1 - Stilos

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1 - Stilos
Anno VIII n. 16
1 agosto 2006
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onna prese i biglietti e li buttò a terra con rabbia. Non aveva vinto, per la terza settimana consecutiva non aveva azzeccato nulla,
neanche un ambetto da due lire, niente! La sua cabala aveva fallito ancora. Non si capacitava, e aveva già speso un milione che per
le sue magre risorse erano già tantissimo. Eppure aveva giocato bene. Il 18 col 36 sulla ruota di Napoli. Aveva giocato i miei numeri: 18 i miei anni e 36 il numero di casa dove abitavamo: 18 è il doppio del 36. Era uscito invece il 18 e il 37. Una beffa. Quando infatti stracciò il biglietto lo morsicò e ci
sputò sopra come sapeva fare, maledicendo la cattiva sorte che si prendeva gioco di lei, anzi, con quel 37 era come uno sberleffo, un riso in faccia del destino. «Cag vègna un càncar al lot e a chi l’ha invintè!» diceva tra i denti, come
se quelle parole potessero scacciare l’influsso malefico che da qualche settimana incombeva sulla nostra casa. Nonna girava sempre con un foglietto in mano e una matita. Si segnava i numeri delle targhe delle macchine, lavorava su
compleanni e ricorrenze, cercava nei numeri le misteriose corrispondenze di
chissà quali influenze ancestrali e divinatorie, e poi le confrontava con le ultime estrazioni. Anche lei aveva giocato la morte del papa. Anzi, quando era morto Paolo VI aveva giocato per un mese il 6, l’88 il papa, e 90 la paura e la morte, perché «il giorno della morte del papa, i demoni si scatenano e allora c’è da
stare attenti», diceva mia nonna.«Fino a quando non si fa un altro papa, siamo
in mano ai demoni!».
Il suo anno fortunato era stato il 33 compleanno. Quell’anno vinse con 3, 33 e
66 moltissime volte. Numeri che lei non amava perché trini, divini e diabolici
nello stesso tempo, ma erano quelli che le avevano fatta vincere un piccolo gruzzolo che non le aveva fatto vedere un roseo futuro, bensì avevano accresciuto
in lei una voglia di giocare tutt’altro che positiva.
«Nonna, quando muori, portami i numeri che mi fai ricco. Così non vado più
a lavorare» le dicevo. Nonna metteva le mani sotto la tavola e faceva le corna,
poi cercava di darmi una sberla che io schivavo sempre con grande agilità, facendo ridere tutti. Invece nonna non rideva.
«Perché il nonno non ti porta i numeri? Dove sarà adesso il nonno?» le chiedevo.
Io portavo il nome di lui, del nonno morto che io non avevo mai conosciuto e
questo nome per me era un po’ magico e un nome protettore, perché sapevo che
continuavo la vita di qualcuno che la sorte, o il destino, aveva portato via troppo presto da questa vita. Nonno era
morto quando nonna aveva tre bambine da sfamare ed era sola, e dallo sfollamento della montagna era venuta in
città a vendere mutande e canottiere
con una licenza da mercante che il comune rilasciava al proletariato più povero e nullatenente; così si offriva loro
una opportunità senza spendere niente.
Che s’arrangiasse un po’ la plebaglia.
Così nonna aveva cominciato a giocare al lotto durante la guerra, per arroVIVE A PARMA. "IL TRAMONTO
tondare il suo magro stipendio. Fu la
SULLA PIANURA" (GUANDA,
fame e la voglia di soldi a farla ingolo2005), "UN MEDICO ALL’Osire con il gioco della smorfia.
PERA" (GUANDA, 2004)
Nonna aveva imparato a fare anche il
gioco delle carte. Prendeva un mazzo
da briscola e poi «faceva il gioco».
GUIDO CONTI
Aveva imparato da una vecchia megera che abitava nella casa di città. Con quel sistema aveva indovinato che mia cugina, non ancora diciottenne, era tornata dalle vacanze incinta. Tutti avevamo
riso meno Cristina che si ritrovò incinta dopo aver fatto l’amore per la prima
volta in tenda con quello che sarebbe diventato poi qualche mese più tardi suo
marito. Magie degli amplessi e delle arti divinatorie di nonna che si affinavano sempre di più. Quella volta nonna giocò l’1 perché era la prima volta, 57 la
donna incinta, e 65 il matrimonio tutto sulla ruota di Milano, perché al mare, che
comincia con M, erano andati i due giovani fidanzati. Nonna schiattò di bile nera quando uscirono i tre numeri, l’intero terno secco non su Milano ma su Venezia. - V come vacanza - disse mia mamma. «Se tu mi dessi ascolto qualche
volta» l’aveva rimproverata sua figlia.
In quel periodo studiavo. Passavo giorni e giorni chiuso in camera a studiare i
filosofi greci e quelli cristiani, del motore immobile e della scommessa sull’esistenza di Dio di Pascal, la summa teologica, Kierkegaard e Nietzsche quando in verità, la più grande filosofa di tutti i tempi ce l’avevo giù in cucina che
mescolava il minestrone e la domenica mattina molto presto urlava e mi tirava
le ciabatte perché mi svegliassi. «E allora, cosa fate, continuante a dormire ancora un po’? Ma non sapete che il letto ammazza?»
«E allora lasciami morire!» gli gridava mio fratello più grande che dormiva con
me. Si rigirava bofonchiando e si tirava le coperte sopra la testa per non sentire le urla di nonna che arrivavano dal piano di sotto. La seconda tornata era verso le dieci e mezza, undici: «E allora, è quasi mezzogiorno! Cosa fate a letto,
ci fate la muffa?» Poi, per la terza volta, nonna cominciava a lamentarsi con
mamma, che non si poteva mica che due giovani come noi dormissero così tan-
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La mania del lotto, la cabala e la smorfia di una
accanita vegliarda che crede nei numeri: un
crescendo di credenze e rovine nel ricordo di
un nipote che aspetta ancora i numeri in sogno
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euro
«M’ha portato i numeri.»
«Chi, lo zio Giovanni? Che numeri?»
«435, 567».
«Ma sono numeri di tre cifre - disse nostra madre. - Nel lotto non hanno senso.»
«Appunto - disse nonna - mio fratello, quel cretino, si burla di me anche dall’aldilà».
Io e mio fratello quella sera ridemmo come dei matti e da quel giorno cominciai a sospettare che dall’aldilà ci fossero problemi di comunicazione. Così nonna attaccò a tutta la famiglia la mania del gioco. Era diventata un’esperta anche
di cabala e di smorfia. Sospettavamo che lei inventasse i numeri, così io e mio
fratello al pari di lei, c’inventavamo i sogni. Raccontavamo di donne nude e peccaminose, di mutandine e reggiseno che volano di qua e di là, e lei, serissima,
diceva 14 le donne senza veli e 57 il peccato. Mamma passava e ci dava il mestolo in testa: «Cretini!» ci urlava. Io e mio fratello ridevamo. «Ma non vedi che
ti prendono in giro» rimproverava mamma a nonna.
«I sogni sono cose serie» rispondeva nonna. Diventata massima esperta, interpretava, distingueva i casi e anche un cane non era sempre lo stesso numero. Il
cane faceva 27 ma 34 era il cane che parla, perché nei sogni i cani parlano, 89
il cane che corre, 69 la cagna in calore e 45 il cane che morde al polpaccio, ma
se azzanna un braccio, 77. Insomma l’universo intero stava diventano un immenso repertorio di numeri, un mondo da decifrare dall’1 al 90, primo grande
passo verso l’1 e lo 0 che avrebbe portato al sistema binario dei numeri dei computer. Nonna, pensai, aveva intuito che il mondo si può leggere anche attraverso i numeri e le matematiche non esatte ma incerte della smorfia. Perché gli ambi uscivano spesso, meno i terni che però si beffavano di nonna uscendo su altre ruote. Nonna mangiava i biglietti e poi li buttava sempre prima di aver segnato accuratamente tutto. La sua capacità d’indovinare il mondo si avvicinava lentamente alla verità. Da nonna capii che la smorfia è solo il destino che, per
prenderti in giro, ti fa le ghigne.
Così un giorno decise, dopo un giro di carte, che il 36 ritardatario da ben 112
settimane sulla ruota di Milano era il numero della sua vita: l’asso di denari era
uscito in dodicesima posizione dopo il 2 e il 3 sempre di denari. Niente spade,
niente dolori e impedimenti. Nemmeno un bastoni, ma solo coppe, coppe piene di denari. Non le era mai capitato nella vita da quando faceva il gioco con le
carte. Il primo ambo 36 e 63, i gemelli speculari, decise di buttarci ben centomila lire. Una fortuna. Non immaginavano quello che stava per accadere
perché per nonna quello del lotto sembrava uno svago, un modo per tenere
viva la sua attenzione al mondo. Invece stava cominciando un disastro economico dalla portata catastrofica perché ogni settimana, per poter recuperare il proprio denaro giocato, nonna era
costretta ad aumentare la posta in palio. Nonna era diventata taciturna, si
agitava in casa lavando piatti e pulendo continuamente per terra, chiedeva alle vicine se volevano pacchi di lenzuola e fazzoletti con uno sconto. Ci accorgemmo del dramma in atto quando nonna, dopo un sabato pieno di tensione, attaccata alla radiolina, ascoltò, tra mille sussulti per quel 31 e 38 sulla ruota di
Milano che quasi la stesero a terra. Alla fine della settimana, il venerdì mattina, chiese un prestito a mamma, e si cominciò a sospettare della voragine che
nonna aveva sperperato in poco più di sei mesi. Quasi dieci milioni, i risparmi
di tutta una vita. Di fronte alla furia di mamma che l’insultava, - «te sei una matta, sei una da legare, e adesso cosa facciamo? Io di soldi non te ne do da buttar
via!» - nonna si mise a piangere come non l’avevo mai vista fare. «Invece di dar
retta a quelle carte, ma è possibile una follia del genere?»
«È stato il nonno a dirmi di giocare, non sono state le carte, le carte me l’hanno solo confermato, va bene? Mi sono sognata mio marito che mi diceva di giocare, che mi sarei messa a posto per tutta la vita… insomma, è sempre tuo padre!»
«E va ancora bene se non devi vendere la licenza!»
Mamma era su tutte le furie, nonna invece insisteva piangendo che il nonno era
tornato dall’aldilà con i numeri, che glieli aveva portati in sogno.
Aspettammo altre quattro settimane poi, quando il venerdì prima nonna sognò
di nuovo il nonno che le portava i numeri dicendole che quello era il sabato fortunato, anche mamma cedette di fronte al pianto convinto di nonna. Il numero
36 uscì con 136 settimane di ritardo, nonna azzeccò solo le vincite per il numero singolo e un terno da 100 lire, l’unico della sua vita, che le fruttò solo la metà
di quello che aveva speso in quei mesi di follia. Ma quel terno valeva qualunque cifra. «Ve l’avevo detto che l’aldilà esiste. Il nonno m’è venuto in aiuto,
m’ha detto quando giocare e abbiamo vinto».
Nonna morì con la convinzione che l’aldilà esistesse veramente, che si sarebbe ricongiunta con nonno, ed io, ancora oggi, aspetto che lei mi porti i numeri
dal paradiso, per il terno che cambi il mio destino verso promesse di una nuova felicità.
Il gioco della nonna
to. Mamma litigava con nonna perché non ci alzavamo, poi, mezzi rincoglioniti per aver dormito così tanto, io e mio fratello giravamo in mutande per la
grande casa di campagna, con nonna che a malapena ci salutava o si lamentava più, come se vederci svegli fosse un piacere.
«16 e 29» disse una mattina mia nonna. Tirava fuori un pezzo di carta e scriveva i suoi numeri. «72» diceva nonna, poi segnava sul foglietto.
«Cos’è 72, il gatto morto?» diceva mio fratello ridendo. Nonna scuoteva la testa e ci guardava per dire che non capivamo niente. «Il mondo è fatto di numeri!» diceva mia nonna, e quando ripenso a quelle parole, penso che quella frase potesse star bene nelle pagine che raccontano la vita e la filosofia di Pitagora. Così una volta, per divertirmi alle sue spalle, di nascosto, le scrissi per ben
due volte numeri fasulli imitando la sua scrittura, li infilai in tasca e vidi il suo
sguardo smarrito quando rovesciò i foglietti con i suoi numeri e certi ambi e alcuni terni che non tornavano nella sua memoria. Poi sbuffava, dava una scrollatina alle spalle e si metteva a leggere le ultime estrazioni del mese, cercando
chissà quali ritorni e combinazioni. Mia nonna il sabato pomeriggio alle cinque,
e dopo il giornale radio, prendeva la radiolina a transistor e ascoltava le estrazioni della settimana. Allora diventava seria, con la faccia concentratissima.
Scriveva tutto in un quaderno dove aveva le estrazioni di anni, per studiare le
uscite, i ritorni e i ritardatari. Poi ci fu il periodo dei sogni. Ci accorgemmo che
nonna sognava moltissimo. A tavola la interrogavamo.
«E allora nonna, ci vuoi dire che numeri giochi questa settimana, chi ti ha portato i numeri dall’aldilà?»
Per molte settimane nonna era quasi reticente nel rispondere. Era titubante, quasi si vergognava.
«È vero che il nonno è venuto a trovarti?»
«No, è venuto mio fratello.»
«Chi lo zio Giovanni?» chiese quella volta mia madre.
«Sì».
Mamma stava zitta e cercava di capire cosa rimuginava la nonna. «E beh, si può
sapere cosa ti ha detto?» Mamma sapeva che nonna con suo fratello non andavano d’accordo.
© Conti per Stilos «Terno al lotto». Luglio 2006
S t los
sguardi
e riguardi
pagina
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Sellerio
Novità
Andrea Camilleri
La vampa d’agosto
Una nuova indagine per il commissario Montalbano. «Se il romanzo giallo è solo un “passatempo enigmistico”, un genere giocattoloso che induce il lettore a correre alla soluzione per appagarsi,
La vampa d’agosto non è un romanzo giallo. Dentro la sua trama
il lettore frena la corsa» (Salvatore
Silvano Nigro).
Honoré de Balzac
Il parroco di Tours
«Le leggi naturali dell’egoismo» in
azione nella lotta feroce e meschina tra preti di provincia per un’eredità: un apologo sulla repressione del desiderio considerato all’origine del realismo letterario.
Pierre Boileau,
Thomas Narcejac
I vedovi
Chi può dire se Mirkine sia un
amante ossessionato dalla gelosia,
o un burattino nelle mani di un assassino? Boileau e Narcejac, la
coppia del noir francese che piaceva a Hitchcock, col pretesto del
giallo costruivano labirinti in cui
realtà e finzione danzano avvinghiate, come negli incubi.
Mario Soldati
Cinematografo
«Se per vero scrivesse soltanto le
sue memorie di regista, ne uscirebbe un capolavoro» (Giovanni
Comisso). Gli scritti intorno al cinema – intorno ai suoi set cinematografici – del più multimediale
scrittore italiano.
Giuseppe Bonaviri
L’incredibile storia di un
cranio
Dal materialismo magico del maestro siciliano un’utopia cosmobiotecnologica. «Bonaviri è un visionario del linguaggio. Il suo sguardo spazioso impera come sempre
sugli elementi; sul vitalismo rigoglioso e panico della natura» (Salvatore Silvano Nigro).
Domenico Seminerio
Il cammello e la corda
Dall’autore di Senza re né regno un
romanzo erotico, di gusto libertino: la passione carnale che ossessiona un prete si materializza in un
giardino di Afrodite e risveglia dal
tempo una tragica vicenda pagana.
Jaime Bayly
L’uragano ha il tuo nome
Gabriel ama Sofía e sogna di scrivere un romanzo: avranno una figlia e di lui si interesserà un grande editore; ma Gabriel è gay. Un
amore e una carriera normalmente difficili, ma dalla prospettiva di
un omosessuale.
Luciano Canfora
1914
Dalla radio al libro. Luciano
Canfora spiega l’origine della
Grande Guerra come primo atto
della guerra civile europea e baratro in cui precipita la centralità
dell’Europa.
Franco Cardini
Lawrence d’Arabia
Dalla radio al libro. Lo storico
dell’Oriente Cardini racconta il
suo percorso di indagine nella figura storico-psicologica dell’agente di Sua Maestà suscitatore dell’orgoglio arabo: eroe o traditore?
O tutt’e due?
Sergio Valzania
Sparta e Atene. Il racconto di
una guerra
Dalla radio al libro. Sergio Valzania, storico della guerra, racconta
cosa successe tra ateniesi e spartani nella guerra peloponnesiaca per
l’egemonia e come Sparta e Atene
rovinarono entrambe.
Joseph Addison,
Richard Steele
Parlando di donne.
Lettere a un quotidiano
inglese del ’700
Addison e Steele nel 1711 inventarono il primo quotidiano moderno, «The Spectator»; c’era anche la
rubrica delle lettere, delle donne e
per le donne: un gossip ininterrotto e un quadro irresistibile e vero
dell’universo femminile di allora.
www.sellerio.it
ul rapporto fra autori e lettori J. M. Coetzee ha riflettuto a lungo, soprattutto nel libro intitolato Elizabeth Costello. La protagonista è
un’anziana e celebre scrittrice australiana, una sorta di alter ego dell’autore sudafricano, che gira il mondo per
tenere conferenze e ricevere premi; e
due delle sei lezioni in cui è diviso il
testo trattano appunto la questione
della relazione ancìpite che s’instaura
fra uno scrittore famoso e il suo pubblico. Nella prima di queste dissertazioni, riguardante la questione del realismo in letteratura, Elizabeth Costello esprime la diffidenza che nutre verso le folte schiere dei suoi estimatori.
Questi vengono da lei chiamati, con
una delle frequenti metafore zoomorfe cui Coetzee ci ha abituato, «pesci
rossi», perché all’apparenza sono piccoli e innocui, ma in realtà risultano
invadenti e voraci, in quanto desiderosi di spartirsi le spoglie della «balena
morente». Nella quinta lezione la prospettiva s’inverte, scoprendo che i ruoli spesso sono interscambiabili, ed Elizabeth Costello ci mostra il punto di
vista capovolto di lei lettrice, quando
non aveva ancora scritto nulla e sognava di essere la moglie dell’illustre
poeta Robert Duncan. «Non le sarebbe dispiaciuto farci un figlio, diventare una di quelle donne mortali del mito ingravidate da un dio di passaggio».
Già un secolo fa Gustave Le Bon segnalò nella Psicologia delle folle la
natura religiosa del rapporto fra idolo
e ammiratore, e oggi più che mai lo
star system è diventato il vero
pantheon della mitologia contemporanea. Certo, l’idolatria morbosa si manifesta in modo più marcato in altre
espressioni artistiche, tipo la musica o
il cinema, che vantano maggior popolarità rispetto alla letteratura; e casi limite, come quello del fan Mark D.
Chapman che assassinò John Lennon
nel 1980, è improbabile che si verifichino fra gli appassionati dei libri, che restano ancora figli di un dio minore. Tuttavia i meccanismi psicologici, come la
proiezione sul divo delle proprie aspirazioni frustrate, il fanatismo isterico e la
spirale amore-odio-aggressività, alimentata dall’esasperazione della sua
assenza fisica da un lato e dall’ossessiva presenza mediatica dall’altro, sono i
medesimi anche in letteratura.
Misery, il romanzo di Stephen King
da cui fu tratto il film con James Caan
e Kathy Bates, è una formidabile parabola sul rapporto fra autore e lettore,
analizzato proprio nelle sue ossimoriche componenti di amore e odio. In
maniera meno truculenta di King ma
con anticipo notevole sui tempi, pure
Mankiewicz aveva illustrato lo stesso
tema nel film Eva contro Eva. L’am-
S
diffusa la convinzione che la
nostra società sia una società
violenta e che la letteratura noir
in tutte le sue varianti, fino all’estremo
del polar, sia il genere letterario che
meglio la rappresenti; ne sia insomma
la rielaborazione artistica più adatta.
Non sono del tutto convinta della veridicità di questa affermazione. Penso
che la Londra in cui viveva Shakespeare fosse una città più violenta,
una città in cui si poteva incontrare la
morte con maggior facilità che nelle
nostre metropoli. La violenza è sempre stata presente nella storia umana in
varie forme e indubbiamente il passato prossimo e il passato remoto non ne
sono affatto esenti. Ma potremmo riflettere sul fenomeno davvero inusuale nella storia umana, e che ha un suo
antecedente solo nella pax romana del
II sec d. C., di un periodo abbastanza
lungo non attraversato direttamente
da guerre, almeno in questo lembo di
mondo.
Le ultime generazioni del mondo occidentale sono state eccezionalmente
favorite dalla sorte. Chi non ha esperimentato una guerra, e io per prima
perché appartengo a una di queste generazioni fortunate, sa poco di cosa significhi vivere nella costante paura di
morire. Per queste generazioni la
guerra è un evento visto alla televisione, qualcosa contro cui manifestare,
una generica preoccupazione per le
sorti del mondo. Non carne e sangue.
Certo, le guerre in Bosnia si sono svol-
È
S tilos
Una pubblicazione
Domenico Sanfilippo Editore
Nella illustrazione tempera su carta di Paolo
Beneforti: "Scrittore" (1999)
AUTORI E AMMIRATORI . Il mito di Diana e Atteone applicato al rapporto
«insano» tra chi scrive e chi legge: la voracità e il desiderio possono
ritorcersi contro. E la parabola di Elizabeth Costello di Coetzee: la
devozione come forma di possessione fisica. Ma lo scrittore che gioco fa?
Sindrome idolatrica
l’autore è una divinità
VIVE A MONZA. COLLABORA
PER "LIBERAZIONE" E RIVISTE ON LINE QUALI "NAZIONE
INDIANA", "LA FRUSTA",
"CAFFÈ EUROPA"
SERGIO GARUFI
biente trattato era questa volta il teatro,
e Bette Davis, l’interprete principale
della pellicola, si mostrava consapevole del fatto che per gli appassionati
del genere il teatro era un tempio e i
grandi attori le loro divinità. Ma le
capziose strategie adulatorie di un’anonima ammiratrice facevano ugualmente breccia nella sua iniziale sospettosità, finendo per palesare il reale intento dell’ambiziosa arrampicatrice, ossia quello di scalzarla dal piedistallo. La chiusa speculare, inoltre,
suggeriva come del medesimo tranello possa essere vittima anche chi ne
era stato a sua volta artefice.
Quando era una semplice lettrice, Eli-
zabeth Costello desiderava essere
molto attraente «perché agognava il
contatto col dio» Robert Duncan,
aspirava a «colmare il vuoto che separa i due diversi ordini dell’essere». La
devozione è quindi anche una forma
di possessione fisica. Sempre nel libro
di Coetzee si cita a questo proposito il
film Frances (ispirato alla biografia di
Frances Farmer), in cui Jessica Lange
interpreta la parte di una diva di Hollywood che, ancora giovane e bella,
per un esaurimento nervoso viene internata in manicomio e lobotomizzata.
Gli infermieri, cioè proprio coloro che
dovevano prendersi cura di lei, approfittando dello stato vegetativo la
violentano a turno, e uno di questi afferma trionfante «voglio proprio scoparmi una star del cinema!»; esplicitando così l’orrido rovescio dell’idolatria: il risentimento omicida. In questo
senso, oltre alla finzione esistono pure aneddoti storici significativi, come
quello su Santa Elisabetta d’Ungheria.
Divenuta presto vedova del re Ludovico IV, Elisabetta donò ogni suo avere ed entrò nell’ordine francescano, da
allora in poi vivendo in assoluta povertà e prestando assistenza ai bisognosi e agli infermi. Agonizzante ma
già in odore di santità, alla sua morte,
avvenuta nel 1231, la cattedrale di
Marburgo fu invasa da una folla di devoti esaltati che lottarono fra loro come furie e la spolparono per accaparrarsi una sua reliquia.
Tornando alla letteratura e alle piccole divinità che popolano il provinciale olimpo italiano, un certo interesse
ha destato un recente e pruriginoso
articolo di Langone apparso su "Il
Giornale". Intitolato "La maledizione
del lettore maniaco", il pezzo raccoglieva diverse confidenze sul tema
mostrando il dietro le quinte dei rapporti fra scrittori nostrani e fan psicopatici. Si va dalla lettrice di Giuseppe
Montesano che, durante una presentazione del libro, prese il microfono e lo
LETTERE E SOCIETÀ. Il thriller come specchio dei nostri incubi
Ma noir significa violenza?
VIVE A TRIESTE. HA PUBBLICATO
RACCOLTE DI RACCONTI E UN ROMANZO
"IL
CIELO SULLA
PRO-
VENZA" (CAMPANOTTO 2004)
MARINA TOROSSI TEVINI
te proprio alle nostre porte, qualcuno
di noi le ha viste e raccontate in diretta, la guerra in Iraq fa paura per le conseguenze incalcolabili che ne possono
derivare, così anche i conflitti israelopalestinesi, il terrorismo semina minacce che insidiano i nostri sonni, ma
tutto questo, pur nella sua inquietante
presenza, mi sembra di minor impatto
che la certezza di ritrovarsi sulla testa
l’aviazione che sgancia bombe colpendo in prevalenza civili come è appena avvenuto in Libano e in Galilea.
Gli episodi di violenza e di follia che
sentiamo alla televisione, pur nella loro frequenza, mi sembra non siano
sufficientemente numerosi per poter
giudicare la nostra una società più
violenta delle altre che ci hanno preceduto in Occidente. Si dovrebbe anche
considerare che una parte abbastanza
consistente di questa violenza è indotta dalla mancanza stessa di guerre,
naturale collettore della violenza uma-
Direttore responsabile
Mario Ciancio Sanfilippo
Coordinatore
Gianni Bonina
Anno VIII, n. 16
Martedì 1 agosto 2006
na. La cattiva coscienza dell’Occidente e la consapevolezza che la sua
storia è irrimediabilmente macchiata
dal sangue delle vittime di due guerre
mondiali e dell’olocausto ci rende forse più sensibili di fronte alla parola
«guerra», ma non la neutralizza. Gli
ultimi decenni hanno visto affermarsi
in Occidente un pacifismo spesso abbastanza retorico, che peraltro non ha
posto fine alle guerre che imperversano in gran parte del mondo.
In generale la guerra dall’Occidente è
stata esportata. Salvo poi strapparsi i
capelli e piangere sulla sventura dei
popoli che ne sono coinvolti. La natura umana purtroppo non è una natura
pacifica. E la storia non è storia di pace. Come scriveva Montale, «la storia
non si snoda / come una catena / di
anelli ininterrotta. / In ogni caso / molti anelli non tengono. / La storia / non
contiene / il prima e il dopo. / Niente
che in lei borbotti a fuoco lento /… La
storia non è magistra / di niente che ci
riguardi. / Accorgersene non serve / a
farla più vera e più giusta».
Comunque sarebbe inesatto affermare che la violenza sia assente dal nostro mondo, direi anzi che abbiamo
tutti la sensazione di una sottile vio-
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lenza che lo percorre dall’interno. L’acuirsi delle differenze sociali, i solchi
sempre più profondi tra regioni fortunate e non, tra le zone ricche e quelle
povere del mondo, e l’accentuarsi delle tensioni intergenerazionali all’interno di una nazione stessa per lo scriteriato modo con cui sono state lasciate proliferare ingiustizie e assurdi
privilegi fanno sì che tutti noi sentiamo palpabile una sensazione di sotterranea tensione e abbiamo la sensazione di star seduti comodi, - oh come comodi!- su una polveriera che da un
giorno all’altro esploderà. La violenza
è quindi nell’aria, ma si tratta di una
violenza implosa, di una violenza che
avvertiamo più a livello inconscio che
cosciente. In questo senso - certo - si
potrebbe anche accogliere l’idea che il
thriller sia lo specchio dei nostri incubi e della nostra cattiva coscienza.
Ma forse non è così, forse la letteratura noir, così intrisa di sangue e di delitti, non ci rispecchia profondamente,
ma rispecchia paradossalmente l’aspetto ludico e annoiato della nostra
società.
Indubbiamente nella giungla c’erano
più emozioni. Nelle nostre giungle
metropolitane l’esistenza dell’anima-
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accusò di aver recluso in manicomio
un personaggio che lei pretendeva di
incarnare; all’ammiratrice di Alberto
Bevilacqua, che lo assilla da dieci anni inviandogli lunghe lettere con cadenza settimanale senza mai ricevere
risposta; fino al caso clinico del tale
che contattò Tullio Avoledo presentandosi come l’Anticristo, e imputando al narratore friulano di aver saccheggiato la sua biografia personale
per redigere L’elenco telefonico di
Atlantide.
Langone cita inoltre esempi di incontri sessuali a cui un giovane scrittore di
grande notorietà non si sottrasse, con
il prevedibile strascico di minacce e
insulti pubblici da parte dell’ammiratrice inferocita per essere stata prontamente liquidata dopo la consumazione. Dal che si ricava che i reading, gli
incontri ai festival letterari e le presentazioni di libri non sono altro che una
sottile forma di tortura, un ricatto, la
consumazione di una vendetta. La
presenza fisica dell’autore esorbita
qualunque decenza, è una kenosi intollerabile; altro che ierofania. L’unica relazione possibile fra scrittore e
lettore è quella platonica.
Il mito di riferimento di queste vicende sembra dunque quello di Diana e
Atteone, in cui viene ribadita l’impossibilità di «colmare il vuoto che separa i due diversi ordini dell’essere».
Nella versione narrata da Ovidio nelle
Metamorfosi (e illustrata dal Parmigianino negli splendidi affreschi di
Fontanellato), il figlio di Aristeo, durante una battuta di caccia in compagnia dei suoi cani, scorse la dea mentre faceva il bagno nuda a una fonte.
Diana allora lo punì trasformandolo in
cervo e facendolo sbranare dai suoi
stessi cani. La voracità dello sguardo
di Atteone, che non rispetta l’intimità
dell’altro, trova qui una risposta simmetrica nella voracità dei cani. In pratica, Atteone è divorato dal suo stesso
desiderio. Ma se scrivere (nel senso di
pubblicare e diventare personaggi
pubblici) significa darsi in pasto, bisogna pur ammettere che sovente l’improvvido contatto è incoraggiato proprio dagli autori; forse desiderosi di
incontrare il loro lettore ideale (cioè
colui che intenda al volo ogni impercettibile ammiccamento del testo), o
forse solo bisognosi di conferme sul
loro valore.
Non si spiegherebbe altrimenti la decisione di molti scrittori (come Andrea
G. Pinketts, Emanuele Trevi e Matteo
B. Bianchi) di inserire nei loro libri i
propri numeri di cellulare o indirizzi email. Insomma, viene il sospetto che
l’ignara e pudica Diana in realtà provochi scientemente. Scelta più che legittima, e per certi versi perfino encomiabile; basta che poi non vada a lamentarsi da Langone.
le uomo è meno inquietante. Il bus che
ci porta al lavoro con ogni probabilità
raggiungerà la fermata prescelta senza schiantarsi, i colleghi saranno subdolamente pericolosi ma indubbiamente non in grado di mettere a repentaglio la nostra esistenza, le file interminabili negli uffici metteranno a dura prova la nostra pazienza e il nostro
umore, ma non ci regaleranno altro
che piedi doloranti e arrabbiature, le
quotidiane routinarie incombenze ci
costringeranno a devolvere molte ore
alla ripetitività, ma non ci daranno
che scarse scosse di adrenalina. La
giornata per molti di noi trascorrerà
senza che il cuore abbia significativamente accelerato i suoi battiti. L’abitante delle giungle metropolitane cerca allora qualche succedaneo che lo
stimoli, magari senza fargli correre
troppi rischi, perché fondamentalmente è un pauroso.
Jeffery Deaver, uno dei più noti scrittori di thriller, ha affermato in un’intervista che l’uomo di oggi predilige la
letteratura noir perché ha bisogno di
emozioni. La lettura di un buon thriller è un po’ come la ruota di un luna
park o una corsa sulle montagne russe.
Chi ci va non vuole certo cadere ma
soltanto provare il brivido che quella
paura artificiale gli procura. Viene
spesso da pensare a quanto sia artificiosa la nostra vita e a quanto poco
corrisponda ai nostri bisogni autentici.
Speriamo che nessuno ci regali una vita più vera.
Ai lettori
Il 15 agosto Stilos non
sarà in edicola
Le pubblicazioni riprenderanno con il numero del
29 agosto
S t los
autori
italiani
FRANCESCO RIGATELLI
agdi Allam ha dietro
gli occhiali tondi tartarugati lo sguardo
scaltro del raffinato
egiziano. Il vice direttore ad personam del "Corriere della Sera", come racconta nel suo nuovo
libro Io amo l’Italia. Ma gli italiani la
amano?, ha fatto della sua provenienza mediorientale un privilegio, scegliendo di trasferirsi dal natio Egitto
come mediatore culturale con l’Occidente. «Da piccolo vedevo l’Italia come patria ideale di valori positivi. Poi
il paese è cambiato e soprattutto è mutata la situazione mondiale. Ora c’è
molto da fare e la classe politica non
pare decisa».
Allam invece è molto deciso. E a trovarselo di fronte pare che il suo pensiero sia frutto di lungo dissidio, non il
caso di un momento. Questo gli ha
portato molti nemici (ha quattro carabinieri di scorta), numerose critiche e
il sospetto di essere un uomo dei servizi segreti di mezzo mondo. Con lui,
che pure d’estate non ha lasciato nell’armadio il completo grigio anche se
lo indossa sopra una polo blu, si sfiora anche l’attualità della caldissima
situazione mediorientale. Per chi ha
trascorso in Israele giorni felici, affrontare questi temi significa essere dispiaciuti e disillusi. Una vista di Gerusalemme antica dal Monte degli ulivi,
le belle sere di mezza stagione nella
terra di tutti i paesaggi, dove si trovano il verde più verde, quattro mari, i
deserti del Negev e dell’Aravà, sono
un grande ricordo macchiato.
Per Allam quella che ci manca è una
cultura della vita. Pensarla come lui significa riconoscere il diritto di Israele
all’esistenza senza se e senza ma; essere favorevoli ad una soluzione basata sullo Stato palestinese che conviva
al fianco di Israele pacificamente e
nel rispetto delle reciproche esigenze
di sicurezza; denunciare e condannare il terrorismo e la cultura dell’odio,
della violenza e della morte che lo
alimenta. Per lui «i musulmani sono al
contempo i carnefici e la maggioranza delle vittime. Il terrorismo islamico
è il principale nemico dei palestinesi,
dei popoli musulmani e dell’umanità.
È un terrorismo aggressivo, non reattivo, perché dobbiamo partire dalla
realtà dei burattinai non dei burattini,
e che quindi il terrorismo non sia mai
giustificabile». Per lui «non si può
mettere sullo stesso piano l’attentato
terroristico di chi massacra perché disconosce il diritto altrui a vivere, con
la rappresaglia militare di chi si difende dal terrorismo». Allam non contesta «coloro che portano la barba lunga
e indossano la tunica bianca per il fatto in sé, ci mancherebbe. Il problema
si pone quando un certo modo di vestire, di ragionare e di comportarsi
mira ad affermare un’identità islamica contrapposta all’identità italiana,
con le sue proprie leggi, scuole, banche, comunità ghettizzate, insomma
uno stato teocratico all’interno dello
stato di diritto. È quello che si è verificato in Gran Bretagna e che è sfociato nel 7 luglio. Lì i predicatori d’odio
erano arrivati a legittimare la presenza di un loro "esercito di combattenti
islamici" che si addestrava alla Jihad
alla periferia di Londra e che ne ha inviato a centinaia in Afghanistan, Balcani, Israele e Iraq. Tutto questo è una
realtà che non concerne un gruppuscolo di terroristi isolati, bensì l’attività di migliaia di musulmani che in
Gran Bretagna dispongono di moschee, scuole, banche, tribunali islamici. Bisogna partire dal rispetto dalla salvaguardia del bene dell’Italia,
nella consapevolezza che esso coincida con il bene di tutti coloro che scelgono l’Italia come patria d’adozione e
hanno a cuore l’interesse dell’Italia.
