tuffò con tutto il peso della sua insopportabile loquela e si schierò dalla parte degli antisemiti persecutori di Dreyfus; e, soprattutto, si schierò in difesa della cosiddetta giustizia militare e dei suoi crimini. Ecco i fatti. Dreyfus era stato arrestato, con l’accusa di tradimento, sulla base di un documento che invece era opera del vero «traditore», Ferdinand Esterhazy. Picquart, ufficiale galantuomo del «Deuxième Bureau», smascherò Esterhazy, ma un altro ufficiale dello stesso servizio, Hubert Henry, falsificò il documento Esterhazy per scagionare quest’ultimo. Il ministro della guerra, Eugène-Godefroy Cavaignac, cercò fino all’ultimo di affossare Dreyfus e «salvare» la giustizia militare, ma la colpevolezza di Henry venne finalmente fuori, mentre Esterhazy fuggiva in Inghilterra. Henry fu trovato morto, in circostanze oscure, nella sua cella. Maurras si lanciò, dalle colonne della repugnante "Gazette de France", nell’apologia di Henry, presentato come «martire». Scrisse Maurras, esaltando il falsario che aveva tentato ogni strada per rovinare Dreyfus: «Forza, decisione, finezza, niente ti è mancato, se non un po’ di fortuna. Hai dispiegato doni superiori di iniziativa e di risolutezza. Li hai messi a frutto con frenesia, fino ad ingannare i tuoi capi, i tuoi amici, e colleghi e concittadini, ma lo hai fatto per l’onore di tutti, per il bene di tutti (sic!). Le tue parole "andiamoci! [intendi: in galera]", passate in proverbi, assumono ormai un valore misterioso e profondo. Sono e restano le parole di un soldato. Divengono parole di moralista e di statista: noi faremo in modo che divengano immortali». Che a sua volta l’Action française sia stata uno dei «tre volti» del fascismo è stato affermato da Ernst Nolte (quando scriveva libri soprattutto antifascisti, ed il più noto di essi si intitolava appunto I tre volti del fascismo, pubblicato in Italia negli OscarMondadori). È affermazione che si può discutere, come si è discusso (a torto) se il franchismo fosse o no una costola del fascismo. Alcuni studiosi tendono a sottolinearne la specialità «ispanica». Nel caso dell’Action L’anti-ebraismo come ambito dove l’ufficiale francese fa da capro espiatorio di istanze, fermenti, giochi di potere programmi politici nei quali nemmeno la chiesa cattolica è estranea: un filo nero che percorre un’intera stagione europea, dalla Terza repubblica alla Seconda guerra mondiale pagina 14 S t los autori stranieri Nella foto superiore l’americano David Foster Wallace. In basso John Perkins, che da Minimum fax ha pubblicato Confessioni di un sicario dell’economia ne ho contati almeno una decina, in buona parte di quel tipo di rima di cominciare, tanto per capirci: userò d’ora in poi errori macroscopici che rendono le frasi ridicole o peggio inDFW al posto di David Foster Wallace. Siete avvertiti. comprensibili. Il mio preferito è il titolo del libro sbagliato sulChe non lo faccio per gigioneria né per simulare una l’intestazione di 36 pagine consecutive (e qui la domanda è: da sorta di confidenza acrostica col personaggio (e quindi, quale tipo di malformazione oftalmica devi essere affetto per per estensione, con la persona proprio): è solo che il mio non accorgerti di una roba del genere? Specie se il tuo lavoro è correttore ortografico continua a modificarlo in «Fallace». Il geaccorgerti di roba del genere?). Il che ci porta al primo grande nere di fastidi che uno cerca di evitarsi, specie se sta parlando del paradosso dei libri di DFW: sono scritti da una delle menti più suo eroe. auto-consapevoli e pignole del pianeta (per sua stessa ammissioSe «eroe» suona eccessivo, la si metta così: non hai più voglia di ne, nel corso del testo, e come potrebbe essere altrimenti) ma per risparmiare sugli epiteti quando ti sei letto tutto quello che è stacome vengono pubblicati non possono che sfuggire al suo conto pubblicato da un autore statunitense che è famoso anche per la trollo, e tu che sei il lettore ti ritrovi questo saggio saccentissisua totale avversione per i lunghi viaggi (uno che pur vivendo nelmo sull’uso della lingua come veicolo di autorità con un errore la stessa epoca in cui tu hai voltato l’ultima delle 1400 pagine del tipografico ogni due pagine. La prima impressione che ne ricasuo capolavoro Infinite Jest ti eri rassegnato a confinarlo nel limvi è sgradevole quanto quella volta in quarta superiore che il prof bo degli intoccabili da un punto di vista fisico prima che letteradi italiano si era fatto scappare un «venghi alla lavagna». (Il che rio) e soprattutto hai appena scoperto che quell’autore ha intenziovaleva anche per la penultima opera non-narrativa di DFW edine di mettere il naso fuori dagli Usa, soltanto per venire a farsi un ta in italiano, in cui «integer» veniva tradotto con «integrali», incontro pubblico a due passi da casa tua. mandando così a ramengo un intero trattato matematico, e hai Definito il personaggio, ecco il contesto: Capri. Quando: il 2 ludetto niente.) glio. Perché: nessuno dev’esserselo chiesto. Nemmeno Zadie Ma siccome non sta bene criticare e basta, ecco la mia proposta: Smith, o Nathan Englander, o Jonathan Franzen, che si sono alterammettiamo che i testi di DFW non dovrebbero finire in mano nati sulla stessa pedana al centro dello stesso belvedere a picco sula correttori di bozze sciagurati (e l’imminente ripubblicazione di la stessa scogliera sulla quale l’ultima sera si è seduto DFW. Infinite Jest per lo stesso editore di Considera l’aragosta da queEssere l’ultimo della serie caprese si è poi rivelato un bel colpo di sto punto di vista mette abbastanza i brividi) ammettiamo tutto fortuna perché DFW è capitato nell’unica serata priva di partite del questo e diciamolo tranquillamente, una volta per tutte, che la somondiale di calcio. Salta fuori che il suo incontro è stato l’unico a luzione è: DFW on-line. Diciamolo: vogliamo il blog di DFW. dilungarsi oltre il limite ultimo del fischio d’inizio, e insomma nesNon ci va più di tenere due segnalibri quando leggiamo le sue cosuno dei sedici presenti s’è dovuto defilare adducendo scuse ridicose più complicate, uno per il testo e uno per le note al testo. Non le pur di non ammettere che sì, tutti questi scrittori da New York in ne possiamo più di leggere «aureola» al posto di «areola», spequest’isola tanto esclusiva, ma vuoi mettere 22 uomini in braghe corcie se il Nostro sta parlando delle tette di Janet Jackson. Dategli te che inciampano attorno a una palla? un blog, e lasciate che la sua pignoleria paranoide si sfoghi fino Quindi, ricapitolando, il pubblico che DFW ha incontrato a Capri a al momento di premere il tasto «pubblica». I suoi fan sarebbero un rapido e parziale esame risultava così composto: cinque abbroncontenti. È tutta gente abbastanza sfigata da appassionarsi a un zatissimi turisti americani che in clima di mondiale non vedevano blog, se il blog lo tiene DFW, garantil’ora di poter partecipare a un evento to. Lo dico per esperienza personale. pubblico in cui erano loro i primi a caVolevo parlargliene, a Capri, finito pirci qualcosa e tutti gli altri ad aspetta- DAVID FOSTER WALLACE . Incontro ravvicinato, dopo apposito l’incontro, di questa cosa del provare re la traduzione, cinque giornalisti di poche selezionatissime testate, i due edi- viaggio, inclusa traversata per Capri, con un mito della letteratura Usa: ad avere un controllo pressoché totale sulla sua produzione non-narrativa. tori italiani di DFW (si siedono parecMa quello che ci siamo detti si è ridotchio lontani l’uno dall’altro, per la cro- un mostro sacro al quale un nostro giovane scrittore, dopo averlo to a: naca), due traduttrici, l’organizzatore ascoltato, tutto ciò che sa dirgli è: «Scusa, ho la mano sudata» «Ciao, ehm, ho la mano sudata.» del ciclo di incontri e un tizio disposto «Ah.» anche a dormire dove gli capita su que«Scusa.» st’isola altrimenti inaccessibile pur di in«No, tranquillo, capita sempre anche a contrare DFW. me.» Tanto per darvi un’idea: questo tizio, «Belle scarpe, comunque. Sicuro che quel pomeriggio stesso, sull’aliscafo, Marty McFly non le rivoglia indiequando è partito il filmato che spiegatro?» Ma lui non ha colto, o ha colto va tra le altre cose che il segnale di alfin troppo bene, e comunque ha rilarme sarebbe stato sette fischi lunghi preso a firmare autografi. più un fischio breve seguito dal suono Il tipo dietro di me gli ha allungato continuo dei campanelli d’allarme in carta e pennarello e gli ha detto che ancaso di «emergenza grave», oppure che lui ha scritto un romanzo di 1500 due fischi lunghi seguiti dal suono continuo dei campanelli di allarme per un «incendio a bordo», ha REGGINO EMILIANO, VIVE A ROMA. È L’AUTORE DI "16 pagine. DFW sorride, scrive: «Attento, ricordati che il tuo libro te lo dovrai portare appresso ad ogni presentazione», poi firma. immaginato che se DFW fosse stato lì con lui in quel preciso moVITAMINE" (MINIMUM FAX, 2005) E IL FONDATORE Il fan subito dopo vede una zanzara appoggiarsi sul bicipite abmento avrebbe preso un appunto e si sarebbe chiesto: «Quindi un DELLA RIVISTA "FAM" (WWW.FAMLIBRI.IT) bronzato di DFW, gliela indica e lui la spiaccica col libro del tiincendio a bordo non è un’emergenza grave?» Almeno per come po. Io lo guardo allontanarsi con la sua copia autografata e insanlo conosceva lui (cioè quasi niente; ha solo letto ogni singola riguinata, e quella che sento potrebbe essere invidia. ga che ha pubblicato e poi gli ha stretto la mano a Capri) ha creIVANO BARIANI Dietro gli occhiali, sotto una patina di tipico sudore caprese, la duto che lo avrebbe fatto; il filmato era anche in inglese. Alla fine, quando va a sedersi lì davanti, DFW risulta un bambo- di DFW, ci sono: un reportage, una recensione, la trascrizione di faccia di DFW rimbalza intanto tra lo spavento e la scocciatura. lone biondo con la bandana e le scarpe da ginnastica a collo al- un brevissimo discorso tenuto da DFW a un convegno letterario, Durante l’incontro l’hanno fatto parlare del rapporto fra immato come negli anni Ottanta. Fuma a ripetizione, corregge le rispo- un pippone dichiaratamente snob con parecchi problemi di leg- gine e realtà, delle difficoltà di insegnare l’ironia di Kafka ai suoi ste mentre sta finendo di darle, poi corregge le correzioni delle ri- gibilità, la cronaca di dov’era e cosa stava facendo DFW l’11 set- studenti, se la vita è tutto o soltanto illusione, e alla fine di «cosposte e via così nella versione live di quell’atmosfera in-diret- tembre del 2001, un’altra recensione, due reportage, una terza re- me mai gli americani capiscono così poco di calcio». Quando ha risposto all’ultima domanda, dal pubblico si è levato un applauta-dal-mio-cervello che si respira nei suoi reportage. censione e un ultimo reportage. DFW comunque non ha solo problemi di interazione sociale. La prima metà del problema è che ognuno di questi testi era già so divertito. Quell’uomo ha anche un problema editoriale: ogni tanto una ca- stato pubblicato, nei formati e sui supporti più diversi, da alme- Ed è lì che la sua faccia ha virato su una specie di: «Ah, ecco. Gli sa editrice mette insieme una raccolta dei suoi testi non-narrati- no un paio d’anni al momento dell’uscita in libreria. In alcuni ca- parli di massimi sistemi e tutti zitti. Gli nomini il calcio e arrivavi e la manda in libreria. «Saggi» non rende l’idea e «articoli» è si gli articoli in questione erano anche già stati tradotti e diffusi no gli applausi». Se ne abbia ricavato un qualche tipo di buffo semplicemente riduttivo; dovete pensare a lunghi reportage con on-line (ve lo dico tanto per ridimensionare il concetto di «nuo- aneddoto istruttivo sugli italiani e il loro rapporto con il calcio, non ci è dato saperlo. Ma mentre ce ne andiamo, tutti quanti, mi note a piè pagina, considerazioni commoventemente personali, vo libro di DFW»). contro-osservazioni di un cinismo siderale e badilate su badila- La seconda metà del problema di DFW con le raccolte dei suoi ritrovo vicino il fan con la macchia di sangue sotto la dedica. La te di stile; «testi non-narrativi» è la loro qualifica più generica. testi non-narrativi sono i refusi. In un libro di 382 pagine io (che sta mostrando al compagno. Lo sento chiedere: «E se invece aveIn Considera l’aragosta, l’ultima raccolta di testi non-narrativi a scapito del mio fanatismo resto un lettore piuttosto distratto) va appena morso qualcun altro?» P Per favore, dategli un blog che si sfoghi fino al «post» MARINA TOROSSI TEVINI he il nostro mondo sia ampiamente sperequato, con pochi che sguazzano nella ricchezza e i più che annegano nella miseria, e che ci si trovi intrappolati in un meccanismo economico dotato di un appetito insaziabile di risorse è cosa ben nota all’opinione pubblica occidentale. La lettura però di queste «confessioni» di un uomo che per gran parte della sua esistenza è stato uno dei massimi funzionari di una multinazionale americana, e quindi ha potuto conoscere dall’interno e di prima mano la corruzione, i raggiri, lo sfruttamento dei paesi in via di sviluppo, svela dettagli inediti e mette di fronte a realtà non sempre abbastanza conosciute. Ciò che interessa in Confessioni di un sicario dell’economia è soprattutto l’esperienza personale dell’autore, la sua vita da complice di un sistema che lo costrinse al silenzio per anni anche attraverso favori e privilegi. Il libro racconta perlopiù fatti relativi agli anni Settanta e l’autore ne iniziò la stesura agli inizi degli anni Ottanta, dopo aver abbandonato la Main, la multinazionale statunitense per cui aveva lavorato per dieci anni come economista. La stesura dell’opera poi fu più volte interrotta e solo recentemente l’autore completò l’opera e la riuscì a pubblicare. In Confessioni di un sicario dell’economia sono narrati nei dettagli i rapporti degli alti funzionari delle multinazionali, definiti da Perkins «sicari dell’economia», che attraverso favori erogati ai leader dei paesi in via di sviluppo li inserivano in una trappola che favoriva gli interessi commercia- C JOHN PERKINS. La talpa di una multinazionale Insider dalla gola profonda li degli Stati Uniti e strangolava in una rete di debiti i paesi del Terzo mondo. Perkins a un certo punto della sua esistenza, anche per merito di una certa Paula, colombiana e sorella di un guerrigliero locale, comincia a prendere le distanze dal suo lavoro e a desiderare di non essere più corresponsabile di un sistema che sente iniquo. «Io ero leale verso la repubblica americana - scrive Perkins - ma ciò che stavamo perpetrando mediante questa nuova e sottilissima forma d’imperialismo era l’equivalente finanziario di ciò che avevamo tentato di ottenere militarmente in Vietnam. Se il Sudest asiatico ci aveva insegnato che gli eserciti hanno dei limiti, gli economisti avevano reagito escogitando un piano migliore e gli enti per la cooperazione internazionale e gli appaltatori privati che erano al loro servizio (o più esattamente che se ne servivano) erano diventati abilissimi nell’eseguire quel piano». Naturalmente la «conversione» non avviene in un attimo. «Mi c’era voluta l’esperienza in paesi come l’Indonesia, Panama, Iran e Colombia perché comprendessi le implicazioni più profonde della mia attività». Ma inesorabile avanza nella sua mente l’idea di essere complice di un sistema profondamente ingiusto: «L’impero globale è la nemesi della repubblica. È egocentrico, egoista, avido e IL LIBRO JOHN PERKINS "Confessioni di un sicario dell’economia" Trad. Giuliana Lupi pp. 309, euro 15 Minimum fax, 2005 Sostituire il mondo con uno più giusto È un libro coraggioso, come sottolinea più volte lo stesso autore nella prefazione: raccontare la storia della propria vita e definirsi un «sicario» indubbiamente non è da tutti. Lo può fare solo chi crede che è possibile sostituire il mondo esistente e crearne uno più giusto. John Perkins ha fondato una compagnia impegnata nella ricerca di fonti alternative e sostiene associazioni no-profit a favore delle culture indigene del Sudamerica. materialista. Un sistema basato sul mercantilismo. Come gli imperi che lo hanno preceduto, le sue braccia si aprono soltanto per accumulare risorse, per arraffare tutto ciò che vede e rimpinzarsi l’insaziabile stomaco». Perkins prende atto della differenza profonda tra la vecchia repubblica americana che «offriva al mondo una speranza» ed «era basata su concetti di uguaglianza e giustizia per tutti» che «sapeva essere pragmatica… sapeva spalancare le braccia per accogliere gli oppressi… se necessario sapeva entrare in azione, come aveva fatto durante la seconda guerra mondiale» e «un rapace e subdolo impero globale». «Non potevo pensare che i nostri Padri Fondatori avessero previsto il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità soltanto per gli americani» conclude e si chiede «come sarebbe stato il mondo se gli Stati Uniti e gli stati loro alleati avessero destinato tutti i soldi spesi nelle guerre coloniali - come quella in Vietnam - per estirpare la fame nel mondo o per rendere disponibili per tutti i popoli l’istruzione e la sanità di base». Domande che sono entrate ormai nella mentalità diffusa presso l’opinione pubblica occidentale ma che negli anni Settanta furono una conquista non facile per Perkins anche perché fatta all’interno di un sistema che gli offriva una gran quantità di privilegi. Oggi l’Occidente è ben ricettivo nei confronti di questi temi (il che non significa che i problemi che sono a monte degli stessi siano stati risolti. Anzi. In certi campi possiamo osservare una situazione pesantemente aggravata). Il lato positivo però è che l’opinione pubblica è ampiamente convinta che il sistema della crescita illimitata non sia un bene in sé e per sé e che possa pericolosamente deragliare andando fuori controllo come in effetti in molti campi succede. Rispetto agli anni Settanta dunque da un lato si sono maturate le condizioni che rendono il libro più commerciale, dall’altro la provocatorietà ne viene in qualche modo compromessa in quanto va ad aprire porte che sono già ampiamente spalancate. Il grande consenso alle idee espresse da Perkins negli Stati Uniti, dove il libro è stato pubblicato nel 2004, è legato certamente al fatto che le idee di base sono ben consolidate nella mentalità comune. Paradossalmente però il consenso al libro è la prova che forse adesso potremmo spingerci su posizioni più variegate e complesse. Prendere insomma queste idee di base come punto di partenza e non d’arrivo per pervenire a posizione più articolate e meno manichee. Fermo restando, ovviamente, il grande interesse che questa «confessione» di un insider suscita. S C A F F A L E ERNST JUNGER, Heliopolis, trad. Marola Guarducci, pp. 369, euro 19,00, Guanda 2006 La tecnica domina Heliopolis, una città tutta rivolta al futuro che tuttavia custodisce ricordi e frammenti dei nostri tempi. La città è scossa da uno scontro di potere: tradizioni e comunità vengono cancellate dall’esercito con le sue armi potenti e micidiali; però la stessa tecnologia, pur distruggendo, ha conservato anche qualcosa del passato grazie a della apparecchiature che archiviano il sapere umano. Protagonista è il comandante Lucius che si dibatte in contraddizioni tra culto della disciplina e l’attrazione per una donna altera e sfuggente, Budur. Heliopolis fu pubblicato da Junger nel 1949 ed è considerato un romanzo del genere visionario. MARTIN KEMP, Leonardo, trad. Davide Tarizzo, pp. 159, euro 21,50, Einaudi 2006 Il protagonista descrive minuziosamente i paesaggi ed i panorami che si trovano attorno alla villa Vignamaggio in Toscana nella cui terrazza adesso lui sta scrivendo con il suo computer portatile. La villa apparteneva alla famiglia Gherardini la cui figlia Lisa era la modella enigmatica di Leonardo. È tutto un incanto una terra che ammalierebbe chiunque. La villa adesso è adibita a stanze in affitto ed il protagonista occupa la suite «Monna Lisa». Nell’austera atmosfera un vento improvviso fa ondeggiare misteriosamente lo schermo del portatile come se un antico spirito fosse stato disturbato in quella austerità difendendo i segreti di quel luogo quasi sacro. Kemp è il massimo esperto di Leonardo e in questo campo si è prodigato in numerose opere. JAVIER CERCAS, La velocità della luce, trad. Pino Cacucci, pp. 245, euro 14,50, Guanda 2006 Un giovane scrittore catalano che insegna in una piccola città del Midwest si ritrova a condividere le vicende del suo compagno di camera. Si chiama Rodnej, reduce della guerra del Vietnam il cui ricordo è il suo incubo peggiore. Rodnej un giorno scompare ed il giovane catalano non smette di cercarlo insieme col padre ripercorrendo il suo passato nell’orrore della guerra. Ma l’orrore non è una prerogativa della guerra. Per il protagonista l’orrore si manifesta quando raggiunge il successo letterario drammaticamente travolgente come Rodnej, faccia a faccia con i suoi demoni. Per questo vuole ritrovare l’amico, per sapere da cosa sta fuggendo e anche perché il suo dolore non rimanga un passaggio inutile nella vita di ognuno. Javier è l’autore del noto romanzo Soldati di Salamina. JOSEPH O’CONNOR, Desperados, trad. Massimo Bocchiola, pp. 449, euro 8,50, La Fenice 2006 Frank Little, un tassista irlandese, si reca in Nicaragua mentre il paese è a terra per la guerra civile. Vuole ritrovare il corpo di Jonny il figlio morto. Così, assieme all’ex moglie e alla band «Desperados de amor» della quale faceva parte Jonny, parte su un camper scalcinato. Scopre i contrasti del paese con la sua storia tormentata. Nulla si sa di Jonny. Joseph O’Connor svela con pudore ed arguzia la voglia di vivere di uno sconfitto. Dublinese, ha all’attivo molti titoli tra romanzi e raccolte di racconti, tutti pubblicati da Guanda. STEPHENIE GERTLER, Solitudini di coppia, trad. Cecilia Scerbanenco, pp. 294, euro 16,60, Corbaccio 2006 Il matrimonio di Olivia e Carl è perfetto, professori universitari, una figlia a Cape Cod finché un giorno l’affidabile Carl scompare. Olivia cade nell’angoscia più profonda rievocando la disperazione dopo la morte del suo primo marito. Cerca tuttavia di ritrovare il suo equilibrio interiore mente Carl è ritornato nella sua città per riscontrarsi con il passato mai sopito. La storia di segreti non condivisi, pensieri nascosti, cose non dette. Bisogna dialogare ed imparare a dialogare perché l’unione abbia un futuro. LUCIA ETXEBARRIA . Una discesa intimistica n mélo, perennemente in bilico - come la donna del titolo - fra tragedia e commedia, fra gioco degli equivoci e dramma generazionale, in una Spagna vitale ed effervescente al tempo di Almodovar e Zapatero. Una giovane donna scrive una lettera alla propria figlia appena nata; questa lettera si dilata fino a trasformarsi in un romanzone per certi aspetti fluviale e, a tratti, anche prolisso; la cornice epistolografica cede quasi subito sotterrata da un profluvio di riflessioni ed analisi, anche similsaggistiche, sul confronto-scontro fra Spagna vieja e nueva, sulle differenze di genere (maschio-donna, gay e checche, lesbiche e trans…), su razionalità e sentimento, su identità ed ambiguità… Eva Agullò, l’io narrante che scrive questa lettera, è un’autrice che vorrebbe dedicarsi alla scrittura di raffinate analisi di critica letteraria, ma che invece ottiene fama e celebrità dalla scrittura, su commissione, di un romanzo modaiolo dall’emblematico titolo "Tossiche". Ma come vuole la massima capotiana («Sono più le lacrime che si spendono per le preghiere esaudite piuttosto che per quelle irrealizzate») la celebrità diventa per lei l’inizio di una graduale discesa agli inferi, dove i gironi sono costituiti da tutte le opzioni e forme possibili della dipendenza e del degrado. Il coinvolgimento in uno scandalo di chiara matrice gossipara, sul quale i media si gettano senza ritegno, la indurranno ad una fuga a New York con svolta imprevista e decisiva, con il conseguente ritorno a Madrid, la nascita della figlia e la morte della madre. La narrazione è condotta in modo ancipite perché gli episodi della vita di Eva e della sua famiglia si intersecano VIVE A OSIMO (AN) ED INSEGNA MATERIE LETTERARIE IN UN ISTITUTO SUPERIORE. COLLABORA CON "GIUDIZIO UNIVERSALE" LINNIO ACCORRONI con le pagine della lunghissima lettera scritta alla figlia. Un libro dalla struttura onirica e circolare, fra prolessi e reiterazioni, fra enigmi e agnizioni, un romanzo di passioni e deliri esibiti senza imbarazzi o pruderie, una festa mobile di sentimenti e di trasgressioni, di riso e di pianto. Stilos ha intervistato l’autrice. Il titolo originale del libro, "Un milagro en equilibrio", è stato tradotto, curiosamente, in italiano con un anodino Una donna in bilico. Le sembra un titolo confacente alla trama corposa e movimentata del suo romanzo? A me sarebbe piaciuto che fosse mantenuta una traduzione più attendibile al titolo originale. La casa editrice ha preferito cambiare: la ragione di questa scelta andrebbe chiesta a loro. Si può dire che il vero leitmotiv del libro è quello della lotta, mai terminata, nei confronti di varie forme di dipendenza: la dipendenza dall’alcool, dagli amori (sbagliati e non), dagli affetti familiari, da cliché modaioli, etc..? È proprio così. Io credo che il libro sia la storia di una dipendenza e dei modi di sfuggire da essa. Ma ugualmente tratta della violenza psicologica. Le pagine più visceralmente sentite del libro sono quelle in cui viene sceverato il terribile meccanismo su cui la stampa scandalistica prospera e dilaga. Poiché questo libro è un racconto sulla violenza, non potevo esimermi dal LUCIA ETXEBARRIA "Una donna in bilico" Trad. Roberta Bovaia pp. 410, euro 16,50 Guanda, 2006 15 IDOLINA LANDOLFI Il cammino personale verso la coscienza Una donna, Eva, protagonista di due tappe di conquista esistenziale: la prima il ritrovamento dell’amore pulito con un ragazzo newyorkese con il quale concepisce Amanda; la seconda la scoperta che non solo lei ma anche i gentiori sono stati persone fragili e incerte. La redenzione dalle personali ossessioni in una esperienza di crescita che insegna come la vita sia uno stato