Dobbiamo partire da una certezza per
approdare a una certezza. La nostra
certezza sono le leggi, i valori e l’identità nazionale italiana. Che vanno certamente rispolverati e fatti propri in
primo luogo dagli stessi italiani». Stilos ha intervistato Allam.
Come ha conciliato la vita privata
con quanto fa pubblicamente?
L’autobiografia è uno strumento che
ho ritenuto di usare come quando si
entra in casa d’altri: è buona norma
condividere regole e valori. Così ho
trovato uno stile narrativo aperto per
presentarmi come sono e rendere il lavoro più penetrante. C’è stato un processo interiore che mi ha portato a
scrivere questo libro, racconto di una
vita e proposta costruttiva piena di soluzioni. L’Italia del 1972, quando arrivai qui, non era quella di oggi. Allora
c’erano 40 mila immigrati. Oggi 3
milioni di regolari e 700 mila irregolari. Anche il mondo attorno era diverso.
Ma quell’Italia era adeguata ad af-
M
Nella foto Magdi Allam, autore per Mondadori
di Io amo l’Italia. Ma gli italiani la amano?
MAGDI ALLAM . «Quando arrivai c’erano 40 mila stranieri, oggi sono
quasi 4 milioni. Il modello multiculturale è fallito dappertutto. L’Islam
suscita malintesi. L’incontro tra pregiudizio basato sull’ignoranza e
luogo comune basato sull’ideologismo genera le peggiori situazioni»
IL LIBRO
MAGDI ALLAM
"Io amo l’Italia.
Ma gli italiani
la amano?"
pp. 310, euro 17
Mondadori, 2006
Questo bel paese
ha due facce diverse
Un’autobiografia e insieme un
rapporto sull’Italia, paese nel
quale è bello vivere perché ha
un sistema di valori «giusti»
ma che poco fa per combattere
il montante fondamentalismo
islamico che trova spazio anche nel nostro Paese in maniera strisciante.
Immigrazione, l’Italia
non sa gestire la sfida
frontare le sfide di allora, mentre quella di oggi non lo è. Sia, al tempo della
globalizzazione, economicamente sia
a livello di sicurezza.
Le politiche di integrazione sono alla fine dell’agenda politica italiana.
Tutt’altro si è fatto in Inghilterra.
Ma dopo l’attentato terroristico il
sistema multiculturale londinese è
considerato sorpassato. Come quello inclusivo francese dopo le rivolte
nelle periferie. Che strada per il futuro?
Bisogna imparare dagli errori commessi da chi ci ha preceduto sul piano
dell’accoglienza. Il modello multiculturale è considerato sostanzialmente
fallito in Inghilterra come negli Stati
Uniti e nel Canada. Ma anche quello
francese che tendeva ad assorbire tutto in un’unica cultura ha segnato il suo
tempo. Ora bisogna trovare una cornice culturale unitaria e allo stesso tempo, lateralmente, garantire un certo
pluralismo. E il ruolo della Chiesa e
della religione cattolica dev’essere un
riferimento valoriale che esprima la
tradizione della società italiana. L’islam riconosce il mistero della verginità di Maria. Non riconosce invece la
figura divina di Gesù, lo considera un
profeta non Dio. E per i musulmani
Gesù non sarebbe morto in croce. Certamente l’Islam non accetta il dogma
della Trinità e si attiene a un rigido
monoteismo. I teologi e gli intellettuali musulmani liberali propendono comunque per una piena accettazione
dei cristiani e degli ebrei come «Gente del Libro», riconoscendo loro pari
dignità salvifica rispetto ai musulmani. Quelli estremisti invece condannano cristiani e musulmani perché
avrebbero storpiato e oltraggiato la
vera fede in Dio. Inutile aggiungere
che io combatto la visione estremista
e sono impegnato a favorire una civiltà del rispetto, della vita, dell’amore e della pace.
Qual è il pregiudizio più comune
che incontra quando discute di
Islam?
L’idea di un Islam come blocco monolitico che riflette in modo acritico dei
dogmi della fede. Questo va a coincidere con un luogo comune che fa comodo anche agli estremisti islamici
Vittorini
C nuove
A lettere
T
A
L
O
G
O
che vorrebbero musulmani tutti a loro
immagine e somiglianza. L’incontro
tra pregiudizio basato sull’ignoranza e
luogo comune basato sull’ideologismo genera le peggiori situazioni.
Il rispetto che l’Occidente colto ha
verso l’Islam è ricambiato dai musulmani moderati?
Una volta la risposta era sì. Negli anni ’50 e ’60 mia madre musulmana
non ebbe difficoltà a farmi studiare
dalle suore cattoliche. Una volta la
persona primeggiava sull’ideologia.
Ora no, soprattutto nei confronti di
Israele e degli Stati Uniti. Troviamo
persone schierate contro il terrorismo
ma contemporaneamente sono antioccidentali. Colpa di una sbagliata cultura dominante anche tra i moderati.
Quali sono gli interessi specifici dietro al terrorismo? Chi agita le masse usando come instrumentum regni
la religione?
La storia dei burattini e dei burattinai
è fondamentale per capire la situazione. Il terrorismo esiste per causa dei
burattinai, non per i burattini inconsapevoli. Gli Osama Bin Laden che investono nel terrorismo per prendere il
potere in Arabia Saudita, ad esempio.
E organizzazioni come Hamas ed
Hezbollah fanno la stessa cosa: terrorismo per obiettivi di potere.
L’idea che qualcuno lavori per costruire un grande califfato la persuade?
Sì. Osama Bin Laden e i «Fratelli musulmani» mirano a questo obiettivo. E
i secondi lo fanno in modo ancora più
subdolo. Sono convinto che il Wahhabismo, di cui Bin Laden è la manifestazione più schietta e violenta, e i
«Fratelli musulmani» (di cui Hamas è
diramazione in Palestina), i grandi burattinai del terrore e dell’odio, siano in
assoluto il principale pericolo non solo per l’Occidente, ma per l’insieme
dei musulmani. Tuttavia oltre a questi
problemi strutturali ve n’è oggi uno
congiunturale: l’Iran, che costituisce
la minaccia più impellente e seria, dal
momento che il suo regime mira a
dotarsi dell’atomica e a distruggere
Israele.
Iran e Siria. Qual è il loro ruolo?
Utilizzano il terrorismo contro Israele
per distogliere l’attenzione interna-
ELIO VITTORINI
"Lettere 19521955"
pp. XVI-397,
euro 75
Einaudi, 2006
Finalmente riprende la pubblicazione delle lettere vittoriniane, rimasta interrotta da due decenni
al 1951 e uscita in una veste grafica diversa da
quella con la quale si presenta adesso il volume
delle lettere del periodo ’52-55. Proposito di Einaudi è di riproporre anche i volumi precedenti e
di completare l’opera. Nel tomo appena uscito figurano le lettere che riguardano l’età in cui Vittorini si spese maggiormente come editor.
Ragioni
del
discorso
zionale dalle crisi che li concernono e
finirebbero per porli sotto le sanzioni
internazionali. La Siria, che tra l’altro
ospita numerosi leader di gruppi estremisti, è stata costretta a ritirare i suoi
soldati dal Libano dopo l’avvio dell’inchiesta Onu - che la vede seriamente coinvolta - sull’assassinio dell’ex premier libanese Rafic Hariri.
L’Iran di Ahmadinejad invece rappresenta la più seria minaccia attuale alla
sicurezza. La corsa al nucleare e la reiterata volontà di distruggere Israele
danno vita a un binomio che impone
un deciso intervento da parte della comunità internazionale. La minaccia ci
riguarda tutti, visto che in quell’area
giacciono i due terzi delle riserve petrolifere mondiali. Che si debba agire
mi sembra evidente. Non si può mercanteggiare con chi disconosce il diritto alla vita di tutti. E sbagliamo di
grosso se pensassimo che non ci riguarda. Di certo, anche se il mondo intero assumerà un atteggiamento altalenante, Israele non potrà fare a meno
che tutelare il suo diritto ad esistere.
La soluzione migliore sarebbe il rovesciamento del regime dall’interno. C’è
una massa di giovani insoddisfatti e
desiderosi di un cambiamento liberale, gente che vuol vivere dignitosamente e normalmente. Anche per questo il nuovo Hitler iraniano soffia sul
fuoco dell’anti-ebraismo. Senza il nemico esterno, gli diventerebbe arduo
mobilitare il fronte interno. Ma temo
che non sia un’ipotesi realistica nel
breve termine.
A cosa alludeva secondo lei Vladimir Putin quando al G8 di San Pietroburgo ha dichiarato che Israele
nella sua risposta all’offensiva degli sciiti di Hezbollah in aiuto strumentale ai sunniti di Hamas presenti a Gaza mirasse a qualcosa di più
dello sgombero dei confini libanesi?
Non lo so. Ma bisogna chiarire che la
crisi è iniziata il 25 giugno scorso
quando Hezbollah ha attaccato una
postazione israeliana uccidendo due
soldati israeliani e sequestrandone un
terzo. Questa è la successione dei fatti da cui si evince come nasce il ciclo
di violenza. Poi c’è stata la rappresaglia militare. E l’8 luglio scorso un
nuovo attacco di Hezbollah. Bisogna
PAOLA CANTÙ
ITALO TESTA
"Teorie dell’argomentazione"
pp. 187, euro 14
Bruno Mondadori, 2006
Un argomento quale che sia è tanto più valido se
è sostenuto da argomentazioni valide. In altre parole, alla base di ogni discorso e della possibilità
di dargli una forza persuasiva agiscono delle buone «ragioni». Sono proprio le ragioni che i due
autori (entrambi docenti universitari, la Cantù di
Filosofia della scienza a Genova e Testa di Storia
della filosofia a Parma) indagano allo scopo di
fornire nuovi strumenti di tipo sofistico..
insomma spiegare che qui in gioco
c’è il diritto di Israele ad esistere, violato da gruppi terroristici che attaccano senza alcuna giustificazione e come strumento di Siria e Iran il cui
obiettivo dichiarato è far fuori Israele
dalla carta geografica. Purtroppo in
Italia è difficile da capire, ma questa è
la partita in gioco.
Sull’Iraq invece a che punto vede la
situazione?
È un fatto largamente ammesso che
gli americani abbiano commesso degli
errori prima, durante e, soprattutto,
dopo la guerra in Iraq. Ma questi errori, seppur gravi, a mio avviso non inficiano la legittimità sostanziale della
guerra in Iraq, per le stesse ragioni per
cui considerammo legittime le guerre
in Bosnia e in Kosovo pur in assenza
di una risoluzione dell’Onu e senza il
luogo comune sull’interesse petrolifero.
Agli iracheni a cui è stato chiesto se
sia giusta o meno la guerra che li ha
liberati del regime tirannico di Saddam, la maggioranza ha risposto positivamente. Anche se non mancano
le critiche all’operato americano e
anche se si auspica la rapida fine della presenza militare straniera.
Gli iracheni sono più di altri consapevoli del fatto che il terrorismo internazionale islamico ha trasformato il loro
paese nel fronte di prima linea della
sua guerra santa contro l’Occidente e
i musulmani che rifiutano di sottomettersi al suo arbitrio. Questa guerra
del terrorismo è una realtà, piaccia o
meno, con cui dobbiamo fare i conti.
E non nasce certamente dall’attacco
militare americano in Iraq il 20 marzo
2003, così come si può facilmente
evincere dagli attentati dell’11 settembre 2001. Non è certamente insignificante il fatto che, grazie al rovesciamento del regime di Saddam, l’Iraq si stia incamminando seppur faticosamente verso la democrazia. E che
l’esempio iracheno abbia svolto un
ruolo rilevante nella sconfitta dei siriani in Libano, fino a costringerli al ritiro militare per ritrovarsi sul banco degli imputati per l’assassinio dell’ex
premier libanese Hariri. Ugualmente
il vento della democrazia in nuce in
Iraq ha portato effetti benefici per i
paesi arabi del Golfo e del Medio
Oriente, che si sono trovati costretti ad
aprirsi sul piano delle libertà e dei diritti dell’uomo.
Prima abbiamo parlato di laicità
dello stato. Israele è una repubblica
democratica dai grandi esempi per
la sua zona. Pare però che, forse per
la sua posizione alle porte d’Oriente, stato e religione, pur distinti, siano più sovrapposti che nella media
occidentale.
Israele è uno stato laico in cui la dimensione religiosa è presente. L’identità nazionale fa riferimento al concetto di nazione come di religione. È anche uno stato democratico dove in
parlamento sono presenti anche forze
estremiste. Ha un’identità ebraica che
si coniuga in modo laico allo stato. Il
sionismo di fatto è un’idea non religiosa. Sharon quando abbandonò il
sogno della grande Israele, obbligò i
coloni con la forza a lasciare Gaza e la
Cisgiordania (le Giudea e Samarea
bibliche), il che dimostra come l’identità laica di Israele prevalga su
quella religiosa.
Israele ha diritto di difendersi. Ma
pare anche a lei - come per la risoluzione Onu bocciata dal veto Usa e
come notato da Franco Venturini
sul "Corriere della Sera" - che la
democrazia mediorientale abbia
fatto un «uso sproporzionato della
sua forza» in Libano e a Gaza?
In Italia si fa fatica a capire che Israele è seriamente minacciato. Se non
elimina Hezbollah ed Hamas come
organizzazioni terroristiche mette seriamente a repentaglio il suo diritto ad
esistere.
Ma era necessario distruggere il
centro di Beirut, bombardarne l’aeroporto internazionale e bloccare il
traffico aereo, marittimo e terrestre,
isolando completamente il Libano?
Non sono uno stratega militare ma se
l’hanno fatto sarà stato per impedire
che affluissero rafforzi militari dall’Iran per Hezbollah. Se consideriamo i
morti civili e militari, le case e i ponti
distrutti non possiamo che rammaricarci per tutto ciò che è successo. Ma
se vogliamo veramente il bene dei palestinesi e dei libanesi, che gli uni abbiano un loro stato e gli altri vivano sicuri, noi li dobbiamo emancipare dal
terrorismo che nuoce a Israele e anche
a loro. Sembra paradossale ma il governo libanese, l’Egitto, la Giordania
e l’Arabia Saudita hanno condannato
Hezbollah che controlla il Libano del
sud. Mentre il presidente francese
Chirac ha deplorato Israele e l’Italia
tentenna.
pagina
3
S C A F F A L E
GIULIANO DEGO, Seren la
celta, pp. 331, euro 10,20, Bur
2006
Seren, la regina celtica, deve vendicare crudelmente le figlie stuprate e
se stessa, picchiata a sangue: per
questo intreccia la sua esistenza con
quella di Nerone. La sua vendetta
deve essere terrificante. Le vicende
si susseguono tumultuose e sbalorditive per la loro crudezza e per un
amore tormentato. Un evento imprevedibile calmerà la sua sete di
sangue. Il romanzo è ambientato
nella Britannia romana e nella corrotta Roma imperiale. Thriller dalla potenza diabolica, rende merito
alle qualità di Dego.
PAOLO PORTOGHESI, Leggere e capire l’architettura, pp.
442, euro 9,90, Newton Compton 2006
Questi saggi sono stati scritti nell’arco di cinquant’anni con testi diversi ma uniti da un unico tema,
l’architettura: una conoscenza che
può migliorare o peggiorare la qualità del nostro modo di essere e della nostra vita. Diventa importante
non solo per gli esperti ma per tutta
l’umanità avere dimistichezza e conoscenza di città e paesi per favorire un dialogo culturale politico e
sociale tra le generazioni.
GIUSEPPE PEDIALI, Camilla
e i vizi apparenti, pp. 246, euro
8,00, Garzanti 2006
Fosca è nell’età difficile di una tredicenne e di lei si deve occupare
Camilla, una poliziotta conoscente
di Carlo Merighi che non riesce a
far fronte alla figlia scontrosa ed
imprevedibile. Ma forse il problema della ragazza è la bella mamma.
Il soggiorno nella ricca villa di famiglia darà una svolta «nera» al
rapporto. Camilla allora userà la
sua arguzia ed il suo intuito femminile più sottile di quello maschile.
FEDERICA DE PAOLIS, Lasciami andare, pp. 204, euro 14,
Fazi 2006
Nicola ha tutto, un lavoro di antiquario, una moglie amorevole ed
efficente, ma tuttavia la sua tranquillità viene turbata dalla morte
per droga del fratello Paolo. Perde
la pace ed il suo equilibrio. Con
l’anima inaridita conosce Giulia,
capricciosa ed inquieta e, nonostante ciò lui vorrebbe annullare tutto il
suo passato sparendo. Gironzola
senza meta e nella sua mente rimbomba come un grido unìinvocazione: «Lasciami andare». Romanzo su una generazione che nonostante la giovane età non spera più.
MANLIO CANCOGNI, Caro
Tonino, Jacopo Cappuccio (cura), pp. 63, euro10, Diabasis
2006
Cancogni racconta la tragica alluvione che distrusse la Versilia il 19
giugno di dieci anni addietro. La
gente nel panico esplose assieme alla terra. Cardoso divenne una trappola per i tre torrenti che vi confluivano. Cancogni, fissando nella sua
memoria lo stato d’animo, i sentimenti e la paura della sua terra
scrisse il racconto sotto forma di
lettera inviandola al fondatore di
Italia Nostra, Antonio Cederna.
Non fa una cronistoria ma racconta
la storia individuale e collettiva che
oscilla tra la gioia dei ricordi e la disperazione. Cancogni ha pubblicato molti racconti e dopo la guerra si
dedicò al giornalismo per poi ritornare alla letteratura nel 1956.
ETTORE RANDAZZO, La giustizia nonostante, pp. 117, euro
12, Pendragon 2006
«Io sono l’avvovato che con l’inconsueto ed impacciato disagio
chiedo al mio cliente l’acconto
mentre nella mia mente si profila la
strategia per la sua linea difensiva.
Alla mia richiesta, con la faccia corrucciata, l’imputato mi rivolge la fatidica domanda: "Ma almeno avremo giustizia?" Poi tace ma so che
mi direbbe: "Vuoi subito l’onorario
tu che in questo guazzabbuglio hai
le mani in pasta e ti nutri di quel sistema giudiziario che mi ha coinvolto ingiustamente?"». La giornata tipica dell’avvocato e del suo
cliente fino alla sentenza. Randazzo, penalista, si diverte e diverte
descrivendo il mondo giudiziario.
4
a passione per il teatro di
Dacia Marini è dimostrata
dal suo ultimo libro I giorni di Antigone, una raccolta di articoli pubblicati sul
"Corriere della sera" e su "Io Donna"
nell’arco di cinque anni. È il personaggio di Sofocle a dare l’imprinting al
senso di queste riflessioni dove la Maraini testimonia il nostro tempo con
rinnovata tensione e pacato equilibrio.
Il coraggio di Antigone eletto come
chiave per cambiare una società che
sta declinando le sue scelte nel nome
della violenza e dell’irragionevolezza.
Stilos ha intervistato l’autrice.
Nelle sue lettere e articoli si riconoscono alcuni temi che le sono cari: la
politica, l’amore per la natura, la difesa dei diritti delle donne, la condanna della violenza, il mondo della scuola. E nel riflettere sulle grandi questioni dell’umanità, lei incarna il ruolo dello scrittore come lo ha
definito la sudafricana Nadine Gordimer: ovvero «testimone del suo
tempo e della sua cultura». Come
vive nel suo quotidiano di donna le
responsabilità di questa dimensione di testimone?
Penso anch’io come Nadine Gordimer
che lo scrittore sia un testimone del
suo tempo . Ma non perché abbia una
intelligenza o una sensibilità superiore agli altri, bensì solo perché possiede le «parole per dirlo».
Günter Grass ha detto: «La scrittura e la vita mi hanno insegnato che
non posso scegliere liberamente i
miei soggetti. Per la maggior parte
mi sono assegnati dalla storia». Si
identifica con l’immagine dello
scrittore il cui destino si presenta in
termini politici, per dirla con Thomas Mann?
Sono d’accordo che i soggetti di un romanzo non si scelgono, perché sono
loro che scelgono noi. Non parlerei
però di storia ma, proprio rimanendo
nell’idea della testimonianza, per me
sono i personaggi che vengono a chiedere di essere raccontati. Sono più vicina a Pirandello che a Thomas Mann.
L’idea dello scrittore demiurgo che
sta al di sopra delle cose come un piccolo dio onnisciente e decide in astratto gli argomenti che vuole trattare mi
pare presuntuosa e irreale. Lo scrittore deve avere l’umiltà di ascoltare i
suoi personaggi e raccontare le loro
storie cercando di capirli prima di giudicarli.
Lei scrive di una televisione che ha
deviato lo sguardo dalla realtà, e ha
addirittura «inventato un Paese di
divi e di mistificazioni che non corrisponde assolutamente alla realtà».
Eppure la televisione è diventata il
punto di riferimento di adulti e
bambini viziando la loro capacità di
percepire la realtà di esprimere un
senso critico. La televisione viene
usata sempre più come una educatrice. Non crede che alla base di questo ci sia il decadimento del valore
della famiglia, una famiglia senza
tempo, senza dialogo, senza spazi in
cui condividere le esperienze, dove
sfuggono di vista le vere priorità?
Non c’è dubbio che la famiglia è in
grave crisi. Alla vecchia famiglia patriarcale non è stata trovata una sostituzione. Ci si limita ad arrangiarsi con
nuove forme di convivenza allargata.
I matrimoni doppi, tripli, quadrupli
ormai sono una consuetudine, ma non
si sono elaborati dei valori da sostituire a quelli vecchi della famiglia piramidale basata sul capo maschio con
sotto la moglie e i figli. Nuovi modi di
vivere la famiglia non possono essere
L
S t los
IL LIBRO
DACIA MARAINI
"I giorni di Antigone"
pp. 204, euro 15
Rizzoli, 2006
Gli «scritti civili»
usciti sulla stampa
La tutela della condizione della donna, e con essa la sua definitiva emancipazione nel mondo dove soffre ancora la subalternità, può avere riferimenti e
legami con la salvaguardia
della natura, anch’essa violentata. La scrittrice abruzzese
raccoglie in questo volume gli
articoli che sul "Corriere della
sera" e "Io Donna" sono usciti
investendo questi due temi,
forse i più sentiti nella sua sfera d’impegno civile e politico e
certamente tra i i più ricorrenti nel complesso della sua opera.
DACIA MARAINI . Antigone assurta a simbolo della reazione non violenta
del genere femminile: «Mi è sempre piaciuto in lei la capacità di
disobbedire senza usare l’aggressività e la violenza. Antigone non getta
bombe, non usa il coltello o la spada. A me piace questo: essere coraggiosi»
La donna e la natura
impegno su due fronti
VIVE A LERICI (SPEZIA), AUTRICE DI LIBRI PER RAGAZZI, POESIA
E TEATRO. SVOLGE ATTIVITÀ DI
MEDIATRICE INTERCULTURALE
VALENTINA ACAVA MMAKA
lasciati al caso, alle iniziative delle
coppie che poi sfociano in conflitti
terribili senza una elaborazione approfondita di tutta la collettività. E mi
pare che questo manchi. La chiesa
non aiuta, perché invece di riconoscere la realtà, la nega. Le istituzioni
politiche vivono di incertezze e paure.
I grandi mezzi di comunicazione poi o
rappresentano una stupida e assolutamente falsa «gioia di vivere» che in
realtà si trasforma in gioia di vendere
e di comprare, oppure si dedicano al
rimpianto del passato nelle forme più
retrive. Manca la voglia di costruire un
nuovo tipo di famiglia, con tutte le sue
contraddizioni e le sue difficoltà, ma
lontana cento miglia da quella patriarcale, una famiglia dove entri anche
l’omosessualità, dove entri la convivenza fra figli di padri e madri diverse, la convivenza pacifica e rispettosa
di amori vecchi e nuovi.
La natura è sua amica, lo si legge
nelle sue lettere, nei suoi articoli, ma
traspare anche dai suoi testi. Ricorda un episodio della sua vita in cui la
presenza di un animale (o un incon-
tro) o di un albero ha modificato
una sua scelta o l’ha aiutata a prenderne una?
Non posso raccontare un episodio preciso perché sia gli animali con cui ho
convissuto (cani, gatti, uccellini - ma
non in gabbia -, cavalli, un anatroccolo, una capretta) che le piante che ho
curato e che contemplo nel loro nascere, mi sono necessari e hanno accompagnato tutte le giornate della mia vita. In questi giorni sono in ammirazione di fronte ad un nocciolo di avocado
che ho infilato in un barattolo di vetro
tre mesi fa e ora sta mettendo le radici e che vedo crescere in trasparenza
nell’acqua. Una meraviglia. D’altronde il mio ultimo romanzo Colomba
credo che dimostri con evidenza il
mio interesse, la mia passione per tutto ciò che è natura, pur non nascondendomi le insidie, i pericoli, le minacce che a volte la natura nasconde.
Non sempre la natura è amica dell’uomo. Spessissimo però, sempre più
spesso, la natura diventa nemica dopo
che l’uomo l’ha inquinata, devastata,
rovinata e calpestata, come stiamo vedendo con gli incendi di foreste che
provocano rovinose valanghe, con
l’imbrigliamento e la cementificazione dei fiumi che provocano catastrofici allagamenti e inondazioni o anche il
riscaldamento dell’atmosfera che fa
sciogliere i ghiacciai.
Lei parla di una cultura della pace
possibile identificando nella presa
er comprendere la potenza di- ROBERTO SAVIANO. Una storia dal vero della
rompente di questa biografia
non autorizzata dell’ultimo ventennio della camorra il lettore deve
costantemente tenere presente che i
fatti, le persone e le storie raccontate
sono assolutamente reali. Saviano diquelle persone. Partendo da tracce immostra pagina dopo pagina il coraggio
di filtrare questo allucinante universo
VIVE AD AFRAGOLA. INSEGNA percettibili, si affida completamente al
suo intuito per riuscire a ricostruire il
attraverso il suo sguardo, sempre atMATERIE LETTERARIE NELLE
funzionamento degli ingranaggi che
tento a entrare nelle pieghe profonde
SCUOLE MEDIE. COLLABORA
fanno muovere, con inattaccabile predi una realtà che i più ignorano e che
CON "IL DIARIO" E "PULP"
cisione, la complessa organizzazione
gli altri non vogliono vedere. Per far
criminale, da lui definita Sistema.
questo decide di diventare la voce narGIUSEPPE RONCIONI
«Camorra è un termine inesistente,
rante del suo libro, mettendo in gioco
da sbirro.[…] Il termine con sui si dese stesso, i propri pensieri, la propria
vita, per dare il via al suo "viaggio nel- Si nasconde la faccia tra le mani, per finiscono gli appartenenti a un clan è
l’impero economico e nel sogno di cancellare quella scena che gli si è Sistema. […] Un termine eloquente,
dominio della camorra". L’inizio è crudelmente inchiodata nel cervello. Il un meccanismo piuttosto che una
protagonista resta struttura. L’organizzazione criminale
bruciante. Corpi
fermo e ascolta, coincide direttamente con l’economorti che cadono
R e c e n s i o n i lìtrattenendo
nello mia, la dialettica commerciale è l’osda un container
stomaco il disgu- satura del clan». Bastano pochi colpi
sospeso nell’aria.
ROBERTO SAVIANO
sto. Non si accon- per sbriciolare i rassicuranti luoghi
«Sembravano ma"Gomorra"
tenta del terribile comuni, abituati a liquidare la canichini. Ma a terra
pp. 331, euro 15,50
aneddoto. Vuole morra come fenomeno criminale cirle teste si spaccaMondadori, 2006
capire chi sia il bu- coscritto alla Campania, la cui sovano come fossero
rattinaio che muo- pravvivenza è garantita dallo stato di
crani veri. Ed erano crani». È un addetto alle gru, im- ve i fili di quella faccenda. Inizia ad in- barbarie in cui vive una parte della
piegato nel porto di Napoli, che parla. dagare, per capire dove erano dirette popolazione degna del quarto mondo.
P
di coscienza il raggiungimento della meta. Purtuttavia sembra una
meta lontana. Al di là delle istituzioni, quali sono i soggetti maggiormente impegnati nel contribuire
prima di tutto al «disarmo culturale» necessario per instaurare una
cultura del dialogo e della pace?
Quale peso può avere uno scrittore
in tal senso?
Secondo me la più grande ricchezza
del nostro paese in questo momento
sono i volontari: gente che in tutta l’Italia si rimbocca le maniche e si mette al servizio dei più poveri, dei malati, degli esclusi. E lo fanno gratuitamente. Di loro si parla pochissimo,
mentre si parla in continuazione di
stupidi fenomeni televisivi. È una
aberrazione. Senza i volontari il nostro
paese sarebbe umanamente e culturalmente molto più povero. In quanto
agli scrittori, non tutti hanno questa
coscienza sociale. Ma ce ne sono parecchi che prendono posizione per la
pace e io sono con loro.
Lei riconosce alle donne del Sud del
mondo una forte potenzialità futura nella promozione di una cultura
della pace. Come immagina si incontreranno la donna occidentale
fedele al suo stereotipo e la donna
africana o indiana del futuro?
Le donne occidentali hanno guadagnato molti diritti e qualche volta non
ricordano più le fatiche che sono state fatte dalle loro nonne per ottenere
camorra
Testimonianza sul sistema
Distorsioni che diventano un comodo
cuscino per lo stesso sistema, che negli anni, colpa anche del colpevole silenzio delle Istituzioni, ha esteso su
scala mondiale il giro dei propri affari. Un’organizzazione che diventa la
rappresentazione deleteria del capitalismo spinto alla deriva, dove tutto, le
cose, le persone, la natura, gli scarti di
questa società, diventano merce su
cui speculare. Saviano non annacqua
mai le immagini che descrive. Resta
coerente con la sua intenzione di descrivere quello che vede senza mediazioni. Un’attenzione costante alle parole, mai sprecate o malate di facile
sensazionalismo, ai dettagli minimi,
ma decisivi per rendere quanto più
possibile evidente la complessità del
sistema, all’interno del quale il protagonista continua a spostarsi, imponendo alla sua vespa delle sghembe
traiettorie, per non restare soffocato
Nella foto Dacia Maraini, che da Rizzoli ha pubblicato
I giorni di Antigone
questi diritti, primo di tutti quello del
voto, che è il risultato di battaglie durissime in cui molte suffragette hanno
perso la salute e la vita. Questo l’abbiamo dimenticato. La parola «suffragetta» oggi fa quasi ridere e le giovani non sanno quasi nulla su cosa è
stato il fenomeno e quanto sia stato
importante per i diritti di cui oggi godono le donne in occidente. Molte
pensano che i diritti delle donne siano
naturali ed eterni. Non sanno che la
storia può anche tornare indietro, che
i diritti una volta ottenuti bisogna difenderli e proteggerli altrimenti si possono perdere. Non sarebbe la prima
volta che succede. È avvenuto in molti paesi dell’Africa che io conoscevo
bene e in cui le donne avevano una
grande libertà. Con il fondamentalismo religioso questi diritti improvvisamente sono spariti. In molti paesi,
come la Nigeria che pur essendo povero era pieno di vita e di iniziative
d’avanguardia, si è tornati a usanze del
Medio Evo. Nessuno avrebbe mai
pensato che la lapidazione di una adultera potesse tornare realtà nel 2006.
Eppure è così.
Recentemente ha partecipato, insieme con altri 14 scrittori, al sostegno
del Progetto Bajo Flores (Le storie
cambiano la vita, Mavida), donando i diritti di un suo racconto "Fame". Quanto iniziative come questa possono ancora oggi considerarsi «armi di lotta» valide contro l’ignoranza, il superpotere, le ortodossie, l’intolleranza?
Non penso che siano iniziative risolutive, ma qualcosa contano. Non solo
per la raccolta di fondi, ma soprattutto per la creazione e la diffusione di
una sensibilità al tema.
Diversi anni fa alla domanda «se c’è
un libro che non ha ancora scritto
ma che vorrebbe scrivere?», lei rispose che non era ancora riuscita a
parlare dell’esperienza del campo
di concentramento in Giappone.
È vero, il libro sul campo di concentramento aspetta ancora di essere scritto. Sono esperienze tanto dolorose che
non sono ancora riuscita a raccontarle
in pieno. Ma spero di farlo prima che
diventi troppo tardi.
Lei richiama all’urgenza di un gesto
come quello di Antigone, quasi a
simbolo salvifico dell’umanità. Un
invito alla riflessione prima dell’azione, all’ascolto e all’osservazione
prima del giudizio, ovvero ad un
modello di umanità diverso da quello con il quale ci confrontiamo in
modo sempre più diffuso oggi: arrogante, intollerante, egoista.
Quello che mi è sempre piaciuto in
Antigone è la sua capacità di disobbedire senza usare l’aggressività e la
violenza. Antigone non getta bombe,
non usa il coltello o la spada. Antigone seppellisce il corpo morto del fratello perché, come lei dice, la legge
dell’amore dettata dagli dei è più forte di quella della città dettata dal governatore. A me piace questo: essere
coraggiosi, combattere le ingiustizie e
le prepotenze senza usare altre prepotenze, senza fare del male agli innocenti, senza ferire e bruciare, colpire e
uccidere, solo con atti di indignata
pietà. E non si trattava di atti puramente simbolici, perché Antigone sapeva
benissimo di rischiare la vita. Antigone disobbedisce ma senza nuocere ad
una mosca. È questo che mi piace e
vorrei fosse un esempio per tutti coloro che desiderano cambiare il mondo.
La violenza non serve, servono azioni
di esempio, servono gesti quotidiani di
compassione e di amore.
dall’irreversibile puzzo di morte che
gli soffoca il respiro.
Più volte sente sul collo il fiato del pericolo che rischia di interrompere il
suo cammino. Anche se ha paura, non
mostra mai definitivi segni di cedimento. Stringe i denti e tiene sempre
presente in mente l’esempio di Pasolini che aveva messo le mani sul marcio dell’Italia e lo aveva combattuto
con le parole sulle pagine dei giornali. Seguendo la sua scia, il protagonista inizia ad articolare il suo «io so»:
«Io so e ho le prove. Io so come hanno origine le economie e dove prendono l’odore. L’odore dell’affermazione e della vittoria. Io so cosa trasuda il profitto. E la verità della parola
non fa prigionieri perché tutto divora
e di tutto fa prova». Una testimonianza che per lui diventa una necessità
morale. L’unica maniera per dare vera dignità alla sua vita. Alla fine del
viaggio, però, scopre che non ci sono
paradisi da conquistare. Ma soltanto
una devastante angoscia, che gli resta
incollata addosso come una stomachevole gelatina, e lo spinge a gridare «maledetti bastardi, sono ancora
vivo».
Catone
pagina
autori
italiani
ANDREA CARRARO
ONOFRI AL VELENO
Se avete fegato e cervello leggetevi Sensi vietati di Massimo
Onofri. L’autore non ha bisogno
di presentazioni. Parlano per sé
le numerose opere che ha sulle
spalle - due fra tutte: Ingrati
maestri (Theoria), un libro che fu
apprezzato e fece parecchio rumore e La modernità infelice.
Saggi di letteratura siciliana del
Novecento (Avagliano) - oltre alle splendide recensioni di narrativa italiana che settimanalmente, ormai da vari anni, ci regala
sul settimanale "Diario". Onofri
è uno dei critici italiani contemporanei più affidabile, almeno
dal mio punto di vista. Sensi vietati (Gaffi editore) è una raccolta di commenti che il critico ha
scritto per il quotidiano "La Nuova Sardegna", rivelando una parte di sé ancora sconosciuta a noi
suoi affezionati lettori e forse anche a se stesso: commenti sapidi,
perfidi, pieni di buon senso e di
passione razionalista, spesso accesi dall’acre fiamma del sarcasmo e dell’irriverenza: da Moravia a Platinette, dai cantautori ai
politici, dai letterati da salotto televisivo ai poeti, da Sanremo all’inserto "Alias" del "Manifesto",
la lente di Onofri spazia su tutto,
dall’alto al basso, dall’orizzontale al verticale.
Ci vuole fegato per incassare tutte le staffilate che Onofri elargisce a destra e a manca, certo colpendo anche qualche nostro mito. Ci vuole intelligenza perché
Onofri è intelligente e pretende
molto dal suo lettore. In ogni riferimento, alto o basso che sia,
ritrovi sempre la sua penna avvelenata, il suo talento a cogliere
l’inautentico, la patacca, il falso e
a denunciare il conformismo culturale. E senza servitù verso alcuna bandiera. Onofri è un lacissimo individuo, uno che non crede a nessun Dio e detesta il kitsch
spiritualista dilagante nell’arte e
nella letteratura contemporanea.
Egli ha un gusto sicuro, deciso e,
come dicevo, non guarda in faccia a nessuno, ma proprio a nessuno. Sentite come tratta uno dei
miti viventi della nostra Cultura:
«Com’è possibile che una settimana sì, e l’altra pure, "Alias" si
trovi a celebrare uno scrittore come Arbasino, quello senz’altro
più rappresentativo della ciarliera borghesia italiana apparentemente moralista (d’un moralismo che non saassume mai responsabilità e non paga dazio),
ma in realtà penosamente querimoniosa?». E sentite cosa dice di
un altro intoccabile, il «presuntuoso Francesco De Gregori, che
col suo specioso analogismo, le
sue mal registrate metafore, si
crede poeta mentre fa solo cattiva letteratura da spiaggia».
Condividiate o meno le sue posizioni radicali e idiosincratiche,
dovrete rispettarle perché è corretto e culturalmente attendibile
chi le formula e i suoi argomenti non tradiscono mai elusività.
Certe derive midcult di De Gregori, del resto, non si possono
non riconoscere - nei testi - anche se si sono amati alcuni suoi
pezzi come nel mio caso. Insomma, non è necessario essere d’accordo interamente con Onofri
per apprezzare questo encomiabile libro che gronda intelligenza
e passione. Si possono proporre
nobili ascendenze per Sensi vietati - lo Sciascia di Nero su nero
anzitutto, scrittore amatissimo
dall’autore che su di lui ha scritto un paio di libri e perfino il
Barthes di Miti di oggi - ma è già
stato fatto da Filippo La Porta sul
"Corriere della Sera", che ha riconosciuta altresì l’assoluta forza e originalità di questa prova
pamphlettistica di Onofri, apprezzando la «temeraria indifferenza a logiche molto diffuse di
appartenenza e a schieramenti
culturali precostituiti, che nel nostro Paese derivano da una velenosa pervasività della politica».
insieme di testi editi ed
inediti, che compongono l’edizione di Tutte le
poesie, esprime la lunga
fedeltà di Silvio Ramat
al mestiere (e alla vocazione) di poeta. Il libro appartiene a quel tipo di letteratura che si dispone su diversi piani. Può essere letto infatti come resoconto di un destino individuale e collettivo: taccuino che segnala gli spostamenti geografici dell’autore, registra le oscillazioni del suo pensiero nel
sottosuolo della memoria e allinea la
straordinaria campionatura delle fonti letterarie, ricostruisce addirittura
un’esperienza di fede non portata a
maturazione, ma di sezione in sezione
si trasforma anche in un diario della
condizione esistenziale che appartiene
più in generale agli uomini del Novecento, divisi tra il tramonto delle certezze, l’ironia del disincanto e l’illusione di credersi ancora eroi. Passando in rassegna le singole raccolte, non
sfuggono i riferimenti a fatti di cronaca (la guerra in Corea, il Maggio francese, la sciagura ferroviaria BolognaFirenze del 1978), a personaggi storici (Sandro Pertini, Che Guevara, Giorgio La Pira), a canzoni (Ma l’amore
no), perfino a eventi sportivi che hanno segnato la nostra epoca: la tragedia
di Superga, i mondiali di calcio del
1950, la rivalità ciclistica tra Coppi e
Bartali.
Più che fornire all’autore la palma del
poeta civile o del testimone, come forse sarebbe più giusto affermare, la capacità di passare dal livello della scrittura privata (che nutre di memoria familiare sia alcuni componimenti lontani sia il più recente «racconto in versi» Mia madre un secolo) al piano
dell’immaginario comune anche ad
altri individui diventa uno dei tratti di
maggiore originalità del volume, un
elemento in grado di attribuire compattezza strutturale alla ricerca letteraria di Ramat, germinata in un’aura
post-ermetica e rimasta costantemente fedele a un’idea di poesia che, esprimendosi in una cifra ironica, prevede
una interrogazione costante sul senso
etico del vivere.
La città di origine rappresenta il nucleo dove ricondurre ogni filo del destino. Così appare Firenze nei versi
giovanili delle Feste di una città
(1959), pubblicati per le edizioni della rivista fiorentina "Quartiere", in cui
sembra allegoricamente popolata da
maschere e giostre di cavalieri impegnati in tornei. E rimane luogo cruciale anche quando nei componimenti
più maturi si racconta il distacco da essa: un addio che, come Dante, costringe Ramat alla condizione di apolide e
di fuggiasco. Il corpo centrale del libro
segnala in maniera quasi ossessiva le
coordinate di questo viaggio centrifugo, proiettato nella vana ricerca di un
nido dove fermare il volo. E nel simbolico atlante figurano le mappe di
altre realtà urbane: Padova con le sue
ramificazioni tentacolari, Venezia che
viene assimilata a un girasole, e poi
Milano, Torino, Genova, Palermo, Parigi, senza dimenticare le mete del
Nord Europa (Germania, Inghilterra)
e gli sconfinati scenari degli Stati Uniti. Obbedendo a una caratteristica tipicamente novecentesca, Ramat veste i
panni di un Ulisse senza Itaca. La sua
poesia si nutre di questi andirivieni,
che approdano spesso a corsi d’acqua
come già era stato in Ungaretti, e accarezza sottilmente il tema della polis
come ricerca del «luogo felice» o, secondo quanto egli stesso afferma in un
’
L
LINNIO ACCORRONI
Interviste
SILVIO RAMAT
"Tutte le poesie"
pp. 1442, euro 50
Interlinea, 2006
L
SILVIO RAMAT . Raccolte le poesie dell’erratico
cantore fiorentino che ha girato il mondo per
arrivare sempre nella sua città: portandosi
appresso l’etichetta di «poeta esule e sognatore»
Mistica dell’andirivieni
di un Ulisse domestico
VIVE
A
MILANO. INSEGNA
ALLA CATTOLICA. "L’AMERICANO DI CELENNE" (MARSILIO,
2000, PREMIO BERTO E
MONDELLO)
GIUSEPPE LUPO
testo delle 40 poesie (2001), come
tensione a individuare la «forma della
Città Ideale» (Il rombo della Dora).
È chiaro che qui il riferimento va a
Ivrea e all’utopia olivettiana degli anni Cinquanta, ma non sarebbe errato
interpretare il desiderio di segnalare su
carta nomi e architetture di città quale
metodo con cui inseguire un sogno
ambizioso: ricostruire da qualsiasi altra parte del mondo l’immagine di una
Firenze che appartiene ai poeti, agli intellettuali e agli artisti. A quest’idea,
che ha il sapore di una religione laica
ed è resa esplicita in Un secolo in un
sogno («energici o sommessi / mi sfiorano mi oltrepassano in volo / i nomi
persi, i nomi-stemmi che / tra mura come queste furono letteratura / e arte»),
la poesia di Ramat obbedisce anche
quando il dolore personale prende il
sopravvento sulla memoria, nessun
luogo è buono per accasarsi e l’atteggiamento del poeta tende ad assomigliare a quello dell’«esule che sogna»
(Salvataggi). Stilos lo ha intervistato.
Nel suo immaginario poetico quale
ruolo ha avuto e conserva tuttora
Firenze?
Ho vissuto a Firenze fino ai miei quarant’anni, e tra quelle mura ho coltivato le prime - e non solamente le prime
- ambizioni di poeta. Più che nell’«immaginario poetico», il meraviglioso
della mia città consisteva nel potervisi, in un giorno qualunque, imbattere
fisicamente nella poesia: nelle persone, e vorrei dire nei «corpi», di Betocchi e di Bigongiari, di Luzi e di Parronchi… Per soddisfare una analoga
sete di concretezza, di tangibilità, altri
si obbliga a faticosi pellegrinaggi; io
no, bastava uscissi di casa per incontrare facilmente Alfonso Gatto o Leone Traverso… Con una telefonata potevo fissare di lì a mezz’ora un appuntamento: alla "Nazione" con Bilenchi, al «Vieusseux» con Bonsanti, al
«Paszkovski» con Macrì e sodali exermetici... Insomma, in una Firenze
già decaduta sul piano dell’imprenditoria culturale (la crisi irreversibile
della Vallecchi), resistevano però e
dimoravano alcuni miti coriacei, colonne della mia formazione, e non fu
un caso che tra il 1966 e il ’68 io lavorassi a un lungo saggio sull’ermetismo, col quale idealmente coronavo
una mia stagione vitale, dotata di una
splendida mitologia. Firenze ombelico del (mio) mondo. Altra cosa è la
L’ A U T O R E
Oltre venti libri di versi raccolti in uno
Fiorentino di nascita e di formazione, da quasi cinquant’anni Silvio
Ramat costruisce e alimenta un dialogo ininterrotto con la poesia,
costituendosi una posizione di prestigio tra le voci più significative
del nostro tempo che si è espressa in una ventina di libri: da Gli
sproni ardenti (1964) a Corpo e cosmo (1973), da In parola (1977) a
L’inverno delle teorie (1980), da Orto e nido (1987) a Pomerania
(1993), da Numeri primi (1996) a Per more (2000) fino a Mia madre
un secolo (2002), solo per citare i titoli più importanti. Tutte le opere
del vasto repertorio ramatiano sono state ora radunate sotto il titolo
onnicompresivo di Tutte le poesie, volume che rende omaggio all’intera ricerca dell’autore e che è completato da due raccolte inedite e
un illuminante saggio introduttivo di Giuseppe Langella.
città - spoglia ormai di quei miti - nella quale, dal 1980 a questa parte, rimetto piede ogni tanto, con la circospezione e il disagio dell’ospite. Eppure, in tale stato d’animo mi capita di
addentrarmi, senza dover mentire a
me stesso, in un «eventuale» che poi
non si è realizzato e (magari per vie
che, come in Luzi, «sentono l’esilio»)
vi accompagno qualcuno che forse
sono io stesso, avventurato in qualche
sua vicenda probabile. Questo è un
«immaginario» che non potrebbe avere altra scena se non Firenze.
Leggendo il volume si nota che lei
dissemina nei testi una serie di autoritratti: dal «convitato smarrito» al
«chierico divagante», dal «maldestro scriba» al «poeta esule e sognatore». Ma qual è la sua fisionomia
di poeta?
In me le autodefinizioni si susseguono, e tante. Ma sull’immagine di un
io-poeta similcrepuscolare, quale affiorava senza un filo d’ironia nelle liriche dei vent’anni, direi che l’abbiano avuta vinta specificazioni ulteriori:
ad esempio quella del poeta che si
consuma nel proprio esercizio di
faber, coi rischi di astrattezza che ciò
comporta. Dopo, è venuta quella del
«chierico divagante», che insegna privo d’autorevolezza e maldestramente,
come d’altro canto «maldestro» era
stato a suo tempo lo «scriba» ossia lo
scolaro in difficoltà con penna e calamaio. Credo di aver tentato, più volte,
di bilanciare col richiamo alla matericità del fare poetico quella piena degli
affetti che è un fiume prodigioso ma
solo se non lo si lascia debordare. La
più felice - augurale - definizione del
poeta, anzi della poesia, l’ho proposta,
credo, in una lirica del 1994, Come
canta: dove l’auspicio è che la voce il verso - si assimili nel suono a quello armonioso del motore di una Lancia
d’epoca, facendosi «leggera assorta
inutile / vena del mormorìo».
Nelle Rose della cina (1998) lei definisce Montale la «nostra maggior
musa» e in un testo di Per more
(2000) sottolinea con ironia di essere nato nel ’39, l’anno delle Occasioni. Ricordiamo anche che lei è
autore di saggi notevoli sulla poesia
montaliana. Cosa rappresenta per
lei l’esperienza del poeta ligure?
C. MAZZACURATI - C. PAOLINI. Un’intervista in Dvd
a parola uccellino, oseleto,
non si scriveva, c’era. "Uccellino" invece si poteva scrivere in 12 modi, perché si poteva scrivere con una o due "c", con una o due
"l" e poi con vocali diverse, fino a do- scorci, dell’autoesilio volontario ne Il
dici varianti, di cui una sola è legale… dispatrio in quel di Reading a fondamentre le altre sono illegali. Ma resta re una cattedra di italianistica in terra
sempre irrisolta la questione se l’uc- d’Inghilterra, proseguendo poi con le
cellino, pur scritto giusto, sia o non sia foneticamente schioccanti ed aderenl’oseleto del dialetto». Forse proprio tissime traduzioni dall’inglese in altoquesto piccolo, delizioso aneddoto vicentino dell’Amleto e di un corona
linguistico, in cui il gioco delle varian- poetica che va da Donne a e.e. cumti nella scrittura di
mings in Maredè
una parola diventa
maredè.
R
e
c
e
n
s
i
o
n
i
paradigma della
L’incontro fra tre
conflittualità irriCARLO MAZZACURATI veneti, di età e
ducibile fra dialetMARCO PAOLINI (cura) provenienza diverto e lingua, può
sa, tutti e tre «pic"Luigi Meneghello"
essere individuato
coli maestri», sia
Dvd, euro 20
come spia ed empur in contesti diFandango, 2006
blema di un corversi, è l’occasiopus narrativo, quello di Luigi Men- ne da cui nasce la realizzazione di queghello, che è l’incarnazione di una sto dvd-intervista, con libretto accluso,
stendhaliana promesse de bonheur. della Fandango, una chicca che i «meUna promesse de bonheur che va dal- neghelliani» non possono certo lasciarla trilogia di Malo - Libera nos a malo, si sfuggire. La guest star è per l’appunPomo pero, Bau-séte - a Fiori italiani to lui, Luigi Meneghello, nato a Malo
fino alla narrazione, per spunti e per nel 1922. Basterebbero il suo volto e la
«
S t los
Meneghello, vita in video
sua voce, da soli, a rendere prezioso
questo dvd: una voce esile, in bilico fra
gravitas ed ironia, attenta ad inseguire
il filo di una memoria vividissima, capace non solo di focalizzare particolari apparentemente irrilevanti, ma di saperne contestualizzare il senso e la centralità fondante: i temi scritti alle elementari, il colore di una vecchia tuta da
motociclista, una battuta materna, un
appunto sul rovescio di una busta…
Meneghello stesso, andato via in giovane età dall’Italia, decodifica questa
stupefacente capacità prensile spiegando: «I miei ricordi precedenti si erano
fissati per sempre. Io non ho assistito ai
radicali mutamenti che, mese dopo
mese, anno dopo anno, decennio dopo
decennio, trasformavano la vita e la
lingua degli italiani. Io ero via, lontano.
E questo ha fissato la memoria, penso». Mentre risponde alle domande,
sul suo volto, attraversato da un lieve
reticolo di righe, i due occhi compiono
una singolare gara d’espressività: a seconda dell’argomento, si dilatano per
tentare di persuadere chi ascolta o si
strizzano fino a trasformarsi in fessure
impercettibili, quando a prevalere è
l’understatement d’alta classe,
l’humour dissacrante, la contagiosa
comicità di cui Meneghello è naturale
depositario.
Dietro la macchina da presa, a documentare in modo asciutto, senza vezzi o gigionerie, questo dialogo-ritratto
sta un altro veneto, il padovano Carlo
Mazzacurati, regista affermato e di
lungo corso, classe 1956, lo stesso anno del bellunese Marco Paolini che,
dismettendo i panni a lui consueti della star teatrale, indossa quelli dell’intervistatore. L’intervista procede per
«sfregola, lampi-sgiantizi, cortocircuiti», condotta sul filo di una reciproca, divertita curiosità e sincera ammirazione. Qua e là, presenza silenziosa e discreta, con un volto bello, d’al-
Nella foto Silvio Ramat, che da Interlinea ha pubblicato la
collazione Tutte le poesie
Montale rimane veramente la «nostra
maggior Musa» (Dante l’aveva detto
di Virgilio). Io non stravedo per le
raccolte senili, da Satura in poi, ma
chi ha scritto Ossi di seppia, Le occasioni e La bufera incide il proprio nome a lettere indelebili nell’albo della
poesia d’ogni età. Non sono più lo
«scabro» e l’«essenziale», griffes arcinote della giovinezza montaliana, a
catturarci, sì invece la forza dell’affabulazione, da Arsenio ai Mottetti, da
L’anguilla al Sogno del prigioniero,
componimenti nei quali si saldano le
virtù della concisione e della durata, il
taglio episodico esatto e una capacità
allegorica non inferiore a quelle di
Yeats o di Eliot.
Giuseppe Langella, nella importantissima prefazione al volume, individua in lei una certa inclinazione
narrativa. Oltretutto la forma del
poema si addice a numerose sue
raccolte. Come coniuga il senso di
smarrimento con la tendenza all’epos?
Il «poema», che ho caricato di una
speciale responsabilità costruttiva negli anni ’70 ma anche poi nel corso degli ’80, ha fra l’altro il compito di
esorcizzare, con la sua postulata energia di trazione, quello «smarrimento» cui si riferisce la domanda. O meglio: dev’esser stato proprio lo «smarrimento», paradigmatico o risofferto
di persona, a suscitarmi, in quella fase,
la speranza che una forma sia pur cauta e misurata di «epos» valga a esorcizzare quegli «smarrimenti» che sulla pagina si manifestano in una dispersione della sostanza verbale.
Nel libro scorre, sotterraneo, il fiume dell’autobiografia personale e
familiare. La sensazione è che questa dimensione domestica cresca
nelle raccolte degli ultimi dieci anni.
Quale valore lei attribuisce alla poesia degli affetti?
Più che da una repentina invadenza
della «poesia degli affetti», l’innegabile prevalere, nei miei ultimi dieciquindici anni (sempre all’interno del
flusso autobiografico) dell’elemento
familiare suppongo derivi dal bisogno di una sempre più sistematica (e
talora quasi «scientifica») ricognizione delle radici. In quel pianeta io aprii
gli occhi alla luce e cominciai a camminare; tuttora vi intuisco la persistenza di zone segrete, di verità (relative, certo) che, a comprenderle, aiutano a capire anche gli «altri», l’«altro»
del mondo.
Lei ha attraversato, da poeta, la stagione della neo-avanguardia, senza
peraltro aderire. Anzi alcuni suoi testi non risparmiano accenni polemici nei confronti di quella stagione.
Ci può fornire le ragioni delle sue
scelte?
Ero fieramente avverso (e come potevo non esserlo, in quella Firenze?) all’organizzata protervia della neoavanguardia. Inerme, contrapponevo
Petrarca e i poeti barocchi, Luzi e Sereni (ma anche Fortini e Zanzotto) alla violenza sommaria perpetrata contro una tradizione lirica a cui ingenuamente, lirico in erba, mi vantavo di
appartenere. Dall’antologia dei Novissimi (1961) al Parnaso di Sanguineti (1969), patii quel periodo come
un insulto al buon senso e all’armonia.
Il mio Ermetismo (1969) fu una risposta flebile e isolata. Oggi non m’interessano più quei fatti o misfatti. Al solito, i più dotati hanno retto, singolarmente, alla prova del tempo. E, s’intende, più negli esiti creativi che non
nelle pagine di teoria.
tri tempi, somigliante, in maniera impressionante, a "La madre" di Boccioni, l’amata Kate, la donna di una vita
a cui Meneghello continuamente si
rivolge e a cui chiede consigli, ottenendone in cambio impercettibili assensi. Fuori dalle vetrate dello studio
ogni tanto si indovina qualche scroscio di quella pioggia che tanto spesso ricorre nelle narrazioni meneghelliane: del resto, come scriveva nell’incipit di Libera nos a malo, «si incomincia sempre con un temporale».
Il tentativo di Paolini, peraltro abbandonato ben presto, di far rientrare questa intervista nel solco dei consueti
bilanci di fine carriera, quando un artista, dopo lunga ed onorata carriera,
dovrebbe tirare le fila di un intero percorso creativo ed esistenziale («Quando sei nato?» è l’esordio ultratradizionale con la quale si apre), viene spazzato via dalla fluttuante ricerca mnestica dell’autore, che, attraverso frammenti, ellissi, aneddoti, ricordi, autocensure, ci incanta con il fascino di
una conversazione affabulante e magnetica, intessuta della stessa malìa
evocativa e liricheggiante che rendono bellissime ed indimenticate tante
sue pagine.
pagina
5
Ossigeno
autori
italiani
BENEDETTA CENTOVALLI
BETTY WOODMAN
Quaranta gradi a New York non
sono uno scherzo, eppure anche
con questa temperatura la città
conserva un fascino unico, nonostante l’uso terroristico dell’aria
condizionata tenuta a manetta nei
locali e nella metropolitana a propiziare laringiti o peggio. Girare
per strada è impossibile, accessibile solo la sera il lungofiume, la
città che si affaccia sull’acqua,
quella meno turistica e più segreta, quella che preferisco da sempre. Su una panchina davanti all’Hudson ci si può dimenticare di
quello che ferisce, stare per qualche istante in armonia, sospendere il morso del dolore. Ma l’enorme ciambella ha stretto nel suo
cuore Central Park, e sul fianco
del parco il Metropolitan Museum apre adesso il suo tetto per
lo spettacolo del tramonto che da
questo particolare punto di osservazione disegna un profilo della
città suggestivo tra palazzi d’epoca e moderni grattacieli, tenuti
a distanza d’occhio dal verde sfumato e possente dell’enorme polmone cittadino.
Qui al Met è ospitata in questi
giorni una spettacolare retrospettiva delle ceramiche di Betty
Woodman, che spazia dalle sue
tazze da tè alle grandi installazioni. Una visione che colpisce per la
bellezza e la singolarità delle opere esposte e per la loro identità
multipla o incrociata, che sfugge
allo statuto di arte decorativa o di
oggettistica d’arte per giocare a
mescolarne le possibili letture e i
possibili riusi. Già all’entrata del
Museo si viene accolti da due meravigliosi vasi, sovrastati da una
specie di pannello sontuosamente
decorato che li nasconde. L’occhio è subito attratto da questi sipari dipinti in modo magistrale,
opere a sé stanti che vivono della
pura energia del colore, quando
l’artista non ricorre alle rappresentazioni figurative. «Too Matissey» è il commento più comune
davanti ai suoi lavori. Effettivamente vi si ritrova la fantasia e la
libertà coloristica di Matisse. Ma
nella Woodman tutto viene rivisitato secondo il suo peculiare temperamento, non solo Matisse, ma
anche Picasso, Mirò, insieme con
tanto cubismo, surrealismo e
espressionismo astratto. Il risultato è straordinario e coinvolgente,
attraversa la pittura per arrivare alla scultura, quasi un progetto
avanguardistico che provoca l’arte pittorica verso la condizione
materica della ceramica, non costringendo la superficie dipinta
dentro la forma tridimensionale
ma liberandola dal riferimento all’oggetto d’uso. La forte personalità delle ceramiche della Woodman è data proprio dal dato sculturale che svetta in modo del tutto autonomo soprattutto nelle
opere più imponenti. Un’artista
che usa le ceramiche come punto
di partenza per i suoi poemi fantastici, per le sue visioni multiculturali. Impossibile non ricordare la
scuola dei Della Robbia, per quello sfondamento dell’oggetto d’uso e della decorazione in puro dato artistico, classico e moderno
allo stesso tempo. Con le sue atmosfere mediterranee o asiatiche
(notevoli i pezzi di ispirazione
giapponese), all’età di settantasei
anni, Betty Woodman vive tra
New York, in un loft sulla West
Seventeenth Street, e una casa in
collina all’Antella, appena fuori
Firenze. Nata a Newton, Massachusetts, si era trasferita nel 1948
a New York per studiare all’università l’arte della ceramica, per
poi ritornarvi stabilmente nel
1980. Il miracolo artistico e l’incanto delle opere di Betty Woodman risiedono proprio nell’invenzione di mondi possibili che dai
suoi vasi o dalle sue altre quotidiane forme d’uso proliferano e
potenziano la nostra stessa capacità di suscitare universi. Se questa è solo decorazione, allora evviva la decorazione!
pagina
6
ian Antonio Stella, nato
ad Asolo (Treviso) 53 anni fa e cresciuto a Vicenza, è l’inviato più da "Repubblica" del "Corriere
della Sera". E se passasse di là diventerebbe il più da "Corriere" di "Repubblica". Non è un eroe, ma un gentiluomo
che veste spesso la giacca blu, abita vicino Venezia («Non dico dove perché
scrivere di mafia e ’ndrangheta può
essere più pericoloso che andare a Bagdad») e quando parte da lì per fare il
suo mestiere, si porta dietro dal Nord
Est quantomeno la cadenza della parlata.
Il suo ultimo lavoro è una raccolta di ritratti inediti della classe dirigente del
centrosinistra italiano che continua il
ciclo inaugurato col centrodestra in
Tribù Spa (Feltrinelli). Non fu facile allora pubblicare quel libro: «Inizialmente doveva essere su destra e sinistra ma gli esordi della Casa delle libertà furono tanto ridicoli che lo dedicai solo a loro. Ci volle coraggio e un
po’di temerarietà perché erano nel momento di massimo potere - racconta
oggi l’autore. - Ci furono infatti le proteste di Maurizio Gasparri e, molto
garbate, di Gianni Letta. Tanto che la
Mondadori, con cui avevo già pubblicato Lo spreco e Chic, non si comportò bene e preferì che il libro si esaurisse senza ristamparlo. Dovetti sbattere la porta, anche se poi facemmo la
pace quando permisero a Feltrinelli di
comprarne i diritti e ripubblicarlo».
Ora l’editore è Rizzoli, da cui l’anno
scorso è uscito il romanzo Il maestro
magro e per la quale il giornalista del
"Corriere" sta preparando un nuovo libro sul Cinquecento a cavallo tra Venezia ed Istanbul. Stilos lo ha intervistato riuscendo ad avere un appuntamento solo alle 7 di mattina di un giorno di
fine luglio.
Un libro annunciato, questo?
Ci tenevo a farlo perché un giornalista
onesto deve trovare le pulci a chi comanda. Come lo feci nel 2001 lo rifaccio oggi con questa sinistra. Fatta di
qualche fuoriclasse, ma anche di molti ronzini. E soprattutto troppi galli che
si alzano la mattina solo per il loro
personale chicchiricchì fottendosene
dello spirito di gruppo.
Prodi lei lo mette tra i fuoriclasse o
tra i ronzini?
No, allora, capiamoci. Credo che le
definizioni secche non abbiano alcun
valore. Non le faccio. Non è giusto: le
persone sono molto più complesse.
Chi vuole legga il libro e ne tragga le
conseguenze su questa o quell’altra
persona.
Ci basta la citazione che lei fa della
definizione che ne diede Sergio Magliola, ex presidente Finsider:
«Gronda bonomia da tutti gli artigli». Prodi a parte, allora quali sono
i ritratti che le sono venuti meglio?
Posso dire quelli che mi hanno divertito di più. Sono Franco Giordano di
Rifondazione, di cui non condivido la
politica ma è una persona umanamente ricca, seria e con interessi extra politici che mi fanno guardare a lui con
simpatia. E Valerio Zanone, che credevo un noiosone e che invece è tutt’altro.
Ma ora ci spieghi perché ha scritto
questo libro.
L’ho dovuto fare come seguito di un’o-
G
ALFIO SIRACUSANO
autori
italiani
GIAN ANTONIO STELLA . Una galleria di uomini politici della nuova
maggioranza parlamentare: quasi un atto dovuto e bipartisan dopo quella
che raggruppò i leader del centrodestra in "Tribù Spa". Un ritorno alla nota
giornalistica di attualità di un notista che freme per la narrativa
IL LIBRO
GIAN
ANTONIO
STELLA
"Avanti popolo"
pp. 268, euro 17,50
Rizzoli, 2006
Ritratti inediti
in ordine alfabetico
Avanti popolo è un insieme di
ritratti inediti (non usciti su
giornali) dedicati a capi, gregari e comprimari dell’attuale
centrosinistra, ordinati in successione alfabetica.
Capi del centrosinistra
il catalogo è questo mio
VIVE A MILANO. SCRIVE PER
"LA STAMPA", "QUOTIDIANO NAZIONALE", "CAPITAL",
"CLASS" E "STYLE"
FRANCESCO RIGATELLI
pera. Anche se non vedo l’ora di tornare ai romanzi. Poi qui, come in Tribu
Spa, al di là dei singoli ritratti, c’è il
tentativo di cogliere in ciascun personaggio un dettaglio per costruire un
quadro d’insieme. C’erano due modi di
raffigurare le contraddizioni e le delusioni date agli elettori dalla sinistra di
oggi. Uno politologico-sociologico che
analizzasse tutte questi aspetti. L’altro, quello che ho scelto, di proporre un
ritratto collettivo.
Lei che è un giornalista indipendente, seppure simpatizzi per la sinistra,
ha trovato qualche difficoltà?
La penso come Montanelli. Quando
fondò "La Voce" disse: «Chiunque vinca gli faremo la guardia». Questo è
quello che credo di fare io.
Ma se lei dovesse definirsi, che direbbe?
Sono un moderato di sinistra. Un liberale di sinistra, mettiamola così. Che
dovendo scegliere tra certi scriteriati di
sinistra e sobrie persone di destra come
Helmut Kohl, penso voterei il secondo.
Ma in Italia la destra è impresentabile
quindi, almeno per ora, il problema
non si è posto. Anche Montanelli, uomo di destra, scelse di votare la sinistra
piuttosto che una coalizione con Bossi.
Così a parti rovesciate faccio io.
Ha citato Montanelli, il grande
esempio quando si tratta di ritratti e
incontri. Come si rapporta il suo lavoro a questo?
Ho amato molto Montanelli. Soprattutto dopo averlo conosciuto e aver visto
la sua umanità. I suoi ritratti sono impareggiabili. Nel mio piccolo cerco di
disegnare il profilo collettivo di una sinistra che molto spesso sembra non
avere niente in comune se non l’antiberlusconismo. Sull’Afghanistan gli
otto sventurati che rifiutano ogni approccio di buon senso al problema sono un esempio di questo. Capisco la
necessità di una democrazia e di una
coalizione plurale, ma la nostra sinistra
lo è troppo.
Lei è noto per avere un grande archivio da cui coglie le citazioni per
incastrare i politici quando si smentiscono. Per esempio scopriamo chi
chiamò per primo «Piacione» Francesco Rutelli o quando Walter Veltroni spiegò a modo suo il comunismo: «Significa imparare che in autobus bisogna cedere il posto alle
vecchiette» e ancora l’insospettabile
vita mancata da camionista di Giuliano Amato: «Ero già inserito nella
carriera universitaria quando mi decisi ad affrontare l’esame per la patente D». Come funziona?
L’archivio è quanto di più personale ci
possa essere. Come le mutande, le canottiere o i calzini. È assurdo pensare
che volta per volta ci si possa rivolgere ad un archivio infinito. Quando devo scrivere ho poco tempo e ho bisogno di contributi specifici. L’archivio
dev’essere organizzato in funzione della necessità. E preselezionato così da
trovare subito ciò che serve. Il mio è
contenuto nel computer e in tante penne Usb disperse nelle tasche di tante
giacche.
Anche il giornalista Marco Travaglio è un archivista. Che differenza
c’è tra voi?
Lui è un vero talento giornalistico.
Spero passi l’ondata giustizialista di
sinistra perché si sleghi. La sua definizione di giustizialista e cronista giudiziario è riduttiva. Lui è molto di più e
molto meglio. Detto questo, non condivido tutto quello che scrive. A volte
dissento. E credo che sia un peccato
che lui carichi così gli articoli non dando spazio al grande giornalista che è
occupandosi di più di ciò che non è
giudiziario, inchieste, corruzione. Fermo restando che le sue battaglie di
questi anni, compresa la denuncia di
Onorevoli wanted. Storie, sentenze e
scandali di 25 pregiudicati, 26 imputati, 19 indagati e 12 miracolati eletti in
Parlamento (Editori Riuniti) non è solo condivisibile, ma sacrosanta.
Il suo giornalismo può risultare più
leggero di quello di Travaglio. Si sente un mielista?
Devo molto a Paolo Mieli. Condivido
buona parte della sua filosofia giornalistica. Però non sono… cioè mi sembra riduttivo anche per lui… cosa vuol
dire mielista?.
Prendiamo la polemica tra "Corriere della Sera" e "la Repubblica" con
l’articolo di Giuseppe D’Avanzo
contro le scelte giornalistiche di Paolo Mieli.
Il mielismo è una storia complessa. Se
è stare sulla notizia, arrivarci con un taglio personale, cogliere il presente diversamente, fare un giornale che abbia
GIOVANNI RUSSO. Personaggi di una Roma d’antan
l giornalista ha un privilegio e insieme un obbligo: il privilegio di
poter osservare la realtà con l’occhio del cronista che ha facoltà di non
tenere solo per sé quello che vede, e
specularmente l’obbligo, quasi deon- realtà «interna» della cronaca romana
tologico, di fare partecipi gli altri di frequentando i luoghi del suo mito - e
quello che ha visto. Ne viene fuori qui per luoghi intendiamo anche le
una specie di etica del registrare per «persone» che di quei luoghi furono
memoria e del guardare il tempo per «maschere», attori recitanti nella comcategorie che trascendono il tempo, sì media dell’arte che è la vita. Regida costruire dentro le coordinate del strandoli nella brevità di istantanee
proprio percorso di vita il percorso precise e all’apparenza disincantate,
dei luoghi - in extenso intesi - in cui ma che messe assieme costruiscono
un quadro compiuto: di una città che
essa vita si è svolta.
Può dirsi questo dopo aver letto il bel emerge dalle macerie della guerra e si
libro che Giovanni Russo ha pubblica- costruisce a poco a poco una fisionoto con Rubbettino, Con Flaiano e Fel- mia internazionale che la rende non
lini a via Veneto, fatto di brani assai dissimile da Parigi o da Londra, e che,
mentre supera la
spesso brevi che
retorica immagiregistrano modi
R
e
c
e
n
s
i
o
n
i
ne di sé come
d’essere e aspetquinta del potere
ti della città di
GIOVANNI RUSSO
fascista, non diRoma, oltre che
"Con Flaiano e Fellini
smette i suoi
interventi su suoi
a via Veneto"
panni eterni di
problemi anche
pp. 210, euro 14
accomodante
minimi, a partire
Rubbettino, 2006
bonomia un po’
dagli anni Sespacioccona un po’ cinica, dove cultusanta fino a primi del Duemila.