di equilibrio e un cammino verso la consapevolezza. SECONDA LETTURA Serve un miracolo per avere equilibrio PATRIZIA DANZÈ Che ironia, dopo tanto femminismo e postmodernismo, ritrovarsi, alla fine, a cantilenare una lunga ninna nanna alla propria figlia. Una ninna nanna cullata al ritmo di un tango di Gardel, un tango triste che canta di sogni non realizzati e di fallimenti, condizione propria e peculiare dell’essere umano. A cantarla, questa lunga ninna nanna sotto forma di una lettera è Eva, il bel personaggio femminile di Una donna in bilico, il romanzo con cui la «ragazza terribile di Spagna», Lucía Etxebarría, ha vinto il prestigioso Premio Planeta 2004. Scritto in prima persona, con Eva che con un incipit perentorio («comincerò») enuncia immediatamente la sua intenzione di aprirsi ad una dimensione assolutamente soggettiva, è rivolto ad un «tu» che motiva il romanzo-lettera e lo struttura interamente. Ma, come in ogni lettera che si rispetti, si scrive per se stessi e non per l’altro; e così facendo, si sa, si finisce per dire più di quello che si voglia, e, forse, più di quello che in fondo piaccia di far sapere. Si finisce insomma per scrivere più un diario intimo che una lettera con finalità comunicative, e per dare la stura, con quei misteriosi segni neri, al desiderio di colmare (o di allargare, secondo i punti di vista) lacune, squarciando il velo spesso della memoria sommersa. E così ad Amanda, la destinataria, la bambolina carissima, «il cioccolatino al liquore con la ciliegina dentro», la «luce a cui attinge il sole», che ancora non può capire perché è solo (per quanto sveglia e ben presente) una neonata, ma soprattutto al lettore, destinatario comprimario insieme alla piccola, viene raccontata la storia di un io femminile che per tanto tempo si è sentito in bilico e che ha realizzato con la maternità un «miracolo» di equilibrio. Non può essere casuale che il titolo originale del romanzo della scrittrice basca, sia "Un milagro en equilibrio"; è quel che raggiunge Eva dopo una vita vissuta al ritmo di insicurezze, errori, mancanza endemica di autostima, che ha cercato di combattere collezionando una catastrofe (soprattutto sentimentale) dietro l’altra e portando a galla la parte più divertente e disinibita di se stessa, complice l’alcol che ha fatto in modo che la sua paura della gente svanisse miracolosamente in un bicchiere con cubetti di ghiaccio. Poi cambia qualcosa. Dopo un viaggio a New York, un periodo anch’esso stravagante e allucinato come la sua vita sino ad allora, Eva si trova per la prima volta a considerare il doppio di se stessa. Quando la madre di Eva muore e al dolore della perdita si associa quello della colpa, quando Eva prende a sua volta coscienza della condizione di madre, quando comprende che anche i genitori hanno dolori e fragilità, quando accetterà se stessa come un «miracolo in equilibrio», sarà pronta per ballare il tango malinconico ma necessario della vita. n quadro è un po’ una fine- JONATHAN HARR. Sulle tracce di un Caravaggio stra sul passato», questo è il fil rouge dell’ultimo romanzo di Harr e, in particolare, di tutta l’esistenza di uno dei suoi protagonisti, lo storico dell’arte Sir Denis Mahon, che ritiene che «studiare le opere di un Sa già che si tratta del Caravaggio artista sia un po’ come accedere ai reperduto. cessi della sua mente». Una mente che, VIVE A CATANIA. SVOLGE UN nel caso del pittore che lo ossessioDiversamente da Civil Action, l’autoDOTTORATO DI RICERCA IN nerà sempre, è quella di «un folle e di re non ha potuto seguire l’evento nel GEOGRAFIA A LINGUE E LETTEun omicida, forse; ma certamente di un suo svolgersi, ma lo ricostruisce attraRATURA STRANIERA DI CATANIA genio». La mente geniale e contorta di verso i racconti dei protagonisti, Caravaggio. L’alone di mistero che «estorcendo» loro anche dettagli sulammanta la sua esistenza domina il rola vita privata e aneddoti per colorare TERESA GRAZIANO di «vissuto» quello che altrimenti samanzo. Ma soprattutto il realismo crurebbe solo un saggio storico. E invedo di corpi che sembrano squarciare la familiari e grandi avvenimenti che ha ce è un ibrido tra il saggio specialistitela, la sfacciataggine di colori vividi, il sapore della carta ingiallita. È la loco e la detective story condita da palpitanti, di muscoli tesi e bocche ro dedizione che sfida la stanchezza, spruzzatine di suspense, non sempre spalancate, di cortigiane dagli occhi le lungaggini burocratiche, la diffisapientemente distribuite, cui manca saettanti che prestano il volto alla Ma- denza dei baroni dell’università, l’inquel ritmo incalzante da togliere il donna. Ma non è Caravaggio il vero dolenza di impiegati annoiati, le attese estenuanti per fiato. Piuttosto, ha il ritmo lento di protagonista. il prestito dei libri una ricerca tra scaffali polverosi. È la meticolosa riR e c e n s i o n i in un’università cerca di Laura TeÈ una sorta di fictional essay, in cui la «darwiniana». sta e Francesca ricostruzione di un evento realmente JONATHAN HARR Harr ricostruisce Cappelletti, giovaaccaduto si dipana come un romanzo. "Il Caravaggio perduto" ni laureate in Storia In cui i personaggi in carne e ossa asTrad. Daniele Didero, Stefano Galli il cammino impervio delle due dell’arte che spulsumono la consistenza di quelli di pp. 298, euro 14,45 studiose con la ciano in bui archivi carta ma, per restituirne una dimenRizzoli, 2006 stessa meticolopolverosi alla ricersione più sfaccettata, sono raccontati ca di riferimenti a un dipinto perduto sità con cui esse conducono le riceranche attraverso dettagli personali. dell’artista, la Cattura di Cristo. È la che, e quello altrettanto difficoltoso Harr tenta di intrecciare tutti i fili delloro passione per l’arte, non ancora del restauratore presso la National la narrazione, ma non sempre questi contaminata da smanie carrieristiche Gallery of Ireland di Dublino, Sergio confluiscono in un ordito saldo e e beghe accademiche. È il loro piace- Benedetti, che si imbatte per caso nel omogeneo. Il romanzo ogni tanto trare di sfiorare antichi inventari rilega- dipinto in una residenza di gesuiti e meta. Ma l’autore, invece di seguirli disce qualche sintomo della recente ti in cuoio e rosicchiati dalle tarme, inizia il complesso lavoro di restauro. contemporaneamente, li tratta in suc- epidemia di best-seller pseudostorici nel cui inchiostro sono condensate I sentieri separati di Sergio e France- cessione, per cui il lettore, che ha già infarciti di misteri da risolvere (casual’ascesa e il declino di famiglie nobi- sca, uno sotto i cieli grigi d’Irlanda, condiviso con Francesca la certezza le che la scoperta del quadro sia parali, passaggi di proprietà, vendite, ere- l’altro tra archivi italiani e biblioteche dell’esistenza del dipinto, non riesce a gonata al santo graal?). Ma perlomedità, in un intreccio di piccole storie londinesi, convergono verso la stessa condividere invece i dubbi di Sergio. no non ci sono disastri incombenti o « U pagina IL LIBRO agli inferi nell’ossessione di una vita condotta sul filo del più incalzante spirito spagnolo e sotto la spinta di una doppia tensione Almodovar fa l’effetto di Zapatero U Nella foto superiore Lucia Etxebarria, autrice per Guanda di Una donna in bilico. Sotto Jonathan Harr che da Rizzoli ha pubblicato Il Caravaggio perduto Capoverso S t los autori stranieri L’arte si colora di giallo parlare della comportamento della stampa scandalistica, sia perché mi sembra estremamente violenta ed aggressiva, sia perché riproduce schemi sessisti e conseguentemente molto pericolosi. L’effervescenza vitalistica e la radicalità sentimentale, in bilico tra una vita nuova che viene a sorgere (la neonata Amanda) ed un’altra (la madre della protagonista) che scompare in un crepuscolo ospedaliero descritto con pathos lucido, sembra il ritratto, attraverso questi distillati biografici, di quella Spagna che tanta parte della sinistra progressista italiana ama ed invidia: penso ad Almodovar, in primis. Effetto Zapatero anche per questo libro? In realtà, io ho scritto questo libro prima che Zapatero fosse eletto, però è certo che in Spagna c’è una grande tensione fra una sinistra e una destra divise secolarmente, tra quelli che vinsero la guerra e quelli che la persero. E siccome io sono vissuta in Spagna, è normale che in maniera cosciente od incosciente parli di questa tensione. Per me, nel romanzo, la nonna che muore rappresenta tutte le donne spagnole che vissero sotto una dittatura fascista che affondò le loro possibilità, le loro speranze di promozione sociale, i loro sogni e che non gli permetteva neppure di avere un lavoro o disporre del proprio denaro. La figlia rappresenta quella generazione di transizione che è nata sotto quelle stessa idee fasciste, ma che improvvisamente ha dovuto incominciare a vivere nel momento in cui questo sistema si sgretola e si incominciano a porre le basi di una nuova società. L’ultima nata, evidentemente, simbolizza la speranza del cambiamento. (Traduzione di Nicolò Menghi) inseguimenti da telefilm americano. Traspare, infatti, un rigore e una fedeltà ai fatti che preclude derive arbitrarie, voli narrativi estremi, tanto da evitare quanto più è possibile il ricorso al dialogo, proprio perché difficile da ricostruire con accuratezza. Forse anche la scelta di uno stile estremamente semplice, disadorno, a tratti insipido, traduce la volontà dell’autore di sottrarsi a qualsiasi afflato emotivo per non compromettere la patina di veridicità. Ma, forse, un maggiore coinvolgimento avrebbe reso più appassionante la narrazione. Numerose sono le incursioni nella vita di Caravaggio, nel timido tentativo di illuminarne gli anfratti più oscuri con tocchi di colore, trascinando il lettore nelle sordide bettole della Roma barocca, nei suoi vicoli male illuminati, dove scoppiano risse e si consumano omicidi, così diversa da quella assolata in cui si aggira Francesca sul suo Piaggio arrugginito trascinandosi libri e documenti. Queste sciabolate nella biografia di Caravaggio interrompono le lunghe descrizioni della ricerca, e quelle ancora più meticolose dei procedimenti di restauro, talmente tecniche da risultare a tratti noiose per il profano. Probabilmente la parte più interessante è quella consacrata alla vita dell’artista: questi squarci nel mondo di un artista osteggiato, poi osannato, poi di nuovo dimenticato, e infine celebrato - a ragione - come uno dei più grandi pittori di tutti i tempi. La più interessante, non per il talento prodigioso dell’autore. Ma perché la vita di Caravaggio non ha bisogno di un romanzo per essere da romanzo. PAOLO DE BENEDETTI, GATTI IN CIELO, MC EDITORE, PP. 54, EURO 15,50 Con le belle illustrazioni di Michele Ferri (che ha già collaborato, a Gattilene, dello stesso autore), ecco la nuova raccolta poetica dell’illustre biblista, professore di giudaismo alla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale. Si tratta di piccoli tombeaux per gatti che non ci sono più, ma che restano nella memoria con la loro immagine lieve eppur chiara, inconfondibile. Da biblista laico quale è, De Benedetti ammette in un pantheon ulteriore ogni creatura, senza le sciocche «graduatorie» alle quali certa Chiesa ci ha abituati. Con la loro presenza umile, il loro bagaglio fatto di nulla (non hanno beni, tranne il grande dono dei loro corpi, e la loro gratitudine alla vita è sempre, in ogni caso, esemplare), solo il ricordo essi lasciano, nel passare. «Ma se ciò che ha avuto vita e sentimento scrive il poeta in una breve nota fosse dimenticato nella resurrezione finale, l’opera di Dio sarebbe un fallimento». Così non v’è cupezza in queste liriche, ma il senso dolce di una perdita che si sa, si spera non definitiva. La sofferenza degli animali, «che non hanno voluto essere come Dio, che non hanno nella loro natura la capacità della malizia [l’innocenza degli animali, quella sì è davvero divina!], che hanno seguito l’uomo nella sua rovina, e continuano a soffrire con lui e da lui» resta uno dei misteri su cui De Benedetti si interroga. Sofferenza che non può non avere riscatto: «Dimmi, occhio di topo / schiacciato sul selciato, dimmi: / chi guardi?» sono versi di Franco Marcoaldi citati in epigrafe: «Che cosa vedrà l’occhio di quel topo schiacciato? - commenta De Benedetti. - Io credo che vedrà Dio, e spero che Dio veda quell’occhio». Martino, Titina, Pentolino, Nuvole, Pappa, Michelino, Mariani, Orsone, «icone piccine / della grazia divina»: sfilano i tanti gatti di queste microstorie, con le loro vite troppo brevi, e le morti discrete, silenziose. Talvolta i versi prendono un deciso andamento da filastrocca infantile, e in genere è privilegiata la semplicità, l’ingenuità del dettato, in sintonia con l’oggetto del canto. Un Dio forse desideroso della loro leggiadria li chiama a sé prima del tempo, come nel caso di Dove sei («Forse Dio / ti ha detto: Dove sei? Perché voleva / qualche cosa di morbido nel grembo, / fra tanti santi un poco soffocanti»); sovrani sono i suoi decreti, ma l’uomo di cuore non può reprimere un moto di ribellione, rispetto ad un impietoso saccheggio degli affetti; e il suo tu per tu ci rimanda a un modo antico di rapportarsi con la divinità: «Ma, scusami, Signore / se un po’ con te ho rancore: / non ti basta il buon viso / di tutto il paradiso / per prenderci anche questa / piccola festa viva?». OMAGGIO A FABRIZIO DE ANDRÉ, RIZZOLI BUR, PP. 102, EURO 19,50 A cura di Piero Ameli, e corredato da Dvd con canzoni dell’autore presentate da vari colleghi Massimo Ranieri, Antonella Ruggiero, Morgan, Cammariere e altri ancora -, un volumetto che ripropone i testi di molte composizioni di De André, quelle che tutti noi conosciamo a memoria, e che non sono mai invecchiate: un viaggio dagli angiporti di Genova alla Galilea della Buona novella, dalla sua personalissima Spoon River al carcere di Poggioreale, con il suo don Raffae’ e il più famoso secondino del pianeta, Pasquale Cafiero. Precede una serie di testimonianze di cantanti e amici: ne emerge un Fabrizio a tratti inedito, privato, frammenti della sua vita a Genova o, poi, in Sardegna. S t los autori stranieri pagina 16 EMILIA PAGLIANO MATTHEW PEARL . Dopo lo straordinario "Il circolo Dante" un altro dgar Allan Poe morì il 7 ottobre 1849 in un ospedale di Baltimora, un decesso oscuro e discusso. E «l’ombra di Edgar» si aggira nel romanzo di Matthew Pearl, una presenza assente che si avverte fin dalle parole di apertura, «ricordo il giorno in cui tutto ebbe inizio», con un’assertiva prima persona narrante che si impone all’attenzione del lettore e lo tiene avvinto ad una narrazione che è un’indagine per risolvere un doppio enigma: perché è morto Poe e chi ha ispirato il personaggio di C. Auguste Dupin nella trilogia delle storie del mistero che inizia con I delitti della Rue Morgue. Il protagonista, il giovane avvocato Quentin Clark, aveva avuto anche uno scambio epistolare con E.A.Poe e si era impegnato a citare in giudizio qualunque falso accusatore che avesse intralciato il lancio della rivista "The Stylus" che Poe intendeva dirigere. Perché Clark credeva nel genio dello scrittore, vilipeso dall’opinione pubblica per la fama di sregolatezza e di eccessi, nonché per quella che pareva una connessione troppo intima con il regno delle ombre e della morte. E adesso Clark si ritrova ad avere un morto come cliente e per quest’ombra caccerà via la sua professione e la sua vita personale. Andrà in Francia alla ricerca del «vero» Dupin e ne troverà addirittura due, un Duponte e un Dupin, tornerà a Baltimora seguito o accompagnato da entrambi, continuerà a investigare, a rischio della sua vita e della sua salute mentale. È facile vedere come Matthew Pearl ricalchi intenzionalmente le orme di Poe, sia nell’andamento del racconto sia nella rielaborazione dei temi dello scrittore. l’uso del raziocinio, o almeno quello che Poe chiamava tale e cioè l’impiego dell’immaginazione per effettuare le analisi, la figura del doppio che qui sembra sdoppiarsi all’infinito (Clark e il suo saggio socio Peter, Clark stesso come un doppio di Poe trascinato da un sogghignante William Wilson, i due investigatori che finiscono per diventare uno solo la cui realtà non è fuori ma dentro di noi), il ritratto che riproduce le fattezze dell’uno che vengono poi copiate con abile trucco dall’altro. Ma c’è anche un elemento donchisciottesco nel romanzo di Pearl, l’attrattiva esercitata dai libri sul lettore, il pericolo del mondo immaginario contro cui Peter mette in guardia Quentin Clark che ne viene inghiottito, assieme a Duponte che ha fatto il possibile per rimodellarsi su un personaggio - il Dupin di Poe - che gli assomiglia ma che non è lui. E qui ritorniamo in circolo alla vita che copia l’arte e all’arte che copia la vita. Stilos ha intervistato il trentenne scrittore americano. Sembra che lei abbia scelto il genere del thriller letterario: Dante le ha offerto la cornice per il romanzo precedente, Il circolo Dante, e Poe per questo. È una scelta che unisce due sue passioni, la letteratura e il thriller? Quando ho iniziato a scrivere Il circolo Dante, la scelta della cornice letteraria è stata casuale: non avevo in mente di scrivere molti libri, anzi a dire il vero non avevo programmato di scrivere neppure quel libro. Una volta detto questo, è vero che i miei romanzi uniscono le mie due passioni, quella per la letteratura e i suoi personaggi e quella per il romanzo di indagine poliziesca. E scrivere un secondo romanzo dello stesso genere di Il circolo Dante è sembrata una scelta ovvia e romanzo che combina thriller e letteratura: dove storia, fantasia e teoria si fondono creando un nuovo genere. Così il trentenne autore americano rinverdisce un genere che suscita crescente entusiasmo ’ E Il maggiore mistero di Poe riguarda proprio se stesso naturale: sentivo di aver imparato molto scrivendo il primo romanzo ed esplorando questi temi, ma nello stesso tempo mi sembrava di non aver finito o completato di sfruttare le mie idee. Così, piuttosto di muovermi in qualcosa di diverso, ho preferito continuare quel viaggio di esplorazione letteraria. Alla fine di L’ombra di Edgar dice che, nel fare le ricerche per il romanzo, ha scoperto anche alcune cose nuove: L’ombra di Edgar è anche un romanzo poliziesco in cui Matthew Pearl stesso svolge delle indagini per far luce sul mistero della morte di Poe? C’è un parallelo tra quello che i personaggi fanno nel libro e quello che faccio io come scrittore. È stato qualcosa di eccitante per me perché ci sono state molte sorprese, molte scoperte da parte mia, così come ci sono le scoperte che i personaggi fanno lungo il corso del romanzo. Quindi sì, c’è una duplice investigazione anche se la mia è meno drammatica di quella che si svolge nel libro, perché mi ha richiesto solo stare lunghe ore seduto a fare ricerche nelle biblioteche e non essere inseguito da assassini. A proposito, perché Poe? Quale delle opere di Poe preferisce? Nel romanzo si parla soprattutto delle storie poliziesche… Poe ha scritto una vasta gamma di tipi di storie, impossibili da contenere in questo romanzo. Mi sono concentrato sulle detective stories, in parte perché questo è un romanzo di indagine poliziesca, un mystery relazionato a Poe. Personalmente amo i romanzi polizieschi di Poe, il primo che ho letto è stato La lettera rubata e ha avuto un ruolo speciale nella mia scoperta di Poe. IL LIBRO MATTHEW PEARL "L’ombra di Edgar" Trad. Roberta Zuppet pp. 507, euro 18,50 Rizzoli, 2006 Sulle orme di Dupin e della letteratura Il giovane avvocato Quentin Clark ha due amori nella sua vita, per la fidanzata Hattie Blum e per le opere di Edgar Poe. Quando apprende della morte improvvisa dello scrittore, decide che deve indagarne le cause e, per prima cosa, si mette sulle tracce dell’uomo che può aiutarlo, la persona che ha ispirato a Poe il suo famoso Dupin, capace di risolvere i casi più difficili. Quentin Clark tralascia ogni cosa per scoprire la verità, vittima del fascino del mondo della letteratura. Amo anche Il barilozzo di Amontillado, perché è nello stesso tempo terribile e intelligente, mette paura ed è anche molto triste: Poe riesce a risvegliare così tante reazioni diverse insieme. Perché Poe? Ho scoperto Poe quando avevo più o meno quindici anni, è stato il primo scrittore che ha suscitato in me un’eccitazione da lettura, che mi ha fatto desiderare di leggere altri suoi libri. Più tardi, mentre facevo ricerche per Il circolo Dante, mi sono di nuovo imbattuto in Poe, perché l’ambiente di cui parlavo era costituito da nemici letterari di Poe. Ho provato allora un nuovo e diverso interesse per Poe e questo mi ha motivato a riscoprire una mia vecchia passione, ricordando quanto lo avessi amato una volta. E naturalmente adesso ho potuto apprezzare maggiormente la sua complessità. Il padre di Quentin Clark, Poe e Clark: questi tre personaggi rappresentano i due estremi e la via di mezzo? Razionalità e genio, e Clark che ammira il genio e vorrebbe imitarlo? Quando ho iniziato a lavorare sul personaggio di Quentin avevo bisogno di immaginare che cosa lo mettesse nella posizione di apprezzare Poe, che cosa lo portasse ad ammirare così tanto Poe. E si è venuta delineando la figura del padre: l’interesse di Quentin per Poe è una fuga dal padre. Quentin vuole imitare Poe ma non ne è in grado. Alla fine Quentin Clark non è un artista anche se ha qualcosa di artistico nel modo in cui vede il mondo. Per quale motivo Poe è stato così ignorato dai suoi contemporanei? Per la vita che ha condotto, come è successo a Byron, o perché le sue opere erano così insolite, al di fuori dei canoni del tempo? Per entrambi i motivi. La sua personalità, come d’altronde quella di Dante, non era espansiva. Poe non era un uomo socievole e alienava la simpatia della maggior parte dei membri della comunità letteraria che avrebbero potuto aiutarlo nella carriera ed anche ad essere apprezzato. Poe era paranoico, sospettoso quando cercavano di aiutarlo, sabotava qualunque iniziativa a suo favore, era autodistruttivo. Rima- Nella foto Matthew Pearl, autore per Rizzoli di L’ombra di Edgar se isolato come scrittore, senza sostenitori. D’altra parte la sua produzione letteraria era così insolita che sarebbe stata difficile da proporsi anche avesse avuto un carattere più facile, era difficile che trovasse l’apprezzamento di un vasto pubblico. Inoltre, a parte il romanzo Le avventure di Gordon Pym, che non ebbe successo, scriveva storie brevi, un genere che ai lettori non piace molto. E aveva un approccio alla realtà che non si adeguava alle prospettive fissate dalla società dell’epoca: Poe non guardava attraverso la lente della religione o dei valori cristiani. Poe e le donne: alla luce della psicologia moderna, come si può considerare il rapporto di Poe con le donne? Poe era il soggetto perfetto per gli studi di psicanalisi, quando questa scienza prese piede nel secolo XX: sua madre era morta quando lui aveva due anni, e lui era presente quando lei morì. Per tutta la vita Poe cercò una madre sostitutiva e non riuscì mai ad avere un rapporto normale con donne adulte. Sposò la cugina di tredici anni e, quando questa morì, sembra che Poe tendesse a ripetere lo stessa schema di innamoramento. E poi aveva un grande affetto per la suocera, che era anche sua zia e che lui chiamava Muddy, con un nomignolo che è una deformazione di Mother. Corteggiò anche altre donne: dopo la sua morte si speculò parecchio se Poe fosse in grado o no di avere un rapporto sessuale normaleperché si cercava di capirne la personalità, così ombrosa ed elusiva. Ha sperimentato anche lei, come Clark, il pericolo di essere trascinato dentro i libri, di vivere in un altro mondo, il mondo dell’immaginazione? In un certo senso sono fortunato, mi getto nei libri ma senza conseguenze dannose, questo è il vantaggio di essere uno scrittore. Ma appena ho iniziato a scrivere Il circolo Dante ho capito quanto fosse pericoloso far parte del mondo letterario, perché stavo studiando per diventare avvocato e dedicavo sempre più tempo a leggere e scrivere. In definitiva non ho sostenuto gli esami per esercitare, sono stato tentato da altro, proprio come Quentin Clark. Solo che per me quest’altro mondo è diventato la vita, per Quentin è solo un’avventura temporanea. Pensa che il mondo dell’immaginazione offerto dai libri si possa paragonare a quello offerto dai videogame? Non ho mai giocato ai videogame, e forse quello che dirò non è esatto, ma non penso che sia la stessa cosa. Con i videogame il cervello non usa l’immaginazione, riceve degli impulsi e reagisce in maniera programmata. Nella lettura l’immaginazione ha un altro ruolo, la mente del lettore ha una parte importante quanto la parola del testo. Dico sempre che il libro non esiste senza il lettore, e in definitiva esistono tante versioni dello stesso libro quanti sono i suoi lettori. È una cosa che fa una certa paura allo scrittore perché perde il controllo, ma questo è il motivo per cui la letteratura è così potente. Sta scrivendo un nuovo romanzo? Sarà ancora un thriller letterario? Fino a settembre non metterò mano ad un nuovo libro, ma spero di scrivere molti altri libri: molti saranno esperimenti per me, come lo è stato Il circolo Dante, ma sarebbe strano se il mio prossimo libro non combinasse ancora letteratura e suspense. Perché mi piace e sento di non aver ancora completato la mia esperienza con questo genere. S C A F F A L E URSULA K. LE GUIN, I doni, trad. Riccardo Valla, pp. 235, euro 17,60, Editrice Nord 2006 Ursula Le Guin, californiana, figlia di una scrittrice e del celebre antropologo Alfred L. Kroeber, ama scrivere fantasy. Questo parla degli abitanti dei Monti, che possiedono dei magici «doni» ereditati dagli avi: la capacità, con un gesto, uno sguardo, una parola, di attirare a sé gli animali, di accendere il fuoco, di spostare la terra, e se necessario, di distruggere gli altri. Ma due ragazzi, Orrec e Gry, atterriti da questo potere, scelgono consapevolmente di non usare i «doni». ETAHAN COEN, I cancelli dell’Eden, trad. Marco Pensante, pp. 220, euro 