Venuto a Roma da Salerno giovanissi- ra anche di alto profilo e spirito inemo, ed entrato subito nella condizione sausto di carriera si incontrano e il
del giornalista (del "Mondo", poi del calembour diventa la figura del disin"Tempo", oggi del "Corriere") con re- cantato galleggiare sul mondo del
lativo obbligo e privilegio, Russo poté sempre visto, perché Roma è sempre
sin dagli anni Sessanta osservare la Roma e a Roma-caput mundi tutto è
I
S t los
C’era una volta via Veneto
già avvenuto e tutto può ancora avvenire.
Qui, tra le pagine del libro, avvengono cose minime, perlopiù (con le massime sullo sfondo), che hanno però il
sapore del fabuloso se proiettate nella
memoria retrospettiva di un salto epocale che comunque la città compì col
dopoguerra. Perché la rifece, ampliandola di periferie, la nuova irresistibile
immigrazione, che allargandone il perimetro ne ingigantì i problemi, e le
diedero lustro i fasti di un fare cultura
con parole e immagini che si arricchì
della nuova centralità della città. Capitale e più che capitale.
Ed è su questi versanti che Russo dà il
meglio di sé: quando racconta i nuovi quartieri e la nuova umanità che li
popola (ad esempio parlando dei co-
Sopra Gian Antonio Stella, autore per Rizzoli di Avanti
popolo. In basso Giovanni Russo, che da Rubbettino ha
pubblicato Con Flaiano e Fellini a via Veneto
una visione complessiva della società,
allora io sono sicuramente mielista. Se
invece l’idea di qualche sciocchino è
che il mielismo sia mischiare insieme il
morboso interesse per la politica e per
il gossip allora io non sono per niente
mielista. Ma non credo che il mielismo
sia questo.
Come lo racconta per chi come noi
non ci ha capito granché l’ultimo
scontro tra "Corriere" e "Repubblica"?
Lavoro al "Corriere" da tanti anni però
con "la Repubblica" ho un rapporto
buonissimo. Sono stati molto generosi
con me. E non ci voglio entrare in questa storia, devo essere sincero. Non mi
sono mai appassionato alle lotte tra
giornali concorrenti, sono insofferente
all’autoreferenzialità di certi discorsi.
L’unico sito che leggo di gossip è Dagospia.
Giorgio Bocca lamenta: il difetto del
giornalismo italiano è che non si fanno più inchieste.
Questo un po’ è anche vero. Però non
esagererei. Sì, i giornali si fanno sempre più il martedì per il mercoledì e
questo chiude ulteriori spazi perché
non crescono certo giornalisti inchiestisti se le inchieste non si fanno. Ma
c’è gente che fa un ottimo lavoro: Marco Lillo e Peter Gomez su "L’Espresso", Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo su "la Repubblica", Paolo Biondani
e Luigi Ferrarella, il più bravo cronista
giudiziario italiano, sul "Corriere". Se
poi mi si dice che non ci sono più inchieste del tipo: dove va la Jugoslavia
all’inizio del terzo millennio, allora
questo sì. Però rispondo: meno male!
Stella, colpisce che un viaggiatore
conservi il suo attaccamento alla terra natale. Come fa a conciliare il desiderio di attualità e il paesino dove
vive?
Non credo alla figura dell’apolide. Devi avere un posto dove tornare. Sto benissimo a Milano, a Torino. A Roma
mi sento a casa mia, ancor più che a
Milano. Poi faccio due spettacoli teatrali a settimane in tutta Italia. Da Lugano ad Agrigento. Due sull’immigrazione e uno sulla resistenza per documentare con immagini e musiche le
storie che racconto nei libri. Ora stiamo
per rispolverare contro il razzismo Neri, froci, giudei & Co. che abbiamo
fatto una sola volta al Piccolo di Milano. Tutto è nato improvvisando un mix
tra parole e musica con Gualtiero Bertelli al Teatro dei Leoni a Mira, che ha
dato spazio ad attori come Osvaldo
Paolini.
Allora lei fa teatro e ora sta preparando un libro di storia sul Veneto.
In più, ha confessato di aver scritto
Avanti popolo perché doveva stangare anche l’altra metà del Parlamento dopo averlo fatto col centrodestra.
Se no, probabilmente, avrebbe continuato la scia dei romanzi. Non è che
si sta un po’ disappassionando dalla
politica?
Eh, insomma. Ci sono delle cose che
deludono.Vedere Gasparri che dopo
aver fatto per anni il liberista si schiera coi tassisti del tutto strumentalmente mi dà fastidio. Così come notare alcuni sventurati di sinistra prendere posizioni sballate sull’Afghanistan è
noioso. In ogni caso, detesto chi non si
assume le proprie responsabilità. E ce
ne sono tanti, da una parte e dall’altra.
munisti del Trionfale e della loro vita
di sezione), o quando racconta i mitici caffè di Piazza del popolo (che
vuol dire pioppo, populus alla latina)
o di via Veneto, il Rosati il Canova il
Cafè de Paris, o l’osteria di Cesaretto,
o gli studi di via Margutta (da Margutte pulciano che morì dal ridere),
dove si davano convegno i personaggi «in» della nuova Roma del cinema
e della letteratura: Flaiano, Fellini,
Mazzacurati, Moravia, Rotella e tutta
la schiera dei giovani e a poco a poco
non più giovani scrittori pittori giornalisti attori attrici che faceva da corte ai principi della battuta. Che poteva esprimersi in un sonetto romanesco di Antonello Trombadori o alimentarsi del gossip signorilmente elaborato sugli amori di questo o quella
o esplodere nelle geniali invenzioni
verbali di Mazzacurati (che di un pittore con qualche vizietto parlava di
«latrin lover» e di Filippo De Pisis
parlava come di un «incantatore di
sergenti») o nella verve senza fine di
Ennio Flaiano, che di sé diceva «mi
spezzo ma non m’impiego» e con
sottile disprezzo chiamava «diambuli» quelli che restavano estranei al fascinoso mondo notturno della «dolce
vita» così come la si viveva in quella
via Veneto di allora. Che Fellini, non
diambulo e geniale inventore di immagini, vestì dei panni di Anita Ekberg che si immerge come una dea
antica nella Fontana di Trevi.
S C A F F A L E
ALBERTO CASIRAGHY,
Quando, pp. 81, euro 10,50,
Book 2006
Novantanove aforismi «quieti e inquieti», con tre disegni, altrettanto
quieti e inquieti, di Alda Merini, in
questo libretto di Casiraghy, poeta,
editore, pittore, violinista. Paiono,
come disse Giuseppe Pontiggia,
«una intersezione tra la leggerezza
degli haiku, i frammenti moderni
degli antichi e le invenzioni dei surrealisti».
VALERIA MONTALDI, Il monaco inglese, pp. 459, euro
18,50, Rizzoli 2006
Ambientato nel chiaroscuro medioevale, il romanzo della Montaldi evoca gli intrighi dell’età comunale, tra monasteri dove si consumano inganni e crimini, streghe,
raggiri, fughe, delitti. Tutto inizia
quando in una notte del 1246 un incendio distrugge a Milano la casa di
Guglielmo, rispettato mastro muratore che muore tra le fiamme insieme alla moglie.
MARTA MORAZZONI, La
città del desiderio, Amsterdam,
pp. 138, euro 12, Guanda 2006
Si entra in questo libro e si scopre
Amsterdam, così come va ancora
scoprendola la Morazzoni, turista
non più occasionale, che nella bellissima città olandese trascorre cinque giorni all’anno, cinque giorni
che, anno dopo anno, aggiungono
un tassello o rinforzano un passo
della sua conoscenza della città.
Una conoscenza, impreziosita di rimandi colti, che ci restituisce con
una accattivante scrittura di viaggio.
LUIGI MALERBA, Lettere ad
Ottavia, pp. 86, euro 13,00, Archinto 2006
Malerba ci narra di Ottavia, che
giunge a Roma capitale del cinema,
provinciale ingenua ma bella, e vi si
perde. Sono gli anni Cinquanta, popolati di registi famosi, colmi di
imbrogli, cambiali e profittatori. Ottavia scrive undici lettere al suo fidanzato con sincerità infantile. Undici lettere inventate da Malerba
che ne fa un racconto a puntate per
chi è abituato ad un mondo raffinato e ingannevole che produce sogni
e delusioni, divora tutte le cose belle e vomita il veleno di chi ci ha creduto.
PIERO NEGRI SCAGLIONE,
Questioni private, pp. 267, euro
21, Einaudi 2006
Il giornalista Scaglione ci offre una
biografia accurata di Beppe Fenoglio. Nato ad Alba, figlio di un macellaio, alunno preparato e studioso,
fu stimolato da chi credeva in lui a
coltivare l’amore per la letteratura,
il teatro e la poesia; tutto questo legato all’attaccamento alla sua terra.
Dopo la guerra dovette lavorare non
rinunciando agli studi. Scriveva
tanto e, quarantenne, frequentava
ragazzi divertendosi, raccontando
barzellette e mimando i film.
HANS TUZZI, Il maestro della
testa sfondata, pp. 274, euro 8,
Guanda 2006
In una notte fredda a Milano viene
ritrovato il cadavere di un autista di
autobus con la testa sfondata. Questo, nel suo tempo libero, lavorava
presso un libraio trovato anche lui
ucciso giorni prima. I due omicidi
sembrano essere collegati ed il
commissario Melis indaga nel mondo dei librai trovando la soluzione e
rivelando i segreti della bibliofilia.
Melis porta a termine un’accurata
indagine nei salotti della Milano
bene e nell’ambiente degli artigiani
offrendoci il romanzo della città.
Tuzzi è lo pseudonimo di uno scrittore italiano autore di due guide all’antiquariato e dei gialli del commissario Melis.
AUGUSTO CAVADI, E, per
passione, la filosofia, pp. 188, euro 16,50, Di Girolamo 2006
Una introduzione a una scienza che
continua a riguadagnare interesse
nel pubblico anche italiano: con un
trattamento divulgativo che non si
priva però di definire concetti con
proprietà di linguaggio, l’autore (insegnante di filosofia in un liceo di
Palermo) scrive una storia della filosofia sottraendo pesantezza. Forse però fin troppa.
S t los
segreti di Roma completa l’analisi approfondita dei luoghi del
cuore di Corrado Augias, che dopo essersi occupato di capitali
come Parigi, New York e Londra
decide di raccontare la città dove è nato e ancora oggi vive. Augias non fa
mistero di amare sia Roma che Parigi
ed è per questo che nella capitale francese conserva una sorta di rifugio in un
appartamento a Montparnasse. I segreti di Roma si può leggere come una
raccolta di racconti e di aneddoti storici legati alla capitale. Non mancano i
misteri e i delitti, dalla leggendaria
fondazione da parte di Romolo e Remo
per proseguire con gli eccidi di Lucrezia Borgia, dei nazifascisti durante la
guerra di liberazione, sino al delitto
Pasolini e ai fatti di cronaca nera dei
tempi recenti. Nel volume non possono mancare i ricordi di Cinecittà come
fabbrica degli incantesimi e di una Roma da Dolce vita. Troviamo la storia di
un papato corrotto da potere temporale, nepotismo, lussi, vendita di indulgenze e perdita di valori cristiani. Ripercorriamo la storia della capitale attraverso i sonetti del Belli, le poesie di
Pasolini, gli inni del Carducci e i monumenti che sono solo lo spunto per
dare il via al racconto. Il volume è talmente denso di storie che è impossibile riassumere il contenuto. Augias ci
consegna un’opera significativa per
conoscere meglio la nostra capitale,
compiendo un’opera di divulgazione
storica che si richiama alla lezione di
Indro Montanelli. Lo stile piano e accessibile è un punto di forza di un libro
che è di facile lettura come un romanzo giallo, ma al tempo stesso è profondo come un documentato saggio storico. Stilos lo ha intervistato.
Perché colleziona città?
Le città sono il massimo concentrato
di umanità esistente. Le città parlano
con quello che c’è ma anche con quello che non c’è, a patto ovviamente di
saper vedere anche ciò che manca.
Saper leggere una città è una delle
massime gioie conoscitive di cui disponiamo.
Come mai da tempo preferisce la
forma del saggio a quella del romanzo per raccontare la società
contemporanea?
È cominciato con Parigi dieci anni fa.
Il libro ebbe un tale immediato favore
che la voglia di continuare è stata irresistibile. Durante la mia vita professionale sono vissuto in varie città estere
così ho continuato con New York, poi
Londra e infine Roma, che è la mia
città.
Ricordiamo i suo romanzi che diventarono sceneggiati televisivi, la
trilogia di Giovanni Sperelli… Volevano raccontare un periodo difficile della storia italiana?
Volevano mettere insieme due predilezioni e due esigenze. Un thriller, più
esattamente una trilogia di spy stories,
e il racconto di un periodo storico che
giudico fondamentale, il decennio che
va dal 1911, cinquantenario dell’unità e data della guerra di Libia, al
I
IL LIBRO
CORRADO AUGIAS
"I segreti di Roma"
pp. 422, euro 18,50
Mondadori, 2006
Manuale per l’uso
della città eterna
Non è una guida turistica né
un libro di storia, ma un manuale di istruzioni all’uso della
capitale, o meglio: una chiave
di accesso nei «segreti» di una
città nata per custodire misteri
e schiudersi a esplorazioni collaterali e irregolari: dall’intrigante nascita di Romolo e Remo al delitto di Giulio Cesare
fino agli eccessi dei Borgia per
arrivare alle illusioni magiche
di Cinecittà, il libro documenta la profonda conoscenza che
Augias ha della sua città, e in
questo senso è forse superiore
a quel I segreti di Parigi che
pure è stato da tutti ammiratissimo.
CORRADO AUGIAS . Dopo Parigi, New York e Londra una storia sui
generis della capitale d’Italia, anzi un trattato di geografia che si serve
della storia per visitarla allo scopo di conoscerla dal di dentro. «Chi non
conosce la città non sempre ha la vita facile. Parigi funziona meglio»
La dolce vita di Roma
al sapore di mystery
VIVE A PIOMBINO. "SERIAL KILLER ITALIANI" (OLIMPIA,
2005). PROSSIMO "ALMENO
IL PANE FIDEL. CUBA QUOTIDIANA” (STAMPA ALTERNATIVA)
GORDIANO LUPI
1921, vigilia della marcia su Roma.
Giovanni Sperelli come personaggio
principale fu un divertimento: immaginare un fratello commissario di polizia per il dandy dannunziano Andrea Sperelli Fieschi d’Ugenta, protagonista del Piacere.
Come è avvenuto il suo incontro con
Parigi?
La prima volta ci arrivai in autostop
dopo la maturità. Fu amore a prima vista anche grazie alle molte letture fatte. Posso dire di aver coltivato la lette-
sce presso Il Saggiatore un inte- PIERLUIGI PELLINI.
ressante pamphlet su (contro) la
Riforma Moratti firmato da
Pierluigi Pellini, normalista, cervello
in fuga per qualche anno, oggi (giovane) professore associato di letterature
comparate. Il pamphlet è diviso in
cinque parti. La prima contiene la dichiarazione di guerra: alla ministra, a
VIVE A ROMA. RICERCATRICE
cui, secondo le regole del genere, non
DI LETTERATURA INGLESE A ROvengono risparmiati insulti («alla miMA TRE. "CAPODANNO AL TENnistra, è evidente, dell’università non
NIS CLUB (SELLERIO, 2002)
importa nulla»); alla sua Riforma
(«poche pagine, scritte in un italiano
SIMONA CORSO
alquanto approssimativo […], una bufala»); alla Crui e al suo presidente To- stato le poche e illusorie novità introsi, accusato di scarsa fermezza e tra- dotte dalla Riforma. Segue un capitoballante orgoglio; alla stampa, che, lo, al vetriolo, sui concorsi universitacome sempre, ha fatto una gran confu- ri, in cui l’autore dichiara che anche i
sione e, con l’eccezione del "Sole 24 rimedi introdotti in questo ambito soore", ha mostrato di capirci assai poco; no peggiori del male. Il libello si chiuall’esercito di professori e ricercatori, de infine con un decalogo, in cui gli
affetto da cronico spirito di rassegna- argomenti salienti vengono riassunti
in dieci prescriziozione e tragico fani, alcune molto
talismo. Segue
una disamina dei
R e c e n s i o n i specifiche, altre
molto generiche.
vari articoli di legPIERLUIGI PELLINI
Condivisibile mi
ge, arricchita da
"La riforma Moratti non sembra l’assunto
uno studio delle
esiste"
generale: che la
varianti registrate
pp. 91, euro 7
tanto famigerata
nel passaggio dalIl Saggiatore, 2006
Riforma Moratti
la bozza originadi fatto non cambi
ria al testo definitivo. Nel passaggio da una versione al- granché le cose. Nonostante il gran
l’altra Pellini vede un’inesorabile ca- polverone sollevato dalla stampa di
duta dal male al peggio. La versione destra e di sinistra, le uniche due nofinale, in cui «le poche idee buone vità sono l’aumento del carico didattidella ministra» sono andate perdute su co e la reintroduzione dei concorsi
pressione dell’opposizione, è descrit- nazionali per le prime due fasce di inta come un testo «mal scritto, tecnica- segnamento. Quanto al primo punto,
mente confuso e politicamente abbor- temo che abbia ragione Pellini quando
racciato». La terza sezione affronta il dice che le cose continueranno ad anben più difficile compito di avanzare dare come andavano: i professori coproposte alternative dopo aver conte- scienziosi seguiteranno a lavorare co-
E
Nella foto Corrado Augias, autore per Mondadori di
I segreti di Roma
ratura e la saggistica francesi quasi
come quelle italiane. Parigi è una città
meno bella di Roma, se vogliamo, dove però si vive meglio.
Preferisce vivere a Parigi o a Roma?
A uno che aveva scritto in una notina
biografica «vive tra Parigi e Roma»,
un bello spirito rispose: allora vive in
cima al Monte Bianco. Io vorrei riprendere la frase in senso proprio. La
mia residenza è Roma ma vado a Parigi appena posso e ci resto quanto
posso.
Il suo rapporto con New York
com’è?
Difficile. Ci sono rimasto quattro anni e sarei potuto restare per sempre ma
non ce l’ho fatta. Mi mancava l’Europa. Forse se ci fossi arrivato a vent’anni sarebbe stato diverso, chissà.
E con Londra?
Molta ammirazione, nessun affetto.
Di Londra ammiro ciò che è e ciò che
rappresenta. Gli inglesi nei loro rapporti interni sono stati maestri di tolleranza. Il discorso sui loro rapporti
esteri, a cominciare dalle colonie, sarebbe diverso. La Gran Bretagna - includo anche Irlanda del Nord, Scozia
e Galles - ha una letteratura grandiosa,
dimostra ammirevoli modi civilizzati,
una tenacia collettiva degna di ammirazione.
Pregi e difetti di Roma.
Roma, nella sua parte storica, è una
delle città più belle del mondo. La cura che ne hanno avuto le ultime amministrazioni l’ha migliorata. Tralascio il
discorso sulle periferie che comunque hanno anche conosciuto dei miglioramenti. Chi apprezza la bellezza
a Roma ha di che colmare gli occhi, e
Un pamphlet sulla nuova scuola
Moratti, la riforma persa
me facevano anche prima della legge,
e quelli assenteisti troveranno il modo
di aggirare il nuovo obbligo. Quanto
alla reintroduzione dei concorsi nazionali, non sarei così catastrofica. Una
commissione composta da cinque
membri tirati a sorte (per quanto
estratti da una lista eletta dai membri
del settore) mi sembra sempre meglio di una commissione creata ad arte per un determinato concorso (leggi:
un determinato candidato).
Che poi i «baroni», come teme Pellini, troveranno comunque (oggi, come
ieri, come domani) il modo di spartirsi i posti, dovrebbe essere materia di
riflessione per gli storici del costume
e per i sociologi, e per i neo-professori (i «baroni» di domani), prima ancora che per i politici. Giuste le critiche
ad alcune incongruenze della Riforma: che, nonostante il professato impianto meritocratico, stabilisce «quo-
C
A
T
A
L
O
G
O
Relativismo
la logica
di Gulliver
te riservate» nei concorsi; ventila l’abolizione dei concorsi per ricercatore,
salvo poi differirla di 12 anni (!); crea
una gran confusione tra varie categorie di «professori» a vario titolo: quelli per contratto, quelli per regolare
concorso, quelli retribuiti, quelli a titolo gratuito, quelli chiamati «per chiara fama», eccetera eccetera.
Ottime mi sembrano inoltre alcune
proposte avanzate dall’autore: ridurre
drasticamente i settori scientifico-disciplinari; fissare a 65 anni il limite
massimo d’età per tutti, sì da consentire il ricambio generazionale; introdurre la mobilità dei docenti (l’immobilismo uccide la ricerca); aprire le
porte dell’università agli stranieri. Accattivante (anche se ahimè lontana)
mi sembra la proposta di modificare
drasticamente il reclutamento, introducendo il modello anglosassone dell’assunzione, su decisione del diparti-
MARCO AIME
"Gli specchi di Gulliver"
pp. 98, euro 12
Bollati Boringhieri, 2006
Il relativismo è fonte di diversità e smarrimento dell’identità o è
mezzo di comunione con l’altro? Aime indaga il tema assumendo Gulliver: che non vuole sottomettere il popolo straniero né
conquistarne la terra, ma è curioso di conoscere e vuole capire.
la mente. Chi non conosce la città non
sempre ha la vita facile. Da questo
punto di vista Parigi funziona meglio,
le amministrazioni pubbliche per
esempio e i trasporti sia urbani sia interregionali.
Uno dei capitoli più intriganti del
suo libro è quello che descrive la
congiura contro Giulio Cesare. La
scena delle ventitré pugnalate è descritta con lo stile del narratore noir
più che con il distacco del saggista.
Un’altra parte da romanzo horror è
quella che descrive Cesare Borgia
detto il Valentino mentre uccide il
giovane Perrotto. Sembra di vedere
quel sangue che salta in faccia al papa e che gli macchia di rosso la tonaca bianca. Sono passaggi voluti o la
passione per il delitto le ha preso la
mano?
L’omicidio di Cesare è l’archetipo di
ogni delitto politico. Preparazione,
esecuzione, conseguenze. Sono contento che si giudichino quelle pagine
degne di un racconto noir. Infatti la
mia intenzione è proprio questa: raccontare la storia vera, ciò che è veramente accaduto (per quanto ne sappiamo) invece di una storia creata dalla
fantasia del narratore, sia pure contro
uno sfondo reale. Aver abbandonato
per ora i romanzi non mi ha fatto dimenticare la gioia di poter narrare.
Da cosa deriva il suo interesse per
delitti e misteri?
Questa domanda mi è stata fatta molte volte. La mia risposta, chissà se è
vera, è che rimasi molto impressionato da adolescente dalla lettura dei Tre
moschettieri. Quel romanzo mi sconvolse, per molto tempo quasi non riuscii a pensare ad altro. Quell’impressione profonda derivava, ritengo, dal
sapiente impasto che c’è nel libro tra
avventura, erotismo, storia, ardimento, bene contro male.
Un suo libro che non ho letto (ma
che mi procurerò presto, anche perché sono livornese) è la biografia romanzata di Amedeo Modigliani.
Cosa la affascina nella vita di questo
geniale pittore?
Più che fascino curiosità. Cercare di
sapere che cosa successe a Modigliani quando arrivò a Parigi e si ridusse a
diventare un povero ubriacone, lui che
era un figlio educato e ben vestito della buona borghesia ebraica livornese.
Credo di aver risolto l’enigma. Quando Amedeo sbarcò a Montparnasse
capì che tutto ciò che aveva fatto fino
a quel momento non serviva a niente e
che doveva cominciare daccapo. Ci
mise più di dieci anni.
Perché è così difficile parlare di libri
e fare programmi culturali in televisione?
Non è così difficile. Basta sapere che
si parla a nicchie di spettatori ed essere pronti a pagare le conseguenze in
termini di ascolto.
Quali sono i suoi programmi per il
futuro come scrittore, giornalista e
conduttore televisivo?
Continuare a fare quello che faccio,
finché potrò, in tutti i sensi.
mento, tramite titoli e colloquio. Tale
riforma dovrebbe essere abbinata al
divieto drastico di carriere interne, che
del resto è la regola nelle università
americane. Sacrosanto mi sembra
l’appello di Pellini a lanciare una politica seria di borse di studio per gli
studenti meritevoli ma privi di mezzi
economici, e un piano di miglioramento delle strutture universitarie.
L’autore non si pronuncia però sui
mezzi attraverso cui reperire il denaro;
e qua e là ripete che un’università indipendente è un’università finanziata
prevalentemente dal denaro pubblico.
In un articolo apparso sul "Sole 24
ore" del 19 maggio Luigi Zingales
propone la sua formula (liberistica)
per risollevare l’università italiana:
aumentare le tasse universitarie, istituendo borse di studio per gli studenti bravi ma senza risorse, e prestiti
(statali) per quelli senza risorse anche
se meno bravi; e garantire a ciascuna
università totale autonomia, finanziaria e didattica. «Solo quelle che offriranno un servizio superiore al costo conclude Zingales - saranno in grado
di sostenersi con i proventi delle rette.
Le altre si adegueranno o chiuderanno, con grande beneficio della collettività».
Quella di Zingales è una provocazione, che prendere alla lettera sarebbe
deleterio, ma sui cui forse è necessario
riflettere. Credo che i fautori, come
Pellini, di un’università moderna, meritocratica, aperta ai giovani e agli
stranieri, non possano ignorare la provocazione di Zingales, che del resto
insegna in una di quelle università (la
University of Chicago) a cui in molti
guardiamo con invidia.
pagina
7
Finisterre
autori
italiani
ARNALDO COLASANTI
IL CAPPELLO DI MAGRIS
Le sale del monastero di Pedralbes, a Barcellona, sono larghe e
imponenti ma anche rattrappite
da un brivido gotico, come se
fossero unghie che s’incarniscono sotto la roccia del monumento. Lì (che è anche una bellissima
sezione del fondo Thyssen-Bornemisza), giravano lenti un padre
e un figlio, lui settantacinque anni, piccolo di statura, dall’eleganza semplice e pulita, e l’altro
forse già cinquantenne, con un
che di goffo e di infantile, a volte delicatamente tenuto per mano. Avevano il passo discreto, ma
con un muoversi sicuro. Erano
visitatori, come colui che li sta
guardando (uno scrittore italiano)
e che racconta questa storia. I
due passavano davanti al Beato
Angelico e poi di fronte alle ombre cupe di Antonio Anselmi, il
ritratto di Tiziano, mentre il padre, quasi sussurrando, stava lì a
spiegare quel quadro o quella luce, mentre forse il ragazzo invecchiato si distraeva un po’, fissando il canarino in fuga nel Ritratto di una dama di Pietro Longhi. Il figlio comunque sta a sentire. Accenna con la testa (scrive
Claudio Magris, l’osservatore) e
«ogni tanto mormora qualcosa».
È bello vedere la loro familiarità: ma è anche strano, acquisita
un che di ridicolo, il fatto che un
padre vecchio stia ancora lì ad insegnare ad un bambino avvizzito,
cinquantenne, con gli occhi vacui.
Magris deve aver sorriso e forse
deve aver cacciato via come una
mosca quel piccolo imbarazzo.
Se ne sarebbe andato alla sala
successiva, lasciando quella coppia fuggita da una pagina di Azorin, se non fosse accaduto questo
che racconta: «Giunto davanti al
Ritratto di Marianna d’Austria,
regina di Spagna, si china per
leggere il nome dell’autore, poi si
rizza si scatto e, rivolgendosi al
figlio, gli dice, in un tono di voce
un po’alto: Velàzquez! e si toglie
il cappello, alzandolo il più possibile». Un padre insegna per tutta la vita: la sua gioia basta alla
gioia del figlio. Ora li vediamo
bene: i suoi occhi tondi e vuoti
sono quelli di un ragazzo gravemente Down; sono gli occhi di
chi non ha niente, se il sorriso innamorato di un padre. Due persone si bastano, scrive Magris, «come si basta l’amore». Il togliersi
il cappello è un gesto regale: il
dolore non stronca più, non inacidisce il tempo della vita. Un miracolo basta, anzi sovrabbonda
alla felicità dell’esistenza.
Mentre racconto questa storia (e
siamo al Todi Arte Festival, sto
presentando L’infinito viaggiare)
Magris mi guarda. Sembra incuriosito (troppa intimità!, in fondo
è solo una presentazione di un libro e poi d’estate! non se l’aspettava il ricordo di questa paginetta) ma è felice. Stringe un po’ le
palpebre, mi parla senza parole,
sta zitto. Ma con lo sguardo dice
a noi tutti quello che, come scrittore, sta raccontando da un po’di
anni. Ecco, lo Spirito soffia dove
vuole e nessuno sa da dove il
mondo riconquisterà il senso. Ma
l’uomo spera. Come l’ebreo di
Roth, ogni uomo ha in sé il privilegio di essere una creatura «eternamente illesa» e sta lì, nella vita, a brucare quel po’di erba, fiutando sulla nuca la luce del sole.
Siamo tutti ciechi. Per questo
pensiamo: e l’amore è una luce
nera e brunetta. La sala comunale di Todi è piena. La gente ha capito. Se non sarebbe buffo, mi
immagino che tutti oggi indossino un cappello, chi tondo, chi
piccolo, chi immenso. Ma solo
Claudio Magris sembra adesso
toccarsi con le dita le falde. Ma
sì: si sta togliendo la bombetta,
alzandola il più possibile. Ringrazia regalmente la vita.
Claudio Magris, L’infinito
viaggiare (Mondadori)
8
L
’
Europa finisce con il Mare Nostrum o continua oltre il Mediterraneo trovando propaggini naturali nei Paesi oltremare?
Scommettendo sul senso asseverativo
della domanda un gruppo di studiosi
italiani, coordinati da Alessandro Barbero, hanno messo mano a una storia
che non solo comprenda quell’entità
ancora oggi non del tutto definita che
è il Vecchio Continente ma che si
estenda addirittura alle altre ed estranee civiltà dirimpettaie: un viatico forse in vicinanza del libero scambio o il
ripristino di quel libero scambio che si
riconosceva nell’antica lingua comune del sabir. Il programma si concluderà nel 2010, al ritmo di tre volumi
l’anno per un totale di quindici e si intola appunto Storia d’Europa e del
Mediterraneo (Salerno Editrice). Una
nuova sintesi storica, ancorché autorevole, può sembrare velleitaria, e tuttavia le premesse contenute nella presentazione di Barbero sembrano di
stimolante attualità, e non mancheranno di far discutere. La storia, del resto, non deve anche (o forse soprattutto) far discutere? Chiarendo sempre
più il passato per illuminare sempre
meglio il presente? Stilos ha intervistato Barbero, autore di numerosi libri di
storia, fra cui per ultimo 9 agosto 378.
Il giorno dei barbari (Laterza, 2005).
In tempi di globalizzazione, tra chi
crede che si possano esportare con
la forza i sistemi politici e chi paventa o propugna scontri di civiltà, giovano le grandi sintesi storiche? Non
rischiano di essere onnicomprensive, e quindi di giustificare tutto?
Io direi che le grandi sintesi giovano
soprattutto in quanto smontano il passato e ne mostrano la complessità,
contrastando l’idea dominante che la
storia sia a senso unico o che comunque ci sia una civiltà, una razza, una
religione in qualche modo predestinata a trionfare.
Quale ruolo può svolgere la storia
nell’attuale dibattito politico-culturale?
La storia oggi è indispensabile per
contrastare certe derive che s’intravvedono fin troppo bene. Serve a capire che la civiltà occidentale, come la
conosciamo oggi, è il frutto di uno
sviluppo faticoso, contraddittorio,
esaltante ma anche tragico; a creare
consapevolezza degli errori commessi in passato, aiutando, magari, a non
commetterli più; a relativizzare convinzioni e valori (il che non significa
assolutamente azzerarli, ma avere coscienza di come si sono costituiti, e
avere rispetto per chi, attraverso un
percorso diverso, è arrivato a convinzioni e valori in parte diversi). Insomma serve a creare persone consapevoli di com’è complessa la realtà umana,
attrezzate per non cadere vittime della propaganda e delle semplificazioni,
rispettose della diversità.
Mi pare di aver capito, dal piano
dell’opera, che una delle idee portanti sia che le cosiddette «identità»
debbano fare i conti con le infinite
occasioni di meticciato che i fatti storici hanno prodotto nel corso dei secoli. È così?
Direi di sì, anche se naturalmente non
voglio cadere in una prospettiva falsamente rassicurante, politically correct,
pretendendo che il meticciato sia sempre e soltanto un fattore positivo. Può
esserlo, ma può essere anche causa di
insicurezza e di destabilizzazione, e
far finta che non sia così non è il miglior modo per affrontare i problemi
posti, ad esempio, dall’immigrazione. Il punto cruciale su cui l’approccio
storico è indispensabile, e può davvero aprire gli occhi, sta nel fatto che la
storia ci fa toccar con mano come le
identità collettive, etniche o religiose,
siano in realtà costruite, manipolate,
negoziate, e soggette a trasformarsi
nel corso del tempo. Non sono dei
dati «naturali» e appunto «dati» una
volta per tutte: le nazioni nascono e
scompaiono, e nel corso della loro
esistenza spesso si creano delle mitologie e reinventano la propria identità;
Šlovskij
C preso
A in parola
Nella foto Alessandro Barbero, che per la Salerno sta curando
l’opera di quindici volumi Storia d’Europa e del Mediterraneo
IL LIBRO
ALESSANDRO
BARBERO (cura)
"Storia d’Europa
e del Mediterraneo"
Collana in quindici
volumi
Salerno Editrice, 2006
Così si coniugano
civiltà contrastanti
Quindici volumi per un’opera
monumentale che assume uno
sguardo unico sul Mediterraneo, coniugando vicende e
culture diverse e a volte contrastanti. Un progetto ambizioso che dall’età antica arriva a quella contemporanea
riepilogando cinquemila anni
di storia e rintracciando filiazioni, processi storici e saperi
comuni.
ALESSANDRO BARBERO . «Se una delle sfide di oggi è il confronto fra il Nord
e il Sud del mondo, il Mediterraneo è chiaramente una delle frontiere calde in
cui va in scena questo confronto. Ecco che vale la pena di riscoprire come le
civiltà che oggi si fronteggiano abbiano in realtà una lunga storia comune»
Il pluri-Mediterraneo
ha una sola filiazione
VIVE
LENTINI. "LA PIAZZA
ROSSA" (RUBBETTINO, 1999),
"LA PIAZZA NEGATA" (RUBBETTINO, 2000), "I FILI
STRAPPATI" (IRIDE, 2006)
A
ALFIO SIRACUSANO
come le religioni mutano nel corso
del tempo. La storia è un immenso
serbatoio di esempi di questa continua
trasformazione, reinvenzione e (qualche volta) anche cinica manipolazione
delle identità collettive: conoscerla significa immunizzarsi contro il pericolo più grave che corre oggi l’umanità
globalizzata, cioè l’esasperazione delle contrapposizioni e la tendenza a lasciarsi manipolare da chi predica soluzioni sbrigative. Per Umberto Eco,
per ogni problema complesso c’è una
soluzione semplice, ma è sbagliata. E
io aggiungo che proprio la storia offre
continuamente la dimostrazione di
questa verità.
Perché è importante rispondere alla domanda «cos’è l’Europa»? E
perché non lo è solo per noi europei?
Perché oggi la risposta a questa domanda non comporta solo conseguenze teoriche, può influenzare scelte politiche da cui dipende il futuro di tutti
noi. Ed è importante non solo per noi
europei, perché non è affatto ovvio
che cosa voglia dire «noi europei».
Studiare la storia millenaria dell’Europa significa accorgersi che essere europei ha voluto dire cose diverse da
un’epoca all’altra; che non c’è mai
stata una precisa coincidenza fra l’idea
di Europa e la realtà geografica del
continente (i cui confini, com’è noto,
non sono affatto precisi neanche da un
punto di vista strettamente geografico); e che insomma chi non è europeo
oggi potrebbe benissimo esserlo in
futuro. Il che ci ricollega alla domanda precedente, alla fluidità di identità
che nel corso dei secoli sono sempre
state rinegoziate...
Premesso che la civiltà romana si
sviluppò attorno al mediterraneo,
che la rottura vera rispetto ad essa
si ebbe con la crisi della sua funzione di cerniera nord-sud, e che il pro-
ENZO ROGGI
"Le autoblinde
del Formalismo"
pp. 144, euro 13
Sellerio, 2006
È una conversazione del giornalista Roggi, che è stato
corrispondente de "l’Unità" a Mosca negli anni dal 1966
al 1970, con Viktor B. Šlovskij, il massimo rappresentante del formalismo russo. Questa lunga intervista, rilasciata nel 1968, all’apice del dissenso dopo i fatti della
Cecoslovacchia, è divenuta un’autobiografia politica
umana e intellettuale del teorico russo, ma anche una
storia della cultura sovietica.
blema dei rapporti con l’Islam riporta in primo piano questo bacino, qual è oggi, o quale dev’essere, il
ruolo di questo mare? Può essere
centro di una nuova ecumene?
Oggi siamo più prudenti di quanto
non lo fossero i Romani nell’usare il
termine «ecumene»: loro credevano
che il mondo finisse alle colonne d’Ercole, noi sappiamo che l’Europa e il
Mediterraneo sono solo uno degli ambiti trainanti d’un mondo globalizzato
in cui, poniamo, il Nordamerica o l’Asia orientale hanno un ruolo almeno
altrettanto importante. Ma certamente,
se una delle sfide di oggi è il confronto fra il Nord e il Sud del mondo, e se
il nostro futuro dipende dalla capacità
di indirizzare questo confronto verso
l’integrazione anziché lo scontro di
civiltà, ebbene, il Mediterraneo è chiaramente una delle frontiere calde in
cui va in scena questo confronto. Ecco che vale la pena di riscoprire come
le popolazioni e le civiltà che oggi si
fronteggiano a Nord e a Sud del Mediterraneo abbiano in realtà una lunga
storia comune. Ovviamente anche in
questo caso bisogna evitare la visione
strumentale, politically correct, che
insiste soltanto sulla fecondità degli
scambi reciproci: il confronto è stato
nei secoli anche lotta feroce; ma quello che conta è che c’è comunque una
storia in comune, e c’è dunque uno
spazio condiviso su cui è possibile
pensare di costruire un futuro.
Spiluccando tra le anticipazioni: la
Roma italica viene raccontata dentro la prospettiva delle poleis greche, e solo in seguito se ne individua
il significato universale, come di una
Ecumene che si proietta per secoli.
Vuol dire respingere a priori l’ideo-
logia della «diversità» e quindi della «superiorità» romana?
Cominciamo dal generale, per poi tornare al caso particolare di Roma. Che
cos’è la superiorità? Non si può negare che vi siano (come in passato) paesi o civiltà più ricchi e altri più poveri, più potenti militarmente oppure
meno potenti. Personalmente mi spingerei anche ad affermare che spesso i
paesi più ricchi e più potenti hanno anche una società più complessa e articolata, che è al tempo stesso causa ed
effetto della loro superiorità economica e militare. Quello che bisogna
evitare, è credere a) che questi paesi
siano perciò anche moralmente superiori, e b) che la loro superiorità sia
inevitabile e derivi dal fatto che sono
abitati da una razza superiore; queste
sono due mitologie pericolose quanto
ricorrenti, di cui la storia dimostra facilmente l’assoluta vuotezza. I fattori
che portano alla crescita di un paese e
magari alla sua trasformazione in potenza mondiale sono tanti, complessi,
magari anche contraddittori, e il lavoro dello storico consiste nel rivelarne
l’intreccio senza credere che dati biologici o destini manifesti dovessero
produrre questo risultato. Detto questo, la scelta di trattare le origini di Roma e la sua prima espansione all’interno dei volumi di storia greca rispecchiava, in origine, semplicemente la
realtà: la Roma dei secoli VIII-IV era
una polis italica che aveva ripreso,
con un certo successo locale, il modello imposto su scala mediterranea dai
Greci, e ha senso studiarla solo all’interno di quel contesto; la separazione
fra storia greca e storia romana come
se fossero due ambiti distinti (e, nella
testa della gente, anche successivi cro-
Senso vietato
di Massimo Onofri
Il mio Paese
L’Italia invero
è una nazione
Proprietà
di un testo
letterario
da Libero
a Liberazione
FRANCO BRIOSCHI
"La mappa dell’impero"
pp. 257, euro 11,50
Net, 2006
Se sia possibile definire la letteratura e individuare le
proprietà specifiche di un testo letterario: di ciò si discute in questo libro che riappare a oltre vent’anni dalla prima edizione. Nonostante gli anni trascorsi il testo di
Brioschi che ha insegnato Critica e teoria della letteratura e Stilistica e semiotica del testo all’università di Milano appare ancora attuale, segno della validità del sistema delle teorie letterarie.
Lettere
ad un
amico
nologicamente!) è irrazionale e antistorica; allo stesso modo, la Roma
ecumenica è tale solo grazie alla simbiosi con la civiltà ellenistica, che le
fornisce gran parte dell’attrezzatura
intellettuale indispensabile per dominare il mondo - tanto che oggi gli storici più attenti cominciano a parlare di
«impero greco-romano» (titolo di un
recentissimo libro di Paul Veyne). La
nostra è stata dunque una scelta puramente scientifica: ma sono molto contento se, come la sua domanda mi fa
capire, può anche essere letta in una
più generale chiave programmatica, di
demitizzazione di tutte le pretese fatali necessità storiche.
Nella sua introduzione affiora il mistero dell’influenza ebraica: «un popolo minuscolo, spesso vinto e dominato da conquistatori stranieri...
tuttavia capace di dar vita a una
concezione religiosa cui oggi aderisce , sotto forma delle tre grandi religioni monoteiste, la maggioranza
dell’umanità». Ma questa influenza sarebbe stata tale se non si fosse
aggiunta, forse con effetto moltiplicatore, alle altre: la filosofia greca e
l’arte statuale romana?
No certo, e questa è precisamente la
dimostrazione di quello che ho tentato di dire prima: nello sviluppo storico
non ci sono né esiti inevitabili né cause uniche (che sono i due principali
fraintendimenti di chi non è abituato
agli studi storici), ma sempre un intreccio di fattori che produce risultati
inaspettati. Solo a cose fatte diventa
possibile districare i fili, e capire come
si è arrivati a quei risultati. E allora si
corre il rischio di pensare che a quei risultati si dovesse arrivare per forza,
che una qualche legge o necessità storica li abbia prodotti: ma se così fosse,
se davvero ci fossero delle leggi e delle necessità scientificamente riconoscibili, gli storici saprebbero predire il
futuro, mentre com’è noto non lo sanno fare per niente...
Mi pare di aver colto una tesi molto suggestiva tra i fondamenti della
collana: che l’Islam dei primi secoli fu una continuazione del mondo
antico nel versante meridionale del
bacino mediterraneo non meno entusiasta di quanto avvenne nell’Europa continentale cristiana. Abbiamo insomma, occidentali e non occidentali, le stesse radici. Se vogliamo restare ai fatti e non fare propaganda.
Questo è un aspetto su cui insistiamo
tanto più in quanto è del tutto estraneo
alla cultura dell’uomo della strada,
che percepisce il mondo arabo e islamico come totalmente alieno. Ma anche chi ha studiato spesso si limita a ricordare che i filosofi arabi nel Medioevo ci hanno trasmesso le opere
della filosofia greca senza trarne poi
conseguenze più ampie. Il fatto che gli
arabi fossero uno dei popoli dell’impero romano; che l’Islam sia al limite
una variante della tradizione ebraicocristiana (per i teologi medievali i musulmani erano eretici e non pagani);
che l’impero arabo, e poi quello ottomano, si siano organizzati sul modello dell’impero romano; e che il pensiero greco sia all’origine di tutto il pensiero arabo - ecco una serie di fatti storici ovvi, notissimi agli specialisti, ma
piuttosto sorprendenti per il sentire
comune. Poi, naturalmente, anche qui
bisogna stare attenti: le radici comuni
non sono tutto: quanto contano le radici nella costruzione di un’identità che
ormai dura da millenni? Accanto alle
radici comuni ci sono altre esperienze
fondanti che il mondo cristiano-occidentale e quello islamico non hanno
condiviso (l’Illuminismo, per fare un
esempio), e altre ancora che li hanno
visti schierati su fronti opposti (le crociate, il colonialismo). L’importante,
allora, è semplicemente capire che
l’attuale sensazione di estraneità, anzi
di opposizione frontale, fra Occidente
e Islam non è inevitabile, non è dettata dall’essenza originaria di queste
due civiltà, ma è il frutto di un percorso storico accidentato, e come tale è
soggetta a possibili, futuri mutamenti.
ANNA M. ORTENSE
"Alla luce del Sud"
R. Prunas e G. Di Costanzo (cura)
pp.143, euro 16
Archinto, 2006
Anna Maria Ortense scrive delle lettere al suo amico Pasquale Prunas confidandogli i suoi progetti, le inquietitudini e la sua vissuta povertà. Chiede di collaborare al suo
giornale "Sud, giornale di cultura" nel ’46. In quegli anni scrive il suo libro più famoso, Il mare non bagna Napoli: lei non l’aveva vista ed era il suo amico Prunas a
dirle come erano realmente e storicamente le cose. La
Ortense figura oggi tra i maggiori autori del Novecento.
Diogene
pagina
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autori
italiani
SOSSIO GIAMETTA
LA LOGICA E L’ISTINTO
Dato un festival di filosofia sull’instabilità (Roma, 11-14 maggio), tirar fuori il responso nietzschiano: «L’uomo è l’animale
non ancora stabilizzato». Che,
come al solito, è accettato acriticamente. Cioè senza vedere lo
schopenhauerismo mal digerito
e il darwinismo che, nonostante
la ripulsa di Darwin, Nietzsche
si trascina dietro, come il fantasma che si aggirava allora per
l’Europa. La differenza fra l’uomo e l’animale è fatta da Schopenhauer. L’animale reagisce
agli stimoli quasi meccanicamente, perché inchiodato dai
suoi istinti. L’uomo invece con
libertà, si dice, perché non ha
istinti fissi. Certo la differenza di
reazione è immensa. Ma a causa
della libertà nell’uomo? Nel
Breviario spirituale ripubblicato
dalla Utet Martinetti osserva che
l’attività umana ha origine istintiva anche quando sembra razionale, perché in questo caso la
ragione serve l’istinto. Niente
libertà allora? Qualcosa c’è.
«Ogni giorno porta con sé le sue
esperienze e ciascuna è la condanna di un’illusione, un ammaestramento che dissipa un errore». L’uomo non può fuoruscire dall’orizzonte in cui la sua
natura, origine, condizione, educazione lo rinchiudono, ma va
tanto più verso la libertà, la saggezza, la ragione, quanto più va
verso l’unità dello spirito, si eleva a un punto di vista universale, acquista stabilità nel pensiero
e nell’azione. Per aspera ad
astra.
Ma non aveva detto Nietzsche
stesso che la spiritualità è solo
l’affinamento degli istinti? E
parlare di pulsioni invece che di
istinti non cambia le cose. La libertà-instabilità dell’uomo, si dice, è inquietante perché non
consente di prevedere i comportamenti. Invece, se si conosce
una persona, si sa come si comporterà in una data situazione, il
debole debolmente, il forte fortemente, Jago slealmente, Otello passionalmente. Per mancanza di codici istintuali l’uomo si
sarebbe dato codici logici e codici morali. Che accozzamento!
I codici istintuali non mancano
affatto, come abbiamo visto, e
quelli logici e morali hanno origini logica e morale. Non mirano a sopperire all’instabilità ma
all’eccessiva stabilità istintuale,
all’animalità con l’umanità, nell’uomo e negli animali, se questi
hanno coscienza, come Lorenz
crede fermamente.
«La logica, ideata in ambito filosofico e applicata in ambito
scientifico, è stata la prima forma di stabilizzazione del pensiero e del linguaggio che ha consentito agli uomini di intendersi
e di comunicare tra loro» dice
Galimberti ("la Repubblica"
5.5.06). La logica? No l’istinto
che muove la fantasia. La logica,
ideata in ambito logico e applicata sia in filosofia sia in scienza, in quanto favorisce l’individualità, crea differenza e instabilità, contrasto e conflitto. Si veda se i filosofi, specialisti della
logica, vanno d’accordo fra loro.
Le morali, in particolare, come
le religioni, non riducono gli
spazi conflittuali ma li accrescono. La mancanza di un rigido
codice istintuale metterebbe a
rischio gli uomini. Ha messo a
rischio soprattutto gli animali,
su cui l’uomo ha affermato un
potere assoluto, anche di giocarci e di maltrattarli, secondo
Spinoza.
È vero invece che l’età della tecnica costringe a una stabilità di
pessima lega, cioè a condizionamenti sempre più pesanti. Sempre però a ridosso del maggiore
benessere che procura in primo
luogo. Sicché bisogna cercare
di correggerne gli effetti infausti,
ma non si può eliminarla, neanche volendolo (e sarebbe follia).
S t los
autori
italiani
PATRIZIA DANZÈ
on è facile viaggiare
bene: è quello che
abbiamo detto io e
Corrado Ruggeri
quando abbiamo
deciso di scrivere questo libro, perché
bisogna soprattutto ricominciare a
pensare di viaggiare». Folco Quilici,
gran viaggiatore in tutto il mondo, parla del libro che ha scritto insieme con
Corrado Ruggeri, romano, caporedattore del "Corriere della Sera", viaggiatore anche lui per passione e per lavoro. Sì, viaggiare non è un manuale, né
solo un libro di consigli per il viaggio,
ma è comunque un testo/guida da leggersi prima di affrontare un viaggio, il
nostro primo viaggio o l’ennesimo di
tanti itinerari. Come viaggiare? e dove
andare? Con chi partire e quando andare via? Cosa ha tolto al viaggio la
globalizzazione e cosa gli ha regalato?
E come una coppia di viaggiatori, che
il mondo l’hanno attraversato, assaggiato, vissuto in mille modi, anche
estremi, può dare consigli al viaggiatore medio che dà per scontata la sua vacanza? Stilos ne ha parlato con Quilici.
Lei viaggia da tanto tempo nei cinque continenti e ha visto da vicino
tante cose; è dalle sue esperienze che
è nato questo libro?
Devo dire prima di tutto che i continenti sono sei; sin dal mio primo film
ho infatti battezzato così il mare e tanti poi lo hanno riconosciuto giacché è
veramente un continente a sé. Per ritornare al libro, esperienze a parte, la
spinta è stata l’aver conosciuto Corrado Ruggeri, con cui l’ho realizzato.
Siamo entrambi viaggiatori accaniti,
avvelenati e inguaribili; lui, viaggiatore con lo sguardo del giornalista, col
piglio moderno di chi ha visitato più di
settanta paesi e scritto reportage da
tutti i continenti, io con lo sguardo antico e profondo di chi viaggia per scoprire le radici dei popoli, le caratteristiche etniche, le tradizioni.
Dare consigli non è facile, soprattutto quelli per i progetti più audaci:
cosa consigliate dunque a chi vuole
mettersi in viaggio?
I consigli sono tantissimi e sono stati
concepiti liberamente, un po’ dove ci
portava il discorso: dai consigli pratici e provocatori di non mettersi in
viaggio con le valigie, tanto arrivano
dove non si vuole o non arrivano affatto, a quelli più polemici e forse più discutibili, di non leggere da una guida
scritta le informazioni sul paese dove
si andrà, ma di scoprirlo e lasciare spazio alle sensazioni, alle emozioni per
viverlo e, casomai, leggere al ritorno e
non da guide «tecniche», da freddi
manuali, ma da saggi, romanzi, reportage che sicuramente danno dei luoghi
una visione più vera di quella realistica delle guide turistiche. I consigli
vanno da come sopportare una vacanza forzata in campagna, magari per
motivi di salute, a come sopravvivere
a quella cosa terribile che sono i villaggi turistici, fermo restando che poi anche quella vacanza può rivelarsi utile,
a viverla con una buona dose di autoironia. Ma soprattutto il consiglio principale è sapersi adattare al paese in cui
si va e non cercare di portarsi dietro i
propri pregiudizi e voler affermare le
proprie abitudini.
Il libro che lei ha scritto in collaborazione con Ruggeri vuole essere
non solo un invito a muoversi, a vedere, a scoprire, ma anche un’affermazione di libertà. In che senso?
Il mondo moderno sembra ci voglia
condizionare con mille paure, con la
guerra continua sulla scena mondiale,
con gli attentati, con gli stati canaglia
e, paradossalmente, sembra bloccarci
«
N
FOLCO QUILICI . Suggerimenti preziosi di un viaggiatore impenitente e
instancabile: non soltanto su come comportarsi all’estero ma soprattutto
sullo spirito di cui dotarsi per spostarsi nel mondo e preferire lasciare il
gruppo saltando un museo ma conoscendo la gente da vicino
Istruzioni di viaggio
allo scopo di perdersi
e limitarci nel viaggiare nonostante
oggi un maggior numero di persone
viaggi perché viaggiare è diventato
più facile per tutti, per alcuni punti di
vista. Quando ero giovane potevo girare per l’Afghanistan tranquillamente;
si veniva accolti amichevolmente, si
potevano ammirare paesaggi splendidi, opere d’arte e aree archeologiche.
Certamente oggi si può viaggiare meno di quando ero ragazzo, per due ragioni: sia perché, a parte i paesi in
guerra, ci sono dei paesi veramente
impraticabili, come la Colombia e il
Brasile, dove ci sono «guerre» di altro
tipo; sia perché c’è il pericolo dei viaggi organizzati, che sono molto comodi
economicamente ma condizionano il
viaggio perché impediscono di vivere
il viaggio autenticamente. Viaggiare è
un obbligo per chi ama la libertà, è
questa la cosa basilare; e più ci capiamo con la gente che incontriamo altrove, più siamo liberi. Abbiamo il dovere di viaggiare perché abbiamo il dovere di conoscere e di essere liberi.
Uno dei gusti del viaggio è anche
quello un po’ di perdersi. Come bisogna «perdersi» in un viaggio per
gustarlo?
«Perdersi» ovviamente come un fatto
positivo, lasciando i compagni di gita
e di gruppo, se in gruppo si viaggia necessariamente o di propria volontà. Io
l’ho fatto in Cina ai tempi di Mao; ricordo che mi attardai e persi il mio
gruppo. È stato il pezzo più bello della Cina che ho visto. Certo poi una
guardia mi fermò e mi riportò in albergo, ma quella mattinata è valsa tutto il
viaggio. Perdersi è anche andare per
strade e dintorni non contemplati da
IL LIBRO
FOLCO QUILICI
CORRADO RUGGERI
"Sì, viaggiare"
pp. 190, euro 16
Mondadori, 2006
Un invito a muoversi
affermando la libertà
Come, quando, con chi, perché
viaggiare. Un libro che si presenta come un invito a muoversi, vedere, scoprire, ma come affermazione di libertà. Un
testo che è una guida per viaggi intelligenti e divertenti.
una guida, entrare negli interni, stare a
contatto con la gente, vedere un museo
in meno rispetto a quello che c’è nella
tabella di marcia e guardare da vicino
come si vive. Perdersi è anche stare di
più a contatto con la natura. Trovo che
in Italia è ancora poco di moda andare
nei posti dove viaggiare significa stare a contatto con la natura. Se si va lontano si va a Tokio ma non, ad esempio,
nella Nuova Scozia. Bisognerebbe non
partire tutti «oggi», nello stesso tempo
delle ferie estive. Il Giappone, ad
esempio, è splendido in autunno, così
come il Sudafrica e il Botswana a luglio, perché non sono dei paesi troppo
caldi.
Naturalmente «perdersi» è anche
un moto interiore, un volersi allon-
tanare, un voler andare altrove anche mentalmente. Chi ci riesce meglio? Il giovane o l’adulto?
Non c’è differenza tra un giovane e un
adulto. Bisogna considerare il modo in
cui si voglia «perdersi». Bisogna evitare come molti ragazzi che vedono
dieci città americane in quindici giorni. Quello è il miglior modo di non vedere nulla anche se sembra di aver visto tanto. «Perdersi» nel viaggio bisogna volerlo intensamente; anche un
adulto che viaggia, mettiamo, in visita organizzata, può migliorare la qualità del suo viaggio esigendo determinate cose; per esempio, immergersi
nella cucina locale, perché la cucina è
un grandissimo salvacondotto e ci
consente di avvicinarci maggiormente
al luogo in cui siamo e alla gente che
incontriamo. O pretendere di avere un
albergo con vista se il luogo che visitiamo è eccezionale per il panorama, o
magari scegliere di rimanere nel centro
storico del luogo in cui ci si trova, e pazienza se l’albergo non è a cinque stelle con piscina e sauna e se si sta in un
alloggio più modesto.
Nel vostro libro affrontate anche
l’argomento del viaggio per chi è
portatore di handicap. Ci sono dunque vacanze possibili per i disabili?
Certamente. Corrado Ruggeri è partito da un’inchiesta molto interessante
condotta da lui stesso sui viaggi per
persone diversamente abili. Oggi non
è più così disastroso fare un viaggio
per chi è disabile; il turismo ha fatto
molti passi in avanti in questo senso.
Le iniziative non vengono più lasciate
solo alle organizzazioni di volontariato e solidarietà, ma c’è un turismo co-
Nella foto Folco Quilici e Corrado Ruggeri, autori
per Mondadori di Sì, viaggiare
siddetto «accessibile» che è in forte
espansione e non si parla più di tolleranza, ma di organizzazione. È bello
viaggiare senza sentire il peso della disabilità, sapendo di essere trattato come qualsiasi altro cliente. È questa la
vera scommessa. Qualche tour operator ci ha già pensato. Noi, ad esempio,
come «Parchi naturali italiani» abbiamo organizzato in Sicilia, nel bellissimo mare davanti a Siracusa, delle immersioni per i ciechi. Una cosa eccezionale, tutt’altro che assurda per chi
non vede, almeno stando alle testimonianze.
Nel vostro libro avete parlato di tanti modi di fare vacanze; in un capitolo però proponete «qualcosa di diverso per mare», né in barca né su
navi mastodontiche da crociera. E
allora?
La crociera per mare è bellissima e
non su grandi e a volte pacchiane navi
di lusso, né su troppo spartane golette
a vela, ma sulle navi mercantili che dispongono di alcun cabine passeggeri.
Le rotte sono svariate e vanno dalle
isole atlantiche come Ascensión e l’isola di Sant’Elena ai mari del Nord sino alla Micronesia e al Canada e ad altre terre straordinarie. Bisogna pensarci almeno un anno prima e informarsi presso le compagnie di navigazione, ma le emozioni sono assicurate
perché gli scali di queste navi durano
sempre uno, due o più giorni e permettono di scendere a terra e di girare. E
anche la vita a bordo non è male, come
neppure la cucina perché ai marinai
piace mangiare bene.
Come proposta alternativa all’aereo
o alla nave il treno è ancora valido?
Validissimo. Non tanto la Transiberiana, viaggio lungo ed estenuante in
cui praticamente non vedi nulla per arrivare al nulla, quanto la ferrovia che
attraversa il Canada. Un viaggio magnifico perché questo grande paese ha
un paesaggio che varia continuamente e attraversarlo con un treno che dispone di ampie vetrate e ottimi
comfort è veramente un’esperienza
unica.
Ci sono viaggiatori e viaggiatori; ma
cosa non bisogna aspettarsi da un
viaggio?
Bisogna invece aspettarsi di tutto e
nello stesso tempo bisogna aspettarsi
niente. Non bisogna pensare che in un
viaggio incontreremo l’uomo o la donna della nostra vita, e magari può anche capitare, perché no? Non bisogna
aspettarsi di potersi ammalare e perciò
portarsi dietro un’intera farmacia, ricordandosi che anche nel Sahara si
trova l’occorrente per curarsi. E bisogna partire leggeri, sia come bagagli
che come pensieri e vivere il viaggio
per quello che può offrire di sensazionale, proprio nel senso di sensazioni da
vivere, come la famosa «camera con
vista» di cui si parla nel libro, cioè vivere un panorama già come una vacanza.
E rieccoci a casa, come si dice nel capitolo conclusivo del libro. Come vivere allora il ritorno?
Organizzandosi subito per ripartire.
Almeno io faccio così, un po’ come
quando sto per finire di scrivere un libro e già mi accingo a scriverne un altro. Nel vivere il ritorno a casa bisogna
evitare di pensare che quello che abbiamo lasciato sia cambiato perché
noi siamo cambiati. Mia madre diceva
che quando tornavo da un viaggio e mi
veniva la febbre, era perché provavo
un senso di sgomento per il fatto di ritrovare tutto uguale. Ecco perché, appena si può, è bene ripartire subito, così come è bene ripartire subito se durante il viaggio si è provata una paura
forte o si è vissuta un’avventura difficile.
Visita il nostro sito!
Edizioni Dedalo
pagina
9
S C A F F A L E
ROBERTO TOSCANO,
La violenza le regole, pp. 115,
euro 8, Einaudi 2006
La violenza nasce con l’uomo
escludendo il dialogo con lo stesso
uomo. Si rende necessario creare
regole ed istituzioni che riducano
tale minaccia. Occorre studiare argomenti e strumenti che contengano tale violenza. Prima però ci chiederemo di fronte a quale tipo di
violenza siamo posti, quale sia l’origine. Il terrorismo si allarga e irrompe ovunque, come fermarlo?
Toscano, diplomatico ed intellettuale, ci guida e ci fa luce attraverso questo allarmante argomento.
SILVANA MAURI, Ritratto di
una scrittrice involontaria, Rodolfo Montuoro (cura), pp. 291,
euro 15, Nottetempo 2006
Rodolfo Montuoro ci presenta una
scrittrice di 86 anni molto brava
che però non ha mai voluto considerarsi tale. Non ha mai pensato alla scrittura permanente sulla carta
ma sulla sabbia. Lei era solo una
narratrice orale ma Montuoro l’ha
costretta a lavorare con sé per tenere un diario che ci tenesse informati della sua esperienza nei lunghi anni bui delle guerre, della vita e della morte di personaggi famosi e tutto esce dalla sua penna divenendo
voce. Sposata con Ottiero Ottieri,
ha lavorato per quarant’anni per
Bompiani e oltre vent’anni per la
Scuola per librai Umberto ed Elisabetta Mauri.
FEDERICA BOSCO, Cercasi
amore disperatamente, pp. 241,
euro 9,90, Newton-Compton
2006
Cercasi disperatamente, disperatamente cercasi. Per Arianna è così.
Cerca l’amore disperatamente in
ogni luogo, in casa, in un pub, sulla spiaggia. Lei quell’amore lo vuole ad ogni costo ed in ogni modo.
Lo sogna, lo accarezza, lo vive ad
occhi chiusi. Inseguendolo corre,
inciampa, sorride, rinciampa e ride.
È follemente innamorata dell’amore tanto da compiere pazzie. È un’eroina maldestra e strampalata.
Aperta a ogni sorpresa della vita,
non si aspetta però che entrando in
una banca per incassare il suo primo assegno si trovi di fronte a una
banda di rapinatori. Federica Bosco
scrive una frizzante storia d’amore
nel suo stile pieno di battute e gaffe.
Ha esordito come scrittrice con il
romanzo Mi piaci da morire ma è
anche una esperta di gossip e tv.
ANDREA STELLA, Due ruote
sull’oceano, pp. 189, euro 15,
Longanesi 2006
È il diario avvincente e commovente di un grande sogno: costruire
un catamarano per disabili e andare
per mare. Lo ha fatto Stella, che
promuove attività sportive per persone diversamente abili ed è lui
stesso disabile da quando, nell’estate del 2000, a Miami rimase vittima
di un oscuro incidente. Da allora è
stata una battaglia continua che lo
ha condotto a sposarsi, a costruire
«Lo Spirito di Stella», il suo catamarano, il primo al mondo per disabili, con il quale è ritornato a Miami, sfidando l’Atlantico. Prefazione
al libro di Giovanni Soldini.
www.edizionidedalo.it
M. Vianello - E. Caramazza
Mario Guarino - Fedora Raugei
Enzo Marzo
Luigi Tranfo
Genere Spazio Potere
Gli anni del Disonore
Le voci del padrone
Verso una società post-maschilista
Dal 1965 il potere occulto di Licio Gelli
e della Loggia P2 tra affari, scandali e stragi
Saggio di liberalismo applicato alla servitù dei media
prefazione di Andrew Samuels
Il tramonto
del mito americano
Perché il potere è monopolio maschile, malgrado la sua
gestione si sia rivelata sempre e dovunque fallimentare? È
possibile un cambiamento? Gli autori avanzano una teoria
che impone una profonda revisione delle scienze sociali.
Dalla Seconda guerra mondiale a oggi, la biografia di
un uomo che si intreccia alla storia del potere in
Italia, mai completamente svelata.
Un pamphlet sulla libertà d’informazione, sullo
stato dei media nel presente e in un futuro condizionato da rivoluzionari mutamenti tecnologici.
La crisi dell’imperialismo americano mette a nudo le
antinomie sociali ed economiche di una società schizofrenica e disperata.
Ivan Cavicchi
Daniele Gouthier - Elena Ioli
Irène Diamantis
Nico Pillinini
Malati e governatori
Le parole di Einstein
Storie di ordinaria fobia Ecce gnomo
Un libro rosso per il diritto alla salute
Comunicare scienza fra rigore e poesia
Psicoanalisi delle paure irrazionali
prefazione di Marco Travaglio
Fantasmi, ratti, il buio, l’altezza: come si cura la fobia
e quale contributo può dare la psicoanalisi? L’autrice
ci propone una serie di affascinanti casi clinici, descrivendo le fobie più comuni, ma anche altre più insolite
e bizzarre.
«...le vignette di Pillinini sono
di una perfidia rara...»
prefazione di Tullio De Mauro
È necessaria una nuova strategia della sostenibilità
per prevenire, attraverso il benessere, il pericolo dell’antieconomicità dei crescenti costi dei sistemi sanitari pubblici.
Un viaggio al confine tra scienza e linguaggio, per
scoprire come nascono le parole e le metafore scientifiche alla base dell’edificio della scienza e della sua
comunicazione.
Contraddizioni di un mondo a rischio
M. Travaglio
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S t los
PATRIZIA DANZÈ
STELLA MAGNI . La condizione di una donna detenuta perché accusata
un pianeta sconosciuto
quello su cui si ferma
Stella Magni, cancelliere
presso la Procura della
Repubblica di Taranto e
già autrice del romanzo Danza nella
notte (Marsilio), con il quale nel 2003
ha vinto il premio «Rhegium Julii»,
Selezione opera prima.
La Magni ha avuto modo, per il suo
lavoro, di osservare da vicino la dimensione carceraria femminile, ha visto cose, che da «liberi», fuori, non si
possono neanche immaginare; in
quella vita c’è scivolata dentro, ne è
stata «contaminata», vi si è «sporcata»
e perciò ha deciso di raccontarla in un
libro, Le detenute (Avagliano), che
non è un dossier né un’inchiesta giornalistica ma che al primo e alla seconda attinge gli elementi realistici trasposti con un linguaggio lirico in un
romanzo di forte impatto emotivo.
Stilos ha intervistato la Magni.
Un affondo nel mondo carcerario
femminile il suo romanzo: come e
da cosa nasce?
Nasce dagli incontri che per la mia attività lavorativa ho avuto nel corso
degli anni con i familiari dei detenuti.
Mi è capitato di aiutare le giovani mogli di uomini appartenenti a clan malavitosi, magari semplicemente a scrivere una istanza da presentare al magistrato, così come ho avuto modo di
incontrare le mogli di alcuni «colletti
bianchi» arrestati per presunte truffe.
Da queste esperienze è nata l’esigenza di approfondire il tema della detenzione, e dopo la lettura di diversi saggi e dopo molte navigazioni su internet la decisione di scrivere soprattutto
di detenzione al femminile.
Quel mondo l’ha interessata a tal
punto da diventare una storia narrata?
Sì, anche perché il passo successivo
alle letture è stato quello di decidere di
incontrare le detenute e affrontare con
loro i temi che erano emersi dalle mie
ricerche. Ho chiesto ed ottenuto di incontrare diverse volte le donne ristrette nel carcere veneziano della Giudecca, esperienza che si è rivelata fondamentale per poi affrontare la stesura del romanzo. Le emozioni che si vivono incontrando chi è ristretto e ha
lasciato fuori da quelle mura gli affetti più cari, ha lasciato fuori «la vita vera», è qualcosa che ti resta cucito addosso per sempre. Così come non dimenticherò mai lo sguardo di quei
bambini detenuti con le loro madri.
Mai.
Perché proiettare la storia nel 2011?
Perché avevo deciso di far coincidere
l’arresto di Elena, la protagonista della storia, con i fatti di Genova del
2001 e con l’attentato alle Torri Gemelle di settembre dello stesso anno.
Avevo bisogno di non perdere le emozioni e le considerazioni che i fatti accaduti in quei mesi avevano provoca-
della morte di un carabiniere in un corteo no-global. È la prima a capire
che l’11 Settembre è un fatto ancora più grave di quello personale. Il
mondo penitenziario e il mondo esterno in uno specchio di rimandi
’
E
ENZO VERRENGIA
IL LIBRO
STELLA MAGNI
"Le detenute"
pp. 184, euro 13
Avagliano, 2006
Ritorno a Roma
per finire in carcere
Elena, avvocato penalista, vive
a Dublino con il figlio tredicenne Marco, ma torna a Roma
per rivedere gli ex compagni di
scuola. L’occasione coincide
con un corteo no-global nel
quale Elena si trova coinvolta.
Nei disordini muore un giovane carabiniere e lei viene accusata e incarcerata.
Vuoi il valore della vita?
Vedi la scala dei pericoli
to in ciascuno di noi e quando poi si è
trattato di far raccontare ad Elena, anni dopo la scarcerazione, la sua esperienza di detenuta mi è venuto naturale riportare tutto all’anniversario dei
dieci anni dai primi avvenimenti.
La vita si ferma per Elena un mese
prima che il mondo intero si fermi
per la tragedia delle Torri gemelle.
Che relazione hanno nella sua storia
i due fatti, l’uno quasi privato e l’altro mondiale?
Era mia intenzione sottolineare come
anche un evento tragico come l’essere
accusati di aver ucciso un carabiniere
durante una manifestazione no-global, paradossalmente, passasse in secondo piano nella vita di Elena di fronte a quanto stava accadendo in quei
giorni nel mondo. Raccontare lo sgomento e il senso di impotenza di chi in
carcere pensava ai propri figli fuori in
balia di pericoli invisibili e processi di
cambiamento inarrestabili.
Però lei sorvola sui fatti del G8 o,
meglio, li riduce ad una manifestazione alla quale Elena assiste neanche troppo convinta.
«l’altro mondo», quello che ci vive accanto ma che risulta più facile fare
finta che non esista.