10,50. Einaudi 2006 I personaggi di questo libro vorrebbero essere ammessi nel Paradiso. Per essi rappresenta i cancelli dell’Eden. È il deludente e amaro sogno americano sicché infine quel paradiso si potrebbe paragonare ad una squallida stanza di uno scadente motel. Coen ci offre una mappa dell’inadeguatezza dove si aggirano personaggi ambigui per mestieri e personalità diversi tra di loro. Con il fratello Joe ha realizzato anche molti film ed è tenuto tra i maggiori registi dei nostri tempi. KELLY JONES, Il settimo unicorno, trad. Silvia Castoldi, pp. 394, euro 18,00, Rizzoli 2006 Sei arazzi quattrocenteschi raffiguranti una dama con un leone ed un unicorno costituiscono un grande tesoro nel museo di Cluny a Parigi. Alex Pellier che vi lavora viene mandata nel monastero di Sainte Blandine dove scopre qualcosa che le fa nascere il sospetto che esista un settimo arazzo. Il ritrovamento di questo salverà il monastero destinato a diventare un hotel. L’amore tra la dama ed il tapissier che ha realizzato il settimo arazzo, ambientato nel misterioso e affascinante mondo dei musei. P. J. TRACY, Vuoi giocare?, trad. Adria Tissoni, pp. 394, euro 18, Nord 2006 Due parrocchiani molto ricchi vengono uccisi nella chiesa di padre Newberry. Anche nel Minnesota si hanno altri delitti. Si trova il collegamento tra gli omicidi. Gli assassini sono cinque e stanno imitando un videogame non ancora in commercio. C’è una donna tra di loro, Grace che gira sempre armata. Perché hanno creato un gioco tanto realistico? Ma la domanda più importante e inquietante appare sul monitor: «Vuoi giocare?». LLOYD ALEXANDER, Terra d’Occidente, trad. Lucio Angelini, pp. 190, euro 12, Salani 2006 Nella città di Dorning il terribile ministro Cabbarus perseguita quanti sono sospettati di stampare scritti illeciti e sovversivi per cui Theo, tipografo apprentista di Anton, fugge uccidendo per sbaglio un soldato. La sua vita cambia e dovrà sempre fuggire fino all’incontro con persone diverse tra loro per stile, pensieri e risorse. Lloyd Alexander è autore tra i più premiati al mondo. S t los Nella foto sopra Steve Berry (fotografato da Joel Silverman), autore per Nord di L’ultima cospirazione. In basso Alexandre Jardin che da Bompiani ha pubblicato Una famiglia particolare emergente serviva divulgare un messaggio che fosse cattolico nel senso etimologico del termine, cioè universale, e dunque giovava che Gesù fosse più di un semplice profeta. E perché ha deciso di trattare un argomento scottante e intoccabile come la resurrezione di Cristo? È un argomento che mi ha sempre affascinato e perciò mi ha spinto a leggere molto e, dunque, a notare moltissime incongruenze nel Nuovo Testamento. È molto interessante quel periodo in cui nasce il cristianesimo: la religione romana era in declino e il giudaismo si ritirava in se stesso, la gente voleva qualcosa di diverso e i seguaci di Gesù, che altro non erano che ebrei in cerca di una nuova prospettiva, formularono la loro nuova visione del mondo. Il cristianesimo si basa sul fatto che Gesù è morto in croce, risorto e asceso al cielo. Ma pensiamo a cosa sarebbe significato per la cristianità il ritrovamento delle ossa di Cristo. Ma è proprio sulla crocifissione che i Vangeli divergono ed è per questo che sono stati oggetto di migliaia di studi. Mi ha sempre molto interessato anche il fatto che la religione ignora queste incongruenze e le moltissime domande a cui non si dà risposta. Non teme di sollevare un vespaio, non inferiore a quello sollevato da Dan Brown col suo Codice da Vinci? Ma è proprio questo lo scopo del mio libro, sollevare un vespaio. Ovviamente bisogna tenere presente che c’è una distinzione tra fede e ragione e non c’è nulla nel mio libro che possa minare la fede del lettore, ma c’è parecchio che possa sfidare il lettore a cercare, a chiedersi come è nata la religione. Non ha nulla di così mistico, né di così magico, né di così religioso. E tuttavia, non temo di cadere nel blasfemo, perché comunque, a prescindere dalla conoscenza razionale, credere, come dicono Geoffrey e Stephanie, è un atto di fede e la fede elimina anche la logica. Ma le buone persone seguirebbero in ogni caso gli insegnamenti di Cristo. Al centro dei misteri del suo libro c’è proprio la conoscenza. Al centro dei misteri del suo libro c’è proprio la conoscenza. È la conoscenza il frutto proibito e la Grande Eredità custodita dai Templari? Esattamente. Ciò che ha dato ai Templari il loro potere non è la ricchezza, ma la conoscenza. Il fatto che tutto è scomparso dopo il 13 ottobre 1307, giorno in cui Filippo IV ordinò il loro arresto lascia molti punti oscuri. Si parlava di un tesoro dei Templari, di un luogo leggendario che custodiva ricchezze e testi proibiti dalla Chiesa, si raccontava che dopo la soppressione dell’Ordine il nascondiglio della Grande Eredità rimase segreto, e che carri coperti di paglia viaggiarono verso i Pirenei, anche se ovviamente non si può sapere nulla di certo perché purtroppo non ci sono cronache dell’Ordine. E se al tempo dei Templari le ossa di Cristo fossero state ritrovate? Era questa la Grande Eredità? Ritrovare la Grande Eredità forse avrebbe potuto cambiare in modo fondamentale la cristianità. Lei adombra anche la possibilità che l’immagine impressa sulla Sacra Sindone di Torino sia quella del maestro Jacques de Molay. È quello che sostiene un personaggio del mio romanzo. Afferma che l’immagine impressa per un processo chimico sul lenzuolo era quella di De Molay, arrestato nel 1307 e inchiodato nel 1308 a una porta nel Tempio di Parigi, in modo simile a quello di Cristo. Io non faccio che riportare nell’invenzione del romanzo un’ipotesi di due studiosi. Christopher Knight e Robert Lomas che nel loro libro Il secondo Messia sostengono che è sensato pensare che una cosa del genere è possibile sia avvenuta, anche se sulla questione se il lenzuolo di lino sia del I secolo o di un periodo tra il XIII e il XIV secolo ci sono molte questioni. Perché i Templari appaiono in nero nel suo racconto? E ce ne sono oggi? Non è così per tutti i Templari, non sono certo eroi del male; questo vale solo per il personaggio di de Roquefort, da me inventato e di cui mi sono servito per presentare l’ordine sia nel bene che nel male. Proseliti oggi? Non so: possiamo solo sperare che se ne stiano nascosti in qualche parte. a fascetta di Una famiglia par- ALEXANDRE JARDIN. Personaggi al limite dell’inverosimile ticolare, ultimo libro di Alexandre Jardin, dovrebbe allettare e invece insospettisce: «300.000 copie vendute in Francia». Solitamente, nella maggior parte dei casi, urli di copertina come questi sono sicure anticaQuello che ha scritto è tutto vero? mera alla noia, al bestseller imposto, Purtroppo no. Ho dovuto censurare all’idiozia del meccanismo editoriale VIVE A MILANO. COLLABORA, moltissimi episodi che forse sarebbeche fa coincidere le vendite alla quaTRA GLI ALTRI, A "LA REPUBro apparsi eccessivi. È certo però che lità di scrittura. Un meccanismo perBLICA", "IL GIORNALE" E sono tutte vere le emozioni che ho verso, la «dittatura delle fascette», che "ROLLING STONE" cercato di trasmettere nel libro. Quelrischia di far perdere l’interesse dei le di un uomo che ha deciso di racconlettori più curiosi, quelli meno attratti GIAN PAOLO SERINO tare il proprio passato, la propria indal luna park dei lanci promozionali, fanzia, attraverso un dolore filtrato degli autori cartonati formato famidal mio senso innato dell’umorismo. glia, delle pubblicità ossessive sulle ma che, grazie alla bravura di Jardin, Nella sua "Autopsicobiografia" prime pagine di quotidiani che, ridot- appassiona, stupisce, diverte e comPessoa sottolinea che «lo scrittore è ti spesso a contenitori di spot cartacei, muove. Insomma: gli ingredienti tipiun mentitore. Finge così totalmente non possono poi far altro che gridare ci di quei bestseller da lasciare sullo da fingere che è dolore il dolore che al capolavoro in quelle che un tempo scaffale. Per una strana alchimia invedavvero sente». ce Una famiglia particolare ha paserano la terza pagina. È un cugino che ha scritto questa fraIn questo caso però Una famiglia par- saggi esilaranti, trovate al limite del ticolare è davvero uno tra i romanzi geniale, situazioni sempre ai limiti tra pagne per lasciare assegni in bianco se! Mi ci ritrovo molto. Anche perché migliori di questa stagione letteraria: reale e verosimile. I protagonisti del nelle cabine del telefono nella spe- nel mio libro, che ho cercato di rendeuna storia assurda (ma vera, assicura romanzo sono una nonna, chiamata ranza che qualcuno li trovi e lo porti al re divertente agli occhi di chi non ha Archibugio in tracollo finanziario. Uno zio, chiama- vissuto la mia storia, c’è un grande dol’autore): una stovirtù di una vita- to Merlino, inventore ossessionato lore che accomuna tutta la mia famiria autobiografica I n t e r v i s t e lità esplosiva che dall’idea di vincere la forza di gravità. glia: la delusione di una realtà che li ha che vede al centro la porta a lasciare Una madre che, assieme al marito, vi- delusi disperatamente. Tutte persone della narrazione ALEXANDRE JARDIN l’epopea della fa"Una famiglia particolare" le finestre della ve un rapporto da coppia aperta di- allegramente disperate. sua villa aperte chiarata: amanti che vanno e vengono Nel libro lei si definisce «un fallito miglia Jardin. pp. 222, euro 15 nella speranza alla luce del sole. Come sopravvivere dell’assoluto»… Una galleria di Bompiani, 2006 che qualche la- a una simile «non educazione»? A un È abbastanza vero. personaggi ai lidro penetri in tut- tale uragano di deliri? Ad una famiglia Al contempo però confessa di avere miti del surreale, ti i sensi. Un padre, scrittore e famoso che trovava negli eccessi l’unica via di la mania della lotta sociale… ma che intrigano subito il lettore. Perché questa «famiglia particolare» è sceneggiatore negli anni d’oro del ci- fuga dalla follia della borghesia? Sti- È vero. Io credo che attraverso un imuna sorta di circo barnum: uno zoo nema francese, che per il gusto del ri- los ne ha parlato con l’autore, in Italia pegno civile, e non politico, si possano fare grandi cose. Credo nelle libeumano che sconfina nel vaudeville, schio estremo di notte vaga tra le cam- per presentare il suo libro. re associazioni di cittadini, molto meno nelle istituzioni. Ad esempio, tra le molte associazioni che coordino, una si chiama «Leggere e far leggere», un progetto che vede coinvolti più di 11 mila pensionati francesi che, ogni settimana, si recano in varie scuole elementari per leggere libri ai bambini. Piuttosto lontano dai concetti della sua famiglia: «Per loro - scrive nel libro - la normalità era sinonimo di decadimento». Hanno protetto solo la loro realtà: le giornate erano messe in scena, la vita una continua ma sincera recita teatrale. In Francia in molti l’hanno definita l’anti-Houellebecq: il libertinaggio vitale da lei proposto in contrapposizione al nichilismo estremo di Houellebecq… Non credo che ami i miei libri. Come io non amo i suoi. No, non abbiamo proprio niente in comune. Nella raccolta Il senso della lotta di Houellebecq c’è però una poesia che mi ha fatto molto pensare al suo libro: «Abbiamo attraversato stanchezze e desideri / senza ritrovare il gusto dei sogni dell’infanzia / Non c’è più granché in fondo ai nostri sorrisi / Siamo prigionieri della nostra trasparenza». Purtroppo devo ammettere, davvero a malincuore, di ritrovarmi molto in questa poesia. Mi ha fregato: è l’unico giornalista che ha trovato un contatto tra me e Houellebecq. La prego solo di non dirlo troppo in giro. un vero park teologico quello in cui ci attira Steve Berry, già autore del Terzo segreto, e adesso dell’Ultima cospirazione, un romanzo di enigmi, indizi, trappole sui quali incombe un segreto indicibile. Eppure Berry, un avvocato con due grandi passioni, la storia e la narrativa, confessa che alla conclusione di questo suo ultimo libro pronto certamente a diventare un bestseller, e alla cui idea lavorava da molti anni, c’è arrivato faticosamente, e solo una notte durante un viaggio in aereo ha capito come avrebbe potuto terminare il suo romanzo. Una storia in cui intenzionalmente intende attirare il lettore affinché si perda negli intrighi che ogni bravo scrittore deve saper proporre. Berry, che è giunto in Italia per presentare il suo libro, ne ha parlato con Stilos. Un ordine medioevale, una congiura moderna, un segreto sconcertante. Come sono diventati un libro questi tre elementi? Avevo un’idea sul concetto di cristianità e pensavo a qualcosa che fosse universale, che si adattasse a tutti. Il terzo segreto riguardava la chiesa cattolica ed invece con questo libro volevo esplorare dall’interno un aspetto tuttora misterioso della cristianità e intrecciarlo con le vicende dei Cavalieri Templari, un ordine monastico-militare formatosi a Gerusalemme all’inizio del dodicesimo secolo con la missione di proteggere i pellegrini cristiani in viaggio per la Terra Santa. Quei Poveri Soldati di Cristo e del Tempio di Salomone, come si chiamavano inizialmente, dall’originario numero di nove erano diventati migliaia sparsi in tutta Europa. Le loro ricchezze divennero col tempo ingenti, erano diventati tanto potenti da finanziare re e stati. Inevitabile che suscitassero invidia e quando un papa come Clemente V divenne un burattino nelle mani del re Filippo IV che odiava i Templari e ordinò di arrestarli in massa e di ucciderli, l’ordine si sbandò e apparentemente sembrò terminare con l’uccisione del maestro Jacques De Molay. In una storia così è inevitabile che ci siano intrighi e misteri; dunque io ho voluto immaginare una congiura moderna e un segreto, un altro sconcertante segreto a legare i primi due elementi. A quel punto il romanzo era praticamente fatto. Ma c’è stato un luogo o una situazione che l’hanno convinta a scrivere la storia? Sì, la celeberrima cittadina di Rennesle Chateau, una località della Linguadoca, tra i Pirenei e il Mediterraneo. È stata la visita a questo luogo che mi ha permesso di legare gli elementi sui quali lavoravo da diciotto mesi. Rennes-le Chateau è un posto straordinario, avvolto nel mistero, un luogo di molte leggende, di moltissime domande senza risposta che si adattano a quegli aspetti del cristianesimo ancora oscuri. E soprattutto è straordinaria la sua chiesa, piena di immagini religiose che si susseguono una dopo l’altra, ciascuna delle quali ha qualcosa di strano. Criptogrammi e immagini contrastanti, segni mistici e misteriosi che È L IL LIBRO STEVE BERRY "L’ultima cospirazione" Trad. Gianluigi Zoddas pp. 503, euro 18,60 Editrice Nord, 2006 Sulle tracce di un libro-verità La tranquillità di Cotton Malone, bibliofilo ed ex agente operativo al servizio del dipartimento di giustizia americano, viene turbata da uno scippo subito da un suo ex superiore, Stephanie Nelle, giunta in Danimarca per partecipare ad un’asta di libri antichi. E così Malone scopre che Stephanie sta seguendo le tracce di un libro che potrebbe risolvere il mistero del tesoro scomparso dei Cavalieri Templari e rivelare un segreto proibito della Chiesa. STEVE BERRY . La vicenda leggendaria dei Templari, i segreti di Rennes-le Chateau e un ipotetico testo sacro che conterrebbe rivelazioni scandalose per il cristianesimo. Una nuova prova del genere del mystery esoterico che sfida "Il codice da Vinci" e rifà la storia Nel Vangelo di Simone una bomba sulla chiesa VIVE A MESSINA. INSEGNA IN UN LICEO CLASSICO. PER L’EDITRICE LA SCUOLA HA PUBBLICATO TRE ANTOLOGIE DIDATTICHE PATRIZIA DANZÈ quando entri ti assalgono come in un parco di divertimenti, un parco teologico in questo caso. A Rennes si custodiscono tuttora dei misteri riguardanti oscure storie sul famoso abate Saunière, e i criptogrammi sono parte effettiva della storia di Rennes, anche se quelli contenuti nel romanzo sono, tuttavia, un prodotto della mia immaginazione. E come mai ha ambientato la vicenda, almeno inizialmente, in Danimarca? Ma perché è uno dei paesi che amo di più e l’asta dei libri che si tiene nell’antica città di Roskilde uno dei posti da me preferiti tra altri nel mondo. Mentre ero seduto in un caffè di Hoibro Plads ho deciso che la mia storia doveva cominciare da quella piazza anima- ta. Mi piacerebbe viverci come Cotton Malone, che non a caso è un libraio e un appassionato bibliofilo, giacché la vendita di libri antichi è una forma d’arte, in Danimarca. Ed infatti il mistero della vicenda ruota attorno ad un libro. Sì, un libro, il "Vangelo di Simone", che è una mia creazione e nel quale è contenuta una testimonianza, la cui rivelazione sarebbe stata scandalosa per la Chiesa giacché avrebbe potuto minare le fondamenta sulle quali poggia il cristianesimo. Per il "Vangelo di Simone" mi sono servito delle mie conoscenze personali, dei miei studi e di un libro autorevole intitolato "Resurrection, Myth or Reality" del reverendo John Shelby Spong. Lei è cattolico? Sono cattolico e conosco bene il Nuovo Testamento, come Cotton Malone, esperto conoscitore dei Vangeli. Il mio personaggio ha condotto molti studi sulla Bibbia e conosce i suoi punti deboli. Ogni Vangelo era un nebuloso miscuglio di fatti, voci, leggende e miti sottoposti a innumerevoli traduzioni, edizioni e correzioni. Alla Chiesa La vita come un paradosso pagina 17 Trovarobe autori stranieri GIULIO MOZZI PARLARE AI LIBRI Ce l’ho fatta, ce l’ho fatta! A due anni e quattro mesi dal trasloco, finalmente ho comperate le librerie nuove: quelle da mettere nel garage (nella casa nuova ho un garage grandissimo, e non possiedo automobile: poiché la mia «sala di lettura» ufficiale, cioè il luogo dove leggo di più, è il treno, potrei inventarmi un’alternativa secca: gente, o ci avete l’automobile, o leggete i libri; tutt’e due le cose non si può; ma non so se sarebbe poi vero). Tutta la parete destra (la sinistra è destinata agli scaffali in metallo, di seconda mano, per raccogliere il «materiale vario» che in ogni casa misteriosamente si accumula e si conserva, benché nessuno sappia cosa farsene) è oggi ricoperta da una bella libreria in legno: sei colonne, sei scaffali per colonna, novantadue centimetri per scaffale, ossia trentatre metri e dodici centimetri di scaffali, tranquillamente raddoppiabili in sessantasei metri e ventiquattro centimetri - visto che la doppia fila, a casa mia, non è mai stata soluzione estrema, bensì pratica abituale. Bene. Ho scoperto che sessantasei metri non bastano. Ma questa è un’altra storia. La storia di oggi è che mi sono messo finalmente ad aprire gli scatoloni (quasi tutti già aperti, a dire il vero: perché nel corso di due anni e quattro mesi mi sono lanciato parecchie volte alla ricerca di libri che mi servivano assolutamente e che da qualche parte in qualche scatola dovevano esserci - riuscendo, devo dire, a trovarli quasi sempre, grazie all’aver scritto su ogni scatolone lo scaffale di provenienza nella vecchia casa). Mi sono messo ad aprire gli scatoloni, uno per uno, e a riempire gli scaffali, imbastendo a occhio un ordine che poi, con un po’ di calma, perfezionerò. Negli scaffali in basso le opere di consultazione (il mio prezioso Littré in sette volumi, le Garzantine d’annata, il Premoli, il Petit Robert ecc.); in alto destra i fumetti; al centro i libri genericamente d’arte; la musica di qua; la poesia di là; il fritto misto un po’dappertutto; i tascabili da una parte (sono quelli che, nella doppia fila, vanno davanti); le edizioni rare o pregevoli o antiche negli scaffali con gli sportelli (un Della perfetta poesia del Muratori in prima edizione, una Retorica del Gravina in seconda, varie edizioni del Rimario del Ruscelli, giù giù fino ai tranquillissimi Meridiani d’oggi o a qualche edizione non comune degli ultimi anni, come il Tristano di Balestrini o Cara di Porta o le sette diverse versioni Transeuropa, con copertine colorate a mano, del Jack Frusciante è uscito dal gruppo di Brizzi); eccetera. Ecco: nell’arco di due giorni, tutti questi libri che non vedevo da due anni e quattro mesi sono passati per le mie mani. Tutti hanno ricevuto un colpo di straccio, tutti sono stati guardati e collocati al loro posto. Tutti - dico, tutti - li ho riconosciuti; e li ho cordialmente salutati (loro non mi hanno risposto; ma io lo so, che parlare ai fiori o ai libri non è grave; è grave quando i fiori e i libri cominciano a risponderti). Di ciascuno di questi libri, la maggior parte dei quali sono libri qualunque, libri che hanno più o meno tutti (tutti quelli che leggono appassionatamente, almeno), di ciascuno di questi libri, mi sono reso conto tirandoli fuori dagli scatoloni e spolverandoli e mettendoli a posto, potrei raccontare la storia. Quando l’ho comperato, dove, quando l’ho letto, dove, se l’ho riletto, dove. Sarà per questo che sono diventato, senza averne peraltro alcuna intenzione, un cosiddetto scrittore? 18 i chiude con le parole «Che ne sarà della mia opera dopo di me?» il libro La notte dei calligrafi di Yasmine Ghata, e la risposta è nelle pagine stesse del romanzo, un omaggio della scrittrice alla nonna calligrafa di cui ha visto un esemplare nell’ala Richelieu del Louvre. È Rikkat Kunt stessa a raccontare la storia della sua vita, «Mi sono spenta il 26 aprile 1986»: anche questa una voce che viene dall’aldilà, come quelle che interferiscono a tratti nella narrazione, di altri famosi calligrafi del passato, e come ben si addice ad una forma d’arte per cui una lunga notte è iniziata nel 1926, quando Atatürk mette al bando l’alfabeto arabo e, con esso, la calligrafia e i calligrafi. Quando Rikkat aveva iniziato gli esercizi di calligrafia, era stata come una ribellione silenziosa della sua mano all’essere stata offerta in matrimonio ad un dentista, quasi un’affermazione di libertà dai lacci della tradizione, in quanto i calligrafi erano usualmente uomini. Leggiamo le tappe della vita di Rikkat, il concorso per insegnanti da lei vinto nel ’36, la nascita del figlio, la partenza da Istanbul a seguito del marito e poi il ritorno, la separazione, il secondo matrimonio e un altro figlio (Nour, che diventerà il padre di Yasmine Ghata), la tragedia familiare che verrà svelata solo alla fine e che causa lo strappo più doloroso della vita di Rikkat, l’allontanamento dal figlio di soli sei anni. Ha sempre un tono pacato la voce di Rikkat, di chi ha superato ogni passione. Le sofferenze del passato trapelano nel movimento delle sue mani sulla carta, nella forza del tratto del calamo, nel tremito delle dita che, per tradizione, anticipa al calligrafo la morte di una persona cara. Quella del padre, della madre, del figlio Nour - adorato, perduto, ritrovato, anche se lontano, in Francia. E allora la mente di Rikkat cede, la sua mano altera i tratti, infrange le regole, i segni si fanno vigorosi e spezzati invece che sottili e raffinati: non teme più né Dio né la morte, si è interrotto il dialogo privilegiato con Dio che solo i calligrafi possono intrattenere. Possiamo leggere più cose in La notte dei calligrafi: la storia di una donna singolare e quella di un’arte che non ha altro fine che esaltare la divinità, la storia di un paese tra Oriente e Occidente (e la casa di Rikkat sul Bosforo acquista quasi un valore di metafora) forzato in una laicità non sentita da tutti, la nostalgia per un mondo di bellezza scomparso, e infine possiamo scorgervi un Islam mistico e non violento, svanito pure questo insieme agli arabeschi tracciati con polvere d’oro diluita nel miele. Stilos ha intervistato Yasmine Ghata, che è nata a Parigi nel 1975, ha studiato Storia dell’arte alla Sorbona e all’École du Louvre e si è specializzata in arte islamica. Nell’epilogo del romanzo lei racconta di quando ha visto una delle opere di sua nonna al Louvre: che cosa sapeva di Rikkat prima di allora? Prima di vedere l’opera di mia nonna al Louvre, di lei sapevo solo due cose: molto vagamente, che era un’artista, e che era morta. Ho iniziato allora una ricerca biografica e artistica su di lei e mi sono resa conto che nel suo paese era celebre: ho incontrato a diverse riprese persone dell’ambiente universitario che mi hanno detto che, insieme con Muhsin Demironat, è stata l’ultima calligrafa. Mia nonna ha insegnato all’università, negli anni ’70 ha ri- S ALFIO SIRACUSANO YASMINE GHATA . Da una esperienza vera alla creazione di una storia immaginaria, che getta luce su un mondo regolato dall’ineffabile. «Mentre scrivevo il libro avevo l’impressione che mia nonna fosse viva ed è questo che mi ha dato la convinzione che i calligrafi non muoiono mai» Il potere del calligrafo è essere la mano di Dio LIGURE, VIVE A MILANO, DOVE OPERA COME TRADUTTRICE. PER ANNI HA INSEGNATO INGLESE NEI LICEI MARILIA PICCONE creato una cattedra per l’insegnamento della calligrafia. La sua intenzione era dare alle generazioni future una chiave per capire l’eredità dell’arte calligrafa e nello stesso tempo per essere in grado di conservarla con operazioni di restauro. Trovo molto interessante che questa nuova generazione di calligrafi non parli arabo. Solo di recente un piccolo gruppo ha deciso di imparare l’arabo, soprattutto per riuscire a tradurre i vecchi documenti. Per me questa indagine alla scoperta di mia nonna è stata una maniera per vincere la morte: quando è mancato mio padre non abbiamo più avuto contatti con la famiglia in Turchia, lui era quello che manteneva vivi i rapporti. È per questo che nel libro ho impiegato la prima persona narrante, per vincere questo vuoto. Ho scritto il libro per crearmi un’eredità, perché mia nonna non aveva potuto trasmettermela. Nel libro viene spiegato come il calligrafo sia considerato la mano di Dio, e infatti si dice anche che i calligrafi non hanno un cuore per l’amore: è una sorta di sacerdozio, il N IL LIBRO YASMINE GHATA "La notte dei calligrafi" Trad. Yasmina Melaouah pp. 124, euro 11 Feltrinelli, 2006 Ritrovare la nonna al museo del Louvre Marzo 2000, in una visita al Museo del Louvre lo sguardo di Yasmine Ghata si posa sul nome del calligrafo che appare nel cartiglio esplicativo di un poema ottomano: è quello di sua nonna, Rikkat