La cosa sorprendente di questa storia (ed è anche il pensiero di Elena)
è che Elena diventa una «privilegiata» proprio per aver toccato con
mano la realtà del carcere. Come vive il «privilegio» del carcere il suo
personaggio?
Elena è avvocato penalista e la conoscenza del carcere nella condizione
di detenuta sarà sconvolgente sotto
più profili per lei. Il «privilegio» è legato al fatto che l’incontro con le donne detenute, prima a Rebibbia e poi alla Giudecca, le ha spalancato improvvisamente le porte su un universo
femminile, emozionale, di rapporti interpersonali così assolutamente vivi,
veri, profondi, tali da ribaltare tutte le
sue convinzioni e tali da portarla con
una naturalezza estrema, che non sospettava di possedere, all’abbandono
di quanto di convenzionale c’era stato
fino ad allora nella sua vita. In fondo il
carcere è proprio questo che fa: smantella il convenzionale e fa venire fuo-
CLAUDIO DAMIANI. La consapevolezza della poesia
amiani ha sempre avuto attenzione per il tratto realistico
delle cose che entrano in poesia, dal suo esordio di Fraturno, del
1987. In Attorno al fuoco tuttavia la
vicinanza della materia poetica all’e- È una fase, presto cambierà. Oggi si
sistenza dell’autore è talmente visibi- pensa più che altro a rigenerare il corle che finisce per trasportare anche po, poi si penserà anche a rigenerare la
chi legge quando, inesorabilmente, le mente. Faccia solo questa consideravicissitudini del quotidiano, la sosta in zione: quando io ero piccolo la maggiardino, le escursioni sull’altopiano gioranza degli italiani mangiava carne
di Campitello, le gioie familiari, trase- solo una volta a settimana.
colano in una visione metaforica del Non sarà che il verso autentico è
presente come tempo della guerra. sempre pacato anche quando urla,
Neanche sul registro dello scoramen- ed è difficile reggere la concorrenza
to e del pessimismo si perde la conti- con un arte che cerca troppo spesso
guità fra poeta e composizione. Perché risonanza mediatica?
Certamente. L’urla guerra di Dadella poesia (e
miani non ha nulI n t e r v i s t e lo
dell’arte in genela di nuchilistico
re) è chiaro e nitie titanico al negaCLAUDIO DAMIANI
do (e proprio per
tivo. È semplice"Attorno al fuoco"
questo abissale),
mente il riflesso
pp. 100, euro 10
perché intorno a
di ciò che si ritroAvagliano, 2006
esso è il silenzio.
va intorno uno
L’urlo della telequalunque dinanzi a questo trapasso millenaristico. visione è represso, coperto dal rumoDalle pagine di Attorno al fuoco esce re, dalla cloaca della chiacchiera. Indunque una spinta a riappropriarsi del- tendiamoci: tutto ciò è voluto, perché
lo strumento lirico come codice condi- è vero che il medium condiziona il
viso di linguaggio. Da un lato il poeta, messaggio, ma non è assolutamente
che può arrivare immediatamente al vero che il medium è il messaggio, ansenso della pronuncia; dall’altro il let- zi questa è una delle cretinate più clatore, che non ha più bisogno dell’ope- morose che abbiamo dovuto sentire, e
ra monumentale per acquisire nuovi subire, in questi decenni, e chissà andati in termini emotivi, dai quali de- cora per quanto subiremo. Voglio dire
durre motivi di riflessione. Stilos ha che ci può essere silenzio, e arte, anche in televisione. È un silenzio diverintervistato Damiani.
Mai come oggi la poesia rappresen- so, d’accordo, come il silenzio del cita il modo più diretto di rigenerare nema è diverso dal silenzio della poei processi di lettura. Invece viene sia.
spesso confinata al velleitarismo di Attorno al fuoco è un atto di fede
chi s’improvvisa versificatore e verso la propria cerchia di riferimento. Quali sono stati i meccanipubblica a proprie spese.
D
Credo di non aver sorvolato completamente sui fatti di Genova di quei giorni, ho ricordato la morte di Carlo Giuliani, ho parlato del processo ai poliziotti dopo i fatti accaduti alla caserma
Diaz, ho raccontato come proprio in
quei giorni fosse rinato nei giornalisti,
per esempio, la necessità di una informazione diversa, l’informazione che
nasce dalla strada. Una parte della storia, che poi approfondiva le tematiche
relative alle lotte dei no-global, è stata alla fine sacrificata per centrare appunto l’attenzione sui problemi relativi alla espiazione di una pena.
Il personaggio di Elena prende forma e spessore solo nello stato della
carcerazione. Il suo «prima» è solo
accennato e ha semmai significanza
solo in rapporto agli anni del carcere.
È vero, Elena vive come personaggio
soprattutto in relazione al suo periodo
di detenzione. Volevo far risaltare come una esistenza normale e tutto sommato ritenuta fino a quel momento
appagante fosse messa completamente in discussione dall’incontro con
Costituirsi in una cerchia
smi più attivi nell’ingranaggio che
mette in moto la trasposizione lirica
di se stessi?
Più che una fede verso la propria cerchia, mi sembra che in Attorno al fuoco ci sia una fede in un fuoco che genera cerchie, nuclei sociali e biologici,
un fuoco creativo che contiene distruzione anche, ma non può essere allontanato, o rimosso. Penso che nel libro
ci sia questa consapevolezza che noi
non possiamo allontanarci da lui, e
che, nel nostro esistere, inevitabilmente attorno a lui ci disponiamo. Per
quanto riguarda la seconda parte della domanda, io non penso di trasporre
me stesso liricamente, penso invece di
allontanarmi da me stesso, di dimenticarmi. I meccanismi che mi fanno
scrivere si riassumono forse in un bisogno di dire qualcosa che ho visto è
mi ha sorpreso per la sua bellezza e vi-
vacità indescrivibili.
In una poesia, lei arriva a coinvolgere direttamente una persona molto
cara che le detta i versi.
Sì, è una descrizione di un cane abbandonato dettatami da mia figlia Domitilla quando ancora non sapeva scrivere. Io l’ho trascritta tale e quale me
l’ha dettata lei e dunque non l’ho scritta io, ma in tanti altri casi m’è capitato di trascrivere dei fatti così come sono avvenuti, e potrei anche in questo
caso dire che io non ho scritto, non ho
aggiunto niente. In effetti io non penso quando scrivo, non creo qualcosa,
ma semplicemente descrivo qualcosa
che ho visto, o mi è successo.
Mentre in molti scelgono di raccontarsi in prosa, specie tra i cosiddetti giovani autori, sempre meno sono
quelli che approdano a una poesia
compiuta e non velleitaria. Perché?
Io non scrivo in prosa perché non ci
riesco, e ammiro e anche invidio chi ci
riesce. Naturalmente quelli che ci riescono bene sono pochi, e devono poi
lottare contro i cosiddetti editor, che
vogliono tagliare lì e aggiungere là,
vogliono questo e quell’altro, ma allora dico io: perché non lo scrivono direttamente loro il romanzo? Quelli
che giungono a una poesia compiuta e
non velleitaria non sono pochi a mio
avviso: è solo che hanno poca visibilità editoriale. Ma lo stesso succede ai
narratori che scrivono racconti, perché
gli editori vogliono solo romanzi, o a
quei narratori che non vogliono scrivere i romanzi che gli editori invece
Nella foto superiore Stella Magni, autrice per Avagliano di
Le detenute. In basso Claudio Damiani, che per la stessa
Avagliano ha scritto Attorno al fuoco
ri quanto di vero c’è in ciascuno di
noi.
La detenzione di Elena è frutto di
un clamoroso errore giudiziario. Ha
pensato a qualcuno in particolare
vittima, come il suo personaggio, di
ingiustizia?
No, anche se nei giorni che hanno
preceduto la pubblicazione del libro
proprio Taranto, la città in cui vivo e
lavoro, è stata al centro di grandi polemiche per presunti errori giudiziari.
L’idea di una pena da scontare da innocente è qualcosa che annienta anche
i più forti.
Ha conosciuto qualcuno come Elena? O come qualcun’altra delle
donne che appaiono nel libro?
Le donne che descrivo nel romanzo
sono frutto della fantasia, ma è pur vero che mentre scrivevo avevo negli
occhi le voci, gli sguardi, anche le lacrime delle detenute che ho incontrato. A tutte loro però non ho mai chiesto il perché fossero lì, ma come stessero affrontando psicologicamente e
fisicamente il percorso rieducativo
della lunga detenzione. A parte Agata.
Agata, appunto. Le sue parole sembrano quasi il coro di una tragedia
classica.
Agata nasce dalle parole scritte di una
donna che non ho mai incontrato ma
della quale ho letto alcune lettere.
Agata mi prende in modo particolare,
nelle pagine di Agata c’è quanto di più
reale potessi dire sull’argomento.
Agata esiste, ma non ha ammazzato il
marito, ha un’altra storia che ho preferito tutelare. Agata è la detenuta più
vera di tutto il romanzo. Così come è
vero l’episodio da lei raccontato della
uccisione assolutamente a caso di un
agente di polizia penitenziaria avvenuta nel carcere di Taranto.
Come si inseriscono nella storia da
lei narrata i personaggi di Romeo
Corbera e di Fernando?
La vita di Romeo, giovane magistrato
alle prese con una inchiesta che porterà all’arresto di un noto politico e di
suo figlio, entrambi imprenditori nel
settore dell’informazione, e Fernando,
fotografo di moda che per percorsi allucinati e inspiegabili diventerà la
trans più famosa di Milano, è la dimostrazione che niente è paradossale nell’esistenza, semplicemente tutto è vita. E fino a quando è la vita nella sua
totalità ad interessarci potremo dire di
averla davvero vissuta. Entrambi fanno parte dell’esistenza di Elena, ed
entrambi alla fine non hanno nulla di
quel convenzionale che prima dell’arresto faceva così parte della sua vita.
La storia di Fernando mi emoziona in
modo particolare perché di uomini
come lui ce ne sono sempre di più e di
conseguenza di famiglie coinvolte in
scelte drammatiche come quella di
trovarsi di fronte un genitore che ad un
certo punto dell’esistenza si accorge di
avere preferenze sessuali diverse da
quelle fino ad allora manifestate ce ne
sono oramai tante.
vogliono che siano scritti.
Nei Paesi di lingua anglosassone, la
poesia conosce incessanti ricambi
generazionali. Da noi no.
L’Italia ha una tradizione poetica immensa, che può anche schiacciare, in
certi casi. Nella letteratura italiana la
poesia l’ha fatta sempre da padrone.
Oggi c’è una rivolta non tanto verso la
poesia, quanto verso la letteratura, ma
è una rivolta debole, che come ho già
detto non durerà. Che poi in Italia non
ci siano ricambi generazionali lo trovo
positivo. Ciò che è importante è che ci
sia dialogo tra le generazioni. Prima ce
n’era poco, adesso ce n’è di più. In
poesia in Italia chi vuole cambiare
tutto, per le ragioni che ho detto prima,
fa ridere, come hanno fatto ridere le
avanguardie di tutte le stagioni.
«Avagliano Poesia» è un coraggioso
tentativo di riportare la poesia nel
circuito distributivo del libro. Se ne
possono configurare dei criteri di
scelta, valutazione o anche solo affinità dei curatori nei confronti delle
successive proposte?
Con Andrea Di Consoli, direttore editoriale di Avagliano, ho un’intesa perfetta, lo ammiro come scrittore, sia di
poesia che di prosa, e come persona. Il
nostro obiettivo è quello di allargare il
pubblico della poesia e metterlo soprattutto in comunicazione con l’attuale stagione poetica, che è di una
grande vitalità. Quello che è incredibile è che contrariamente all’ermetismo
e alla neoavanguardia che allontanavano il pubblico, la poesia delle ultime
generazioni ha in molti casi una forza
comunicativa e una chiarezza inaspettata, un’aderenza impressionante alla
nostra vita e al nostro tempo. Per leggerla, poi, non c’è bisogno di laurea,
come era prima, né di appartenere a
una setta segreta.
Eccebombo
autori
italiani
AURELIO GRIMALDI
IL GRANDE MARLOWE
Potenza del cinema! Prima dell’uscita del film Edoardo II di Derek Jarman, il nome di Christopher Marlowe era per me un
assai lontano ricordo liceale della
serie «Palloso poeta del ’600 inglese». Ricordo madornalmente
sbagliato persino nel secolo (Marlowe, nato nel 1564, lo stesso anno di Shakespeare!, è interamente
vissuto nel ’500, essendo morto ad
appena 29 anni durante una rissa
di taverna); ma anche nel giudizio:
poeta niente affatto palloso,
tutt’altro. Ma nonostante il clamore dell’antico film di Jarman
devo ammettere che fino a pochi
mesi fa mi ero limitato alla lettura,
appunto, del solo Edoardo II, che
trovai magnifico e di gran lunga
più sconvolgente del film (squilibrato e propagandistico come tutte, secondo me, le opere di Jarman).
Ma finalmente, nei soliti imperscrutabili disegni dei lettori maniacali, giunse anche per il vostro
redattore, alla non verde età di 48
anni, il momento di cimentarsi
nella lettura di altre opere del
grande Christopher: La tragica
storia del dottor Faustus (1588),
L’ebreo di Malta (1589), Tamerlano il grande (1593). Li ho letti
d’un fiato, tutt’e tre, con diverse
emozioni: L’ebreo di Malta non
mi piacque per niente. Il Faustus
mi lasciò moderatamente soddisfatto. Il Tamerlano mi entusiasmò al massimo grado.
Marlowe, tipaccio irascibile e violento, omosessuale dichiarato nelle stesse plaghe d’Albione (ma
ben tre secoli prima!) del perseguitato Oscar Wilde, morto, come
si è detto, ad appena 29 anni
(quanti altri capolavori, dunque,
abbiamo perduto a causa di una
rissa in una lurida bettola?), era,
strutturalmente, secondo il vostro
redattore, ben più originale del
suo coetaneo e più celebrato
Shakespeare. Non solo l’Edoardo
II è sconvolgentemente coraggioso nel raccontare una passione storicamente omosessuale del ’300
(quando Shakespeare, a prescindere dalla sua accertata bisessualità, si guardò bene dall’affrontare
simili tematiche), ma anche il Tamerlano mostra una sua complessione psicologica, e insieme di tessitura drammatica, che mi sono
parse inconsuete e ammirabili. Tamerlano (ispirato al personaggio
storico di Timur) si erge come personaggio immenso, invincibile,
cinico, sanguinario, eppure, a modo suo, leale e sentimentale. E viene circondato, dalla mente insieme classica e anticlassica di Marlowe, da personaggi, apparentemente prospettici, di uguale e plastica grandezza. Il suo primo avversario è il re di Persia, raccontato come uomo debole ma leale. Il
fratello di questi lo tradisce, gettandosi nelle comode braccia dell’invincibile Tamerlano che però,
ottenuta la vittoria, anziché mantenere le mirabolanti promesse, lo
uccide senza pentimenti («e ben ti
sta, traditore…» pensa crudamente il lettore). Poi tocca all’imperatore turco Bajazeth, fierissimo e
arrogante, a sua volta sconfitto e
catturato dall’Invincibile. Bellissima la scena dell’orgoglio smisurato del grande Turco, rinchiuso in
gabbia, umiliato ma mai domo:
uno scontro tra titani. E poi la bella Zenocrate (attenzione: è un nome femminile!), la quale ama, riamata, il terribile condottiero. È costretta ad assistere a tutte le sue più
truci vittorie, alla conquista e distruzione delle città dei suoi padri,
e persino (altra scena indimenticabile) all’uccisione delle vergini di
Damasco, che si erano prostrate,
invano, al trionfatore. Il tutto raccontato con uno stile lirico di certo pomposo, ma pieno di accensioni poetiche, di musica suadente, di parole affilate. Viva il grande Christopher!
Christopher Marlowe, Tamerlano il Grande
autori
italiani
l lettore non ha scampo. Bastano
due pagine di Capriole in salita
per capire che l’inchiostro di
Roveredo è vita. O meglio, è la
sua vita. La prima, a dirla tutta,
quella dura e violenta, quella delle
giornate etiliche e della memoria cancellata, quella che ha conosciuto il
dolore sordo del manicomio e l’universo crudele del carcere. Lui che ha
vissuto all’estremità di tutto, che sa
cosa significa essere considerato un
reietto, si è dato in pasto «ai guardoni»
spogliandosi di ogni ricordo.
A vincere è stata la sua scrittura, con
cui è riuscito a far diventare materia
letteraria una vita allo sbando, piena di
cicatrici indelebili. Ad una prima lettura, il libro in alcune parti sembra quasi monotono, ripetitivo, e niente affatto consolatorio; ma non può essere
che così, anche perché è la prima vita
di Roveredo ad essere ripetitiva fino
allo sfinimento. Del resto, cosa può
cambiare in una giornata, dopo aver
bevuto litri di alcol? Quale diversivo
può incontrare un uomo che non vede
l’ora di rifugiarsi in qualche bar? E
quale dinamica positiva può avere la
sua prima vita, quando i lavori durano,
sì e no, qualche settimana?
Ecco, a questi interrogativi risponde
con un uso del pudore e del rossore calibrato con grazia ma senza concessione alcuna a una tentazione quale che
sia di autogiustificazione di autocommiserazione Capriole in salita, libro
autentico, che aiuterà molti alcolisti,
quelli vogliosi di uscirne, a guardarsi
dentro e a capire che il gomito alzato
è un meccanismo che porta all’annullamento e a considerare l’esistenza
come qualcosa di insensato. Stilos ha
intervistato l’autore.
Con Capriole in salita il lettore le entra nel sangue. Che effetto le ha fatto questo denudamento letterario
nella vita reale?
È stato un denudamento voluto, perché Capriole è un libro terapeutico,
che mi ha permesso di uscire dall’abbraccio soffocante della vergogna. Nel
disagio, soprattutto in questa società
che si difende col dito puntato, di vergogna... si può anche morire.
Per stare dalla parte dei cattivi, una
persona se le deve andare a cercare.
Nel suo caso, il suo alter ego di carta è più un casualista che un ricercatore... Curiosità: quando è diventato uomo Pino Roveredo?
Pino non è mai diventato uomo. Pino
sta studiando per diventare uomo, e
spero lo diventi il più tardi possibile,
perché in questo mondo che ha sempre tanta fretta e che non hai mai tempo per nessun tempo, le cose, la gente,
i sentimenti, è meglio incontrarli e incrociarli il più lentamente possibile.
Solo così si può capire il valore.
S t los
I
MARISA CECCHETTI
Interviste
PINO ROVEREDO
"Capriole in salita"
pp. 170, euro 14
Bompiani, 2006
distaccata su una vita divisa tra un prima e un
dopo: dalla perdizione alla redenzione. Il racconto
di un personale percorso di salvezza dall’etilismo
Bevevo sorsi di euforia
che erano morsi di aceto
VIVE AD AVEZZANO. "SENZA
(PENDRAGON, 2004), "MARE NERO"
(EDIZIONI DELL’ARCO, 2006)
NUMERO CIVICO"
GIANNI PARIS
Lei è nato da genitori sordomuti:
cosa ha significato?
Continuo a ribadire la fortuna di avere avuto due genitori con gli affetti rumorosi, perché ai sordomuti è vietata
la superficialità della delega, così,
quando abbracciano, abbracciano,
quando baciano, baciano, quando accarezzano, accarezzano...
Ha vissuto per tanti anni in collegio.
Oggi, nella sua seconda vita, che
rapporto ha con i suoi figli?
Io ho vissuto in un istituto dei poveri,
che è completamente diverso dal collegio. Noi eravamo obbligati ad imparare la disciplina, marciare per ore
sotto la scritta «Credere obbedire
combattere» (anni Sessanta) che nessuno aveva avuto la premura di cancellare, il gioco era vietato e non ci
concedevano l’attenzione di un abbraccio neanche la misera di un minuto al mese. Ripeto: un minuto!... Ecco,
ai miei figli, riservo e dedico tutto il
contrario di quello che ho vissuto.
Ora che la sua vita non è più insensata, come guarda una bottiglia di
Montepulciano?
Macché Montepulciano! Io bevevo
sorsi di euforia che si sono trasformati in morsi di aceto e disperazioni. Gli
stessi sorsi che oggi frequentano i ragazzi che hanno l’età dei nostri figli, e
che continuano a non allarmare, perché il vino culturalmente passa, e
spesso confondendo l’uso, con l’abuso.
Lei è l’esempio vivente che il fango
alle ginocchia può essere pulito.
Qual è stata la persona che ha preso la bacinella con l’acqua e le ha
tolto definitivamente quel fango?
Il fango non si toglie, magari depositato negli angoli del ricordo, ma lui rimane, perché la dipendenza è un conto in
sospeso che si può saldare solo con la
morte! Riguardo all’aiuto, io ho avuto
la fortuna di aver avuto e avere una
compagna e moglie che ha continuato
a tener viva una speranza, quando io
mi ero ormai giurato alla rassegnazione. Oggi, è ancora lei che continua a
soffiare dentro la mia forza di volontà.
Il manicomio. Per molti è una definizione, un non luogo. Per lei invece cos’è?
Il manicomio e tutte le atrocità che so-
FEDERICA DE PAOLIS. Sentimenti laceranti e realismo
l triangolo è una figura nota al cinema e alla letteratura e così frequente nel costume che Federica
De Paolis si mette decisamente in gioco scegliendolo per il suo primo romanzo, Lasciami andare. Lui è Nico- bina con il muso da bagascia». Mala, antiquario trentenne, economica- rianna è come una macchina, abitudimente realizzato, quadro di Balla alla naria, agisce a parla poco. Giulia è
parete, Rolex, Porsche in garage. Lei «una ragazzina che c’è e non c’è, che
cinque
minuti
è Marianna, non
s’incazza e cinque
«la donna dei suoi
R
e
c
e
n
s
i
o
n
i
no». Il gemello di
sogni ma di polNicola, Paolo, «il
so… Un metro e
FEDERICA DE PAOLIS
più bravo della
sessantacinque di
"Lasciami andare"
classe», è morto
certezze, due tette
pp. 205, euro 14
«con un laccio
da sturbo, una falFazi, 2006
emostatico a tenecata da gendarre stretta la vena
me». L’altra è
Giulia, dalle unghie rosicchiate e dai tesa», così Nicola, senza il suo doppio,
capelli fluenti, che «sembra una bam- ha attraversato un buio lungo, da cui lo
I
PINO ROVEREDO . La testimonianza cruda e
Trentenni colti nel vuoto
ha tirato fuori la moglie. L’incontro
con Giulia è un flash che gli trasforma
la vita. Mondo piccolo borghese, quello di Nicola, con feste dove tutti «se ne
restano a bisbigliare nelle loro bare»,
alcool, canne come cannoni, e lei,
«dagli occhi vivi, argentei, lo sguardo
acceso, pulsante… anarchica», che
entra subito nella sua «costellazione di
pensieri». Ma anche Paolo ha avuto
una relazione con Giulia e ha conosciuto persino Marianna. Questo mette alla prova il già delicato equilibrio
di Nicola.
La De Paolis definisce abitudini e psi-
cologia di un protagonista maschile a
cui dà debolezze e sensibilità femminili, infatti Nicola sente il bisogno di
confessarsi con la moglie e per questo
amore sarebbe disposto a lasciare la
famiglia. Marianna invece è di un cinismo spiazzante: «Tu ti fai le tue scopate e io le mie, e poi tutti a casa tranquilli, è chiaro?» Eppure Nicola ricorda la passione che li ha uniti e riconosce che Marianna è ancora il suo equilibrio. Allora dove vanno a finire i
sentimenti? Ci troviamo di fronte ad
un eterno presente di sentimenti, anzi,
«tutto è presente. E da vivere sempre».
pagina
Nella foto Pino Roveredo, autore per Bompiani di
Capriole in salita
no girate dentro sono la testimonianza
di quanto possa essere infame e malvagia la mente dei sani.
Il carcere. Ovvero una lavagna piena di regole non scritte. Socialmente una detenzione aiuta o si rischia
di non avere mai le chiavi?
Io al carcere non devo mezza virgola
della mia salvezza, anzi credo sia stato un motivo per allungarmi le salite.
Questo vale anche per tutte quelle migliaia di detenuti che si vedono marchiare e respingere da una società, società che non prevede la salvezza di
una rieducazione e di un inserimento.
Sbaglio se dico che la più forte emozione della sua vita è rappresentata
da quel vestito di raso bianco?...
Anche... Però sarebbe castrante dare
una classifica alle emozioni. Oggi ho
la fortuna di crescere con le emozioni,
senza il bisogno di esibirle allo specchio, ma unicamente con la consapevolezza di avere il privilegio di viverle. Ed è tanto, davvero tanto...
Autodistruzione e rinascita. In matematica andrebbero d’accordo.
Nella vita quasi sempre no. Lei ha
usato qualche alchimia sperimentale per mettere un «uguale» tra le
due parole?
Io conosco il bene perché per anni ho
frequentato il male. Io conosco il valore della carezza perché per anni sono
stato al centro di uno schiaffo. Non è
obbligatorio, però, per raccontare una
rinascita, spesso bisogna avere la proprietà di una distruzione.
Ecco la scaletta sociale... Che posto
attribuisce alla letteratura?
Dico la verità, anche per difesa: più
che attribuirmi, preferisco essere attribuito.
Se fosse costretto a catalogarsi come scrittore, quali parole userebbe?
Un autista di parole, che trasporta le
emozioni del cuore sul piacere immenso della pagina.
Oggi che rimbalza da una città all’altra per parlare anche di Capriole in salita, quale sensazione prova
ogni volta che inizia a girare il suo
nastro autobiografico?
Di raccontare una storia possibile,
possibile per chiunque. In un Sert di
Napoli, ad esempio, come in molte
scuole italiane, Capriole è diventato
un libro-terapia, questo per dire che,
quando parlo del disagio, parliamo
tutti con la stessa lingua.
In quale parte del mondo vorrebbe
vivere per un po’?
In un mondo dove lo specchio è una
giustizia, dove non hanno inventato lo
sparo, dove l’abbraccio è una consuetudine, dove vengono cancellati gli
ultimi in classifica, così i primi non
hanno più senso, e dove la ricchezza è
fatto spirituale e non materiale... Ma
esiste, questo mondo?
Agile nella struttura, con un registro
linguistico ampio, che si apre al romanesco e al gergo giovanile, col dialogo
scattante - la scrittrice è dialoghista cinematografica e insegnante di sceneggiatura -, Lasciami andare è il ritratto amaro e critico del vuoto esistenziale su cui fluttuano questi trentenni affermati. Giovani che da un lato hanno come riferimento una certa
ipocrisia diventata cultura, dall’altro,
a dirla con Zygmunt Bauman, una
fluidità, una liquidità di situazioni che
caratterizza il nostro tempo. Il realismo esasperato che mette continuamente a fuoco la sessualità, come se
fosse un valore nuovo, fin nelle fantasie più private, forse non stupisce più,
abituati come siamo al video, al cinema e ad un certo genere di pubblicazioni più o meno provocatorie.
V
11
O
C
I
PREMIO FLAIANO
A RAFFAELE LA CAPRIA
IL SUPERPREMIO
Al cileno Antonio Esteban Skármeta è andato il Premio internazionale Flaiano, conferito all’autore
de Il postino di Neruda per l’alto
valore artistico e civile della sua
opera. I premi Narrativa sono andati a Raffaele La Capria per L’amorosa inchiesta (Mondadori), all’algerino Amara Lakhous per l’innovativo noir Scontro di civiltà per un
ascensore a Piazza Vittorio (Ezioni
e/o) e allo spagnolo Enrique VilaMatas per Il mal di Montano (Feltrinelli). Inoltre la Giuria presieduta da Jacqueline Risset ha assegnato i Premi Flaiano per l’italianistica
- promossi in collaborazione con il
ministero per gli Affari Esteri - alla
russa Larissa G. Stepanova per Leggere la grammatica, agli statunitensi Lucia Re e Paul Vangelisti per
Amelia Rosselli. Variazioni belliche
e all’israeliano Ariel Rathaus - uno
dei maggiori traduttori in ebraico di
letteratura italiana - per Scienza
nuova di Giambattista Vico. Il Superflaiano è stato assegnato a La
Capria, in sostituzione del quale a
ritirare il riconoscimento è stata la
moglie Ilaria Occhini che ha letto
brani del suo L’amorosa inchiesta,
pubblicato da Mondadori quest’anno.
PREMIO S. MARINELLA
CARLO AZEGLIO CIAMPI
VINCE CON IL “DIZIONARIO”
Nell’ambito del Premio culturale
«Città di Santa Marinella» la Giuria
ha deciso l’assegnazione del Premio al libro di Carlo Azeglio Ciampi Dizionario della democrazia
(Edizioni San Paolo). Il libro viene
insignito del premio in quanto espone i principi e i valori della democrazia. La cerimonia di consegna ha
avuto luogo il 28 luglio nel Castello Odescalchi di Santa Marinella
(Roma).
PREMIO NAPOLI
A GIORNALISTA EGIZIANA
IL "PARLAMENTO 2006"
Samia Nkrumah con l’articolo "The
changing face of Italy" pubblicato
sul "Al-Ahram Weekly" è la vincitrice del Premio di giornalismo internazionale "Napoli-Parlamento
europeo 2006". La giornalista egiziana affronta il tema dell’integrazione delle diverse comunità immigrate in Italia. Figlia dell’ex presidente del Gana Kuami Nkrumah,
leader della liberazione del suo Paese agli inizio degli anni Sessanata, e
di mamma egiziana di religione cristiano coopta, è lei stessa di intrecccio tra diverse culture. La giuria,
presieduta da Francesca Ratti, direttore generale dell’Informazione del
Parlamento Europeo, lo ha scelto
tra gli articoli pervenuti alla Fondazione entro il 15 giugno 2006 e
pubblicati, durante lo scorso anno,
sul tema dell’immigrazione e dell’amicizia tra i popoli. Samia Nkrumah sarà premiata domenica 17 settembre (ore 21, piazza Dante) nel
corso della serata finale della cinquantaduesima edizione del Premio Napoli.
pagina
12
CENTO ANNI DOPO
LA RIABILITAZIONE
Il 12 luglio 1906 la
Corte di Cassazione
francese dichiara la
completa innocenza
di Dreyfus, dopo 12
anni dall’inizio del
caso giudiziario e
politico. Parte del
successo è
riconosciuta alla
presa di posizione
della comunità
culturale, a
cominciare da Émile
Zola e Bernard Lazare
a sentenza di condanna
pronunciata contro il capitano dell’esercito francese Alfred Dreyfus, ebreo
di origine alsaziana, si rivela immediatamente, agli occhi di un
osservatore attento e privo di pregiudizi, come l’ennesimo crimine giudiziario reso possibile da un Consiglio
di Guerra inquisitorio e corporativo,
dal clima di intolleranza che albergava nella società francese, dalla necessità di trovare un capro espiatorio nell’ultimo disperato tentativo di difendere un esercito logorato nella sua
credibilità in seguito alla sconfitta subita a Sedan e al fallimentare tentativo bonapartista del generale Boulanger. Di fronte al rischio di vedere
completamente screditato un esercito
che follemente perseguiva la revanche nei confronti della Germania, non
si ha nessuna esitazione ad immolare
un ebreo.
La condanna alla deportazione a vita
ed alla degradazione militare, emessa
all’unanimità nel più assoluto disprezzo delle regole e delle procedure, dopo un processo celebrato a porte chiuse con la motivazione che erano in
giuoco vitali interessi nazionali, è
identica, nella causa e nel fine, alla
sentenza contro gli untori, che faceva
osservare a Manzoni: «Si dirà forse
che, in faccia alla giurisprudenza, se
non alla coscienza, tutto era giustificato dalla massima detestabile, ma allora ricevuta, che ne’ delitti più atroci
fosse lecito oltrepassare il diritto?».
Ma, nel caso di Dreyfus, si va oltre: si
condanna un uomo per condannare
un intero popolo. La mattina del 5
gennaio 1895, nel cortile della Scuola militare di Parigi, Dreyfus viene degradato: il suo grido angosciato - «Sono innocente!» - si sovrappone, come
un debole controcanto, alla melodia
principale di una folla minacciosa che
grida «Morte all’ebreo!», «Morte al
Giuda traditore!». Quella mattina, tra
il pubblico di giornalisti, è presente
Theodor Herzl, inviato speciale del
quotidiano viennese "Neue Freie
Presse". La disumanità di quella colorita rappresentazione che aveva al
centro della scena un ebreo, le urla di
odio della folla al suo indirizzo, cambiarono il corso della sua vita: nella
sua mente lucida e irrequieta nasceva
il programma sionista.
La straziante scena dell’ufficiale
ebreo degradato svelava, ancora una
volta, che l’ennesima persecuzione
stava per iniziare, che gli ebrei non
potevano considerarsi al sicuro neppure in seguito alle leggi emancipatorie e proprio nel paese che, patria dei
lumi e di Voltaire, per primo li aveva
resi liberi cittadini.
Una millenaria persecuzione che Bernard Lazare, l’intellettuale anarchico
che per primo, e in piena solitudine,
prese le difese di Dreyfus, ripercorre
nei cimiteri ebraici d’Europa nella disperata ricerca della propria identità e
di cui lascia una dolorosa e indelebile traccia nel suo libro testamento "Le
Fumier de Job": «Il vecchio guardiano racconta leggende; cominciano
tutte così: "In quel tempo ci fu una
persecuzione contro gli ebrei", ecco
un tempo indeterminato! Quel tempo
è ogni tempo».
Dalla violenta campagna di stampa
che anticipa l’autodafè e continua con
inaudito accanimento dopo la senten-
L
S t los
primo
piano
Condannare
un uomo
per dannare
un intero
popolo
VIVE A PERUGIA. "L’ERRORE
GIUDIZIARIO. L’AFFAIRE DREYFUS, ZOLA E LA STAMPA ITALIANA” (MOBYDICK 2004)
MASSIMO SESTILI
za, emerge con assoluta chiarezza la
correlazione tra nazionalismo sciovinista ed antisemitismo: pur nelle evidenti differenze storiche, sociali, politiche e ideologiche, questi due movimenti trovano un punto di saldatura
nella Francia di fine Ottocento.
Tra gli scrittori impegnati ad alimentare questo clima di tensione, troviamo Maurice Barrès , autorevole voce
di un nazionalismo violentemente xenofobo, che cura per "Le Figaro" la
rubrica «Contre les étrangers»; mentre l’odio antisemita è alimentato e
diffuso da Édouard Drumont, autore,
nel 1886, de "La France Juive".
Questo testo, con le sue 150 edizioni,
può essere considerato a pieno titolo il
manifesto del movimento antisemita
francese. Nel 1892, Drumont fonda e
dirige "La Libre Parole", che ha come
sottotitolo «La France aux Français»:
il quotidiano è la maggiore voce degli
antidreyfusard, e chiede ripetutamente la condanna di Dreyfus. Molto attivo in tal senso è anche Max Regis, direttore del quotidiano algerino "L’Antijuif", che nel 1897 fonda la «Lega
antisemita di Algeri».
Nella campagna elettorale per l’elezione del sindaco della capitale algerina, che lo vedrà vincitore, chiude i
suoi comizi con la seguente frase:
«Noi arrossiremo l’albero della nostra
libertà col sangue ebreo». I toni sono
ormai talmente accesi che il diplomatico italiano Raniero Paulucci di
Calboli poteva annotare nel suo diario: «È una buona professione alla fine del secolo XIX quella dell’antisemita».
Tuttavia, di fronte alla canaglia antisemita nazionalista e xenofoba, che cerca di addossare all’ebreo le responsabilità di una crisi morale e politica che
rischiava di sgretolare la giovane terza Repubblica, i più tacciono e voltano lo sguardo con gelida ipocrisia.