Kunt. dedicarsi alla calligrafia? Sì, anche se questa è una finzione letteraria che si è sostituita alla realtà. Il calligrafo non può essere considerato come una persona ordinaria. Per me essere un calligrafo significa esercitare un’arte che serve da tramite tra l’uomo e Dio. Mentre scrivevo il libro avevo l’impressione che mia nonna fosse viva ed è questo che mi ha dato la convinzione che i calligrafi non muoiono mai. In un certo senso era stato come se Rikkat avesse due vite, come calligrafa e come donna: nella vita di donna lei era spettatrice, mentre era attrice in quella di calligrafa. È per questo che nel libro dico che i calligrafi non hanno un cuore per l’amore, perché la loro vera vita è quella artistica. Nel libro affiorano due diverse concezioni della calligrafia: il preside della facoltà in cui insegnava sua nonna pensava alla calligrafia come a un’arte statica e, come tale, ormai finita. Sua nonna, invece, sosteneva che la calligrafia può esprimere la sensibilità di un’epoca nuova: come? Ci sono degli esempi di questa possibilità di adattare la calligrafia ai tempi moderni? La nonna era molto accademica e non ha fatto trasgressioni nell’arte calligrafica, ma molti calligrafi contemporanei hanno cercato di modernizzare e attualizzare questo patrimonio e io mi sono ispirata a questi artisti per spiegare le trasgressioni della nonna- il tunisino Mehdi Qotbi, ad esempio, è uno di questi calligrafi moderni. La calligrafia ottomana ha delle regole fisse, con proporzioni stabilite, con dei margini precisi, è come se ci fossero delle regole matematiche. I calligrafi moderni hanno deciso di spazzare via tutte queste regole, viene in mente l’analogia con certi movimenti innovativi nella pittura, il cubismo ad esempio. Soprattutto, i calligrafi moderni hanno svuotato la calligrafia del contenuto BEN MARCUS. Un romanzo che premia il nonsense ell’uomo in fil di ferro Oceano o Fiume, i Gary e i Lewis vengono racchiusi in una bolla in due camere separate collegate da una cellula porosa, attraverso cui il fil di ferro si può muovere li- le dentro un universo di parole che si beramente... Quando Gary e Lewis combinano per non dire fingendo di sono collegati dal fil di ferro, la com- dire, perché «le regole del progetto di binazione di flap, filo e nome forma Vita così come lo intende Marcus una famiglia completa, e nella cellula usiamo parole di Luca Ragagnin - parha luogo un’emozione: gli uomini tecipano simultaneamente degli opinerti vengono ricoperti dal flap per posti», e mentre raccontano, nell’ordiformare una casa circondata dall’ac- ne: il sonno, Dio, gli alimenti, la casa, qua; in questo progli animali, il temcesso vengono lipo atmosferico, le R e c e n s i o n i berati i parenti che persone e la società scorrono attraver(ciascuno accomBEN MARCUS so il fil di ferro nelpagnato da non "L’età del fil di ferro le altre stanze; e i meno spiazzanti e dello spago" padri stessi salpaTrad. Rossella Bernascone Glossari), in realtà no sul dorso del fil pp. 150, euro 12, Alet, 2006 frantumano i temi di ferro». Questo a dentro articolati pagina 111 di L’età del fil di ferro e che quasi sempre ne divergono, come dello spago di Ben Marcus: cosa vuol periodi e parole degli articolati diverdire non si capisce, come non si capi- gono al loro interno in un’incredibile sce perché questo di Marcus viene girandola di invenzioni che a prima vichiamato romanzo quando invece ha sta parrebbero metaforiche ma quasi tutta l’aria di essere un percorso di mai hanno l’aria di essere metafore. guerra tra l’ironico e il finto demenzia- Anche se vi si respira un senso vago di « S t los Quando l’inglese era gergo descrizione-decrittazione di un mondo sconosciuto perché arcaico e misterioso che trae il nome dall’età del fil di ferro e dello spago: che è poi il «periodo in cui la scienza inglese ideò un sistema gergale astratto basato sul modello fibrillante delle strutture di spago e fil di ferro installate sulla bocca durante il discorso». Aggiungendoci: «Anche i sistemi e le figure patriarcali, compresi i Michael Marcus (padre di Ben), vennero costruiti in questo periodo: sono gli unici padri a essere sopravvissuti alla loro era». Uscito in America nel 1995 e solo ora tradotto in Italia, è questo il primo libro di Ben Marcus, nato a Chicago nel 1967 e oggi docente di scrittura creativa alla Columbia University. Ed è libro tra i più originali e ardui, se all’arditezza di chi lo ha scritto dovesse sommarsi l’arditezza della sua decrittazione. Che lo stesso autore scoraggia in più di un luogo, lasciando intatto il miracolo dell’invenzione creativa, e in definitiva della sua sintassi: logica e inevitabilmente surreale. Tutto porta dunque alla sintassi, al linguaggio. Leggi e non capisci. Anzi: «capisci», ma non capisci cos’hai capito, in Nella foto superiore Yasmine Ghata, autrice per Feltrinelli di La notte dei calligrafi. In basso Ben Marcus, che da Alet ha pubblicato L’età del fil di ferro e dello spago religioso per fare qualcosa di unicamente estetico. Sono frequentate attualmente le scuole per calligrafi? Ne esistono di due tipi diversi, presso le madrase, e quindi a fine religioso, e presso le università? In Turchia non ci sono più le madrase, in Iraq ci sono delle scuole coraniche che insegnano la calligrafia. Nelle mie ricerche mi sono occupata solo dell’ambito universitario e quindi delle scuole laiche. C’è un piccolo gruppo di studenti interessati ad imparare l’arte calligrafica, e poi pochissimi parlano l’arabo. Forse la domanda sarebbe se è possibile che esista la calligrafia tradizionale in un mondo laico… Quello che è certo è che non può essere messa in competizione e in opposizione alla stampa, in quanto il fine è del tutto diverso. La calligrafia è un atto di fede, Atatürk l’ha rimossa perché voleva dare una svolta all’intero paese, voleva che la Turchia diventasse un paese moderno. Se si voleva mantenere in vita la calligrafia, si doveva evitare l’obbedienza religiosa. Solo separando la calligrafia dalla fede religiosa era possibile farla evolvere negli anni. La stampa ha solo accelerato il processo di sparizione della calligrafia, già iniziato prima ancora di Atatürk, e certamente la calligrafia non è in opposizione alla stampa, perché la calligrafia è arte. È riconoscibile lo stile dei calligrafi? Sono firmate le loro opere? Le loro firme sono indicate nel colophon del Corano che riporta la data e la firma dei calligrafi che molto spesso non sono gli stessi che eseguono le illuminazioni. Non è possibile riconoscere lo stile individuale dei calligrafi, si può riconoscere il secolo in cui hanno operato, il luogo in cui vivevano- ad esempio le calligrafie degli stati settentrionali dell’Africa sono molto meno raffinate di quelle della Turchia- e le varie scuole da loro seguite. Quando il vecchio calligrafo Selim viene trovato impiccato, si sottolinea che aveva il turbante arrotolato sopra il fez, il che indica il rifiuto della nuova direzione che Atatürk aveva dato alla Turchia: si uccide perché gli è impossibile vivere così? Sì, questa è la mia visione di Selim, in armonia con l’impero ottomano e in disarmonia con il mondo laico che ha soppresso la religione: Selim è uno dei personaggi chiave del libro, appartiene a quel genere di persone che aiutano a comprendere il senso della vita, che hanno un ruolo di accompagnatori in un viaggio iniziatico, come il personaggio del libro Ibrahim e i fiori del Corano di Eric-Emmanuel Schmitt - e del film tratto dal libro. Selim regala a Rikkat gli strumenti della sua arte e dà così inizio alla sua vita di calligrafa. A me è mancata molto, nell’infanzia, una figura del genere: la vita si apprende meglio da qualcuno, per un giovane è duro vivere se manca una di queste figure mitiche che ti insegnano a vivere. Ed è per lo stesso motivo che si lascia morire sua nonna? I calligrafi sono disincarnati, per loro la morte è solo un atto di passaggio. Quando pensavo alla morte di mia nonna, immaginavo una morte serena: non so nulla in realtà della sua morte, sono solo stata sulla sua tomba, dove, secondo l’uso turco, c’è un grande roseto, come su tutte le tombe delle donne. quanto ciò che hai capito hai capito che non ha senso, nel senso che è scritto in una lingua che rispetta le strutture logiche, e quindi dice cose, ma dice cose che contraddicono le logiche delle strutture esistenti, viventi, pensanti e operanti nel campo logico dell’esperienza di ciascuno di noi. E quindi l’apparente reale di pensieri surreali, o di storie surreali (come nell’altro libro, Il costume di mio padre), sconfina oltre se stesso, si fa metafora assurda di se stesso, disegna il mondo com’è (incomprensibile, inaccettabile) attraverso la rappresentazione del suo non essere accettabile perché non comprensibile. La stessa ironia, che pure si autoalimenta di una miriade di invenzioni al limite dello stupefacente, rischia di negare se stessa in quanto ironia, divertissement puro e finisce col diventare umorismo tetro. Come appare dalla comparsa ricorrente della categoria del saprofago (che si nutre di cadaveri e per di più, apprendiamo a pagina 46, «non può acquisire il titolo di proprietà di un pollo che abbia testé scoperto») o, per fare solo un altro esempio, di quella della «monica»: che è l’atto dell’autoestinzione (suicidio) perpetrato come spettacolo. Altro pagina autori stranieri WALTER PEDULLÀ QUESTIONE DI MARCHIO È legge di mercato che nessuno mette più in discussione: un’industria che si sia conquistato un grande successo nazionale e internazionale utilizza il marchio trionfatore per vendere non solo la merce per la quale è diventata celebre ma anche tutto quello che di affine o analogo produce. Per esempio, Versace, che ha cominciato con gli abiti, ora invade il mercato con scarpe, portafogli e profumi, che esibendo il marchio della casa madre, costringono i produttori di queste merci minori a cedere grosse fette di mercato, pur offrendo prodotti che forse sono migliori. Non saprei dire se la merce dell’industria che ha imposto il proprio marchio oltre il proprio territorio «naturale» sia peggiore. Vince chi conquista il grande pubblico: proprio come in democrazia. Dove i grandi partiti hanno la meglio sui piccoli, senza che si possa sostenere che i primi abbiano ragione. Insomma a saper vendere la propria merce capita anche che i più si convincano che è migliore. Valgono i rapporti di forza che uno si guadagna per virtù individuale o per iniziativa della storia e della sua serva-padrona, la tecnica. È la legge del più forte, non escluso chi è forte pure senza virtù individuale. Se il marchio ha vinto - per esempio nella Tv - il prodotto si impone e forse oscura quello che magari vale di più. Inutile ironizzare sul successo dei libri di Vespa: il marchio funziona anche fuori dalla Tv, ad esempio in libreria, dove emargina saggistica politica che meriterebbe più lettori. Dalla Tv arriva anche il marchio di un altro buon conduttore di programmi Tv, i cui romanzi tra l’invidia dei colleghi vanno a ruba, accontentandosi di essere avvincenti nella trama e attuali nel tema. Registriamo il fenomeno. Il marchio impone la sua legge anche nell’arte, nel giornalismo, nella politica, nello sport. Le memorie di Materassi in questo momento avrebbero più lettori di quelle di Prodi. Il sindaco di una grande città, Milano, Napoli, Roma, pubblicando un volume di racconti, potrebbe vendere più copie di tanti noti narratori: le quali sono direttamente proporzionali all’interesse che i lettori mostrano verso una qualsiasi attività del loro primo cittadino. Non c’è nulla di cui menare scandalo. La legge è quella, comprese le eccezioni. Al Premio Strega è successo che un romanziere di professione ha vinto su un personaggio politico che aveva più carisma: un più suggestivo marchio. E così, senza rischiare di perdere sempre, possiamo tifare per l’eccezione alla regola, per l’artigianato e per il prototipo, in una parola per ciò che è peculiare dell’arte e della letteratura. Conta molto il marchio del grande giornalista sulla letteratura. Un suo libro di viaggi, un volume di interviste e di articoli, un suo romanzo storico o d’attualità fa sentire il rapporto di forza nel giornale proprio e del collega. Lo si recensisce di più e meglio che non l’opera di uno scrittore che si sfianca su ogni parola e pensiero alla ricerca di qualcosa di non detto. Qualcuno protesta, ma è questa la legge vigente nel mercato unico dove una scarpa è merce quanto un bel racconto. Carlo Emilio Gadda lo capì subito, nel 1924, che ha più successo del romanzo di un agguerrito narratore «l’autobiografia di uno stupratore, di un mozzo di bastimento, di un’imperatrice, di una donna scandalosa, di un anarchico condannato alla Siberia», o il libro di «un giornalista di grido e del padrone di un giornale». Questa è la legge. GIANNI BONINA a dove Dan Brown poteva mai cominciare il suo viaggio di scoperta del mondo (che lo ha portato a due romanzi scientifici, Crypto e La verità del ghiaccio, e a due umanistico-esoterici, Angeli e demoni e Il codice da Vinci) se non dall’elemento base, cioè l’anello, che ha ispirato la cultura norrena come quella mediterranea, facendo incrociare il mito classico con la materia bretone? L’anello di cui si impossessa Sigfrido nel Cantare dei Nibelunghi per accrescere le proprie forze è lo stesso che, per rendersi invisibile, Bradamante strappa al saraceno Brunello nell’Orlando Furioso; e sempre un anello, che dà insieme poteri e invisibilità, è il motivo che muove le fantastiche avventure tolkiniane di Frodo. Cosa fa Brown? Recupera questo oggetto e ne fa il must di quello che è il suo romanzo d’esordio, seppure arrivato per ultimo in Italia. Anche in Crypto infatti la caccia all’anello sottende la conquista di un potere che di magico, rispetto alla concezione eddica e rinascimentale, ha oggi conservato il significato di dominio, mentre la forza non si esercita più con l’imposizione o l’ostentazione ma si esperisce con l’applicazione che dell’anello si faccia in un sistema informatico. Ora dunque sappiamo che sin dai primi passi Brown ha chiaro il modello narrativo: è quello che gli deriva dalla tradizione epica, dai cicli della quête e del mistero di tipo arturiano e celtico, il pabulum dove sono nati il graal, Excalibur, la chanson de geste e prima ancora gli argonauti e i poemi omerici. Rifacendosi alla più duratura e consolidata mitografia, aggiornandola con qualche spunto moderno, Brown entifica un gusto che si precisa oggi nel «romanzo di variazione», il cui wit è di combinare invenzione e documentazione, storia e leggenda, credenza e finzione in un disposto che porta a stadi avanzati il processo di sviluppo del romanzo come genere capace di accogliere ogni trattamento e digressione. Se il successo letterario è arriso a Brown solo con l’ultimo di una serie ripetuta di tentativi della stessa portata, appena corretti, è perché Il codice da Vinci, rispetto ai primi tre, è il romanzo che meglio e più a fondo mutua la materia epica protendendosi fino a raggiungere il cuore della matrice esoterica. Ma i precedenti titoli più che dei conati sperimentali vanno visti alla stregua di stazioni di avvicinamento e di guadagno, poste di verifica e collaudo di un prototipo in fase di rodaggio e definizione. Non è infatti un mero esercizio di rifacimento l’esito che ognuno dei tre romanzi successivi a Crypto sortisce nel ripetere una sempre identica fabula, D IL LIBRO DAN BROWN "Crypto" Trad. Paola Frezza Pavese pp. 427, euro 18,60 Mondadori, 2006 Hacker in azione e mondo a rischio In azione hacker della prima generazione (tali dal momento che il libro è uscito negli Usa nel 1998, il primo che lo scrittore americano ha scritto): vogliono sabotare il sistema informatico della Nsa, il sancta sanctorum degli Usa. Per la verità l’hacker è uno soltanto e per giunta insospettabile, giacché si tratta di una testa d’uovo della stessa Nsa. Ma ha delle riserve innate contro gli Usa e medita una vendetta che lasci il segno. Ma non ne vedrà l’esito perché muore. DAN BROWN . Il primo romanzo dell’autore americano è di argomento scientifico, come "La verità del ghiaccio". Affronta un tema divenuto attualissimo, quello delle intercettazioni. E recupera un elemento che rimanda alla narrativa epica norrena e rinascimentale: l’anello che dà potere Tra privacy e security Crypto sceglie gli Usa servendosi di figure che diventano maschere per la loro immutabilità e reiterando logiche, giri narrativi, scene e svolgimenti che ubbidiscono a uno scioglimento invariato. Più che come rifacimento ogni romanzo si è piuttosto andato costituendo come versione migliorata dello stesso modello fino al raggiungimento del massimo risultato. Sicché in Crypto si possono individuare temi e motivi che ritroviamo nel Codice da Vinci con la facilità con cui è possibile rintracciare nell’aspetto di una persona adulta i segni della sua fanciullezza. A metà degli anni Novanta, quando il computer si erge a grande seduttore dell’umanità nelle vesti di novello Merlino, il trentenne Brown crede che sia il groviglio dei suoi chip a rappre- tephenie Meyer, classe 1970, è STEPHENIE MEYER. una giovane americana che ha battuto il record di vendite con il suo primo romanzo, Twilight. Il libro racconta la storia di Isabella Swann, una bella adolescente appena arrivata nella città di Forks dove vive suo padre. L’accoglienza che le riservano i VIVE A BOLOGNA. DOTTORE compagni di scuola è piacevole, ma DI RICERCA IN ITALIANISTICA. c’è un ragazzo, Edward Cullen, che "GLI INSETTI SONO AL DI LÀ invece le riserva uno strano trattamenDELLA MIA COMPASSIONE" to. Il giovane è introverso e solitario, (PENDRAGON, 2001) di una bellezza evidente ma carica di un’aura misteriosa da cui Isabella si CHIARA CRETELLA sente subito attratta. L’amicizia-relazione tra i due arriva ad una svolta di informazioni. La regola generale è quando il giovane dichiara a Isabella che i lettori finora non hanno scoperdi essere un vampiro. Il romanzo vira to il mio romanzo navigando su internel gotico, inscenando una storia gio- net. In ogni caso la rete permette però vanile visionaria, capace di affrontare di instaurare uno splendido rapporto le turbe dell’adolescenza. Stilos ne ha tra me e i miei fan e questo non sarebbe mai potuto avvenire con il vecchio parlato con l’autrice. Il tuo testo è sbarcato in Italia da sistema delle lettere. Mi sento continuamente collepoco ed ha già alle aspettavenduto molto. I n t e r v i s t e gata tive ed alle reazioNon solo, nel gini di chi mi legge, ro di pochissimo STEPHENIE MEYER a quello che speè nato un blog in "Twilight" rano di scoprire in cui i giovani parTrad. Luca Fusari futuro. Attraverso lano del romanpp. 412, euro 16,50 siti quali Il Lessizo e si confrontaFazi Lain, 2006 co di Twilight no commentando il testo. Questa simultaneità è (www. twilightlexicon.com) sono ad davvero frutto dell’era globale, ma esempio in grado di coordinare gli inquanto conta la dimensione pubbli- contri con i miei fan più ardenti, di daco/privata di queste community nel re informazioni in più (retroscena, stosuccesso e nella diffusione di un te- rie correlate…). Mi diverte tantissimo sto? Che tipo di nuovo rapporto lo la possibilità di avere risposte in temscrittore riesce ad instaurare col suo pi così rapidi e di chattare on line con chi mi legge. Mi sono addirittura fatpubblico? Non sono convinta che internet e i ta alcuni buoni amici in questa manieblog abbiano influenzato le vendite ra. del libro. Mi sembra che la maggior Nel tuo testo è inserita anche una parte delle persone che partecipano colonna sonora del romanzo. È una ai blog su Twilight abbiano prima sco- pratica che anche in Italia è stata perto il libro a poi siano andate sulla molto usata. Ma forse dirotta il testo rete per saperne di più. Alcuni fan verso una montatura scenica, direi americani hanno creato siti ricchissimi filmica. Molti dei prodotti importa- S S t los sentare il fatto nuovo capace di destare non solo interesse ma anche e soprattutto meraviglia, quella stessa meraviglia che per secoli ha fatto, e continua a fare, la fortuna della narrativa d’avventura ed epico-allegorica. E pensa che il gusto del pubblico vada soddisfatto spicciolando in un technothriller il vecchio cantare popolare. Crypto nasce dunque da questo cozzo di intenzioni che però deflagra in un golem narrativo nel quale la presenza dell’apparato tecnico, non avendo la stessa forza di quello spiritualistico, lascia da solo il thriller a profondere suspence, non facendo alla fine che riprodurre tirate già viste proprio e soprattutto in America, oggi soprattutto con Deaver e Grisham. In Crypto lo spettro orwelliano del Grande Fratello non integra tanto un mistero quanto un ancipite incubo moderno: da un lato il timore di svuotare di senso il credo della privacy e da un altro l’incognita che la perdita di banche dati comporterebbe circa la sicurezza nazionale. Un hacker intende violare il sistema informatico superprotetto della Nsa (l’agenzia di spionaggio di cui poco e niente ancora oggi si sa) in nome di una libertà individuale che negli States è tanto sacra quanto lo è, dopo soprattutto l’11 Settembre, il bisogno di uno scudo antiterroristico. Brown ci racconta questo conflitto (che nel ’98 non è ancora compreso nel significato attuale di alternativa drammatica tra licenza e divieto di intercettare telefonate, Sms ed email) e non può non rifarsi a quello Boom di un romanzo gotico L’amore piace vampiresco ti dall’America hanno questa caratteristica, che ha invaso anche il mercato italiano. Ossia, tanti autori scrivono pensando alla sceneggiatura da trarre dal testo. Bisognerebbe probabilmente parlare della differenza tra letteratura e fiction? Questa antitesi è sentita nel mercato americano o vi è strettamente collegata? Il tuo romanzo ad esempio è stato subito opzionato per una versione cinematografica da Madonna, Mtv e Paramaount. Non pensavo a una versione cinematografica di Twilight quando ho scelto la colonna sonora. In realtà, in quel momento, non pensavo neanche che Twilight sarebbe diventato un romanzo. Stavo scrivendo una storia per passare il tempo e non avevo nessuna intenzione di farla leggere ad altri. Men- tre scrivevo vedevo però le scene che stavo costruendo tanto chiaramente che sembravano immagini tratte da un film. Ascoltavo musica alla radio e certe canzoni mi ricordavano episodi del romanzo e spesso mi è capitato di pensare «se questo fosse un film questa sarebbe la canzone adatta per questa scena». Ho stilato la lista di brani musicali come un mio gioco personale, mettendo le canzoni in ordine cronologico, riascoltandole mentre portavo avanti la stesura di Twilight. Più tardi, mentre lavoravo con il mio editore, ho menzionato tra tante cose anche la presenza di questo elenco, e la cosa ha suscitato interesse. La casa editrice ha pensato che i lettori si sarebbero divertiti a scoprire quale musica ascoltavo mentre scrivevo e così mi hanno chiesto il permesso di segnalare le canzoni sul loro sito. Ho poi fatto lo stesso anche sul mio sito personale. E la casa editrice aveva ragione: continuo a ricevere nuovi suggerimenti musicali ogni giorno dai miei fan. Continuo a vedere una differenza tra la letteratura pura e quella di consumo, anche se non so se tutti sarebbero d’accordo nella mia maniera di distinguerle. Ci sono libri che ho letto in cui l’autore sembra non essersi preoccupato neanche per un momento di un eventuale pubblico di lettori, ed il libro riporta solo quello che lo scrittore si voleva raccontare. Libri che nascono dal desiderio di dare piacere all’autore prima di tutto. Questi sono i romanzi che per me fanno parte della letteratura pura. Quando prendo in mano altri testi, capisco invece che lo pagina Nella foto superiore Dan Brown, autore per Mondadori di Crypto. In basso Stephenie Meyer, che da Fazi Lain ha pubblicato Twilight che allora è visto come un mistero impenetrabile: l’esistenza di «Echelon», il più grande sistema clandestino di intercettazioni messo in essere da Washington a livello mondiale e controllato dall’ancora più clandestina National Security Agency, proprio della quale Brown ci svela logiche e programmi. Oggi sappiamo, grazie al recentissimo Intercettare il mondo (Einaudi) di Patrick Radden Keefe, che Brown vide benissimo quanto fosse insaziabile la voracità della Nsa di conoscere tutto di tutti e quanto questa aspirazione fosse ritenuta importante ai fini della sicurezza nazionale. In dieci anni, con il miglioramento e la diffusione dei mezzi tecnologici, il contrasto tra le due opposte dottrine, privacy e security, si è esasperato sicché Crypto giunge nel momento in cui il dibattito, anche in Italia, è diventato vivissimo. Il romanzo sembra dare ragione al primato della sicurezza se alla fine il sistema informatico si salva e i dati segreti non finiscono nel web, ma Brown non nasconde simpatie per le ragioni opposte: e forse perché la sua posizione più sincera è a metà delle due teorie non riesce a distinguere con precisione il bene e il male, per cui una crittologa come Susan Fletcher, che non meno del fidanzato David Becker (copia, anzi modello del futuro Robert Langdon, dove Susan anticipa sia Sophie Neveu che Vittoria Vetra) sembra una convinta sostenitrice della causa della privacy, si ritrova a promuovere accanitamente le ragioni della difesa militare insieme con tutto lo staff della Nsa, mentre solo, a reiterare fino al sacrificio della vita la nobile istanza del rispetto della personalità individuale, viene lasciato un immigrato giapponese reso deforme dagli effetti di Hiroshima, animato da propositi vendicativi contro il progresso della scienza e dunque posto sotto una luce negativa. E, per soprammercato, ad aspirare al possesso dell’anello che custodisce il potere difeso dalla Nsa senza scrupoli e con molta spregiudicatezza è un «cattivo» che non è americano ma anch’egli giapponese. Un trattamento, quello di Brown, come si vede molto americano. Come di tipo americano è il plot: ancora una volta improbabile e agito sull’escalation dei colpi di scena: un’escalation troppo vertiginosa e forsennata. I colpi di scena producono un bell’effetto quando non sono frutto del caso: ma se troviamo che David Becker, messo alla caccia del fantomatico anello (nella Siviglia che Brown conosce bene perché ci ha studiato da giovane storia dell’arte), incontra la ragazza punk che cerca disperatamente nei bagni dell’aeroporto, per giunta sbagliando perché finisce guarda caso in quelli femminili, allora il romanzo non è più un thriller ma una commedia. scrittore si sta rivolgendo a un pubblico specifico e che ha cercato i giusti agganci per vendere proprio presso quel certo tipo di pubblico. E non trovo che questi libri siano una lettura entusiasmante, anche se ci sono alcune belle eccezioni. In Italia da qualche anno assistiamo ad un revival ed ad un interesse per il gotico. Altre declinazioni fantastiche, fantasy, horror, psichedelico-visionarie, sono poco praticate dalla nostra letteratura, mentre in America sembrano essere parte fondante di una consolidata tradizione. È buffo che il mio primo romanzo sia stato catalogato come facente parte del genere gotico; non sono un’amante dell’horror, piuttosto preferisco il fantasy. In America l’horror è effettivamente un genere molto popolare, anche se personalmente non capisco perché piaccia tanto. Sono troppo paurosa per divertirmi con storie che ispirano terrore, e la lettura di Stephen King mi procura tremendi incubi. Probabilmente la maggioranza dei miei connazionali si diverte ad essere terrorizzata molto più di me. Forse ho un’immaginazione troppo vivida per i libri horror. Twilight ha spopolato in una fetta di lettori molto giovani, per la loro identificazione nei personaggi, per la semplicità della prosa, ma anche per il tema dell’amore dannato. Il romanticismo nero pare agire pure nell’epoca delle chat-line. Non credo sarò mai in grado di eliminare il romanticismo dai miei libri, non importa quale sia il loro tema, né mi interessa il trend letterario del momento. Per me l’aspetto amoroso rappresenta la parte migliore di una storia. È il momento del divertimento. Una storia senza amore mi sembra molto poco interessante. 