Solo Bernard Lazare sa cogliere il
pericolo dell’antisemitismo, riuscendo a individuarne oltre agli aspetti
politici e sociali anche quelli psicologici: «L’antisemitismo è una forma
dell’ipocrisia cristiana: il cristiano si
emenda prestando i propri vizi agli
ebrei; è anche una forma dell’egoismo cristiano».
La vicenda di Alfred Dreyfus non è
dunque solo un banale, per quanto
deprecabile, errore giudiziario; ma un
vero e proprio affaire che investe con
inaudita violenza la società civile, la
stampa, la politica, gli intellettuali.
Un affaire che quotidianamente trova
alimento nel clima di intolleranza che
avvolge la società francese e che Voltaire aveva già denunciato nel caso di
Jean Calas: «Parecchie persone che in
Francia si chiamano devote dissero ad
alta voce che era meglio lasciar mettere alla ruota un vecchio calvinista
innocente, che esporre otto consiglieri della Linguadoca a riconoscere di
essersi sbagliati. […] Non si pensava
che l’onore dei giudici consiste, come
quello degli altri uomini, nel riparare
HANNO SCRITTO
Giudizi sull’errore giudiziario
Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame
«L’operar senza regole è il più faticoso e difficile mestiere di questo mondo»
Voltaire, Trattato sulla tolleranza
«Non si pensava che l’onore dei giudici consiste, come quello degli altri
uomini, nel riparare i loro errori»
Victor Hugo, Napoleone il piccolo
«Uno strano ordine, codesto che ha per base il disordine supremo, la negazione d’ogni diritto! L’equilibrio fondato sull’iniquità!»
Bernard Lazare, L’affaire Dreyfus: un errore giudiziario
«Fu dopo una campagna speciale contro gli ebrei nell’esercito che fu possibile un tale accanimento»
Charles Péguy, La nostra giovinezza
«La questione allora, per noi, non consisteva affatto nel sapere se Dreyfus
fosse innocente o colpevole. Ma nel sapere se si avrebbe avuto o no il coraggio di dichiararlo, riconoscerlo innocente»
Anatole France, Crainquebille
«Disarmare i forti e armare i deboli, significherebbe cambiare l’ordine sociale che ho il compito di conservare. La giustizia è la sanzione delle ingiustizie stabilite»
André Gide, Il caso Redureau
«Si vedrà che il giurato, per soddisfare il suo sentimento della giustizia, non
ha altra risorsa che dire: no, a dispetto di ogni evidenza; il che lo porta spesso a dire sì, a dispetto di ogni giustizia»
Jakob Wassermann, Il caso Maurizius
«Un fiuto quasi bestiale lo ha condotto sulla pista; e l’uomo dal berretto a
visiera vi ha avuto una parte quasi pari a quella del fantasma del padre
d’Amleto»
Jean Giono, L’affare Dominici
«Ma nulla è chiaro; si soffoca; degli uomini normali qui respirano male. Ci
piacerebbe aprire tutte le porte»
Leonardo Sciascia, Il contesto
«L’errore giudiziario non esiste»
Jules Verne, Un dramma in Livonia
«È un magistrato indipendente, onesto, che ascolta solo la propria coscienza e non subisce pressioni politiche»
pagina
Nell’illustrazione Alfred Dreyfus viene degradato pubblicamente nel cortile
della Scuola militare di Parigi. Questa raffigurazione diventerà un’icona
GLI EBREI PERSEGUITATI
NELLA TERRA DI VOLTAIRE
LO STRAPOTERE
DELLA CASTA MILITARE
La condanna alla deportazione a
vita ed alla degradazione militare,
emessa all’unanimità nel più assoluto disprezzo delle regole e delle
procedure, dopo un processo celebrato a porte chiuse con la motivazione che erano in giuoco vitali interessi nazionali, è identica, nella
causa e nel fine, alla sentenza contro gli untori, che faceva osservare
a Manzoni: «Si dirà forse che, in
faccia alla giurisprudenza, se non
alla coscienza, tutto era giustificato dalla massima detestabile, ma
allora ricevuta, che ne’ delitti più
atroci fosse lecito oltrepassare il
diritto?» La straziante scena dell’ufficiale ebreo degradato svelava, ancora una volta, che l’ennesima persecuzione stava per iniziare, che gli ebrei non potevano considerarsi al sicuro neppure in seguito alle leggi emancipatorie e
proprio nel paese che, patria dei
lumi e di Voltaire, per primo li
aveva resi liberi cittadini.
L’affaire divenne tale - superando
l’ambito di un mero processo per
spionaggio - quando l’opinione
pubblica fu mobilitata da Zola con
i suoi reiterati e coraggiosi interventi nella stampa. Ma soprattutto
divenne tale per la risonanza mondiale. Su "La Stampa" di Torino
del 10 settembre 1899, in prima
pagina, a commento della condanna di Dreyfus a 10 anni di fortezza, si legge quanto segue: «In
Francia, Stato che appoggia la sua
forza e la sua grandezza, come
molti altri, in un vasto ordinamento militare [e l’accenno velato era
alla Germania guglielmina, all’Inghilterra imperiale, alla Russia zarista: ma soprattutto alla Germania], s’erano già pubblicamente
manifestati gravi sintomi che intaccano questo sistema». Era una
giusta diagnosi. Si trattava di un
sintomo dello strapotere della casta militare, che portò alla catastrofe del 1914.
i loro errori».
Seguendo la strada tracciata da Voltaire, Bernard Lazare scrive "Une erreur judiciaire: la vérité sur l’Affaire
Dreyfus", pamphlet che ha avuto il
grande merito di segnalare tutte le irregolarità del processo e di sollevare
forti dubbi sulla colpevolezza del capitano ebreo. Irregolarità e dubbi che
Lazare comunica a Scheurer-Kestener, vice presidente del Senato, e a
Émile Zola che, il 16 maggio 1896,
aveva iniziato la sua battaglia contro
il crescente antisemitismo, con la pubblicazione sul quotidiano "Le Figaro"
dell’articolo «Pour les Juifs».
È l’inizio del movimento dreyfusard:
la pubblicazione del J’accuse di Zola,
sul quotidiano "L’Aurore", diretto da
Georges Clemenceau, sarà decisivo
per arrivare alla scoperta della vera
spia nella persona del comandante
Esterhazy e, dopo ben altri due processi, alla definitiva assoluzione di
Dreyfus.
Zola firma una delle più grandi requisitorie che siano mai state pronunciate contro la ragione di stato e in favore della giustizia: uno scritto che rimarrà nella storia per la forza e il coraggio espressi nel voler difendere i
valori irrinunciabili di uno stato di
diritto. Il leader socialista Jaurès racconta che Guesde in una riunione affermò: «La lettera di Zola è il più
grande atto rivoluzionario del secolo». Recentemente Vincenzo Consolo, a proposito di Zola, ha parlato di
una «scrittura posseduta dalla storia».
La battaglia civile per il riconoscimento dell’innocenza di Dreyfus si
intreccia dunque con l’opposizione
al movimento antisemita e la difesa
dei valori repubblicani. La stesura del
manifesto degli intellettuali, firmato
tra gli altri da Marcel Proust, Anatole
France, Charles Péguy, Georges Clemenceau, Jean Jaurès, André Gide e
Octave Mirbeau, è l’evento che segna
la nascita del moderno intellettuale
engagé, figura fondamentale per lo
sviluppo di quel vasto movimento
dreyfusard, che difenderà la Terza
Repubblica traghettandola, con «lo
spirito di Verdun» e la ritrovata unità
nazionale, verso la vittoria nel primo
conflitto mondiale. Tuttavia, la
profonda lacerazione creata nella società francese dall’affaire non sarà
mai del tutto rimarginata: il collaborazionismo del governo di Vichy ne è
l’esempio più evidente.
Con l’affaire Dreyfus, l’errore giudiziario entra prepotentemente nella letteratura, diventando un vero e proprio
genere letterario in continua evoluzione rispetto all’iniziale pamphlet di
denuncia. Se il caso è solo giudiziario,
l’affaire è politico: la vicenda di Dreyfus esce dalle aule giudiziarie per investire tutta la società francese, provocando uno scontro politico epocale
che cambierà completamente le sorti
della terza Repubblica. Per interpretare un fenomeno di tale portata i modelli rappresentati da Voltaire, Bernard Lazare o Victor Hugo, Émile
Zola, non sono più sufficienti perché
risentono dell’urgenza dell’intervento immediato di denuncia.
Il trauma provocato dall’affaire è tale
da richiedere un esame approfondito
dei cambiamenti avvenuti nella coscienza di un popolo che ha saputo dividersi e combattere in nome di valori forti, quali la verità e la giustizia.
ALFIO SIRACUSANO
L’AFFAIRE DREYFUS P
Cronologia
1894
25 settembre
1895
6 ottobre
15 ottobre
29 ottobre
16 dicembre
19 dicembre
22 dicembre
5 gennaio
21 febbraio
13 aprile
ottobre
1 luglio
marzo
1896
agosto
6 settembre
18 settembre
6 novembre
1897
29 giugno
29
13
15
25
1898
ottobre
novembre
novembre
novembre
11 gennaio
13 gennaio
14 gennaio
7-23 febbraio
24-25 febbraio
26 febbraio
2 aprile
18 luglio
13 agosto
30 agosto
1899
26 settembre
1 giugno
3 giugno
5 giugno
1 luglio
8 agosto
14 agosto
9 settembre
19 settembre
21 settembre
1900
1901
1902
14 dicembre
1904
1906
29 settembre
5 ottobre
5 marzo
12 luglio
13 luglio
1908
1923
1930
21 luglio
6 giugno
maggio
22 ottobre
1935
I servizi segreti francesi intercettano una lettera (bordereau) indirizzata all’addetto militare tedesco dell’Ambasciata
tedesca a Parigi, colonnello Schwartzkoppen.
I sospetti cadono sul capitano Alfred Dreyfus, ufficiale stagista allo Stato Maggiore
Arresto del capitano Alfred Dreyfus
Émile Zola parte per l’Italia
Ritorno dall’Italia di Zola
Alfred Dreyfus compare davanti al Consiglio di Guerra
All’unanimità Dreyfus viene condannato dal Consiglio di Guerra alla deportazione a vita ed alla degradazione militare
Dreyfus viene degradato pubblicamente nel cortile della Scuola Militare di Parigi
Dreyfus viene tradotto all’Isola del Diavolo nella Guyana francese
Dreyfus arriva all’isola del Diavolo
Il fratello di Alfred, Mathieu Dreyfus, scrive al presidente della Repubblica Félix Faure
Il tenente colonnello Henry Picquart viene nominato direttore dell’Ufficio Statistica
Picquart entra in possesso di una carta-telegramma (petit-bleu) proveniente dall’Ambasciata tedesca ed indirizzata al
comandante Esterhazy
Picquart si convince che l’autore del bordereau è il comandante Esterhazy. Divenuto pericoloso, Picquart è trasferito
in Africa
Nel timore che possa evadere, Dreyfus viene messo ai ferri
Appello di Lucie Hadamard, moglie di Dreyfus, alla Camera dei Deputati
Sollecitato da Matthieu Dreyfus, Bernard-Lazarc scrive Une erreur judiciaire. La vérité sur l’Affaire Dreyfus, vivace
arringa in favore del condannato
Picquart, rientrato a Parigi, confida al suo amico avvocato Leblois tutte le sue scoperte intorno all’affaire Dreyfus.
Leblois rivela tali segreti al senatore Scheurer-Kestner.
Scheurer-Kestner, vice presidente del Senato, interviene in favore di Dreyfus presso il presidente della Repubblica
Zola si convince dell’innocenza di Dreyfus
Matthieu Dreyfus denuncia pubblicamente Esterhazy con una lettera aperta al “Temps”
Zola, dalle colonne del “Figaro”, inizia la sua campagna in favore di Dreyfus con un articolo dal titolo M. ScheurerKestner
Il comandate Esterhazy viene assolto all’unanimità dal Consiglio di Guerra
Il quotidiano “L’Aurore” pubblica la lettera di Zola al presidente Félix Faure dal titolo J’accuse
“L’Aurore” pubblica un manifesto firmato da molti intellettuali che chiedono la revisione del processo Dreyfus
Difeso dall’avvocato Labori, Zola viene processato dalla Corte d’Assise della Seine e condannato ad un anno di prigione ed al pagamento di una multa di 3000 franchi
Come risposta al processo Zola, il senatore Trarieux fonda l’Associazione dei Diritti dell’Uomo
Il colonnello Picquart viene radiato dall’esercito
La Corte di Cassazione cancella l’arresto di Zola del 23 febbraio
La Corte d’Assise di Versailles condanna nuovamente Zola ad un anno di prigione. La sera stessa Zola parte in esilio
per l’Inghilterra
Il maggiore Henry confessa al ministro Cavaignac di essere l’autore del falso. Viene arrestato e il giorno seguente si
uccide o forse viene ucciso
Zola apprende del suicidio del colonnello Henry, falsario e spergiuro, la cui confessione apre la via alla revisione.
Esterhazy si rifugia in Inghilterra
La domanda di revisione di Lucie Dreyfus viene accolta
Viene arrestato du Paty de Clam
La Corte di Cassazione annulla la sentenza contro Dreyfus del 1894
Zola torna in Francia
Dreyfus viene trasferito a Rennes
Inizia il nuovo processo a Dreyfus davanti al Consiglio di Guerra di Rennes
Attentato a Rennes contro l’avvocato Fernard Labori, difensore di Dreyfus
Il verdetto conferma il primo giudizio: Dreyfus è dichiarato colpevole con circostanze attenuanti a 10 anni di detenzione
Il presidente della Repubblica firma la grazia per Dreyfus
Con suo fratello Mathieu, Dreyfus, libero, si riunisce con la sua famiglia e si trasferisce a Carpentras in casa della
sorella
Viene emanata una legge di amnistia per tutti i reati relativi all’affaire Dreyfus
Pubblicazione del volume La verité en marche, raccolta di articoli scritti da Zola a proposito dell’affaire
Improvvisa morte di Zola
Funerali di Zola. L’orazione funebre viene pronunciata da Anatole France
La Corte di Cassazione dichiara ammissibile la domanda di revisione inoltrata per Dreyfus
La Corte di Cassazione riabilita Alfred Dreyfus
Dreyfus viene reintegrato nell’esercito con il grado di comandante d’artiglieria. Reintegrazione nell’esercito del
colonnello Picquart con il grado di Generale di brigata. Qualche settimana più tardi, Clemenceau, divenuto
presidente del Consiglio, lo nomina ministro della Guerra del suo nuovo governo
Dreyfus viene decorato dalla Legion d’onore
Le ceneri di Zola vengono traslate al Panthéon
Esterhazy muore a Haependen in Inghilterra
Muore Mathieu Dreyfus. Pubblicazione dei Diari del colonnello Schwartzkoppen, l’addetto militare tedesco, che
discolpano completamente Dreyfus
Muore Alfred Dreyfus
rofessore Canfora, a leggere il J’accuse di Zola sul
caso Dreyfus si rimane increduli e stupefatti. Ma
com’è potuto accadere
uno scandalo del genere? Erano così torbidi gli anni della Terza Repubblica?
La storia della Terza Repubblica fino,
all’incirca, allo scoppio della guerra
(1914) è tutt’altro che una gloriosa
storia democratica. La Repubblica nasce sul sangue dei comunardi ed in un
clima politico e culturale in cui il nemico principale è l’(eventuale) ripetersi di esplosioni rivoluzionarie. I generali che hanno «salvato» la Francia
dal «comunismo» hanno un peso
enorme sui nuovi assetti che stanno
per determinarsi. Basti ricordare solo
alcune circostanze: per anni la neonata Repubblica non ha una Costituzione; per anni il rischio di un presidente
monarchico alla magistratura suprema
della Repubblica è realtà; infine si assisterà al tentativo di golpe, catastrofico ma sintomatico, del generale Boulanger. Per non parlare del tentativo tra
il serio e il farsesco di riportare sul trono un «legittimo» re di Francia, il
mancato Enrico V, tentativo che diede
spunto ad una delle migliori e più riuscite e più mordaci poesie politiche di
Carducci, La sagra di Enrico V, per
l’appunto. Questa situazione, qui tratteggiata a grandi linee, presenta anche
un tratto specifico e allarmante: la debolezza del movimento socialista. Anche questo è un effetto dello schiacciamento della Comune. Tale debolezza
pone per anni i due (piccoli) partiti socialisti, rivali o concorrenziali, in posizione di subalternità. Sarà Jean
Jaurès a conseguire una riunificazione, che, necessariamente, avrà luogo
su posizioni moderate. Questa debolezza delle due «anime» della sinistra
francese, quella giacobina e quella socialista, crea una situazione favorevole all’affermarsi di gruppi di pressione e ad una mentalità di destra. È il
primo centenario della Rivoluzione
(1889) che dà alla Francia la percezione di quanto il conflitto apertosi esattamente un secolo prima sia ancora
aperto.
È abbastanza chiaro che una delle
componenti dell’affaire fu l’antisemitismo. Che evidentemente in
Francia era molto più profondo di
quanto non si creda. Quanto contribuì l’affaire a metterlo a nudo come problema europeo?
L’antisemitismo fu di certo una essenziale componente dell’intera vicenda. Le radici dell’antisemitismo in
Francia erano antiche e profonde. Ma
non va dimenticato che il fenomeno
era europeo e si potrebbe dire endemico: dall’Inghilterra di Houston Stewart
Chamberlain alla Russia dei falsi
«protocolli di Sion», dalla Germania
di Paul de Lagarde e dell’Alldeutscher Verband alla Francia di Gobineau e di Charles Maurras. Come dimostrano molteplici e assai note ricerche, da quelle di Poliakov al recente
volume di Giorgio Fabre intitolato
Mussolini il razzista. La formazione di
un antisemita, la componente complessivamente razzista (alimentata
dalla gestione della politica coloniale)
si salda con lo specifico razzismo antisemita o antiebraico: senza eccezio-
13
CANFORA
Si preferì
graziarlo
ma la colpa
gli rimase
CENTO ANNI DOPO
LA RIABILITAZIONE
ni e con specifici esiti nei vari paesi.
Peraltro il perdurante anti-ebraismo
della chiesa cattolica fa la sua parte.
Per il mondo cattolico (e non solo per
esso) la massoneria è cornice e terreno di coltura dell’ebraismo. Combattere la «presa» massonica sulla società e sui gangli nevralgici del paese
(di ogni paese d’Europa) diventa,
spesso, anche una «caccia» alla (paventata) penetrazione ebraica al vertice dello Stato. In una situazione siffatta si intende come si sia pervenuti alla scelta di assumere il capitano,
ebreo, Alfred Dreyfus come «capro
espiatorio» e come, nonostante l’enorme indignazione suscitata, si sia,
alla fine, battuta la strada della indiscriminata «grazia» anziché quella
dell’annullamento della sentenza di
condanna.
Restando ancora sull’antisemitismo
francese: si può dire che Vichy, con
le sue complicità (a partire da quella di Pétain, non a caso uomo della
casta militare), affonda lì le sue radici?
Non è mai possibile una netta individuazione delle radici di eventi storici.
Nel caso particolare si può sommariamente dire che le radici tanto di Vichy
quanto del processo contro Dreyfus,
quanto del costante pericolo di deriva
a destra della Terza Repubblica, sono
da ricercarsi molto indietro. Sono da
ricercarsi in quella inesausta «guerra
civile» tra le due «nazioni», compresenti nella stessa Francia, che incomincia col 1789/1793 e che non si
esaurisce nemmeno col naufragio di
Vichy. In questo senso François Furet
parlò, a ragion veduta, della «grande
Révolution» come di un fenomeno ancora aperto e largamente incompiuto.
Peraltro la Rivoluzione aveva una base nell’identificazione tra «Repubblica» e «Nazione», però aveva stabilito
di considerare appartenenti alla «nazione» i nati su suolo francese. E aveva, anche nella sua fase bonapartista,
favorito la emancipazione degli Ebrei.
Come mai i socialisti francesi non
presero subito le parti di Dreyfus?
Che l’antisemitismo sia «il socialismo degli idioti» è diagnosi esatta e
icastica di August Bebel, ripresa in
seguito numerose volte ed in momenti diversi. Penso, tra l’altro, al saggio
di Isaac Deutscher L’ebreo non ebreo.
Ma il fenomeno più macroscopico in
tal senso è quello ben noto anche se rimosso: il «nazional-socialismo» tedesco, al cui fondamento c’è il razzismo con specifica polarizzazione anti-semita. Il socialismo «nazionale» è
una breccia nel fondamento internazionalista del socialismo, e può portare ad esiti imprevedibilmente gravi,
specie quando si incomincia a individuare il «nemico» non più in un’ottica di classe ma «nazionale» o si assume come «classe nemica» un popolo,
una «nazione», da demonizzare. Che,
negli anni della vicenda Dreyfus, tutto questo stesse incubando è chiaro
anche dalla dimensione internazionale che prese l’affaire. La divisione fu
trasversale e travalicò i confini nazionali. Non va infine dimenticato che,
proprio nel fuoco di questa vicenda,
Theodor Herzl diede il primo impulso
alla nascita di un movimento che desse una speranza agli Ebrei, il movimento sionista: anch’esso, a suo modo, una costola del socialismo.
L’Action française di Maurras nac-
française, nonostante la sua pesante
compromissione col regime di Pétain,
si può ben dire che, all’origine, essa
discende dal revanscismo anti-rivoluzionario e monarchico-militaristanazionalista della destra francese che
non aveva mai accettato la Rivoluzione.
Quando l’affaire diventò veramente tale? In genere si tende a dire che
ciò avvenne quando di esso si impadronì l’opinione pubblica. Fu dunque questa la novità dirompente: il
fatto che per la prima volta il potere politico (qui militare) dovette misurarsi con l’opinione pubblica sollevata da un intellettuale che aveva
posto la questione morale?
L’affaire divenne tale - superando
l’ambito di un mero processo per spionaggio - quando l’opinione pubblica
fu mobilitata da Zola con i suoi reiterati e coraggiosi interventi nella stampa. Ma soprattutto divenne tale per la
risonanza mondiale. Su "La Stampa"
di Torino del 10 settembre 1899, in
prima pagina, a commento della criminale condanna di Dreyfus a 10 anni di fortezza (condanna dovuta ai falsi di Henry), si legge quanto segue:
«In Francia, Stato che appoggia la sua
forza e la sua grandezza, come molti
altri, in un vasto ordinamento militare
[e l’accenno velato era alla Germania
guglielmina, all’Inghilterra imperiale,
alla Russia zarista: ma soprattutto alla Germania], s’erano già pubblicamente manifestati gravi sintomi che
intaccano questo sistema». Era una
giusta diagnosi. Si trattava di un sintomo dello strapotere della casta militare, che portò alla catastrofe del 1914.
L’affaire è soprattutto il sintomo di ciò
che la casta militare, con le sue attinenze politiche e non solo politiche,
avrebbe fatto di lì a poco. Altro che
«democrazie»!
Cent’anni dopo, e col Novecento alle spalle, lo possiamo dire: nel caso
Dreyfus ci fu molto di staliniano, ma
il contesto era «democratico», pur
in un senso molto lato. Uno Zola
poté comunque esserci, e alla fine
Picquart fu riabilitato. Lei è critico
nei confronti della democrazia, ma
in questo caso non crede che essa
abbia acquisito qualche merito?
Non ci fu nulla di staliniano nel processo. Non fu un processo sommario
di giustizia «rivoluzionaria» quale
quella che operò in Francia durante il
Terrore robespierrista o in Russia con
Lenin e Stalin. Fu un processo ipocrita in cui le regole della procedura erano apparentemente rispettate. Perciò
fu qualcosa di molto peggio della giustizia rivoluzionaria: allo stesso modo
la finta democrazia è, per molti versi,
molto peggio dell’aperta dittatura.
Quanto è utile, oggi, ricordare la vicenda di Dreyfus? Se è vero che
quarant’anni fa Sartre dovette vestire i panni di Zola, e che ancora
oggi, solo per fare qualche esempio,
Guantanamo turba le coscienze e
certo fondamentalismo taglia le teste?
La storia non si ripete meccanicamente. Sartre e molti altri, più capaci e moralmente più retti di lui, contrastarono
un altro orrendo affaire della Francia
«democratica»: l’uso della tortura in
Algeria. Oggi questo accade a Guantanamo, ma è un alibi stolto dire che lo
si fa per combattere il terrorismo.
Guantanamo alimenta il terrorismo.
que in quella temperie. Fu preannuncio del fascismo, come si dice?
E in che senso?
Nacque l’Action française. Certo, nell’affaire Dreyfus, Charles Maurras si
tuffò con tutto il peso della sua insopportabile loquela e si schierò dalla
parte degli antisemiti persecutori di
Dreyfus; e, soprattutto, si schierò in
difesa della cosiddetta giustizia militare e dei suoi crimini. Ecco i fatti. Dreyfus era stato arrestato, con l’accusa di
tradimento, sulla base di un documento che invece era opera del vero «traditore», Ferdinand Esterhazy. Picquart, ufficiale galantuomo del
«Deuxième Bureau», smascherò
Esterhazy, ma un altro ufficiale dello
stesso servizio, Hubert Henry, falsificò il documento Esterhazy per scagionare quest’ultimo. Il ministro della guerra, Eugène-Godefroy Cavaignac, cercò fino all’ultimo di affossare Dreyfus e «salvare» la giustizia militare, ma la colpevolezza di Henry
venne finalmente fuori, mentre
Esterhazy fuggiva in Inghilterra.
Henry fu trovato morto, in circostanze oscure, nella sua cella. Maurras si
lanciò, dalle colonne della repugnante "Gazette de France", nell’apologia
di Henry, presentato come «martire». Scrisse Maurras, esaltando il falsario che aveva tentato ogni strada
per rovinare Dreyfus: «Forza, decisione, finezza, niente ti è mancato, se
non un po’ di fortuna. Hai dispiegato
doni superiori di iniziativa e di risolutezza. Li hai messi a frutto con frenesia, fino ad ingannare i tuoi capi, i
tuoi amici, e colleghi e concittadini,
ma lo hai fatto per l’onore di tutti, per
il bene di tutti (sic!). Le tue parole "andiamoci! [intendi: in galera]", passate
in proverbi, assumono ormai un valore misterioso e profondo. Sono e restano le parole di un soldato. Divengono
parole di moralista e di statista: noi faremo in modo che divengano immortali». Che a sua volta l’Action française sia stata uno dei «tre volti» del fascismo è stato affermato da Ernst Nolte (quando scriveva libri soprattutto
antifascisti, ed il più noto di essi si intitolava appunto I tre volti del fascismo, pubblicato in Italia negli OscarMondadori). È affermazione che si
può discutere, come si è discusso (a
torto) se il franchismo fosse o no una
costola del fascismo. Alcuni studiosi
tendono a sottolinearne la specialità
«ispanica». Nel caso dell’Action
L’anti-ebraismo come
ambito dove l’ufficiale
francese fa da capro
espiatorio di istanze,
fermenti, giochi di
potere programmi
politici nei quali
nemmeno la chiesa
cattolica è estranea:
un filo nero che
percorre un’intera
stagione europea,
dalla Terza repubblica
alla Seconda guerra
mondiale
pagina
14
S t los
autori
stranieri
Nella foto superiore l’americano David Foster Wallace.
In basso John Perkins, che da Minimum fax ha pubblicato
Confessioni di un sicario dell’economia
ne ho contati almeno una decina, in buona parte di quel tipo di
rima di cominciare, tanto per capirci: userò d’ora in poi
errori macroscopici che rendono le frasi ridicole o peggio inDFW al posto di David Foster Wallace. Siete avvertiti.
comprensibili. Il mio preferito è il titolo del libro sbagliato sulChe non lo faccio per gigioneria né per simulare una
l’intestazione di 36 pagine consecutive (e qui la domanda è: da
sorta di confidenza acrostica col personaggio (e quindi,
quale tipo di malformazione oftalmica devi essere affetto per
per estensione, con la persona proprio): è solo che il mio
non accorgerti di una roba del genere? Specie se il tuo lavoro è
correttore ortografico continua a modificarlo in «Fallace». Il geaccorgerti di roba del genere?). Il che ci porta al primo grande
nere di fastidi che uno cerca di evitarsi, specie se sta parlando del
paradosso dei libri di DFW: sono scritti da una delle menti più
suo eroe.
auto-consapevoli e pignole del pianeta (per sua stessa ammissioSe «eroe» suona eccessivo, la si metta così: non hai più voglia di
ne, nel corso del testo, e come potrebbe essere altrimenti) ma per
risparmiare sugli epiteti quando ti sei letto tutto quello che è stacome vengono pubblicati non possono che sfuggire al suo conto pubblicato da un autore statunitense che è famoso anche per la
trollo, e tu che sei il lettore ti ritrovi questo saggio saccentissisua totale avversione per i lunghi viaggi (uno che pur vivendo nelmo sull’uso della lingua come veicolo di autorità con un errore
la stessa epoca in cui tu hai voltato l’ultima delle 1400 pagine del
tipografico ogni due pagine. La prima impressione che ne ricasuo capolavoro Infinite Jest ti eri rassegnato a confinarlo nel limvi è sgradevole quanto quella volta in quarta superiore che il prof
bo degli intoccabili da un punto di vista fisico prima che letteradi italiano si era fatto scappare un «venghi alla lavagna». (Il che
rio) e soprattutto hai appena scoperto che quell’autore ha intenziovaleva anche per la penultima opera non-narrativa di DFW edine di mettere il naso fuori dagli Usa, soltanto per venire a farsi un
ta in italiano, in cui «integer» veniva tradotto con «integrali»,
incontro pubblico a due passi da casa tua.
mandando così a ramengo un intero trattato matematico, e hai
Definito il personaggio, ecco il contesto: Capri. Quando: il 2 ludetto niente.)
glio. Perché: nessuno dev’esserselo chiesto. Nemmeno Zadie
Ma siccome non sta bene criticare e basta, ecco la mia proposta:
Smith, o Nathan Englander, o Jonathan Franzen, che si sono alterammettiamo che i testi di DFW non dovrebbero finire in mano
nati sulla stessa pedana al centro dello stesso belvedere a picco sula correttori di bozze sciagurati (e l’imminente ripubblicazione di
la stessa scogliera sulla quale l’ultima sera si è seduto DFW.
Infinite Jest per lo stesso editore di Considera l’aragosta da queEssere l’ultimo della serie caprese si è poi rivelato un bel colpo di
sto punto di vista mette abbastanza i brividi) ammettiamo tutto
fortuna perché DFW è capitato nell’unica serata priva di partite del
questo e diciamolo tranquillamente, una volta per tutte, che la somondiale di calcio. Salta fuori che il suo incontro è stato l’unico a
luzione è: DFW on-line. Diciamolo: vogliamo il blog di DFW.
dilungarsi oltre il limite ultimo del fischio d’inizio, e insomma nesNon ci va più di tenere due segnalibri quando leggiamo le sue cosuno dei sedici presenti s’è dovuto defilare adducendo scuse ridicose più complicate, uno per il testo e uno per le note al testo. Non
le pur di non ammettere che sì, tutti questi scrittori da New York in
ne possiamo più di leggere «aureola» al posto di «areola», spequest’isola tanto esclusiva, ma vuoi mettere 22 uomini in braghe corcie se il Nostro sta parlando delle tette di Janet Jackson. Dategli
te che inciampano attorno a una palla?
un blog, e lasciate che la sua pignoleria paranoide si sfoghi fino
Quindi, ricapitolando, il pubblico che DFW ha incontrato a Capri a
al momento di premere il tasto «pubblica». I suoi fan sarebbero
un rapido e parziale esame risultava così composto: cinque abbroncontenti. È tutta gente abbastanza sfigata da appassionarsi a un
zatissimi turisti americani che in clima di mondiale non vedevano
blog, se il blog lo tiene DFW, garantil’ora di poter partecipare a un evento
to. Lo dico per esperienza personale.
pubblico in cui erano loro i primi a caVolevo parlargliene, a Capri, finito
pirci qualcosa e tutti gli altri ad aspetta- DAVID FOSTER WALLACE . Incontro ravvicinato, dopo apposito
l’incontro, di questa cosa del provare
re la traduzione, cinque giornalisti di
poche selezionatissime testate, i due edi- viaggio, inclusa traversata per Capri, con un mito della letteratura Usa: ad avere un controllo pressoché totale
sulla sua produzione non-narrativa.
tori italiani di DFW (si siedono parecMa quello che ci siamo detti si è ridotchio lontani l’uno dall’altro, per la cro- un mostro sacro al quale un nostro giovane scrittore, dopo averlo
to a:
naca), due traduttrici, l’organizzatore
ascoltato, tutto ciò che sa dirgli è: «Scusa, ho la mano sudata»
«Ciao, ehm, ho la mano sudata.»
del ciclo di incontri e un tizio disposto
«Ah.»
anche a dormire dove gli capita su que«Scusa.»
st’isola altrimenti inaccessibile pur di in«No, tranquillo, capita sempre anche a
contrare DFW.
me.»
Tanto per darvi un’idea: questo tizio,
«Belle scarpe, comunque. Sicuro che
quel pomeriggio stesso, sull’aliscafo,
Marty McFly non le rivoglia indiequando è partito il filmato che spiegatro?» Ma lui non ha colto, o ha colto
va tra le altre cose che il segnale di alfin troppo bene, e comunque ha rilarme sarebbe stato sette fischi lunghi
preso a firmare autografi.
più un fischio breve seguito dal suono
Il tipo dietro di me gli ha allungato
continuo dei campanelli d’allarme in
carta e pennarello e gli ha detto che ancaso di «emergenza grave», oppure
che lui ha scritto un romanzo di 1500
due fischi lunghi seguiti dal suono
continuo dei campanelli di allarme per un «incendio a bordo», ha
REGGINO EMILIANO, VIVE A ROMA. È L’AUTORE DI "16 pagine. DFW sorride, scrive: «Attento, ricordati che il tuo libro
te lo dovrai portare appresso ad ogni presentazione», poi firma.
immaginato che se DFW fosse stato lì con lui in quel preciso moVITAMINE" (MINIMUM FAX, 2005) E IL FONDATORE
Il fan subito dopo vede una zanzara appoggiarsi sul bicipite abmento avrebbe preso un appunto e si sarebbe chiesto: «Quindi un
DELLA RIVISTA "FAM" (WWW.FAMLIBRI.IT)
bronzato di DFW, gliela indica e lui la spiaccica col libro del tiincendio a bordo non è un’emergenza grave?» Almeno per come
po. Io lo guardo allontanarsi con la sua copia autografata e insanlo conosceva lui (cioè quasi niente; ha solo letto ogni singola riguinata, e quella che sento potrebbe essere invidia.
ga che ha pubblicato e poi gli ha stretto la mano a Capri) ha creIVANO BARIANI
Dietro gli occhiali, sotto una patina di tipico sudore caprese, la
duto che lo avrebbe fatto; il filmato era anche in inglese.
Alla fine, quando va a sedersi lì davanti, DFW risulta un bambo- di DFW, ci sono: un reportage, una recensione, la trascrizione di faccia di DFW rimbalza intanto tra lo spavento e la scocciatura.
lone biondo con la bandana e le scarpe da ginnastica a collo al- un brevissimo discorso tenuto da DFW a un convegno letterario, Durante l’incontro l’hanno fatto parlare del rapporto fra immato come negli anni Ottanta. Fuma a ripetizione, corregge le rispo- un pippone dichiaratamente snob con parecchi problemi di leg- gine e realtà, delle difficoltà di insegnare l’ironia di Kafka ai suoi
ste mentre sta finendo di darle, poi corregge le correzioni delle ri- gibilità, la cronaca di dov’era e cosa stava facendo DFW l’11 set- studenti, se la vita è tutto o soltanto illusione, e alla fine di «cosposte e via così nella versione live di quell’atmosfera in-diret- tembre del 2001, un’altra recensione, due reportage, una terza re- me mai gli americani capiscono così poco di calcio». Quando ha
risposto all’ultima domanda, dal pubblico si è levato un applauta-dal-mio-cervello che si respira nei suoi reportage.
censione e un ultimo reportage.