19 Occidente autori stranieri VANNI RONSISVALLE CORPI 2006. Come difendersi dalla volgarità dell’estate, dei corpi e della tv? Fuggendo nell’altro emisfero supponibilmente piovoso e sanamente malinconico; oppure acquistando piccoli libri. Di narrativa, naturalmente. Diffidate, se letterati, dall’apparente cortocircuito con le case editrici che offrono alla vostra attenzione professionale volumetti leggeri; meglio cercarseli in libreria, riempire una di quelle borse da supermercato con cui i grandi bookstore sdrammatizzano il rapporto con i clienti lettori. I piccoli libri di narrativa, i romanzi brevi o i racconti lunghi si leggono speditamente, li infilate nella tasca della sahariana se siete gente da safari, nella sacca da trekking se siete gente così o nel piccolo bagaglio che vi accompagna quando siete ospiti beneducati in barca di amici. Però scegliete con cautela. Potreste scivolare in perversi malintesi. Non tutti i piccoli romanzi sono Il vecchio ed il mare di Hemingway o Doppio sogno di Schnitzel o appartengono al catalogo Sellerio. Come la massaia che fa le valigie in previsione di eventi duri quale una vacanza al mare e si munisce di antidoti contro i morsi dei caimani o la febbre gialla, fate attenzione a ciò che comprate per una fuga nella buona lettura. In quella mia borsa sono finiti due libretti, due invitantissimi libretti. Uno è così sottile che ti obblighi a centellinarne le pagine come quei rosolii che le nonne offrivano in bicchierini non più grandi di un ditale. Si chiama Scritto sul corpo, l’autore è Alan Bennet, lo pubblica Adelphi. L’altro, L’animale morente, è appena più spesso, ugualmente di un eminente scrittore, Philip Roth, Einaudi, ma è un brutto libretto. In comune queste succinte opere letterarie hanno il soggetto. Il corpo: cosa vi è di più abusato in letteratura del corpo? il corpo è statisticamente in testa in quanto anche strumento privilegiato per esprimere sia se stessi sia la spiritualità. Cosa sono, tanto per citare, Il paradiso perduto di Milton, La via del tabacco di Ersckine Caldwell, se non celebrazioni del corpo? Sia in quel testo di ispirazione biblica sia in una vicenda connessa alla grande depressione americana del ’29. Il corpo raccontato da Roth (quello di un vecchio erotomane dalla diffusa virilità che si concentra in fine su una sola donna) è la sublimazione di colossali ovvietà, il Dado Liebigh dei luoghi comuni: ci vuole molta abilità per ridursi a sembrare uno scrittore qualunque. E che si inventa Roth per concludere il suo romanzino? Citare se stesso: come in Pastorale americana affida al cancro l’epilogo; una grandscene finale che vorrebbe essere raccapricciante ma è mestamente ridicola: il satiro canuto che si eccita palpando i noduli delle metastasi in quel seno che lo aveva fatto delirare. Semplice, grandiosa e tragica è invece l’auscultazione ansiosa del proprio corpo, repulsivo e mal cresciuto, da parte di Alan Bennet per dare un senso alla scoperta della sua omosessualità. Un ripiegamento per via di un confronto sotto la doccia con il bassoventre di un compagno di college. Basta poco. Per chi non ama leggere suggerisco per farsi un’idea del trionfo del corpo di riflettere sull’emozione complessa (Robbe Grillet non avrebbe dubbi a definirla erotica) del colpo di testa di Zidane nello sterno di un altro eroe dei nostri tempi. E su ciò che il corpo produce - secrezioni, sudorazioni, eccetera - se si vuole anch’esse materia di grande letteratura. Pensate allo sputo di Totti assorbito dalla platea calciofila della tv del mondo. Corpi. S t los autori stranieri pagina 20 Nella foto Elsa Osorio, autrice per Guanda di Lezione di tango ELSA OSORIO . La vita di un paese colta in S C A F F A L E un’epoca cruciale e l’identità sociale distrutta da governi e dittature: sullo sfondo di un ritmo che scandisce l’esistenza collettiva L’Argentina ha il passo del tango U EMILIA PAGLIANO n libro da leggere sedendosi in poltrona e mettendo sul lettore un cd di Carlos Gardel Lezione di tango dell’argentina Elsa Osorio. Perché il tango è il protagonista del romanzo, la musica del tango risuona in ogni pagina mentre i personaggi sembrano allacciarsi a turno sulla pista nelle figure della danza per poi sciogliersi e lasciare il posto ad altri ballerini. Dopo I vent’anni di Luz, una storia dolorosamente drammatica di due figli di «desaparecidos», Elsa Osorio ha scritto un romanzo di più ampio respiro, affollato di personaggi le cui vicende prendono l’avvio dalla fine dell’800, anche se il pretesto narrativo nasce dall’incontro casuale, a Parigi, tra il regista argentino, Luis, e Ana, figlia di argentini fuggiti in Francia dalla dittatura del ’76. Il bisnonno di Ana, Hernàn Lasalle, era un gran ballerino di tango e a Luis ne aveva parlato la nonna, un tempo domestica in casa Lasalle. La storia delle due famiglie diventa il soggetto del film di Luis: l’orologio del tempo si riavvolge di un secolo, il porto di Buenos Aires accoglie centinaia di migliaia di immigrati, guardati con disprezzo dalle ricche famiglie del luogo, proprietarie delle estancias dove si alleva il bestiame e di lussuose case in città, nell’aria volano le prime note del tango, suonato e danzato in locali popolari. Perché è subito scandalo, nessuna donna per bene ballerebbe il tango, lasciandosi abbracciare da un uomo in una stretta più ravvicinata ancora di quella del valzer, sull’onda di quelle parole che sono più che sessualmente allusive. Sullo sfondo dei primi moti socialisti in Argentina, è la storia del tango che Elsa Osorio ci narra, di come il tango acquisti grandezza e dignità mentre si affermano i nomi dei primi compositori. E la storia dell’evoluzione del tango nel romanzo procede di pari passo con quella delle donne, le più pronte ad accogliere i segnali di liberazione proprio perché da sempre vittime delle costrizioni sociali e famigliari. Donne infelicemente sposate, donne che hanno il coraggio di opporsi al volere della famiglia, seguire l’uomo che amano e poi abbandonarlo quando si rendono conto che è stato un errore, donne che si lasciano mantenere ma sono anche capaci di uccidere l’amante quando questo sposa un’altra. E infine donne come la socialista Rosa a cui Juan Montes, il nonno del regista Luis, dedica il suo primo tango, innamorato di lei fin da quando sono solo due ragazzini e incapace di spiegarsi la sua scomparsa, quando Rosa deve lasciare Buenos Aires per evitare un arresto. La storia di Rosa e di Juan finisce per prevalere in questo romanzo iniziato con un’altra coppia e in un altro paese, attraverso loro due e il loro amore parla il tango, mentre lei diventa una famosa cantante e lui compositore e musicista. Tutti gli altri numerosi personaggi restano pallidi sullo sfondo, le loro voci - anche quelle già attutite che commentano dall’aldilà - in qualche modo soffocate dalle note del tango che copre pure le proteste e i disordini, peraltro solo accennati, della Buenos Aires del 2001 a cui Ana finalmente ritorna. Stilos ha intervistato la scrittrice argentina Elsa Osorio che risiede da anni a Madrid. Dopo la storia intensa di Luz, nata dalle drammatiche vicende dell’Argentina sotto la dittatura, in Lezione di tango, risuonante di musica ad ogni pagina, respiriamo un’atmosfera più leggera. Ha sentito la necessità di dipingere anche un’altra Argentina? È vero che in Lezione di tango è rappresentata un’epoca meno cruda, meno tremenda di quella di I vent’anni di Luz, eppure in qualche modo i due libri sono collegati: nel primo il tema era quello GIOVANNA MOZZILLO IL LIBRO ELSA OSORIO "Lezione di tango" Trad. Roberta Bovaia pp. 415, euro 16 Guanda, 2006 La storia di due famiglie e di un secolo Un uomo e una donna si incontrano a Parigi, in un locale dove si balla il tango. Lui è un regista argentino, lei è una giovane sociologa, emigrata dall’Argentina da piccola. Scoprono un legame tra le loro famiglie e nel regista nasce l’idea per un film: sarà la storia di un secolo in Argentina attraverso quella di due famiglie e del tango. dell’identità rubata, in questo si tratta di un’identità sociale che non viene rubata ma in un certo senso distrutta da governi e dittature - è questo il punto in comune tra i due libri. In Lezione di tango vado agli anni della ricchezza del paese, quelli in cui si forma questa società grazie alla forte immigrazione, l’epoca dell’industria agricola e dell’allevamento di bestiame, e nello stesso tempo è un’epoca che ha con sé un progetto culturale, e c’è un crescendo di tutto questo fino a quando interrompo la narrazione: è il 1930, l’anno del primo colpo militare, anzi, non è il colpo solo dei militari, sono stati anche i civili che hanno chiamato i militari al potere. Ed è l’inizio della disfatta, è come il principio di qualcosa che avrebbe portato alla crisi finale. Il primo romanzo era un romanzo più duro e più sofferto, questo mi ha impegnato di più nella ricerca. Ho scoperto tante cose che non sapevo dell’Argentina, le lotte operaie ad esempio. Ma ho scoperto anche che sono stati anni di entusiasmo e di speranza, perché il sogno è che l’Argentina diventi un grande paese e può diventarlo perché ha una buona classe media, ma tra le dittature e la corruzione dei governi come quello di Menem l’epilogo sarà la crisi del 2002. Il tango è il personaggio principale e incorporeo del romanzo: è una delle anime dell’Argentina? Poteva nascere solo in Argentina o è stato un caso e sarebbe potuto nascere anche in un altro paese dell’America latina? Il tango poteva nascere solo in Argentina ed è vero che è un personaggio incorporeo nel libro, ma non parla a tutti, soltanto ai suoi figli, a quelli che vivono la vita del tango con passione. E il tango racconta la sua essenza, come si è formato. C’è una parte del libro in cui si parla di questa straordinaria atmosfera di Buenos Aires, dove immigrati e criollos - la gente del posto - si fondono in una danza che è un abbraccio e il tango dice che si discute tanto delle sue origini, ma quello che gli ha dato origine è questo abbraccio tra la gente che sbarca dalle navi e quella che è già lì. Questa è l’anima del tango. In Argentina c’è stata una fusione meravigliosa tra la gente del luogo e gli immigrati che sono arrivati in grande numero perché venivano invitati a trasferirsi in Argentina, perché c’era bisogno di loro. In pochi anni la popolazione dell’Argentina si duplicò, l’Argentina era il paese delle possibilità, la gente arrivava che era analfabeta e la generazione successiva aveva già fatto straordinari passi avanti. Il tango come musica e il tango come danza: esprimono la stessa cosa o c’è un valore aggiunto di libertà espressiva nel- la danza? Il tango nasce come danza, le parole vengono dopo. Non sappiamo esattamente come si ballasse il tango all’origine, perché era un ballo da postriboli, e penso certamente che la danza aggiunga un valore in più: è importante come un rito, ci sono i vestiti, c’è un silenzio carico di tensione. Il tango si può ballare in molti luoghi, ma l’anima del tango è solo in Argentina. È per questo che, nel romanzo, il tango prende parte alla vita dei personaggi e si risente se quelli che vede abbracciati nella danza non portano questo abbraccio fino in fondo, in un’unione per la vita. Quando parlano «le ombre», le voci dall’aldilà, pare quasi che il tango sia un luogo: un luogo dello spirito? Proprio così: tutti questi personaggi a cui il tango parla hanno dato la vita per il tango, il tango è un abbraccio tra uomo e donna e, quando questi personaggi muoiono, si trasferiscono nel luogo che è Tango, come un palco in un teatro in cui stanno a guardare gli altri che vivono ancora. La regola è che la persona che stanno evocando non può parlare, sono gli altri che parlano. Così quando Rosa incontra Juan, i morti commentano. E, a proposito delle voci dall’aldilà che sembrano quelle di un coro: vogliono dare un senso di eternità al tango, all’anima dell’Argentina? Sono proprio come le voci di un coro, anche se non è qualcosa che ho pensato quando ho costruito il romanzo. In me c’è l’idea che esista un’eternità con una gioia continua e diffusa, in cui non si debbono dimenticare i tempi felici. Quando si parla di Carlitos comprendiamo che è Carlos Gardel, ma quali altri personaggi sono ispirati a persone vere? Juan Montes e Rosa sono personaggi fittizi ma tutti i musicisti che sono intorno a loro sono personaggi che sono esistiti veramente. Quando Rosa canta il primo tango, i nomi dei musicisti che l’accompagnano sono veri. Juan e Rosa rappresentano un periodo speciale nel tango: c’era stata una specie di scontro tra i musicisti che avevano avuto una formazione classica e avevano studiato in conservatorio e quelli più popolari, ai primi non piaceva che si aggiungessero le parole alla musica. Ecco, l’amore tra Juan e Rosa rappresenta il superamento di questo contrasto, la coniugazione dei due elementi, le parole e la musica. Sono i personaggi femminili quelli che hanno il coraggio di comportamenti diversi, Mercedes e Rosa, ma anche Yvonne. E, in tempi recenti, sono le donne che hanno portato avanti la protesta in nome dei loro «desaparecidos»: il sesso debole è in realtà il più forte? Certamente sì, e non è un’opinione soggettiva: è vero che negli ultimi tempi sono state le donne, le madri, le nonne, a portare avanti la lotta in nome dei loro cari. Per questo l’eroina del romanzo è Rosa che fa la sindacalista e affronta l’esilio e poi il ritorno, ed è per questo che le ho dato un ruolo importante come cantante di tango. C’era veramente una cantante molto nota, Rosita Quiroga, c’era pure una famosa bandeonista, ma la realtà è che nel tango ci sono più uomini che donne. I testi del tango raccontano sempre la stessa storia: c’è sempre una ragazza che lascia il quartiere e il fidanzato per un amore frivolo e c’è sempre un uomo che piange… Ho provato a contare le parole usate per indicare una donna nei testi dei tanghi, ce ne sono molte di più di quelle che si usano adesso. E ad ogni modo sono gli uomini che scrivono i testi del tango, perché quella era una società maschile. Ed ecco perché Rosa è così importante nel libro e perché parlo poco, invece, di Carlos Gardel. Perché volevo evitare che Gardel fosse l’unico mito. ELIETTE ABÉCASSIS. Indagine su maternità e dintorni i sa che la dissacrazione è arte rischiosa. E che a praticarla si rischia il biasimo, o addirittura l’ostracismo, da parte della comunità dei benpensanti. Un biasimo tanto più iroso, un ostracismo tanto più ar- dretto idilliaco diffuso e imposto dalduo a eludersi, quanto più quel che in- la morale comune e dalle consuetuditendiamo dissacrare si propone come ni. Per esempio, la tesi, contrabbandaoggetto di venerazione universalmen- ta da tanta psicologia odierna, seconte tributata. Ma Eliette Abécassis non do la quale è giusto e proficuo che il si è lasciata intimidire. E, armata di quasi padre assista alla nascita. Inveumorismo tace quando mai! gliente e di grinAvevano ragione R e c e n s i o n i ta da guerrigliea oltranza le nora, ha osato parstre nonne allorELIETTE ABÉCASSIS tire all’attacco ché risolute pro"Lieto evento" di quello che per Trad. Maria Laura Vano- clamavano: «Per laici e per crecarità, niente rio denti, per conmaschi! Il parto pp. 162, euro 14 servatori e per è roba da sole Marsilio, 2006 innovatori, in femmine!» In ogni tempo e quanto nel vedere la propria donna, la sotto ogni cielo, costituisce il culto propria partner, la propria amante, per eccellenza, indiscusso e inconfu- straziata lacerata squarciata sanguitabile: nientedimeno, la maternità. nante, lui ha l’impressione di assisteDunque, nel recente Il lieto evento re a un film dell’orrore con lei per edito da Marsilio, ecco l’autrice che a protagonista, e, se anche non sviene uno a uno e puntigliosamente ribalta come il Nicolas del romanzo, comungli assiomi di cui è puntellato il qua- que resta scioccato, e sull’eros lo choc S KEITH DONOHUE, Il bambino che non era vero, trad. Elisabetta Humouda, pp. 339, euro 17,50, Rizzoli 2006 Henry Day scappa da casa per non ritornare più. Al suo posto c’è la sua copia, un ragazzo changeling che è di una tribù di eterni bambini. In casa Day si muove a suo agio immedesimandosi in Henry mentre quello vero entrato nella tribù vive le difficoltà della vita nei boschi con un altro nome. Nella sua mente non v’è più la sua identità, ma fortunatamente non è del tutto così: vuole ritrovare se stesso con l’aiuto di persone che incontra man mano. Questo è il primo romanzo di Heith Donohue del Maryland, direttore delle comunicazioni per l’Archivio nazionale di Washington. Il parto? Una questione fra donne avrà effetti nefasti che dureranno nel tempo. In quanto l’eros è un’entità delicatissima, basta così poco perché svilisca, svigorisca, languisca. Tanto più che quando col prezioso fardello si torna a casa, inevitabilmente si scopre che tutto è cambiato: perché il neonato, nel nostro caso la neonata, Léa, lungi dall’essere il dolce roseo angioletto propagandato dagli opuscoli per donne in attesa, è in realtà una tiranna, ingorda, impaziente, egocentrica, sfrenatamente collerica, che da colei che nella sua imprevidenza si è incaponita a metterla al mondo esige ininterrotta instancabile dedizione - giorno e notte, notte e giorno, allattare, lavare, cambiare, cullare, e il ruttino, mio Dio! lo ha fatto il ruttino?, il tutto senza soluzione di continuità - sicché, è inevitabile, la neo madre perde la sua identità, è come fosse fagocitata, per cui - che frana, santi numi, che crollo a scatafa- scio! - non si veste più, non si trucca più, e niente parrucchiere, niente letture, niente serate con gli amici, e poi le gloriose ambizioni di carriera desolatamente accantonate, e i viaggi, oh, i viaggi ridotti a un ricordo del tempo che fu. Sicché la notte, troppo stanca per dormire, Barbara (così si chiama l’io narrante) se ne sta a rievocare quello che ha perduto: Cuba e i suoi profumi inebrianti (era stato lì che sotto le stelle dell’Avana Nicolas aveva chiesto «Facciamo un figlio?» e lei d’impulso aveva risposto «Sì»), e l’Africa, e Venezia, e la casa in festa piena di gente fino all’alba, e le serate nei bar dense di sussurri e risate, e i ritmi esaltanti dei night. Tutto svanito: svanito il sogno, svanito l’incantesimo, svanito il romanticismo. E lei, umiliata dalla cellulite, dalle smagliature, dalle emorroidi e dalle altre piacevolezze connesse alla condizione di puerpera, è una donna sfinita, una donna inebetita: una donna «abolita». Abolita dall’irruzione devastante di questa creatura, creatura a cui però suo malgrado è già visceralmente legata e la cui lontananza è destinata a straziarla, come sarà costretta a scoprire quando la piccola verrà portata via da Nicolas. Perché sì, a questo modo si conclude la storia: che il rapporto tra loro si altera e degenera e si sgretola ed è inutile che lei si umili a accettare aiuto dalla madre. Che pure detesta, e per lei la più grande vittoria era stata essersi resa indipendente dalla sua invadenza. E come no, entrambi e con tutto il cuore avrebbero voluto salvarlo lo specialissimo amore che li ha uniti, ma come fare se la condizione genitoriale li ha così sconcertati, avviliti, esasperati? E poi è successo che i loro tempi non hanno coinciso: quando era lei a anelare alla riconciliazione, lui la ha delusa, quando è stato lui a tende- ERIC ROHMER, Elisabeth, trad. Marianna Basile, pp. 180, euro 8,40, Mondadori 2006 Il romanzo è ambientato nel ’39 in una campagna francese. Attorno a Elisabeth si muovono quadri di vite come in una sceneggiatura. Rohmer, allora, decide di non usare più la penna ma la macchina da presa per tutte le sue storie. Così le personalità si mostreranno attraverso la descrizione, gli atteggiamenti e le parole. Elisabeth rappresenta l’inizio della vocazione dell’autore per il cinema. Diventerà celebre per i suoi saggi su Hitchcook, i cortometraggi e poi verranno anche i film. Ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera. ANNIE VIVANTI, Marion artista di caffè-concerto, Carlo Caporossi (cura), pp. 153, euro 10, Sellerio 2006 Annie Vivanti era stata assieme a Marion artista di cafè-chantant. Si muove dietro all’amorale stellina Marion, adolescente alla ribalta, e diventa la maschera che prima nasconde e poi rivela la finzione che esiste nell’esperienza artistica. Il libro divenne importante come esempio della perdizione, scandaloso per quei tempi ma sostiene un tema sempre attuale. Marion scivola in un cinismo che è la sua «normalità» e proprio in questo cinismo sta la tragedia della storia. Tutttavia Marion non è la traviata né un fiore infangato. Il romanzo non elargisce particolari ma e i dialoghi sono brevi e convincenti. Questo è il primo romanzo pubblicato nel 1891. RENÉ BARJAVEL, La notte dei tempi, trad. Paulette Peroni, pp. 260, euro 8,50, Cosmo 2006 Nel corso di scavi archeologi in Antartide, i lavori si fermano perché al di sotto i mille metri di ghiaccio gli strumenti segnalano la presenza di un’emittente ad ultrasuoni. In un periodo tanto remoto , la scienza non riscontra forme di vita umana ma si decide di scavare ugualmente per scoprire il mistero. La notte dei tempi propone una situazione in cui il presente ed il passato si confondono e gli individui, non senza paura, sono i responsabili della sorte del mondo. re la mano, lei si è irrigidita. E si è ritrovata sola: a chiedersi perché tutto si sia guastato, e immiserito, e banalizzato, appena hanno cessato di essere una coppia e sono diventati una famiglia. Era fisiologico e inevitabile che accadesse o sono stati loro a sbagliare in qualche cosa? E perché nessuno si è premurato di avvertirla che la maternità poteva trasformarsi in una trappola in cui avrebbe perso il diritto alla gestione di se stessa? In conclusione un libro audace, scanzonato, provocatorio, a volte crudele, e, ovviamente, anche paradossale. Ma in fondo alla base di ogni paradosso cosa c’è se non una realtà conculcata e, da parte di chi parla o scrive, l’esigenza di denunciarla a voce così prorompente da soverchiare le dissertazioni mielate dell’ipocrisia? Quel che è certo comunque è che, malgrado la verve scoppiettante della scrittura, alla fine il lettore si ritrova con la bocca amara: perché attraverso la disincantata e impudica analisi dell’autrice ancora una volta è costretto a constatare con quale spaventosa e irreparabile facilità il miracolo della condizione umana propenda a tralignare in incongruenza. S t los schede libri PAOLO DI PAOLO, Nuovi cieli, nuovissime carte, pp. 142, euro 12, Empiria 2006 Lasciare che le parole giungano come un dono, che le parole degli altri, scrutate, indagate, figurate nella mente, e le storie, desiderate, inseguite, inventate, divengano voci, «salgano sulla lingua» e assumano forma letteraria. È l’augurio e l’esortazione che Dacia Maraini rivolge ad un giovanissimo autore che si affaccia al mondo delle lettere, Paolo Di Paolo, che ha già pubblicato Un piccolo grande Novecento con Antonio Debenedetti (Manni editore) e Ho sognato una stazione con Dacia Maraini (Laterza). Oggi Di Paolo, che collabora con Stilos, e ha curato, sempre con la Maraini, il testo teatrale Il respiro leggero dell’Abruzzo, esordisce con Nuovi cieli, nuovissime carte, suggestivi racconti-divagazioni in cui la cosa più bella che traspare - data per certa la sapienza di una scrittura colta e già matura - è la lietezza di un inizio che si annuncia promettente. Per Di Paolo la stagione/malattia della scrittura comincia lontano, da un tempo allegro (ricorda lui stesso) in cui, almeno, faceva ridere le Maestre. C’era già allora, nell’avvio della scrittura infantile, nella febbrile attesa del plauso delle insegnanti, un esaltante cercarsi come scrittore, a tratti doloroso quando trasalimenti e immagini si alternavano, mescolandosi, per notti intere, notti ebbre ed estatiche in cui andava cercando nella mappa del suo inconscio narrativo il tesoro a lungo inseguito: le parole. C’erano già nella sua testa cento romanzi già scritti, c’erano già tanti «racconti-rampicanti» cresciuti rigogliosi nel tempo e oggi divenuti i «nuovi cieli» attorno ai quali ruotano tutte le sue storie. (Patrizia Danzè) 21 ALMANACCO ALBERT COSSERY ra il 1984 e il 1989, Abd alRahman Munif, scrittore giordano di nascita ma, per diverse ragioni, molto addentro alle questioni riguardanti i Paesi della penisola araba, ha dato alle stampe i cinque volumi de Le città di sale. Si tratta di un’opera imponente, nella quale, per la prima volta, veniva mossa una critica al servilismo dei prìncipi del deserto e all’ipocrisia di Paesi che, come gli Stati Uniti, pur essendo considerati la fucina degli ideali liberali, si facevano tuttavia complici d’una repressione che, dagli anni dell’inizio dello sfruttamento del petrolio, s’era notevolmente accentuata. E qui, infatti, l’autore racconta la storia di un immaginario Paese del Golfo Persico dove le compagnie petrolifere occidentali cominciano a tramare per l’istituzione d’un regime oligarchico alleato, sino a trasformare il non più tanto immaginario Paese arabo in un anomalo satellite capitalista. Negli stessi anni, e precisamente nel 1984, le edizioni Gallimard pubblicavano a Parigi "Une ambition dans le desert", libro che è un’ulteriore conferma di come vi fosse già, al tempo, un dibattito tra gli intellettuali arabi, sulla questione dell’impoverimento culturale e dei drammatici conflitti di classe che lo sfruttamento massivo delle risorse naturali avevano prodotto. T La saggezza, il potere o la bellezza? GORE VIDAL "Il giudizio di Paride" Trad. Caterina Cartolano pp. 369, euro 18 Fazi, 2006 PINO CORRIAS Vajont, Vermicino e altri «luoghi comuni» Dieci storie significative del dopoguerra italiano, che si intrecciano quasi sempre col potere mediatico degli ultimi quarant’anni. Primo di questi racconti è il Vajont, che costituisce «l’inizio - nell’Italia dei nuovissimi televisori - di un’opinione pubblica che albeggia sul nero della cronaca». Ma anche la strage di Piazza Fontana, l’omicidio di Pier Paolo Pasolini, il sequestro di Aldo Moro, la tragedia del Vermicino, l’arresto di Mario Chiesa, la strage di Capaci, il delitto di Cogne, la reggia di Arcore e la Cinecittà di Federico Fellini. I ritratti di Corrias si legano tutti ai luoghi, è vero, ma sono inevitabilmente collegati ad alcuni personaggi significativi come il conte Volpi Misurata, imprenditore di primissimo piano, governatore della Tripolitania e ministro della Finanze durante il ventennio fascista, poi rifugiato in Svizzera e finanziatore redento del Comitato di liberazione nazionale, nonché primo azionista della Sade, la società che promosse ad ogni costo la costruzione della diga sul Vajont. Ma anche come il presidente della Repubblica Sandro Pertini, che presenzia (intralciandoli) i tentativi del salvataggio del piccolo Alfredino Rampi, precipitato in un pozzo di Vermicino. Luoghi comuni è senza dubbio un libro che coniuga la vena saggistica ad una scrittura che non è solo toponomastica, ma anche sensibile, percettiva, umana. Non può essere definito un Fenomenologie dell’imperialismo L’autore, Albert Cossery, è egiziano: nato nel 1913 al Cairo e trasferitosi a Parigi nel 1945, in cui si dice viva, da allora, nello stesso albergo a Saint Germain de Près, e dove si legò ai protagonisti della scena culturale del tempo, tra cui Camus, Sartre e Henry Miller, il quale, oltre a incoraggiare la pubblicazione dei suoi libri in Francia, curò l’edizione americana di una sua raccolta di racconti. Al centro della storia narrata in Ambizione nel deserto, ora tradotto dalle edizioni Spartaco, è la capitale di un piccolo emirato arabo, Dofa, che dopo essere stata perlustrata a fondo per fini petroliferi dagli imperialisti, ma senza successo, si ritrova a dover fronteggiare quella che in principio sembra essere soltanto la parodia di una rivoluzione: con attentati terroristici che fanno più rumore che danno. A indagare su questi enigmatici episodi, più ALBERT COSSERY "Ambizione nel deserto" pp. 193, euro 15 Spartaco, 2006 per diletto che per dovere, è Samantar, un uomo assolutamente privo di ambizione, idealista e anarcoide - «appartengo a un’altra civiltà, quella che mette al di sopra d’ogni cosa il semplice fatto di vivere» ci dice -, il cui unico scopo è quello di mantenere quella quiete garantita fino ad allora all’emirato dalla sua stessa miseria, la stessa che lo ha salvato dalla rapacità di potenze interne ed esterne. Convinto che ogni istituzione umana si fondi su un’impostura, Samantar ha rinunciato ai privilegi che una parente- HENRY GREEN "Partenza in gruppo" Trad. Carlo Bay pp. 230, euro 18,00 Adelphi, 2006 Una conversazione in cerca di personaggi rotagonista del romanzo di Henry Green sembra la nebbia, che blocca i treni in partenza posponendo la partenza di un gruppo di ricchi vacanzieri londinesi e imprigionandoli nell’albergo della stazione. Non si tratta solo di un pretesto meteorologico per far interagire dei personaggi in un interno e studiarne le reazioni: l’evanescenza, l’impalpabilità, l’ottusità della nebbia si impadroniscono anche delle menti dei personaggi. Non è che la nebbia si limiti a condizionarli: diventa la loro stessa consistenza. O inconsistenza (forse erano già inconsistenti: mondani, frivoli, ciarlieri, soprattutto inconsapevoli). Addirittura - secondo Tim Parks, autore della postfazione - è come se la nebbia fosse «penetrata nella mente e nella sintassi dello scrittore, obbligando lui e noi ad avanzare a braccia tese». Infatti il lettore procede brancolando, cercando di attribuire corpo, individualità, alle battute e ai pensieri che si susseguono. Parks, accanito tifoso dell’Hellas Verona, non poteva evitare la metafora calcistica: «Il lettore ha difficoltà a distinguere i personaggi uno dall’altro quasi fosse costretto a seguire un partita di calcio nella nebbia: è difficile vedere chi ha la palla». In effetti le conversazioni sono tutto un rimpallo, con retropassaggi, dribbling, punizioni a cucchiaio. Bellissimi gesti, se non ci fosse la nebbia a impedirci di goderne. Benché Parks trovi che «molto del piacere che proviamo deriva proprio dal grande sforzo per distinguere». La narrativa come enigmistica. Non c’è altro modo, pare, per dare intensità a quello che Green vuol farci sentire: non solo non ci sono individui speciali come Dedalus o la signora Dalloway, ma neppure individui tout court. L’identità è una finzione troppo comoda. I personaggi fluiscono uno nell’altro. Così è la conversazione, ci rendiamo conto alla fine, la reale protagonista del romanzo: a recitare le battute di questa partita di pallone sono personaggi intercambiabili, personaggi agiti. Nessuno conduce davvero il gioco, anche se Amabel, la ragazza che il ricco Max intendeva scaricare, sembra consapevole, agguerrita e determinata: le battute di ogni personaggio potrebbero essere quelle di un altro. Infatti in altri momenti le stesse considerazioni vengono fatte da chi poco prima le avversava. Si potrebbe pensare che questo dipenda dalla stretta affinità dei protagonisti, dall’appartenenza di classe, si potrebbe addirittura sospettare la satira sociale, ma Green non è Waugh e in ogni caso anche le classi inferiori, che non hanno trovato rifugio nel lussuoso hotel, agiscono per compulsione. «Ogni arte del narrare - scriveva di recente Alfonso Berardinelli - si fonda sul resoconto ansiosamente meticoloso di qualcosa che non è mai spiegabile nel momento in cui sta avvenendo». Berardinelli, però, si riferiva a Mario Soldati, scrittore godibilissimo, eccitante. Green non ha nulla di eccitante e per trovarlo godibile ci vogliono i gusti del connazionale Tim Parks. Ma anche se faticosa, la lettura è di grandissimo interesse per l’intuizione di base. Green introduce un’impostazione letteraria più moderna (ancorché, forse, arcaica) di quella degli illustri colleghi del flusso di coscienza: il flusso, qui, è collettivo, non prende la forma del monologo ma della conversazione, spesso, paradossalmente, interiore. Questa intuizione va ben oltre l’ambito narrativo: potremmo definirla psicologica ma anche sociologica, politica, spirituale, forse metafisica. L’assunto è questo: la personalità è una comoda invenzione, un colossale equivoco. Questo punto di vista è stato proposto anche da James Hillman e Michael Ventura in Cent’anni di psicoterapia e il mondo sta sempre peggio (1992): «Il sé è l’interiorizzazione della comunità. Dovremmo dire: Convivo ergo sum». Elio Paoloni P GORE VIDAL Il giovane Philip Warren, prima di decidere cosa fare nella vita, decide un viaggio e incontra a Roma la moglie di un politico, in Egitto un’astrologa austera e a Parigi una bella donna con un marito geloso. Philip deve scegliere tra la saggezza, il potere e la bellezza. pagina PINO CORRIAS "Luoghi comuni" pp. 225, euro 15 Rizzoli, 2006 saggio storico, non lo si può chiamare libro a tesi, non è una raccolta di inchieste. Corrias ha deciso di misurare il polso al nostro Paese, muovendo dall’inizio degli anni sessanta ed arrivando fino ai giorni nostri. E in questa storia non poteva trascurare il ruolo della comunicazione televisiva, la sua funzione informativa, ma anche la sua forza mistificante e allucinatoria. Come quando, per la prima volta in presa diretta, ci consegna i corpi scarnificati di Longarone; oppure quando trasforma la tragedia del Vermicino, inaugurando il primo collegamento televisivo, durato 18 ore in una no stop che ha fatto storia, scardinando il palinsesto di una Rai ancora imbalsamata e alterando tutti i circuiti politiciistituzionali da allora molto più sensibili all’etere e ai suoi protagonisti. Un reportage storico attualissimo, che trae tutta la sua forza da una analisi molto personale, epperò per questo non meno autentica e significativa, l’unica comunque capace di analizzare in modo originale alcune delle più compulsate vicende degli ultimi quarant’anni. Filippo Maria Battaglia SIMONE GIUSTI ORHAN PAMUK la con l’emiro poteva assicurargli, ma è rimasto tuttavia legato al primo ministro, suo cugino Bin Kadhem - personaggio controverso, di cui non vogliamo anticipare nulla al lettore - del quale è divenuto fidato, ma critico, consigliere, se è vero che non gli risparmia giudizi impietosi: «Pretendere di sacrificarsi per il bene del popolo è la scusa di ogni ambizione politica. Ma il popolo non ti ha chiesto niente. Vuole semplicemente vivere in pace». Senza mai abdicare a un anticapitalismo spinto, se può affermare quanto segue: «L’infiltrarsi dell’ideale reazionario tramite una marea di merci è un colonialismo peggiore della conquista di un paese con le armi. La grande potenza imperialista infatti non possiede altra cultura se non il commercio. Con quel mezzo riesce ad abbrutire anche i popoli più evoluti. Non scordare che gli uomini sono come bambini che si meravigliano davanti all’abbondanza di giocattoli esposti in una vetrina». Le ipotesi sono le più diverse: che si tratti di una vera e propria rivoluzione proletaria oppure di un complotto per scatenare la repressione da parte dello Stato, per esempio. La soluzione però sarà la più triste, quella di cui Samantar è assoluto sostenitore: ovverosia che è la brama di potere a muovere il mondo, mentre chiudiamo il libro con un senso di amarezza non da poco Silvia Lutzoni GIUSEPPE O. LONGO, La camera d’ascolto, pp. 187, euro 13, Mobydick 2006 Nelle opere più recenti di Giuseppe O. Longo prevale la forma dell’affabulazione, con un io-narrante che racconta quasi incessantemente (a volte addirittura nella forma dello stream) le sue vicende. L’autobiografismo viene proiettato su molti personaggi, che paiono in vari casi repliche l’uno dell’altro: notevole per esempio la ricorrenza di situazioni e persone che rimandano al mondo mitteleuropeo, da Trieste all’Austria e in particolare all’Ungheria, quasi che i singoli tasselli contenuti in questo libro o in vari precedenti, da Lezioni di lingua tedesca a Trieste: ritratto con figure, altro non fossero che le parti di un mosaico da ricomporre. Mosaico che potrà essere considerato la psiche stessa dell’io-scrivente, le sue molteplici angosce che si possono estrinsecare tanto in una luttuosità percepibile al fondo di storie d’amore incompiuto quanto, come qui in "Una semplificazione del dolore", nella stessa sovrapposizione di tempi e luoghi di un’intera vita, che slittano senza regola e senza scopo apparente gli uni sugli altri. L’esibizione degli strappi arriva a un culmine nel racconto che dà il titolo alla raccolta: «In queste notti calde e serene sono preda di ricordi febbricitanti e lacerati, vanno e vengono i ricordi nel dormiveglia come i cani che lungamente latrano alla luna nella lontananza della campagna». È il momento di ripercorrere il rapporto con la madre, con la sua vita e con la vita stessa del suo figlio, che alla fine pare resistere, quasi attraversato e travolto dalle angosce dell’intero mondo, solo per difendere all’estremo un ricordo splendido della donna che lo ha generato. (Alberto Casadei) MARILÙ MANZINI Vizi privati in un quaderno comune In un’agenda tre amici annotano i loro vizi indicibili: Maria Vittoria si droga, Paola va a letto con chiunque le prometta carriera, Riccardo manda in rovina il locale che gestisce. Romanzo cosparso di «privé», discoteche frizzanti e letti in cui le lenzuola raccontano tutto. MARILÙ MANZINI "Il quaderno nero dell’amore" pp. 327, euro 15 Rizzoli, 2006 GUIDO ZAGHENI La Chiesa nel fascismo non rimase chiusa Il fascismo italiano, almeno quello delle origini, «è stato il tentativo di una nuova strada, la ricerca di una terza via equidistante sia dal liberalismo che dall’utopia comunista. L’idea della rivoluzione fascista affascinava e suscitava interesse perché puntava non solo a migliorare le condizioni materiali di vita del popolo, ma si proponeva di creare l’uomo nuovo e una civiltà nuova». Con queste premesse, nel suo nuovo La croce e il fascio. I cattolici italiani e la dittatura, Guido Zagheni, sacerdote dal 1967, che ha sempre alternato la vita pastorale, lo studio e l’insegnamento, delinea ili delicato rapporto instauratosi fra la Chiesa, una presenza, allora, profondamente ancorata nella coscienza del popolo, e il fascismo. La lettura di un ventennio di storia italiana libera da pregiudizi e ideologie, che passa attraverso i momenti più determinanti e le figure di spicco, come Pio XI. Nella prima parte, "Il fascismo italiano", l’autore ripercorre minuziosamente la nascita, l’affermazione di questo movimento, la conquista legale del potere, la figura di Mussolini e il consolidamento della sua autorità, anche in un’ottica di rapporti con la monarchia, del suo ruolo internazionale e dell’alleanza con la Germania. Nella seconda parte, invece, dedicata a "Chiesa e fascismo. Incontri e scontri", Zaghemi si sofferma sul «drammatico contesto del pontificato di Pio XI», sull’attuazione del GUIDO ZAGHENI "La croce e il fascio" pp. 384, euro 18 San Paolo, 2006 progetto che il pontefice cercò di portare a termine - la conciliazione con lo Stato italiano e la definizione dei rapporti Stato/Chiesa, la lotta contro i regimi totalitari e le scelte razziali, la riforma dell’Azione cattolica. L’epilogo drammatico, cui è dedicata la terza parte, delinea infine «le vicende politiche che, dal 1939 al 1945, hanno toccato l’Italia». L’imperialismo, con la guerra d’Etiopia, la presa di posizione nella guerra di Spagna, l’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, portarono ad una crisi politica che segnò «la morte della Patria», la guerra civile e la resistenza, con vendette personali e politiche che non cessarono neppure dopo il 25 aprile. La tesi è che la Chiesa, con i suoi vescovi, parroci, associazioni caritative e con la dedizione di tanti credenti, ebbe un ruolo tutt’altro che insignificante. Fedele a se stessa, anche laddove ha dovuto trattare con il potere o subire persecuzioni, ha costituito un punto di riferimento importante ed ha fatto sì che le forze vive sopravvivessero per poi contribuire alla ricostruzione democratica. Lidia Gualdoni KAREL GLASTRA VAN LOON Poesia? Primo, giù la Linea lombarda Quando la cultura unisce anche i nemici Nel pozzo del passato si cela la verità La scuola, l’educazione letteraria, l’editoria, ma pure la traduzione, le riviste, le forme della poesia. Giusti, ricercatore di Italianistica, si impegna in una polemica che riguarda soprattutto la Linea lombarda a favore di una correzione in senso più meridionale della poesia. SIMONE GIUSTI "Linea meridiana" pp. 144, euro 12 Unicopli, 2005 Un gentiluomo veneziano viene catturato dai pirati e poi venduto ad un astrologo turco. Due culture diverse, ma entrambi coltivano gli stessi interessi e collaborano insieme a delle ricerche, studiano e progettano orologi parlando sempre di astronomia. Un incontro tra Est ed Ovest. ORHAN PAMUK "Il castello bianco" Trad. Gianpiero Bellingeri pp. 172, euro 9,80 Einaudi, 2006 Per la morte della diciassettenne Lisa sono indiziati il fidanzato Talm, la madre Sophie ed il patrigno Sebastian che vive da barbone. Talm si convince che il padre sa molto e scopre che la morte di Lisa si cela nel suo passato e che la colpa e l’innocenza sono due concetti relativi. KAREL GLASTRA VAN LOON "Il respiro di Lisa" Trad. Claudia Di Palermo pp. 233, euro 13,50 Fazi, 2006 S t los schede libri pagina 22 ALMANACCO CARLO GRANDE "Padri. Avventure di maschi perplessi" pp. 122, euro 10 Ponte alle Grazie, 2006 Essere figli e diventare di colpo padri età di mezzo (quella dei quarant’anni) è un fiume difficile da guadare. Ci si sente ancora giovani, attratti dall’avventura del mondo, eppure i capelli cominciano a incanutire; il trascorrere del tempo provoca la sensazione di avere ancora bisogno di un padre a cui rivolgere domande, ma ci ricorda anche che siamo noi stessi padri di altre creature desiderose di crescere. Questa situazione di equidistanza tra passato e futuro, tra rimpianto per quello che eravamo e attesa per quello verso cui siamo incamminati, fornisce il filo conduttore alle nove sequenze narrative che coltivano in punta di piedi il modello del racconto di formazione e che Carlo Grande raduna sotto il titolo di Padri. Al fondo di ciascuna vicenda, collocata in un villaggio turistico o in un campo di calcio, perfino durante una battuta di caccia, si percepisce una condizione di sospensione, un senso di vertigine e disorientamento, forse un sentimento giustificato di angoscia, culminato nell’affermazione messa sulla bocca di uno dei personaggi: «Un giorno smetterò di essere figlio e mi sentirò terribilmente solo». Ciò significa che i protagonisti di questi brevi testi sono destinati a diventare padri rischiando inconsapevolmente di smarrire la fisionomia di figli, di perdere cioè non solo quella parvenza di felicità, che proviene dal mondo dell’infanzia, ma anche la propria identità fino al punto che ciascuno di essi vive in un alone di disincanto: è consapevole di appartenere a un’epoca che sociologicamente ha modificato il tessuto urbano e l’antropologia del nucleo familiare, si muove a tentoni, annaspa nel buio come un indovino cieco o come Teseo nel palazzo di Cnosso. Ciò che sembra mancare a questi uomini, tuttavia, è il filo di Arianna. Perciò sono «perplessi», come indica l’aggettivo che compare nel sottotitolo. «È che a quarant’anni, specie di questi tempi, le cose sono maledettamente complicate», confessa a un certo punto l’io narrante di "Fathers in arms", un racconto dove un padre e un figlio giocano a far la guerra con armi finte. «Viviamo in una grande melassa nella quale è facile perdere la strada. Navighiamo a vista». È paradossale, ma questa nozione di viaggio senza bussola va a coniugarsi con l’immagine della degenerazione, per cui il mondo appare «più volgare e più vuoto», la città sembra un deserto e chi attraversa l’età di mezzo non si sente in grado di sopperire al vacillare della propria paternità. Alla generazione che Carlo Grande elegge a emblema di queste storie non fa difetto, come si vede, la volontà di muoversi. Semmai è vero il contrario: distratta da carriera e lavoro, essa si sposta troppo rapidamente, tra luna park e anonime periferie cittadine, sorvolando superficialmente su quegli aspetti che sono parte integrante del processo di maturazione attraverso cui un essere umano si trasforma da figlio in padre; si tratta, dunque, di una generazione distratta da altro o da un «altrove» che in realtà mette a nudo la fragile capacità di trovare compiutezza. In un certo senso verrebbe quasi da pensare che i quarantenni raccontati nel libro siano individui ancora da farsi, nostalgicamente ancorati al ricordo di una dimensione epico gloriosa, impossibile da raggiungere: la stessa che contraddistingueva invece l’esistenza dei loro stessi genitori, dei nonni, dei bisnonni, cioè di quella schiera che Giambattista Vico aveva chiamato eroi. Come già era stato nei precedenti romanzi, anche in questi racconti Carlo Grande si conferma uno scrittore dal sapore hemingwayano: ama il combattimento, la guerra, il rischio della vita, ma si dispera di fronte alla solitudine di una fucilata o alla vittoria di un cacciatore su una preda. In questa perenne epicizzazione dell’esistenza, narrata in forma di dramma e di combattimento, consiste la cifra più convincente della sua scrittura. Non a caso tra i nove testi spicca "Il mio Kailash": il racconto di un io che vive la scalata al Monviso come un esame di coscienza, un’ascesa al paradiso degli eroi o, molto più allegoricamente, con il medesimo stupore di «un bambino che è riuscito a salire in braccio a suo padre». Giuseppe Lupo Jack Black / Carlo Grande Gabriele Dadati / Gian Maria Molli L’ na scrittura «biologica» che scorre con i ritmi concitati del respiro e nel contempo incide sul reale con precisione chirurgica. Una scrittura svelta, scivolosa, elastica, irrequieta e insieme capace di rallentare i movimenti vivisezionandoli con l’occhio indagatore del detective. Sette racconti, sette giri di compasso che contornano sette distinte modalità espressive, ma tenuti insieme proprio dalla loro diversità. La varietà dei modelli e la complessità stilistica dei testi mettono infatti in chiaro non tanto una pur rilevante versatilità naturale dell’autore quanto un intenzionale progetto operativo: quello di lavorare nella direzione dell’apertura, dello sperimentalismo inteso come consapevole ricognizione nei linguaggi che si interrogano su se stessi e sulla loro potenziale pluralità. I punti di riferimento di Gian Maria Molli sono grandi figure come Antonio Pizzuto, i suoi orizzonti comunicativi non si intrecciano con le esigenze dell’informazione pura e semplice. Insomma in questo suo nuovo libro, che giunge a distanza di sei anni dal precedente, Molli opera da autore che U risponde a ritmi interiori piuttosto che a scadenze imposte, e persegue un’idea di scrittura come valore in sé. Visioni squaderna infatti - come afferma Antonio Pane nella presentazione - «l’ordinaria follia (…) di un mondo non condiviso», costituisce una disincantata denuncia, una meditata presa di distanza che mette a fuoco le spigolosità del quotidiano, si muove fra le sottili fessure che congiungono incubo e realtà, oscilla fra rabbia e pietas, ma si sottrae alla logica del cronachismo, se non per una certa predisposizione verso la rappresentazione dettagliata, sia essa in «in diretta» o «in differita». Alcuni di questi racconti, per esempio, trasformano la differita in un procedimento quasi beckettiano: quello che succederà, o che è già successo, è escluso dall’orizzonte narrativo che invece è centrato sulla descrizione dell’attesa, con tutte le tensioni e le ansie che può generare, o su flussi di parole che rievocano antefatti, più o meno caoticamente. In mezzo al traffico cittadino qualcuno ha appena ucciso una bambina, ma il racconto ci mostra solo la folla vociante che a distanza di pochi momenti commenta GABRIELE DADATI "Sorvegliato dai fantasmi" pp. 140, euro 12 Pequod, 2006 Cambiamenti intimi dell’esistenza orvegliato dai fantasmi è l’opera prima di Gabriele Dadati, un piacentino ventiquattrenne già noto nell’ambiente letterario per aver pubblicato racconti su riviste e per aver partecipato a diverse antologie tematiche. Tra l’altro è il fondatore di una rivista interessante come "Ore liete" che coniuga arte e letteratura prestando molta attenzione alla forma dei contributi. Questa raccolta d’esordio è composta da nove racconti e una dedica conclusiva in forma narrativa e molto alla lontana ricorda opere come Cattedrale e Da dove sto chiamando di Carver. Dadati è attento alla sfera intima dei personaggi e riesce a descrivere con tratti decisi emozioni e sensazioni che attraversano una vita intera. Scopriamo i cambiamenti nell’esistenza di un uomo dopo la nascita di un figlio ("Vittorio si è scavato una nicchia", già pubblicato su Dammi Spazio, Edizioni Il Foglio), ma viviamo pure una serata a cena dove si parla di un figlio perduto e della finale mondiale con il Brasile ("Portaceneri"). Nel racconto più costruito e dotato di una vera trama Dadati racconta le vicissitudini di un maltese sulle orme di Max Pezzali degli 883, fuggito con la sua ragazza, che alla fine scopre la bellezza facendo lo scarpaio in una cittadina come Vigevano ("Quando saremo veri"). Si continua con l’attesa di un figlio che descrive la bellezza di una donna incinta e le sensazioni di un uomo che vede il mondo popolato da fantasmi ("Chi non c’era"). Dadati rende omaggio ai suoi riferimenti letterari con "Leros", che cita Cimitero delle 366 fosse di Daniele Del Giudice e alcune poesie di Pablo Neruda, e "L’avventura di due sposi", che ha lo stesso titolo di un racconto di Italo Calvino ma racconta una storia diversa. Riporto una breve parte di un racconto che merita segnalazione, descrivendo la vita di due sposi operai che non si vedono quasi mai perché lavorano in fabbrica a turni alterni: «Non so perché, ma capisco che se avessimo un figlio nostro il mondo mi farebbe meno paura e non avrei bisogno di annusarlo nei capelli di Elide prima di uscire impaurito e misero come sono sempre stato. (…..) Perché saprei bene che il nuovo corpo per cui ha un senso spegnersi è quello del figlio». Dadati affronta anche la tematica epistolare nel racconto "Cara Emanuela", dove compone un capolavoro di lettera dal carcere, intensa e filosofica, che abbraccia motivi religiosi ed evolutivi e fa capire come la galera modifica la prospettiva di un uomo. Il racconto fantastico ispirato a Italo Calvino fa capolino nella "Dichiarazione di Charles Manson" e in "Apocalisse". Nel primo si utilizza un personaggio reale attribuendogli ricordi e sensazioni immaginari e nel secondo si racconta la morte di un vecchio in ospedale mentre passa una cometa alla vigilia della Guerra del 1915-18. Gordiano Lupi S GIAN MARIA MOLLI "Visioni" pp. 155, euro 10 PS, 2006 La realtà poggia su un tavolo traballante l’accaduto con straniante indifferenza. Una ragazza scopre durante la notte gli amplessi dei genitori, ma Molli ci mette davanti al guazzabuglio dei suoi pensieri adolescenziali e ci presenta una riflessione a posteriori sotto forma di improbabile, ironico e risentito rendiconto alle amiche. Un vecchio pensionato, solo in casa, non è più capace di rialzarsi dopo una caduta ed è costretto a rimanere immobile, mentre il tempo passa inesorabilmente e nel- la sua mente si svolge una ressa di pensieri, angosce, rancori, ma solo da questo flusso di coscienza, in una situazione di immobilità, ha origine la vera e propria narrazione. Un aspirante scrittore siede nella sala d’attesa di un importante editore, nel frattempo scorrono sulla pagina frammenti del testo che vorrebbe pubblicare, ma l’attenzione è puntata sull’interminabile anticamera durante la quale si svolgono microeventi insignificanti L’AUTORE. Gian Maria Molli, 61 anni, fiorentino, giornalista professionista, conduttore del Giornale Radio Rai (GR3), ha pubblicato la prima raccolta di racconti, Il pozzo (Firenze, 1974), a cui sono seguiti la fiaba ecologica Dani il cinghialino (Firenze, 1988), il romanzo breve Zoo (Udine, 1990) e la seconda raccolta di racconti Fiori (Roma, 2000). Un fuorilegge nell’America dei sogni vete presente il sogno americano? Quell’idea ottimistica per cui un eroe solitario si scontra col male e alla fine si redime nella redenzione generale del mondo? Che è poi una delle facce della «frontiera», l’altro sogno che si sarebbe infranto a Dallas? «Ad ovest c’è una luce, recitava il sogno, è lì, dobbiamo solo raggiungerla. È il nostro destino, la nostra meta. E nulla ci fermerà». Come nulla sembra possa fermare il Jack Black di questo libro: autore e protagonista e insieme vittima ed eroe di una storia di perdizione e redenzione che appunto quel sogno illumina. Uscito in America nel 1926 col titolo "You Can’t Win", ora tradotto per Alet e arricchito da una prefazione di William S. Burroughs, il libro racconta in forma autobiografica, e con ricostruzione decisamente pignola, la vita dello scassinatore Jack Black, vissuto a cavallo tra Otto e Novecento negli Stati Uniti degli anni eroici dei grandi spazi e della frontiera, avviatosi giovanissimo al delinquere e divenuto per questo testimone straordinario di un certo modo di essere del mondo delinquenziale di quegli anni lungo la dorsale ferroviaria che legava l’Est all’Ovest degli States e del Canada anch’esso pionieristico di quel tempo: tra città che nascevano dietro l’impeto di un’immigrazione selvaggia e locali da gioco in cui si disfacevano le fortune improvvise, mentre bande di vagabondi occupavano i margini di un mondo quasi senza regole che non fossero quelle dell’appartenenza alle micro-zone in cui questo mondo era, appunto, diviso. Black aveva scelto la zona della malavita: solitaria, autoregolamentata, capace di straordinarie testimonianze di lealtà come di momenti di perfidia assoluta, contrapposta in duello perenne alla zona della «legge», fatta di poliziotti e giudici spesso corrotti e crudeli, oltre che di prigioni quasi sempre fetide dove assai spesso si distruggevano le vite e le menti dei detenuti. Il libro è pertanto una catabasi, racconto di una vera e propria discesa agli inferi, per le infinite e sempre simili situazioni di un precipitare senza scampo (da qui il titolo) sempre più giù: soprattutto nell’abiezione ultima della droga dalla quale l’eroe protagonista uscirà per forza di volontà in una coll’uscire dalla scelta del delinquere e con la conquista, finalmente, della condizione mentale e culturale dell’onesto lavoratore che «parvo gaudet» e non più «alia appetit». Ne viene fuori uno spaccato straordinario, è stato detto, di un’America che non c’è più, se non in certi film di John Ford o nel mito chapliniano: nella quale un’umanità marginale viaggiava nei vagoni dei treni merci e poi si affollava nei saloon fumosi o si riuniva in pittoreschi raduni tra i boschi o si ritrovava nelle prigioni sistematicamente frequentate, tra condanne, evasioni e nuovi arresti spesso per pure banalità. A progettare colpi e a stringere amicizie, dentro un’etica di gruppo che non ammetteva deroghe e si faceva punto d’onore il mantenere la parola data. Black visse per trent’anni questa vita, educato - si fa per dire - dall’esempio di George mezza gamba, Sanctimonius Kid, Mary stinco di maiale e tanti altri che compongono una specie di corte dei miracoli assolutamente imprevedibile, anche se di grande effetto narrativo. Fino a quando la spinta al bene non produsse i suoi effetti e l’incallito delinquente sopravvissuto a tutte le umiliazioni, dalla tortura con la camicia di forza alla fustigazione alla caduta nella dipendenza dall’oppio, non conobbe la sua anabasi e divenne il cittadino modello che sconsigliava a chiunque di lasciarsi tentare dalla via facile del delinquere e insieme predicava, per le autorità di polizia, la tolleranza e la fiducia nelle capacità rigenerative di chi fosse caduto nel crimine. Con l’ottimismo americano che ne connota il sogno, e l’innocente fiducia di un tempo in cui l’America si credeva ancora innocente. E forse lo era, se è vero che quello in cui il libro fu scritto, dopo la grande guerra e prima della grande depressione, era ancora il tempo delle grandi speranze che convergevano proprio nell’America. Alfio Siracusano A che però l’autore elenca con precisione iperrealistica, maniacale, ingigantendo in tal modo l’ansia dell’aspettazione. Al presente, insomma, non sta succedendo nulla. Il presente genera tensione perché è il tempo dell’immobilità. Solo il passato o il futuro possono in qualche modo svolgersi dinamicamente. Ma sono collocati «fuori fuoco», agiscono oltre i margini della pagina. Altre volte poi il racconto è scomposto prismaticamente, come succede per esempio in "Sirena": siamo in spiaggia, una bellissima ragazza in costume da bagno corre sul bagnasciuga e scavalca forse involontariamente un giovane disteso sulla sabbia e nel salto gli offre alla vista un sesso quasi completamente scoperto. Il giovane si lancia allora all’inseguimento della bellissima e subito dopo, per incredibile fatalità, annega. Ma l’evento è raccontato alla moviola, ripetuto tre volte da tre diverse voci narranti, una delle quali è quella del giovane appena annegato. I punti di vista si moltiplicano, si perde la prospettiva centrale. Altre volte ancora l’anima della narrazione è il rovesciamento delle pro- Joanna Scott Julio Cortázar Jack Black Egon Il giro del giorno in ottanta mondi Non c’è scampo “Quando mi chiedo perché scrivo romanzi, penso al lavoro di Joanna Scott e mi vengono in mente quali grandi cose si possono fare con carta e inchiostro.” “Uno di quei libri che offrono al lettore pericoli piacevoli come un tuffo al cuore per uno scricchiolio notturno.” Giuseppe Montesano Michael Cunningham “Mezzo secolo dopo citavo a memoria interi passi di Jack Black, e se riesci a ricordarti un pezzo dopo cinquant’anni dev’essere buono per forza.” William S. Burroughs www.aletedizioni.it [email protected] JACK BLACK "Non c’è scampo" Trad. Federica Angelini pp. 374, euro 15 Alet, 2006 spettive: il vecchio, incapace di rialzarsi dopo la caduta, si abbandona al ricordo nostalgico della moglie morta, ma quando nel delirio finale quest’ultima gli appare come se fosse tornata in vita, il senso di quelle che sembravano amorevoli rievocazioni cambia completamente, scattano inattesi sensi di colpa che smentiscono i fatti richiamati alla mente fino a poco prima. Allo stesso modo il manoscritto dell’aspirante scrittore, via via che viene sottoposto a revisioni, si sottrae alle aspettative del pubblico di massa fino a diventare «impubblicabile» agli occhi dell’editore e così, nel finale, l’anticamera del protagonista assume un senso del tutto diverso. Le cose insomma, come in un palcoscenico pirandelliano, non sono mai come sembrano. La presunta «realtà» poggia su un tavolaccio traballante. Così, attraverso queste ed altre modulazioni narrative, in sette folgoranti «visioni» che si leggono d’un fiato, «Molli percorre per noi - conclude Pane - alcune stazioni dell’orrore presente, alcuni fra i moltiplicabili esempi della nostra patologica normalità». Alfonso Lentini NOVITÀ John Milius Francis Ford Coppola Apocalypse Now Redux S t los schede libri i fronte alle ricognizioni odeporiche hai sempre un po’di diffidenza: i letterati, anche quelli eccezionali (per dire: un Ceronetti colorito e tagliente) sembrano sempre andare in giro col mento poggiato sulla mano. I passi del flanêur si arenano spesso nella postura dello spleen, che sarà pure sublime ma è innanzitutto cupa. Questa collezione invece splende come un vassoio d’acciaio satinato. Nel suo "Maccheronica", riferendosi a un ristorante barese e ai suoi clienti, Langone ripete quindici volte il termine «scintillante». È l’aggettivo giusto anche per la sua scrittura, un ponte di cristallo sulle gravine. Il Langone gastronomo aborre sia le svenevolezze francesi sia l’esotismo. Non ama la nouvelle cuisine, si occupa della tradizione (che non è museo delle cere ma identità). Il Langone scrittore detesta gli sperimentalismi: la tradizione è il suo forte (ma non lo ingessa). Cerca la bella frase, anzi la trova, ma non si tratta di estetismo: la bellezza ha che vedere con la verità, anzi con la Verità, essendo il Collezionista cattolico di «perfetta ortodossia». La bella frase è retta, non si presta a equivoci. È onesta perché si preoccupa del lettore. Langone mette insieme patristica e Motley Crue, D’Annunzio e Brizzi, Madonne e troie. E tutto si tiene. Discettando sull’opportunità di utilizzare la carta di credito nel prenotare la stanza in albergo per un incontro amoroso tira in ballo Ezra Pound e San Bernardino da Feltre ma in poche righe, con leggerezza e ironia, riuscendo anche a elargire dritte sul modo di comportarsi nel prenotare (l’autore ha uso di mondo). È, insomma, il perfetto interprete della sprezzatura. I viaggi del Collezionista (l’Italia gli basta e avanza, non è un giramondo) originano nitidissime recensioni di città (e di regioni: «La curva di Castelfranco è di più e di meno di un trattino, è qualcosa che con la burocrazia non ha più nulla a che fare, è una torsione dello spirito, ecco, è una piega dell’anima della nazione, ci vogliono le vibrisse per sentirlo»). Si sa com’è con questi libri, fai una selezione, leggi all’indice Irpinia e dici seeh, questo lo saltiamo, andiamo piuttosto a rovistare nella fortuna di Parma (nessuno si è accorto che Stendhal ne parla male), nella tristezza di Milano (Vincenzina davanti alla fabbrica), nella felicità del Veneto (che non lo si chiami Nordest). Errore: anche di quest’Osso scarnificato Langone fa un boccone succulento. Non è un caso che nel capitolo "Irpinia" si citi Franco Arminio, «il paesologo», un poeta che cerca l’anima di ogni paese, restituendo specificità alla «minutaglia insediativa». Sembrerebbe un campo nuovo per il Langone che conosciamo - pittore di ristoranti, libri, messe: nato a Potenza, vive a Parma e scrive di letteratura sul "Giornale" e di enogastronomia su "Panorama" e sul "Foglio" - ma non è così: anche quando faceva mostra di occuparsi di locande, guardava soprattutto fuori dal piatto: «Col pretesto di una cena ho conosciuto città e paesi, poetesse e pittori, contesse e commesse (e contesse che fanno le commesse) e tradizioni, e dispersioni, e pettegolezzi ed erudizioni, e ne ho fatto cronaca, e forse racconto». Non importa quindi quale sia il particolare preso in esame, è sempre l’Italia che il potentino trapiantato va giudicando. Il giudizio è spesso sferzante, apodittico, a volte assume la forma della maledizione: le intime corde provinciali e borboniche (Borbone-Parma o Borbone-Napoli, questo è il dilemma) non consentono relativismi a questo erotomane osservante, una via di mezzo tra l’estenuato arbiter elegantiarum e il fiero fustigatore di costumi. Un Negroni - come un monumento - non è più o meno buono: è giusto o sbagliato. Ma, come chiarito nell’introduzione, il collezionista di città non è proprio l’autore: «in parte è colui che l’autore sogna di essere»". Insomma, un po’ ci fa. Il Langone vero è forse più accomodante del narratore: «cattolicamente vorrebbe abbracciare e salvare tutto» e in ogni caso «dopo due bicchieri gli scompare dal vocabolario qualsiasi negativa». Nulla che vedere, insomma, con certi fustigatori retrò, sessuofobi e tristi: Langone è moralista e insieme immoralista (non c’è posto migliore per morire «di un harem dentro un presepe»). Il Perfetto Lucano descritto nel capitolo "Potenza", perfetto perché non è incancrenito nel luogo d’origine (ma neppure emigrato, altra condizione non serena), è sempre divertente, anche qui nelle due accezioni: ti fa sogghignare, ridere, sorridere (anche amaro) ma soprattutto ti volge altrove, con punti di vista che risultano eccentrici solo perchè inosservanti (delle tendenze). Elio Paoloni D aspare De Caro, storico e saggista, è nato a Roma nel 1930. Sua l’Introduzione a La rivoluzione liberale di Piero Gobetti (nell’edizione pubblicata da Einaudi nel 1964) e la biografia Salvemini, uscita nel 1970. Persistente e d’antica data l’interesse per la storia rinascimentale (nel 1969 esce Istituzioni del principe cristiano; è del 2006 l’ampio saggio Euridice. Momenti dell’umanesimo civile). Redattore del "trimestrale di cultura e politica" "Hortus Musicus" (fino al 2005, quando la rivista ha cessato le pubblicazioni), si è occupato inoltre di storia del pensiero economico, curando negli anni Ottanta, per le edizioni dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, due volumi dell’economista francese Léon Walras e la sezione di Scienze sociali della collana "Bibliotheca Biographica". Non si smentisce la raffinata collana "In Ottavo" di Quodlibet, che esordiva nel 2003 con Erbe selvatiche di Lu Xun, proseguendo poi con le voci (tra le altre) di Hugo von Hofmannsthal, Robert Walser, Blaise Pascal, Henri Michaux, Georg Trakl. Questa collana s’è modellata su un distaccato ma fattivo ascolto dei problemi e degli interessi letterari del momento; proponendosi la sfida di editare, oltre a un canone (per nulla maggioritario) di grandi scrittori del passato recente e lontano, narratori contemporanei come Farrukh Dhondy (Vieni alla Mecca) e Francesco Permunian (Il Principio di malinconia). Con L’ascensore al Pincio, prosa del battagliero e coltissimo Gaspare De Caro (probabilmente noto ai più come biografo di Salvemini e storico del Rinascimento, o ancora come nitido e equipaggiato saggista e articolista militante), si propone oggi - il parere è espresso da Mario Lunetta nella sua ampia Nota al volume - «un atto laico d’intelligenza giudicante» e «un testo di per sé straordinario, che contraddice, sia in sede di Weltanschaaung che G 23 CAMILLO LANGONE "Il collezionista di città" pp. 249, euro 13 Marsilio, 2006 Ci sono anche recensioni delle città ALMANACCO Gaspare De Caro / Camillo Langone Gian Paolo Serino / Stefano Tonic Jakob Wassermann L’aspetto americano di Panagulis GIAN PAOLO SERINO “Usa&getta. Fallaci e Panagulis” pp. 112, euro 9,90 Aliberti, 2006 a fatto bene Gian Paolo Serino a ricordare una figura come quella di Panagulis che oltre ad essere stato un deputato del Parlamento greco è stato anche poeta apprezzato da Pier Paolo Pasolini. Ma chi era quest’uomo? Alekos Panagulis, come spiega nel libro Usa&Getta il curatore Gian Paolo Serino, è stato un Che Guevara europeo. Certo meno conosciuto, più che dimenticato rimosso. Non è diventato un’icona da poster, ma la sua storia è quella di un eroe dimenticato da tutti: dal potere come dall’informazione. Nel 1968, praticamente da solo, organizzò un attentato contro Papadopoulos, che allora era a capo della Giunta dei Colonnelli. Una vera e propria dittatura militare, sostenuta dagli Stati Uniti che, in quella tirannia fascista, vedevano un argine al dilagare del «pericolo rosso». Panagulis usò una carica di tritolo, lo stesso impiegato oggi dai terroristi musulmani, ma l’attentato non riuscì. Catturato venne condannato prima a morte e poi, grazie alle pressioni internazionali, a cinque anni di carcere. Anni che definire duri è poco. Panagulis era sottoposto quotidianamente a trattamenti al limite dell’umano. Serino si è imbattuto in Panagulis attraverso il romanzo Un Uomo, il libro che la Fallaci dedicò alla sua storia. «Rimasi folgorato dalla sua figura e dalle sue vicende. Da lì iniziai ad approfondire e a cercare tutto il materiale - poesie, articoli e documenti che lo riguardassero» ammette il curatore del libro. Nell’introduzione alle poesie Serino racconta del rapporto sempre sospeso tra la tragedia di un uomo, impulsivo ma mai domo, e la razionalità di una compagna pronta a sopportare anche gli eccessi, apparentemente «irrazionali», di Panagulis. Si evince che Oriana Fallaci, pur innamorata, approfittasse del loro rapporto. Una sorta di rapporto radical chic: la grande inviata che portava l’eroe, il temerario terrorista, tra i salotti romani di via Veneto. Serino, raccontando di un rapporto d’amore, mette in luce tutte le contraddizioni della scrittrice e giornalista toscana: «Guarda l’America, questa America che nacque dai disperati in cerca di libertà e di felicità , che si ribellò all’Inghilterra perché non voleva essere una sua colonia. E poi? Inventò lo schiavismo, carne umana venduta a peso come carne dei bovi, schiacciò altri disperati in cerca di libertà e di felicità, infine fece di mezzo pianeta la propria colonia». Il curatore, nell’introdurre la figura e l’opera del poeta e politico greco, cerca di mettere in evidenza le affinità tra i metodi usati per annientare un uomo scomodo come Panagulis e gli uomini di Abu Graib. I metodi di tortura sembrano non essere mai cambiati: torture fisiche e psicologiche. Abusi che oggi i soldati americani fotografano con le loro macchine usa&getta mentre ai tempi di Panagulis le pressioni che subivano i prigionieri politici non superavano i confini del carcere dove erano rinchiusi. Panagulis in carcere voleva scrivere poesie, quasi mai gli concedevano il lusso di carta e penna, così le sue poesie le ha scritte con il sangue. Non è una metafora: con uno stecchino si bucava le vene, utilizzava il sangue come inchiostro e le garze come pagine. Il libro sembra testimoniare, anche attraverso le poesie di Panagulis che egli abbia condotto una vita coerente. Il che è forse il più grande testamento che «un uomo» possa lasciare. Davide Bregola H in sede linguistica, i numerosi esempi di memorialistica italiana firmati a fuoco col marchio delle scritture piccoloborghesi». Non solo: con questo volume, Quodlibet intraprende un’originale linea d’azione rispetto a una delle tendenze più marcate degli ultimi anni, che hanno visto un impressionante proliferare di romanzi, memorie e scritture in proprio prodotte da critici e studiosi di professione. Pubblicato a puntate sulla rivista "Hortus Musicus" tra il 2003 e il 2004 col titolo Mio padre e dintorni, il racconto edito oggi in volume a solo è strutturato in sei capitoli e gioca sul terreno scivoloso dell’autobiografia e della memoria familiare, ponendo al centro dell’attenzione la figura paterna, guardata da un figlio adulto che ricorda le sue giovanili valutazioni: le ridiscute e le interpreta. Prendendo le mosse dall’inverno 1943 (Gaspare Autobiografia della figura paterna egistrare la realtà con l’aderenza più assoluta. È uno degli obiettivi della letteratura, ad ogni latitudine culturale, dall’invenzione, o scoperta, del naturalismo. Ma come farlo? Sbeffeggiando espressioni gergali, dialetti e altre coordinate puramente linguistiche? Nemmeno Pasolini riuscì a rendere i suoi ragazzi di vita portatori di una vita autonoma fuori dalle pagine romanzesche. Perciò, la registrazione della realtà va considerata ancora una convenzione, o meglio, un’intenzione narrativa, della quale contano soprattutto i risultati letterari. Un paradosso. Per evitarlo, Stefano Tonic, esordiente cinquantenne, dichiara sul retro di copertina il meccanismo che innesca Adulti consenzienti. Dapprima si divertiva a registrare dialoghi con una microcamera nascosta negli occhiali. Poi si è divertito a immaginarli. E ha ottemperato alla massima che vuole l’immaginazione succube della realtà. Quest’antologia di racconti snocciola si- Immaginazione succube della realtà R pagina aveva allora 13 anni), l’autore procede a ritroso: descrive le vicende della sua costellazione parentale nella Roma degli anni Venti (dove il padre Mario, sedicenne e transfuga dal Sud, scappa e inizia a lavorare appunto all’ascensore che collegava Piazza di Spagna al Pincio), quindi nella Calabria tra Otto e Novecento, scenario del decadimento della famiglia e poi della vita di don Benedetto, padre-padrone naturale di un invisibile Mario, oltre che farmacista in odore di rivincita sociale, prontamente deluso dalla refrattaria compagine del suo paese (di tuazioni dialogate al limite del trasgressivo. Per esempio l’incontro focoso tra un uomo e una professionista del sesso regolarmente sposata, che esercita in incognito. Oppure le concitate recriminazioni di affaristi, scommettitori, cercatori di scandali per conto dei giornali. Accomunate dall’etichetta del titolo, Adulti consenzienti, compongono una galleria della contemporaneità italiana nemmeno troppo nascosta dietro le quinte. Il che rimanda a tutta quell’ostentata indignazione per le recenti sbobinature pubblicate dai giornali. Dai torbidi calcistici agli affari di una dinastia reale, sembra che le intercettazioni abbiano rivelato un occulto intreccio di pulsioni, passioni e potere. Quando GASPARE DE CARO "L’ascensore al Pincio" pp. 72, euro 11 Quodlibet, 2006 cui però continua a condividere tenacemente, fino alla morte, tutti gli arcaici «valori morali e intellettuali»). Gaspare ritorna infine alla sua infanzia, quando frequenta assieme alla «zia» (una trovatella cresciuta in casa di Don Benedetto, fuggita parimenti a Roma e autoelettasi protettrice di Mario) lo studio del «Consigliere», che in nome della comune calabresità («sebbene a rigore il Consigliere fosse di Catanzaro e la famiglia di mio padre dell’opposto versante del tirrenico, ma, si sa, le anime grandi badano poco ai dettagli») e con scopi autoceleSTEFANO TONIC "Adulti consenzienti" pp. 194, euro 15,50 Barbera, 2006 invece si tratta di consuetudini risapute e perfino trite. Mentre Stefano Tonic, difendendosi unicamente con uno pseudonimo, compie un’impresa possibile solo alla letteratura. Disvela non semplicemente rivela - la geometria psicologica dei comportamenti adottati nel riserbo del privato sottoposto a intercettazione. Racconta attraverso le loro stesse parole questi personaggi che siamo diventati noi italiani del XXI secolo. In bilico tra un futuro fagocitato senza digerirlo e un passato monastico, patriarcale, che seguita, dal canto suo, a inglobarci. Allora il sesso, la carriera, le scommesse, i soldi, il gossip, sfilano in carrellata di parodia naturale. Non basta saper ordinare al bar un Beefeater per Testimonianza sull’odio sordo contro gli ebrei JAKOB WASSERMANN "Storia di un tedesco ebreo" Trad. Palma Severi pp. 133, euro 15 Il Melangolo, 2006 di Jakob Wassermann "Mein Weg als Deutscher und Jude", ’autobiografia pubblicata per la prima volta nel 1921, quando l’autore era all’apice del- L la notorietà, è stata ristampata in Germania nel 2005, suscitando un vivace dibattito e un ritorno di interesse nei confronti dello scrittore dopo mezzo secolo di totale oblio. Il libro già nel 1921 sollevò polemiche e lo stesso Thomas Mann, amico e collega di Wassermann, prese posizione contro di esso: tra i due scrittori si sviluppò una controversia dai toni accesi riportata da Reich-Raniki nell’edizione tedesca. Finalmente, grazie a Palma Severi, abbiamo anche l’edizione italiana, anche se non è stata tradotta la querelle tra i due scrittori. Storia di un tedesco ebreo per la sua complessità e universalità è un testo che va ben oltre la semplice autobiografia. La riflessione sul problema dell’identità ebraica, resa urgente dallo sviluppo di un antisemitismo sempre più violento e minaccioso, coinvolge un’intera generazione di intellettuali di origine ebraica che improvvisamente prendono coscienza della precarietà della loro condizione. Se alla fine del XIX secolo, nell’Europa Orientale ed in particolare in Russia e in Romania, i pogrom e le leggi speciali che tendono a ricacciare gli ebrei nei ghetti fanno ormai parte della quotidiana normalità, nell’Europa Occidentale, nonostante le leggi emancipatorie, e soprattutto in Francia in seguito all’affaire Dreyfus, di nuovo cresce nella società un odio antisemita che si alimenta di tutti gli antichi pregiudizi antigiudaici. La domanda «Sono ebreo?» e, soprattutto, «Cosa significa essere ebreo?», si impone anche in intellettuali laici che avevano perso quasi ogni contatto con la religione ebraica o che addirittura, come nel caso di Wassermann, rifiutavano anche l’idea di una nazionalità ebraica: «In un certo senso ero come Mosè che scende dal monte Sinai, ma ha dimenticato ciò che ha visto lassù, e ciò che Dio gli ha detto». Ma a riaccendere la fiamma nascosta della propria identità sarà appunto l’odio nei confronti del popolo deicida, che nel contempo svela anche l’eterna contraddizione dell’antisemitismo: «A ben vedere si era ebrei soltanto di nome e per l’ostilità, l’estraneità o il rifiuto del mondo cristiano, basati, per parte loro, soltanto su una parola, un luogo comune, una falsità». Nelle parole di Wassermann traspare l’esperienza vissuta da un altro grande intellettuale anarchico, Bernard Lazare, che nel suo libro testamento "Le Fumier de Job" tragicamente si chiedeva: «Sono ebreo? Sono un uomo? Io sono ebreo. Io sono un uomo». Ed è esattamente da questa domanda, che di fronte all’odio dei tedeschi nei confronti degli ebrei diventa ogni giorno più impellente, che si dipana la sofferta riflessione di Wassermann: «Per la prima volta mi imbattei in quell’odio sordo, ostinato, quasi muto, radicato nella popolazione, a proposito del quale il termine antisemitismo non dice quasi nulla perché non consente di individuarne la natura né l’origine, non la profondità né lo scopo. Un odio che ha tratti di superstizione, di volontario accecamento, paura del diavolo, irrigidimento bigotto, rancore verso chi è svantaggiato e ingannato, e poi ignoranza, menzogna e incoscienza, nonché fondato rifiuto, malvagità scimmiesca e fanatismo religioso. Lì ci sono avidità e curiosità, sete di sangue, timore della seduzione e della tentazione, gusto del mistero e scarsa autostima». Parole scritte con dolore che cercano di scalfire in profondità l’anima tedesca e ristabilire un principio di verità contro la menzogna dilagante. E a chi, come prova della bontà del popolo tedesco, gli rimproverava di essere uno scrittore perfettamente inserito e apprezzato, Wassermann rispondeva: «Ma il punto non è questo. Il punto non è ciò che ho realizzato e conquistato. Il punto è la menzogna che come un verme mi striscia davanti e ogni tanto solleva la testa chiazzata per sputarmi addosso». Questo libro, scrisse Gershom Scholem, «fu un autentico grido nel vuoto, che sapeva di essere tale». Wassermann muore nel 1934, appena in tempo per vedere Hitler salire al potere e scorgere l’imminente tragedia della Shoah. Una tragedia che Wassermann aveva intravisto nell’odio dei tedeschi e denunciato con orrore: «È come se solo presso i morti si potesse trovare giustizia dai vivi. Perché ciò che questi fanno è assolutamente intollerabile». Oggi le sue parole, allora cadute nel vuoto, possono essere utili per riaprire una discussione sull’antisemitismo che alberga nella coscienza di un’Europa libera e democratica, ma che al momento opportuno, oggi come ieri, sa essere intollerante e violenta. Massimo Sestili brativi («e poi al Consigliere piaceva ostentare con indulgente larghezza le sue eminenti relazioni sociali e gli ingenti benefici che ne potevano risultare») aiuta Mario, ormai sposato e con più stringenti esigenze economiche, a trovare un impiego da facchino, che peraltro avrebbe potuto «conseguire con le sue sole forze». Lontano da pose nostalgiche o didattiche quando pure allegorizza e motteggia; ricorda o anticipa con pacatissimo coinvolgimento; tira le somme e ragiona, De Caro ci dà la sua minuta epopea familiare con la distanza e la consapevolezza critica di chi racconta per exempla le tappe d’una storia collettiva. Si ricorderà come nel bel libro di Asor Rosa L’alba di un mondo nuovo, lo sguardo del bambino Alberto vada via via organizzando, tra i rivolgimenti del Ventennio, un personale vocabolario: cosa sono la paura, dirsi cittadini dell’occidente industrializzato. Lo dimostrano gli altri racconti. Quelli nei quali il signor Tonic accompagna i lettori su terreni più intimisti. Come in "Cospirazioni", dove due amici rivivono la notte del 12 luglio 1969, quando gli americani sbarcarono sulla Luna, in differenti prospettive. Antonio, appassionato di complotti, ricostruisce il mito del falso allunaggio, con un’escursione sulle incongruenze fotografiche. Il narratore, senza lasciarsi avvincere dal fascino dello smascheramento, ricorda di avere vissuto quelle stesse ore in una colonia marina della laguna veneta, parcheggiato dai genitori in crisi che di lì a qualche anno si sarebbero separati. Un registro utilizzato con analoga perizia in "Vita da single", cronaca anche questa molto naturalistica del rito di passaggio di un uomo comune, così comune che ci si riconosce subito nella sua aderenza al vero. Enzo Verrengia il terrore, l’odio, la vigliaccheria, la tortura, l’amore, l’eroismo. Mettendo in pulito la sua vicenda familiare, guardandola «da lontano» e facendo interagire con essa la formazione di storico, anche De Caro formula un suo impegnativo glossario: dove ad ogni lemma - eroismo, paura, delusione, politica, religione, fuga, giudice s’affianca un’istantanea del padre, o una figura-chiave della sua storia - fra le altre, la già citata figura del Consigliere, le cui prodezze sono narrate nel sesto e ultimo capitolo, allo scopo di «dare risposta in un caso concreto alla domanda: chi è un giudice? A chi la storia o la provvidenza nella loro saggezza danno il mandato di sciogliere o di legare?». Sebbene povero, Mario accoglie in casa l’amico ebreo negli anni Quaranta (è la banalità dell’eroismo, simile alla banalità del male che «autoassolve l’assassino») né per questo gli è estraneo il sentimento della paura: «era spaventato dalla vita, da ciò che gli aveva dato e da ciò che era per dargli». Un sentimento da cui esce deluso rispetto alle ansie di promozione riposte sul figlio («io sono stato troppo importante per mio padre già prima di esistere: era fatale che lo deludessi») e che lo rende vivissima incarnazione delle frustrazioni intellettuali, delle superstizioni religiose e dell’«invincibile diffidenza politica» cui in genere andò incontro chi «era cresciuto nell’era fascista, se l’era goduta per intero, sin da bambino, con tutta la capillare protervia quotidiana dei gerarchi rionali e capifabbricato e sabati fascisti e oro alla patria, senza contare le belve dei piani alti». Varrà la pena soffermarsi sullo stile: un lessico ricco e preciso ma mai sovrabbondante, una sintassi sorvegliata, vivace e a volte aspra, sempre intelligibile pur nella sua spigolosità; ne esce la scrittura in proprio di Gaspare De Caro, che modula con sapienza passaggi pianissimi e costrutti arditi. Elena Frontaloni storie e storia pagina 24 S t los RACCONTO INEDITO A PUNTATE DI MELISSA P. 13 MODI PER UCCIDERE MIO PADRE . Un crescendo di insofferenza e rancore. «Ti fa schifo Diabolik, ma è sempre meglio del libro di Dolce Remì che tua zia ti ha regalato la scorsa settimana. E cosa mai potresti fare in questo paese di merda, ad agosto alle 2.30 del pomeriggio?» sciare il paese per andare in quello più vicino ad ascoltare la messa, ritornano sempre con un mazzo di fiori in mano. Tu li detesti e il tuo disprezzo è ricambiato. Non vogliono che ti avvicini a loro nipote, che è più piccola di te di un anno, dicono che una ragazzina che legge certi libri, così pericolosi, non può certo avere una buona influenza. L’uomo sta adesso riposando nel tinello, tiene una gamba sulla sdraio e l’altra penzola fuori. Indossa dei pantaloncini larghi, così larghi e grandi rispetto alle gambe secche che puoi vedere le palle del vecchio, scure e coperte di pelo bianco. Distogli subito lo sguardo, arrossendo, e ti sistemi meglio sulla sedia perché la pelle sudata si è appiccicata alla plastica. Saluti con la mano Marco, che sta rientrando dal lavoro barcollando L’illustrazione è di zombi_holocaust sui suoi tacchi a spillo scuotendo vistosamente la sua bella chioma permanentata. Ha una cotta non troppo segreta per tuo padre, e tuo padre sta spesso con lui. Una volta lo hai sentito chiedergli che si prova ad avere un cazzo dentro il culo. Marco gli ha detto che era come cacare: hai presente quando lo stronzo cerca di uscire e poi l’ano lo risucchia dentro? Ogni volta che fai la cacca pensi a quelle parole. La sensazione non ti dispiace. Gli dici che avete bisogno del secchio, ma non il motivo. Con una cordicella lo fa scivolare giù dal suo balcone e ti saluta dicendo che hai un bel costume da bagno. Qualsiasi cosa appartenente ad un essere di sesso femminile riesce ad essere bella e affascinante per Marco. Il tuo costume è orrendo, firmato Arena, in acetato fucsia e blu. Entri dentro casa, la porta è sempre aperta, la tendina di pizzo bianco è come una ragnatela che ti blocca il passaggio. Vai in bagno a sciacquare via quello schifo, riempi il secchio e poi lo svuoti dentro la tazza mentre il gatto si tira su con le zampe posteriori e ficca la testa dentro il gabinetto. Il gesto non ti regala nessuna sensazione. Dovresti sentirti pulita, e invece non riesci a non sentirti sempre più contaminata. Sul divano tuo padre dorme. Accanto a lui la copia di Dolce Remì aperta: ha scoperto di essere un grande lettore di libri per bambini. Lo vedi piangere mentre legge, e tu sai perché. Ti avvicini a lui, sposti il costume da una parte dell’inguine fino a che le labbra grandi della tua fica calva non si mostrano in tutta la loro volgarità bambina. Premi un dito al centro del tuo sesso bagnato, forse per il sudore o forse per quel disprezzo che ti fa sognare di essere amata. Fai giri concentrici con il polpastrello fino a che lui non apre gli occhi, ti guarda con occhi da mucca morente e poi si gira dall’altra parte. (1- continua) © Melissa P. per Stilos, 2006 Nata a Catania nel 1985. A diciassette anni esordisce con il romanzo "100 colpi di spazzola prima di andare a dormire", diventato un successo internazionale. "L’odore del tuo respiro" esce due anni dopo. Nel maggio 2006 ha pubblicato "In nome dell’amore", lettera aperta al cardinale Ruini su temi come aborto, matrimonio e omosessualità Un gattino pulcioso e Diabolik buchi di plastica della sedia su cui sei sdraiata disegnano una griglia sulla tua pelle arrossata dal sole, così che le tue cosce sembrano quelle di un pollo arrosto. Dalla cucina, a pochi metri di distanza, arriva l’odore di gamberetti e calamari fritti che tua madre ha cucinato per pranzo. L’olezzo del detersivo dei piatti al limone si mischia alla puzza dell’olio consumato usato per la frittura, la brezza del mare si concilia con il fetore del cesso che ha la cassetta rotta e non riesce a lavare via la merda che tu e i tuoi genitori avete scaricato stamattina. Il secchio lo avete prestato alla checca del piano di sopra che adesso sta Dio sa dove a fare marchette su un marciapiede assolato di agosto. Avete provato con le bottigliette d’acqua a mandare via gli I stronzi scuri e grandi, ma avete capito che non faceva che peggiorare la situazione, che la merda si sfaldava in tanti piccoli pezzetti che facevano ancora più vomitare. La mattina è cominciata bene, con tua madre che ti adagia accanto al cuscino un gattino raccattato per strada, infestato di pulci che sembrano palline di sporco su un tappeto di velluto bianco. Ti sei svegliata con gli occhi bagnati e hai sorriso, con la faccia grassa e le guance bruciate dal sole che ti fanno somigliare un pagliaccio. Hai giocato un po’con il gatto e poi te lo sei portato in grembo cercando di levare via quelle dannate bestiole saltellanti che rosicchiano un po’ alla volta la pelle tenera e sottile del tuo nuovo animale. Adesso tieni in mano un fumetto di Diabolik, e non sai bene perché. Ti so- na mattinata luminosa, ma non ancora canicolare, di un’estate della prima metà degli anni Settanta, vidi morire molte volte Carlo Pisacane. Di buonora mio padre che era allora ancora sarto (sarebbe di lì a qualche anno partito per il nord a «fare il bidello») mi preparò ad un evento speciale. Il sarto quella mattina era incuriosito quanto me bambino e nonostante ci dovessimo recare in una pietraia nei pressi del cimitero vecchio mettemmo in parte scarpe e abiti della domenica. Dalle case abbarbicate sul paese, dove eravamo ancora lontani dalla glassa dell’alluminio anodizzato che avrebbe ricoperto anni dopo porte e finestre, mi portò per mano per circa tre chilometri a vedere come i sanzesi avevano ucciso Pisacane. LA RIVOLUZIONE IGNOTA DI PISACANE. Il ricordo di un «colpevole» MELISSA P. U "Quanto è bello lu morire acciso" (Italia 1976, col. 85’) Ennio Lorenzini. Con Stefano Satta Flores, Giulio Brogi, Alessandro Haber, Angela Goodwin, Elio Marconato. La storia di Carlo Pisacane (Satta Flores) e del suo tentativo fallito di organizzare una rivoluzione contadina in Calabria ai tempi dei Borboni. Raccontata come una cantata popolare, la storia dei «trecento giovani e forti» è spezzettata in una serie di aneddoti che rischiano di impoverire la figura complessa di Pisacane, fino a farne una specie di astratto eroe della rivoluzione. Nello sviluppo narrativo ha ancora molto più rilievo l’ufficiale borbonico interpretato da Brogi, al quale Lorenzini affida il discutibile compito di impersonare la morale del film, massacratore dei rivoluzionari pur avendo lucidamente presente (con una coscienza inusitata per i tempi) le linee dello sviluppo storico e la sua futura inevitabile sconfitta. (da "Il Mereghetti. Dizionario dei film 2006") Il binario su cui correva la macchina da presa, promessa futura dei molti treni che non avevo ancora visto e che volevo comunque prendere già allora per andare altrove, attrasse all’inizio la mia attenzione ancor più dei genitori e dei nonni di molti miei compagni di scuola che vestiti e truccati da contadini di oltre un secolo prima aspettavano, sotto un sole che cominciava a salire, che quelli del cinema gli dicessero cosa fare. In verità se si escludevano le scarpe - praticamente inesistenti - e i lunghi baffi attaccati no sempre stati sul cazzo i suoi occhi azzurri, i suoi trucchetti banali da banale ladro e sua moglie. Ti fa schifo Diabolik, ma è sempre meglio del libro di Dolce Remì che tua zia ti ha regalato la scorsa settimana. E cosa mai potresti fare in questo paese di merda, ad agosto alle 2.30 del pomeriggio se non sederti su questa sedia messa in ombra dalla chiesa sconsacrata e leggere qualcosa che ti spedisca in un’altra dimensione, più sopportabile? Nella casa di fronte la tua vive una coppia di anziani che sta in guerra con il comune, perché loro vogliono che la chiesa sia benedetta e riabilitata a consacrare cerimonie e il comune dice che la chiesa è troppo vecchia, e che se solo il coro dovesse cantare a voce troppo alta il soffitto crollerebbe. Ogni domenica sono costretti a la- Eran 300, giovani e forti. Embè? VIVE A ROMA. AUTORE RADIOTELEVISIVO. LAVORA A RADIOTRE ("FAHRENHEIT") E SCRIVE PER "L’UNITÀ" E "DIARIO" MICHELE DE MIERI sul labbro, molte di quelle comparse vestivano così anche gli altri giorni di centosessantasette anni dopo quel fatidico 2 luglio 1857. Quello che in quei giorni era sostanzialmente diverso era la paga di molto superiore al salario che contadini, muratori, pastori e artigiani di Sanza riuscivano a mettere insieme in una loro estenuante giornata di lavoro. Così Carlo Pisacane che, insieme con un drappello dei suoi compagni, era stato ucciso dai miei antenati compaesani ora ricambiava il terribile trattamento con un po’ di denaro che sarebbe stato utile alle famiglie quasi come nel 1857. Allora dopo l’eccidio i Borboni riconobbero al paese un premio di 2000 ducati che però furono usati per completare la strada di collegamento con il paese più vicino. Cilento regione geografica (2400 kmq) della Campania (Salerno), affacciata sul Tirreno tra la foce del Sele (golfo di Salerno) e quella del Bussento (golfo di Policastro). Già feudo dei Sanseverino, poi smembrato dalla dominazione spagnola, fu centro di attività carbonara e liberale (fallita insurrezione del 1828). Dal Cilento partirono i moti del 1848. (dall’"Enciclopedia Universale Garzanti") Intanto noto che nessuna menzione è fatta ancor oggi della sfortunata avventura di Pisacane e che fu proprio il passato, allora recente, del Cilento che dovette far propendere il rivoluzionario napoletano per la scelta di quell’area: «Io non ho la pretesa, come molti oziosi me ne accusano per giustificare se stessi, di essere salvatore della patria. No: ma io sono convinto che nel Mezzogiorno dell’Italia la rivoluzione morale esiste: che un impulso energico può spingere le popolazioni a tentare un movimento decisivo ed è perciò che i miei sforzi si sono diretti al compimento di una cospirazione che deve dare quello impulso. Se giungo nel luogo dello sbarco, che sarà Sapri, nel Principato citeriore, io crederò aver ottenuto un grande successo personale, dovessi lasciar la vita sul palco». E il palco, metaforico ma con tanto di falò, fu messo su in fretta e furia la mattina del 2 luglio 1857, quando dei «trecento giovani e forti» restavano a malapena un centinaio di rivoltosi in rotta dopo l’eccidio di Padula, dove furono affrontati e decimati dalle guardie borboniche tra il 30 giugno e il l luglio. E nel tentativo di riguadagnare il mare di Sapri, Pisacane e i suoi incontrarono a Sanza un drappello di animosi miei compaesani tra cui si distinsero alcune guardie urbane, primo fra tutti tal Sabino Laveglia che probabilmente fu colui che uccise Carlo Pisacane. Poi arrivarono con roncole e bastoni gli abitanti del paese, a cui i rivoltosi erano stati indicati dal clero locale e da qualche benestante come briganti e stupratori, ma probabilmente al loro arrivo il massacro era già stato portato a termine. Né chi tirò la fucilata né chi dispose per il giorno dopo che i cadaveri venissero bruciati, e così avvenne, sapevano che il comandante di quella tragica armata brancaleone era non solo un rivoluzionario di lungo corso - trentenne era stato il capo delle milizie della repubblica romana del 1949 - ma il pensatore italiano che per primo aveva posto la questione sociale al centro della teoria rivoluzionaria: «La libertà senza l’uguaglianza non esiste, e questa e quella sono condizioni indispensabili alla nazionalità». I Saggi, scritti da Pisacane tra il 1851 e il 1856, erano ancora pressoché ignoti e solo dopo la morte, insieme col testamento politico redatto nelle ore precedenti lo sbarco di Sapri, furono pubblicati e, tocca dire, ben presto dimenticati. A tutt’oggi si fatica a trovare, se non in fornite biblioteche, l’ultima edizione di La rivoluzione (Einaudi 1970 e ristampa 1976) di Carlo Pisacane, con un lungo saggio introduttivo di Franco Della Paruta. Pisacane, Carlo (1818-1857). Ufficiale dell’esercito napoletano. Nel 1847 andò esule in Francia... Pisacane affermò con chiarezza la tesi che, per essere vincente, la lotta per l’unità e l’indipendenza italiana non doveva essere disgiunta dalla lotta per l’affrancamento sociale delle enormi masse diseredate in special modo dei contadini. Avverso alla concezione federalista del Ferrari e del Cattaneo, Pisacane rimproverava a Mazzini (col quale spesso collaborava) il carattere genericamente umanitario e non coerentemente socialista del suo pensiero... Pisacane sottolinea ampiamente la priorità logica ed euristica dei fattori economici in seno alla società e in ogni singolo individuo: la libertà è mera chimera se non è prima di tutto intesa come libertà dal bisogno... Come ribadirà nel "Testamento politico" consegnato al giornalista inglese J. Whithe (nota mia: era una donna Jessie White Mario) prima di intraprendere, nel 1857, l’infelice spedizione di Sapri (ferito e accerchiato dai borbonici, Pisacane si tolse la vita in seguito al fallimento della spedizione), libertà e associazione, lungi dall’essere inconciliabili si rafforzano a vicenda. (da "Enciclopedia del pensiero politico", diretta da R. Esposito e G. Galli, Laterza 2005) Come tutte le totalizzanti prefigurazioni sociali del tempo i saggi di Pisacane contengono ovviamente anche molte parti ampiamente superate dalla storia oltre che una dose d’inapplicabilità congenita, ma è pur vero che una scomodità di Pisacane si può scorgere ben prima dell’esito mortale della sua spedizione. Una scomodità così lampante, lui che parlava di rivoluzione quando tutti al massimo erano per l’insurrezione di consorterie carbonare o per sollevazioni ispirate e finalizzate all’annessione col Piemonte, che si volle normalizzare anche con l’elaborazione di un martirio romantico: Pisacane che si uccide accerchia- to dai nemici è un’elaborazione tutta mitologica non suffragata né dalle testimonianze degli assalitori né da quelle di uno dei suoi luogotenenti, poi futuro ministro degli interni del Regno, Giovanni Nicotera. A esempio di una distrazione successivamente anche storica, come riporta la scheda del Mereghetti, Pisacane sarebbe morto nell’intento di sollevare le popolazioni della Calabria! Oggi per i turisti che lasciata l’autostrada Salerno Reggio Calabria all’uscita di Padula-Buonabitacolo prendono la strada statale 517 - ultimata per la prima volta proprio con i soldi dati dai Borboni per l’eccidio di Pisacane - e si dirigono verso Sapri, dopo il cimitero nuovo di Sanza, a destra della prima curva a sinistra, si scorge a malapena, tozza, grigia e insignificante, la lapide che ricorda questo nobile napoletano che s’era incapricciato di portar da queste parti nientemeno che la rivoluzione: «2 luglio 1857 \ Nuovo decio \ disfidante il fato \ Carlo Pisacane \ da queste glebe livide di strage \ ruinava alla morte \ né mai selvaggia tirannide \ strappò all’avvenire della patria \ un più eroico cuore». Da piccolo nelle improvvise soste di confuse e interminabili partite di pallone, mi capitava di fissare spesso l’altra traccia di Pisacane: il busto che era stato eretto nel centro della piazza in occasione del centenario del 1957, e il volto austero e fiero di quell’uomo che un po’ anch’io mi sembrava di aver ucciso pareva avere almeno cinquant’anni. Avrei scoperto solo anni dopo che Carlo Pisacane, duca di San Giovanni, quando morì aveva trentanove anni: gli stessi, mi accorsi un paio di decenni dopo, mentre mi trovavo a L’Avana nella piazza della Rivoluzione, che aveva Ernesto Guevara de la Serna, detto il Che, mentre sembrava mi guardasse da una gigantesca riproduzione che dominava quella piazza allagata dal sole dei tropici. Così ora, non sempre, mi capita di pensare al mio Cilento come alla Bolivia dove il Che, con lo stesso ingenuo entusiasmo rivoluzionario di Pisacane, andò a morire. Se penso al- S C A F F A L E FRANCESCA RIGOTTI, Il pensiero pendolare, pp.119, euro 11,50, Il Mulino 2006 In questo libro si parla di un movimento particolare: l’oscillazione del pendolo che accompagna il pensiero pendolare. Oscilla da un estremo all’altro, va e viene arricchendosi ad ogni passaggio. Il pendolo rappresenta il modello della conoscenza. Si può fare riferimento all’uomo pendolare che sposta il corpo e la mente da un estremo all’altro, oscilla come il pendolo e come il pendolo si arricchisce di conoscenze. CARITAS ITALIANA, Guerre alla finestra, Paolo Beccegato, Walter Nanni e Francesco Strazzari (cura), pp. 449, euro 24, Il Mulino 2006 Il terrorismo è internazionale e le guerre interminabili. Si indaga in che modo i conflitti siano osservati e trattati dalla nostra società. La ricerca in questo senso riporta contraddizioni: dal crollo delle Torri gemelle è aumentata l’informazione ma nell’altro senso sono nate reticenze nelle forme del linguaggio e sono sorti conflitti passati e nuovi. Paolo Beccegato è responsabile dell’erea internazionale della Caritas Italiana. LUCIANO MANZALINI, Dubbi di un presunto scrittore, pp. 117, euro 12,00, Pendragon 2006 La comicità si trova ovunque: nel nostro corpo nei gesti, nei sentimenti e a volte rimane latente anche per un lungo periodo. Alla fine viene fuori inaspettatamente in un momento inatteso per una qualunque banalità. La bravura del comico sta nell’esercitarsi su se stesso, nell’autoironia. Impara a ridere prima di sé per poi estendersi al prossimo. Manzalini è un bravo comico e conosce il suo respiro. Sa che prima o poi le cose fanno ridere. la fortuna iconica del medico d’origine argentina, al suo successo come rivoluzionario a Cuba e a quello postumo anche come scrittore, vorrei che un po’ di questa fortuna toccasse pure a Carlo Pisacane. Mi rendo conto che né tazze, né piatti, né t-shirt all’improvviso invaderanno d’estate le spiagge di Sapri o di Palinuro, e forse è meglio così, ma certo almeno un piccolo risarcimento alla memoria si può desiderare, magari con qualche buon libro: in commercio e senza inesattezze, con qualche cippo meno triste e meno nascosto. L’anno prossimo ricorrerà il 150mo anniversario della morte, speriamo. Mi ero completamente dimenticato, o forse non l’avevo mai saputo, che Pisacane deragliò dalla sua vita di nobile e di ufficiale napoletano per merito di una donna: era l’8 febbraio del 1847 quando scappò da Napoli e dall’esercito con Enrichetta Di Lorenzo, moglie di un suo cugino. Si erano amati in silenzio per quasi quindici anni, praticamente da quand’erano bambini, e il teorico della rivoluzione sociale non si accontentò di quando «finalmente Enrichetta» gli disse «je t’aime il 1 giugno 1945», ma inquadrò la cosa in un discorso ideologico più generale in cui le leggi naturali avevano stabilito che «l’oggetto dell’amore nel cuore dell’uomo è unico, né possono amarsi due persone nel medesimo tempo», motivo per cui i matrimoni basati su ragioni d’opportunismo sociale potevano bellamente essere sabotati. Poco più di un anno fa, è venuto a trovarmi a Roma mio padre, ormai è in pensione e non deve più cummàttere con adolescenti tarantolati nelle scuole medie del Cilento, dove mi chiedo cosa gli raccontano di quel Pisacane invecchiato in effigie nelle piazze. Era una bella mattina di giugno e dopo un breve giro in piazza Venezia siamo entrati dentro la pancia fresca del Vittoriano, nel museo del Risorgimento. Dopo le infinite vestigia mazziniane, sabaude e garibaldine ci siamo fermati intorno a una teca: conteneva una sciabola che doveva pesare non poco. C’era scritto «Sciabola di Carlo Pisacane». Ho dovuto leggere io per mio padre che non ci vede bene quand’è scritto così piccolo. Mi ha chiesto: «Chissà se l’hanno presa a Sanza quando è stato ucciso?». Non c’era scritto niente, ho risposto che poteva essere.