DFW comunque non ha solo problemi di interazione sociale. La prima metà del problema è che ognuno di questi testi era già so divertito.
Quell’uomo ha anche un problema editoriale: ogni tanto una ca- stato pubblicato, nei formati e sui supporti più diversi, da alme- Ed è lì che la sua faccia ha virato su una specie di: «Ah, ecco. Gli
sa editrice mette insieme una raccolta dei suoi testi non-narrati- no un paio d’anni al momento dell’uscita in libreria. In alcuni ca- parli di massimi sistemi e tutti zitti. Gli nomini il calcio e arrivavi e la manda in libreria. «Saggi» non rende l’idea e «articoli» è si gli articoli in questione erano anche già stati tradotti e diffusi no gli applausi». Se ne abbia ricavato un qualche tipo di buffo
semplicemente riduttivo; dovete pensare a lunghi reportage con on-line (ve lo dico tanto per ridimensionare il concetto di «nuo- aneddoto istruttivo sugli italiani e il loro rapporto con il calcio,
non ci è dato saperlo. Ma mentre ce ne andiamo, tutti quanti, mi
note a piè pagina, considerazioni commoventemente personali, vo libro di DFW»).
contro-osservazioni di un cinismo siderale e badilate su badila- La seconda metà del problema di DFW con le raccolte dei suoi ritrovo vicino il fan con la macchia di sangue sotto la dedica. La
te di stile; «testi non-narrativi» è la loro qualifica più generica.
testi non-narrativi sono i refusi. In un libro di 382 pagine io (che sta mostrando al compagno. Lo sento chiedere: «E se invece aveIn Considera l’aragosta, l’ultima raccolta di testi non-narrativi a scapito del mio fanatismo resto un lettore piuttosto distratto) va appena morso qualcun altro?»
P
Per favore, dategli un blog
che si sfoghi fino al «post»
MARINA TOROSSI TEVINI
he il nostro mondo sia ampiamente sperequato, con pochi
che sguazzano nella ricchezza e
i più che annegano nella miseria, e
che ci si trovi intrappolati in un meccanismo economico dotato di un appetito insaziabile di risorse è cosa ben nota all’opinione pubblica occidentale.
La lettura però di queste «confessioni»
di un uomo che per gran parte della
sua esistenza è stato uno dei massimi
funzionari di una multinazionale americana, e quindi ha potuto conoscere
dall’interno e di prima mano la corruzione, i raggiri, lo sfruttamento dei
paesi in via di sviluppo, svela dettagli
inediti e mette di fronte a realtà non
sempre abbastanza conosciute. Ciò
che interessa in Confessioni di un sicario dell’economia è soprattutto l’esperienza personale dell’autore, la sua vita da complice di un sistema che lo costrinse al silenzio per anni anche attraverso favori e privilegi.
Il libro racconta perlopiù fatti relativi
agli anni Settanta e l’autore ne iniziò
la stesura agli inizi degli anni Ottanta,
dopo aver abbandonato la Main, la
multinazionale statunitense per cui
aveva lavorato per dieci anni come
economista. La stesura dell’opera poi
fu più volte interrotta e solo recentemente l’autore completò l’opera e la
riuscì a pubblicare.
In Confessioni di un sicario dell’economia sono narrati nei dettagli i rapporti degli alti funzionari delle multinazionali, definiti da Perkins «sicari
dell’economia», che attraverso favori
erogati ai leader dei paesi in via di sviluppo li inserivano in una trappola
che favoriva gli interessi commercia-
C
JOHN PERKINS. La talpa di una multinazionale
Insider dalla gola profonda
li degli Stati Uniti e strangolava in
una rete di debiti i paesi del Terzo
mondo.
Perkins a un certo punto della sua esistenza, anche per merito di una certa
Paula, colombiana e sorella di un
guerrigliero locale, comincia a prendere le distanze dal suo lavoro e a desiderare di non essere più corresponsabile di un sistema che sente iniquo. «Io
ero leale verso la repubblica americana - scrive Perkins - ma ciò che stavamo perpetrando mediante questa nuova e sottilissima forma d’imperialismo era l’equivalente finanziario di
ciò che avevamo tentato di ottenere
militarmente in Vietnam. Se il Sudest
asiatico ci aveva insegnato che gli
eserciti hanno dei limiti, gli economisti avevano reagito escogitando un
piano migliore e gli enti per la cooperazione internazionale e gli appaltatori privati che erano al loro servizio (o
più esattamente che se ne servivano)
erano diventati abilissimi nell’eseguire quel piano».
Naturalmente la «conversione» non
avviene in un attimo. «Mi c’era voluta l’esperienza in paesi come l’Indonesia, Panama, Iran e Colombia perché
comprendessi le implicazioni più
profonde della mia attività».
Ma inesorabile avanza nella sua mente l’idea di essere complice di un sistema profondamente ingiusto: «L’impero globale è la nemesi della repubblica. È egocentrico, egoista, avido e
IL LIBRO
JOHN PERKINS
"Confessioni di un sicario dell’economia"
Trad. Giuliana Lupi
pp. 309, euro 15
Minimum fax, 2005
Sostituire il mondo
con uno più giusto
È un libro coraggioso, come
sottolinea più volte lo stesso
autore nella prefazione: raccontare la storia della propria
vita e definirsi un «sicario» indubbiamente non è da tutti. Lo
può fare solo chi crede che è
possibile sostituire il mondo
esistente e crearne uno più giusto. John Perkins ha fondato
una compagnia impegnata nella ricerca di fonti alternative e
sostiene associazioni no-profit
a favore delle culture indigene
del Sudamerica.
materialista. Un sistema basato sul
mercantilismo. Come gli imperi che lo
hanno preceduto, le sue braccia si
aprono soltanto per accumulare risorse, per arraffare tutto ciò che vede e
rimpinzarsi l’insaziabile stomaco».
Perkins prende atto della differenza
profonda tra la vecchia repubblica
americana che «offriva al mondo una
speranza» ed «era basata su concetti di
uguaglianza e giustizia per tutti» che
«sapeva essere pragmatica… sapeva
spalancare le braccia per accogliere gli
oppressi… se necessario sapeva entrare in azione, come aveva fatto durante la seconda guerra mondiale» e «un
rapace e subdolo impero globale».
«Non potevo pensare che i nostri Padri Fondatori avessero previsto il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità soltanto per gli
americani» conclude e si chiede «come sarebbe stato il mondo se gli Stati
Uniti e gli stati loro alleati avessero
destinato tutti i soldi spesi nelle guerre coloniali - come quella in Vietnam
- per estirpare la fame nel mondo o per
rendere disponibili per tutti i popoli
l’istruzione e la sanità di base».
Domande che sono entrate ormai nella mentalità diffusa presso l’opinione
pubblica occidentale ma che negli anni Settanta furono una conquista non
facile per Perkins anche perché fatta
all’interno di un sistema che gli offriva una gran quantità di privilegi. Oggi l’Occidente è ben ricettivo nei confronti di questi temi (il che non significa che i problemi che sono a monte
degli stessi siano stati risolti. Anzi. In
certi campi possiamo osservare una situazione pesantemente aggravata). Il
lato positivo però è che l’opinione
pubblica è ampiamente convinta che il
sistema della crescita illimitata non
sia un bene in sé e per sé e che possa
pericolosamente deragliare andando
fuori controllo come in effetti in molti campi succede.
Rispetto agli anni Settanta dunque da
un lato si sono maturate le condizioni
che rendono il libro più commerciale,
dall’altro la provocatorietà ne viene in
qualche modo compromessa in quanto va ad aprire porte che sono già ampiamente spalancate. Il grande consenso alle idee espresse da Perkins
negli Stati Uniti, dove il libro è stato
pubblicato nel 2004, è legato certamente al fatto che le idee di base sono
ben consolidate nella mentalità comune. Paradossalmente però il consenso al libro è la prova che forse
adesso potremmo spingerci su posizioni più variegate e complesse. Prendere insomma queste idee di base come punto di partenza e non d’arrivo
per pervenire a posizione più articolate e meno manichee. Fermo restando,
ovviamente, il grande interesse che
questa «confessione» di un insider suscita.
S C A F F A L E
ERNST JUNGER, Heliopolis,
trad. Marola Guarducci, pp.
369, euro 19,00, Guanda 2006
La tecnica domina Heliopolis, una
città tutta rivolta al futuro che tuttavia custodisce ricordi e frammenti
dei nostri tempi. La città è scossa da
uno scontro di potere: tradizioni e
comunità vengono cancellate dall’esercito con le sue armi potenti e
micidiali; però la stessa tecnologia,
pur distruggendo, ha conservato anche qualcosa del passato grazie a
della apparecchiature che archiviano il sapere umano. Protagonista è
il comandante Lucius che si dibatte
in contraddizioni tra culto della disciplina e l’attrazione per una donna altera e sfuggente, Budur. Heliopolis fu pubblicato da Junger nel
1949 ed è considerato un romanzo
del genere visionario.
MARTIN KEMP, Leonardo,
trad. Davide Tarizzo, pp. 159,
euro 21,50, Einaudi 2006
Il protagonista descrive minuziosamente i paesaggi ed i panorami
che si trovano attorno alla villa Vignamaggio in Toscana nella cui terrazza adesso lui sta scrivendo con il
suo computer portatile. La villa apparteneva alla famiglia Gherardini
la cui figlia Lisa era la modella
enigmatica di Leonardo. È tutto un
incanto una terra che ammalierebbe
chiunque. La villa adesso è adibita
a stanze in affitto ed il protagonista
occupa la suite «Monna Lisa». Nell’austera atmosfera un vento improvviso fa ondeggiare misteriosamente lo schermo del portatile come se un antico spirito fosse stato
disturbato in quella austerità difendendo i segreti di quel luogo quasi
sacro. Kemp è il massimo esperto
di Leonardo e in questo campo si è
prodigato in numerose opere.
JAVIER CERCAS, La velocità
della luce, trad. Pino Cacucci,
pp. 245, euro 14,50, Guanda
2006
Un giovane scrittore catalano che
insegna in una piccola città del
Midwest si ritrova a condividere le
vicende del suo compagno di camera. Si chiama Rodnej, reduce della
guerra del Vietnam il cui ricordo è il
suo incubo peggiore. Rodnej un
giorno scompare ed il giovane catalano non smette di cercarlo insieme
col padre ripercorrendo il suo passato nell’orrore della guerra. Ma
l’orrore non è una prerogativa della guerra. Per il protagonista l’orrore si manifesta quando raggiunge il
successo letterario drammaticamente travolgente come Rodnej,
faccia a faccia con i suoi demoni.
Per questo vuole ritrovare l’amico,
per sapere da cosa sta fuggendo e
anche perché il suo dolore non rimanga un passaggio inutile nella
vita di ognuno. Javier è l’autore del
noto romanzo Soldati di Salamina.
JOSEPH O’CONNOR, Desperados, trad. Massimo Bocchiola,
pp. 449, euro 8,50, La Fenice
2006
Frank Little, un tassista irlandese, si
reca in Nicaragua mentre il paese è
a terra per la guerra civile. Vuole ritrovare il corpo di Jonny il figlio
morto. Così, assieme all’ex moglie
e alla band «Desperados de amor»
della quale faceva parte Jonny, parte su un camper scalcinato. Scopre
i contrasti del paese con la sua storia tormentata. Nulla si sa di Jonny.
Joseph O’Connor svela con pudore
ed arguzia la voglia di vivere di uno
sconfitto. Dublinese, ha all’attivo
molti titoli tra romanzi e raccolte di
racconti, tutti pubblicati da Guanda.
STEPHENIE GERTLER, Solitudini di coppia, trad. Cecilia
Scerbanenco, pp. 294, euro
16,60, Corbaccio 2006
Il matrimonio di Olivia e Carl è
perfetto, professori universitari, una
figlia a Cape Cod finché un giorno
l’affidabile Carl scompare. Olivia
cade nell’angoscia più profonda rievocando la disperazione dopo la
morte del suo primo marito. Cerca
tuttavia di ritrovare il suo equilibrio interiore mente Carl è ritornato nella sua città per riscontrarsi
con il passato mai sopito. La storia
di segreti non condivisi, pensieri
nascosti, cose non dette. Bisogna
dialogare ed imparare a dialogare
perché l’unione abbia un futuro.
LUCIA ETXEBARRIA . Una discesa intimistica
n mélo, perennemente
in bilico - come la donna del titolo - fra tragedia e commedia, fra
gioco degli equivoci e
dramma generazionale, in una Spagna
vitale ed effervescente al tempo di Almodovar e Zapatero.
Una giovane donna scrive una lettera
alla propria figlia appena nata; questa
lettera si dilata fino a trasformarsi in
un romanzone per certi aspetti fluviale e, a tratti, anche prolisso; la cornice
epistolografica cede quasi subito sotterrata da un profluvio di riflessioni ed
analisi, anche similsaggistiche, sul
confronto-scontro fra Spagna vieja e
nueva, sulle differenze di genere (maschio-donna, gay e checche, lesbiche
e trans…), su razionalità e sentimento,
su identità ed ambiguità…
Eva Agullò, l’io narrante che scrive
questa lettera, è un’autrice che vorrebbe dedicarsi alla scrittura di raffinate
analisi di critica letteraria, ma che invece ottiene fama e celebrità dalla
scrittura, su commissione, di un romanzo modaiolo dall’emblematico titolo "Tossiche".
Ma come vuole la massima capotiana
(«Sono più le lacrime che si spendono
per le preghiere esaudite piuttosto che
per quelle irrealizzate») la celebrità
diventa per lei l’inizio di una graduale discesa agli inferi, dove i gironi sono costituiti da tutte le opzioni e forme
possibili della dipendenza e del degrado.
Il coinvolgimento in uno scandalo di
chiara matrice gossipara, sul quale i
media si gettano senza ritegno, la indurranno ad una fuga a New York con
svolta imprevista e decisiva, con il conseguente ritorno a Madrid, la nascita
della figlia e la morte della madre.
La narrazione è condotta in modo ancipite perché gli episodi della vita di
Eva e della sua famiglia si intersecano
VIVE A OSIMO (AN) ED INSEGNA
MATERIE LETTERARIE IN UN ISTITUTO SUPERIORE.
COLLABORA
CON "GIUDIZIO UNIVERSALE"
LINNIO ACCORRONI
con le pagine della lunghissima lettera scritta alla figlia.
Un libro dalla struttura onirica e circolare, fra prolessi e reiterazioni, fra
enigmi e agnizioni, un romanzo di
passioni e deliri esibiti senza imbarazzi o pruderie, una festa mobile di sentimenti e di trasgressioni, di riso e di
pianto. Stilos ha intervistato l’autrice.
Il titolo originale del libro, "Un milagro en equilibrio", è stato tradotto, curiosamente, in italiano con un
anodino Una donna in bilico. Le
sembra un titolo confacente alla trama corposa e movimentata del suo
romanzo?
A me sarebbe piaciuto che fosse mantenuta una traduzione più attendibile
al titolo originale. La casa editrice ha
preferito cambiare: la ragione di questa scelta andrebbe chiesta a loro.
Si può dire che il vero leitmotiv del
libro è quello della lotta, mai terminata, nei confronti di varie forme di
dipendenza: la dipendenza dall’alcool, dagli amori (sbagliati e non),
dagli affetti familiari, da cliché modaioli, etc..?
È proprio così. Io credo che il libro sia
la storia di una dipendenza e dei modi
di sfuggire da essa. Ma ugualmente
tratta della violenza psicologica.
Le pagine più visceralmente sentite
del libro sono quelle in cui viene sceverato il terribile meccanismo su cui
la stampa scandalistica prospera e
dilaga.
Poiché questo libro è un racconto sulla violenza, non potevo esimermi dal
LUCIA ETXEBARRIA
"Una donna in bilico"
Trad. Roberta Bovaia
pp. 410, euro 16,50
Guanda, 2006
15
IDOLINA LANDOLFI
Il cammino personale
verso la coscienza
Una donna, Eva, protagonista
di due tappe di conquista esistenziale: la prima il ritrovamento dell’amore pulito con
un ragazzo newyorkese con il
quale concepisce Amanda; la
seconda la scoperta che non
solo lei ma anche i gentiori sono stati persone fragili e incerte. La redenzione dalle personali ossessioni in una esperienza di crescita che insegna come
la vita sia uno stato di equilibrio e un cammino verso la
consapevolezza.
SECONDA LETTURA
Serve un miracolo per avere equilibrio
PATRIZIA DANZÈ
Che ironia, dopo tanto femminismo e postmodernismo, ritrovarsi, alla fine, a cantilenare una lunga ninna nanna alla propria figlia. Una ninna nanna cullata al ritmo di un tango di Gardel, un tango triste che canta di sogni
non realizzati e di fallimenti, condizione propria e peculiare dell’essere
umano. A cantarla, questa lunga ninna nanna sotto forma di una lettera è
Eva, il bel personaggio femminile di Una donna in bilico, il romanzo con
cui la «ragazza terribile di Spagna», Lucía Etxebarría, ha vinto il prestigioso Premio Planeta 2004. Scritto in prima persona, con Eva che con un incipit perentorio («comincerò») enuncia immediatamente la sua intenzione di aprirsi ad una dimensione assolutamente soggettiva, è rivolto ad un
«tu» che motiva il romanzo-lettera e lo struttura interamente.
Ma, come in ogni lettera che si rispetti, si scrive per se stessi e non per l’altro; e così facendo, si sa, si finisce per dire più di quello che si voglia, e, forse, più di quello che in fondo piaccia di far sapere. Si finisce insomma per
scrivere più un diario intimo che una lettera con finalità comunicative, e per
dare la stura, con quei misteriosi segni neri, al desiderio di colmare (o di
allargare, secondo i punti di vista) lacune, squarciando il velo spesso della memoria sommersa. E così ad Amanda, la destinataria, la bambolina carissima, «il cioccolatino al liquore con la ciliegina dentro», la «luce a cui
attinge il sole», che ancora non può capire perché è solo (per quanto sveglia e ben presente) una neonata, ma soprattutto al lettore, destinatario comprimario insieme alla piccola, viene raccontata la storia di un io femminile che per tanto tempo si è sentito in bilico e che ha realizzato con la maternità un «miracolo» di equilibrio. Non può essere casuale che il titolo originale del romanzo della scrittrice basca, sia "Un milagro en equilibrio";
è quel che raggiunge Eva dopo una vita vissuta al ritmo di insicurezze, errori, mancanza endemica di autostima, che ha cercato di combattere collezionando una catastrofe (soprattutto sentimentale) dietro l’altra e portando a galla la parte più divertente e disinibita di se stessa, complice l’alcol
che ha fatto in modo che la sua paura della gente svanisse miracolosamente in un bicchiere con cubetti di ghiaccio.
Poi cambia qualcosa. Dopo un viaggio a New York, un periodo anch’esso stravagante e allucinato come la sua vita sino ad allora, Eva si trova per
la prima volta a considerare il doppio di se stessa. Quando la madre di Eva
muore e al dolore della perdita si associa quello della colpa, quando Eva
prende a sua volta coscienza della condizione di madre, quando comprende che anche i genitori hanno dolori e fragilità, quando accetterà se stessa
come un «miracolo in equilibrio», sarà pronta per ballare il tango malinconico ma necessario della vita.
n quadro è un po’ una fine- JONATHAN HARR. Sulle tracce di un Caravaggio
stra sul passato», questo è il
fil rouge dell’ultimo romanzo di Harr e, in particolare, di tutta l’esistenza di uno dei suoi protagonisti,
lo storico dell’arte Sir Denis Mahon,
che ritiene che «studiare le opere di un
Sa già che si tratta del Caravaggio
artista sia un po’ come accedere ai reperduto.
cessi della sua mente». Una mente che,
VIVE A CATANIA. SVOLGE UN
nel caso del pittore che lo ossessioDiversamente da Civil Action, l’autoDOTTORATO DI RICERCA IN
nerà sempre, è quella di «un folle e di
re non ha potuto seguire l’evento nel
GEOGRAFIA A LINGUE E LETTEun omicida, forse; ma certamente di un
suo svolgersi, ma lo ricostruisce attraRATURA STRANIERA DI CATANIA
genio». La mente geniale e contorta di
verso i racconti dei protagonisti,
Caravaggio. L’alone di mistero che
«estorcendo» loro anche dettagli sulammanta la sua esistenza domina il rola vita privata e aneddoti per colorare
TERESA GRAZIANO
di «vissuto» quello che altrimenti samanzo. Ma soprattutto il realismo crurebbe solo un saggio storico. E invedo di corpi che sembrano squarciare la familiari e grandi avvenimenti che ha
ce è un ibrido tra il saggio specialistitela, la sfacciataggine di colori vividi, il sapore della carta ingiallita. È la loco e la detective story condita da
palpitanti, di muscoli tesi e bocche ro dedizione che sfida la stanchezza,
spruzzatine di suspense, non sempre
spalancate, di cortigiane dagli occhi le lungaggini burocratiche, la diffisapientemente distribuite, cui manca
saettanti che prestano il volto alla Ma- denza dei baroni dell’università, l’inquel ritmo incalzante da togliere il
donna. Ma non è Caravaggio il vero dolenza di impiegati annoiati, le attese estenuanti per
fiato. Piuttosto, ha il ritmo lento di
protagonista.
il prestito dei libri
una ricerca tra scaffali polverosi.
È la meticolosa riR
e
c
e
n
s
i
o
n
i
in un’università
cerca di Laura TeÈ una sorta di fictional essay, in cui la
«darwiniana».
sta e Francesca
ricostruzione di un evento realmente
JONATHAN HARR
Harr ricostruisce
Cappelletti, giovaaccaduto si dipana come un romanzo.
"Il Caravaggio perduto"
ni laureate in Storia
In cui i personaggi in carne e ossa asTrad. Daniele Didero, Stefano Galli il cammino impervio delle due
dell’arte che spulsumono la consistenza di quelli di
pp. 298, euro 14,45
studiose con la
ciano in bui archivi
carta ma, per restituirne una dimenRizzoli, 2006
stessa meticolopolverosi alla ricersione più sfaccettata, sono raccontati
ca di riferimenti a un dipinto perduto sità con cui esse conducono le riceranche attraverso dettagli personali.
dell’artista, la Cattura di Cristo. È la che, e quello altrettanto difficoltoso
Harr tenta di intrecciare tutti i fili delloro passione per l’arte, non ancora del restauratore presso la National
la narrazione, ma non sempre questi
contaminata da smanie carrieristiche Gallery of Ireland di Dublino, Sergio
confluiscono in un ordito saldo e
e beghe accademiche. È il loro piace- Benedetti, che si imbatte per caso nel
omogeneo. Il romanzo ogni tanto trare di sfiorare antichi inventari rilega- dipinto in una residenza di gesuiti e meta. Ma l’autore, invece di seguirli disce qualche sintomo della recente
ti in cuoio e rosicchiati dalle tarme, inizia il complesso lavoro di restauro. contemporaneamente, li tratta in suc- epidemia di best-seller pseudostorici
nel cui inchiostro sono condensate I sentieri separati di Sergio e France- cessione, per cui il lettore, che ha già infarciti di misteri da risolvere (casual’ascesa e il declino di famiglie nobi- sca, uno sotto i cieli grigi d’Irlanda, condiviso con Francesca la certezza le che la scoperta del quadro sia parali, passaggi di proprietà, vendite, ere- l’altro tra archivi italiani e biblioteche dell’esistenza del dipinto, non riesce a gonata al santo graal?). Ma perlomedità, in un intreccio di piccole storie londinesi, convergono verso la stessa condividere invece i dubbi di Sergio. no non ci sono disastri incombenti o
«
U
pagina
IL LIBRO
agli inferi nell’ossessione di una vita condotta
sul filo del più incalzante spirito spagnolo e
sotto la spinta di una doppia tensione
Almodovar
fa l’effetto
di Zapatero
U
Nella foto superiore Lucia Etxebarria, autrice per Guanda di
Una donna in bilico. Sotto Jonathan Harr che da Rizzoli ha
pubblicato Il Caravaggio perduto
Capoverso
S t los
autori
stranieri
L’arte si colora di giallo
parlare della comportamento della
stampa scandalistica, sia perché mi
sembra estremamente violenta ed aggressiva, sia perché riproduce schemi
sessisti e conseguentemente molto
pericolosi.
L’effervescenza vitalistica e la radicalità sentimentale, in bilico tra una
vita nuova che viene a sorgere (la
neonata Amanda) ed un’altra (la
madre della protagonista) che
scompare in un crepuscolo ospedaliero descritto con pathos lucido,
sembra il ritratto, attraverso questi
distillati biografici, di quella Spagna che tanta parte della sinistra
progressista italiana ama ed invidia: penso ad Almodovar, in primis.
Effetto Zapatero anche per questo
libro?
In realtà, io ho scritto questo libro prima che Zapatero fosse eletto, però è
certo che in Spagna c’è una grande
tensione fra una sinistra e una destra
divise secolarmente, tra quelli che vinsero la guerra e quelli che la persero. E
siccome io sono vissuta in Spagna, è
normale che in maniera cosciente od
incosciente parli di questa tensione.
Per me, nel romanzo, la nonna che
muore rappresenta tutte le donne spagnole che vissero sotto una dittatura
fascista che affondò le loro possibilità,
le loro speranze di promozione sociale, i loro sogni e che non gli permetteva neppure di avere un lavoro o disporre del proprio denaro. La figlia
rappresenta quella generazione di
transizione che è nata sotto quelle stessa idee fasciste, ma che improvvisamente ha dovuto incominciare a vivere nel momento in cui questo sistema
si sgretola e si incominciano a porre le
basi di una nuova società. L’ultima
nata, evidentemente, simbolizza la
speranza del cambiamento.
(Traduzione di Nicolò Menghi)
inseguimenti da telefilm americano.
Traspare, infatti, un rigore e una fedeltà ai fatti che preclude derive arbitrarie, voli narrativi estremi, tanto da
evitare quanto più è possibile il ricorso al dialogo, proprio perché difficile
da ricostruire con accuratezza. Forse
anche la scelta di uno stile estremamente semplice, disadorno, a tratti insipido, traduce la volontà dell’autore di
sottrarsi a qualsiasi afflato emotivo
per non compromettere la patina di
veridicità. Ma, forse, un maggiore
coinvolgimento avrebbe reso più appassionante la narrazione.
Numerose sono le incursioni nella vita
di Caravaggio, nel timido tentativo di
illuminarne gli anfratti più oscuri con
tocchi di colore, trascinando il lettore
nelle sordide bettole della Roma barocca, nei suoi vicoli male illuminati, dove scoppiano risse e si consumano omicidi, così diversa da quella assolata in
cui si aggira Francesca sul suo Piaggio
arrugginito trascinandosi libri e documenti. Queste sciabolate nella biografia
di Caravaggio interrompono le lunghe
descrizioni della ricerca, e quelle ancora più meticolose dei procedimenti di
restauro, talmente tecniche da risultare
a tratti noiose per il profano.
Probabilmente la parte più interessante è quella consacrata alla vita dell’artista: questi squarci nel mondo di un
artista osteggiato, poi osannato, poi di
nuovo dimenticato, e infine celebrato
- a ragione - come uno dei più grandi
pittori di tutti i tempi. La più interessante, non per il talento prodigioso
dell’autore. Ma perché la vita di Caravaggio non ha bisogno di un romanzo
per essere da romanzo.
PAOLO DE BENEDETTI, GATTI IN CIELO, MC EDITORE, PP. 54, EURO 15,50
Con le belle illustrazioni di Michele Ferri (che ha già collaborato, a Gattilene, dello stesso autore), ecco la nuova raccolta poetica
dell’illustre biblista, professore di
giudaismo alla Facoltà teologica
dell’Italia Settentrionale. Si tratta
di piccoli tombeaux per gatti che
non ci sono più, ma che restano
nella memoria con la loro immagine lieve eppur chiara, inconfondibile. Da biblista laico quale è,
De Benedetti ammette in un
pantheon ulteriore ogni creatura,
senza le sciocche «graduatorie»
alle quali certa Chiesa ci ha abituati. Con la loro presenza umile,
il loro bagaglio fatto di nulla (non
hanno beni, tranne il grande dono
dei loro corpi, e la loro gratitudine
alla vita è sempre, in ogni caso,
esemplare), solo il ricordo essi lasciano, nel passare. «Ma se ciò
che ha avuto vita e sentimento scrive il poeta in una breve nota fosse dimenticato nella resurrezione finale, l’opera di Dio sarebbe un fallimento». Così non v’è
cupezza in queste liriche, ma il
senso dolce di una perdita che si
sa, si spera non definitiva. La sofferenza degli animali, «che non
hanno voluto essere come Dio,
che non hanno nella loro natura la
capacità della malizia [l’innocenza degli animali, quella sì è davvero divina!], che hanno seguito
l’uomo nella sua rovina, e continuano a soffrire con lui e da lui»
resta uno dei misteri su cui De
Benedetti si interroga. Sofferenza
che non può non avere riscatto:
«Dimmi, occhio di topo / schiacciato sul selciato, dimmi: / chi
guardi?» sono versi di Franco
Marcoaldi citati in epigrafe: «Che
cosa vedrà l’occhio di quel topo
schiacciato? - commenta De Benedetti. - Io credo che vedrà Dio,
e spero che Dio veda quell’occhio».
Martino, Titina, Pentolino, Nuvole, Pappa, Michelino, Mariani, Orsone, «icone piccine / della
grazia divina»: sfilano i tanti gatti di queste microstorie, con le loro vite troppo brevi, e le morti discrete, silenziose. Talvolta i versi
prendono un deciso andamento
da filastrocca infantile, e in genere è privilegiata la semplicità,
l’ingenuità del dettato, in sintonia
con l’oggetto del canto. Un Dio
forse desideroso della loro leggiadria li chiama a sé prima del tempo, come nel caso di Dove sei
(«Forse Dio / ti ha detto: Dove
sei? Perché voleva / qualche cosa
di morbido nel grembo, / fra tanti santi un poco soffocanti»); sovrani sono i suoi decreti, ma l’uomo di cuore non può reprimere
un moto di ribellione, rispetto ad
un impietoso saccheggio degli affetti; e il suo tu per tu ci rimanda
a un modo antico di rapportarsi
con la divinità: «Ma, scusami, Signore / se un po’ con te ho rancore: / non ti basta il buon viso / di
tutto il paradiso / per prenderci
anche questa / piccola festa viva?».
OMAGGIO A FABRIZIO DE ANDRÉ,
RIZZOLI BUR, PP. 102, EURO 19,50
A cura di Piero Ameli, e corredato da Dvd con canzoni dell’autore presentate da vari colleghi Massimo Ranieri, Antonella Ruggiero, Morgan, Cammariere e altri ancora -, un volumetto che ripropone i testi di molte composizioni di De André, quelle che tutti noi conosciamo a memoria, e
che non sono mai invecchiate: un
viaggio dagli angiporti di Genova
alla Galilea della Buona novella,
dalla sua personalissima Spoon
River al carcere di Poggioreale,
con il suo don Raffae’ e il più famoso secondino del pianeta, Pasquale Cafiero. Precede una serie
di testimonianze di cantanti e amici: ne emerge un Fabrizio a tratti
inedito, privato, frammenti della
sua vita a Genova o, poi, in Sardegna.
S t los
autori
stranieri
pagina
16
EMILIA PAGLIANO
MATTHEW PEARL . Dopo lo straordinario "Il circolo Dante" un altro
dgar Allan Poe morì il 7
ottobre 1849 in un ospedale di Baltimora, un decesso oscuro e discusso.
E «l’ombra di Edgar» si
aggira nel romanzo di Matthew Pearl,
una presenza assente che si avverte
fin dalle parole di apertura, «ricordo il
giorno in cui tutto ebbe inizio», con
un’assertiva prima persona narrante
che si impone all’attenzione del lettore e lo tiene avvinto ad una narrazione
che è un’indagine per risolvere un
doppio enigma: perché è morto Poe e
chi ha ispirato il personaggio di C.
Auguste Dupin nella trilogia delle storie del mistero che inizia con I delitti
della Rue Morgue.
Il protagonista, il giovane avvocato
Quentin Clark, aveva avuto anche uno
scambio epistolare con E.A.Poe e si
era impegnato a citare in giudizio qualunque falso accusatore che avesse intralciato il lancio della rivista "The
Stylus" che Poe intendeva dirigere.
Perché Clark credeva nel genio dello
scrittore, vilipeso dall’opinione pubblica per la fama di sregolatezza e di
eccessi, nonché per quella che pareva
una connessione troppo intima con il
regno delle ombre e della morte. E
adesso Clark si ritrova ad avere un
morto come cliente e per quest’ombra
caccerà via la sua professione e la sua
vita personale. Andrà in Francia alla ricerca del «vero» Dupin e ne troverà
addirittura due, un Duponte e un Dupin, tornerà a Baltimora seguito o accompagnato da entrambi, continuerà a
investigare, a rischio della sua vita e
della sua salute mentale.
È facile vedere come Matthew Pearl
ricalchi intenzionalmente le orme di
Poe, sia nell’andamento del racconto
sia nella rielaborazione dei temi dello
scrittore. l’uso del raziocinio, o almeno quello che Poe chiamava tale e cioè
l’impiego dell’immaginazione per effettuare le analisi, la figura del doppio
che qui sembra sdoppiarsi all’infinito
(Clark e il suo saggio socio Peter,
Clark stesso come un doppio di Poe
trascinato da un sogghignante William
Wilson, i due investigatori che finiscono per diventare uno solo la cui realtà
non è fuori ma dentro di noi), il ritratto che riproduce le fattezze dell’uno
che vengono poi copiate con abile
trucco dall’altro. Ma c’è anche un elemento donchisciottesco nel romanzo
di Pearl, l’attrattiva esercitata dai libri
sul lettore, il pericolo del mondo immaginario contro cui Peter mette in
guardia Quentin Clark che ne viene inghiottito, assieme a Duponte che ha
fatto il possibile per rimodellarsi su un
personaggio - il Dupin di Poe - che gli
assomiglia ma che non è lui. E qui ritorniamo in circolo alla vita che copia
l’arte e all’arte che copia la vita. Stilos
ha intervistato il trentenne scrittore
americano.
Sembra che lei abbia scelto il genere del thriller letterario: Dante le ha
offerto la cornice per il romanzo
precedente, Il circolo Dante, e Poe
per questo. È una scelta che unisce
due sue passioni, la letteratura e il
thriller?
Quando ho iniziato a scrivere Il circolo Dante, la scelta della cornice letteraria è stata casuale: non avevo in mente di scrivere molti libri, anzi a dire il
vero non avevo programmato di scrivere neppure quel libro. Una volta detto questo, è vero che i miei romanzi
uniscono le mie due passioni, quella
per la letteratura e i suoi personaggi e
quella per il romanzo di indagine poliziesca. E scrivere un secondo romanzo dello stesso genere di Il circolo
Dante è sembrata una scelta ovvia e
romanzo che combina thriller e letteratura: dove storia, fantasia e
teoria si fondono creando un nuovo genere. Così il trentenne autore
americano rinverdisce un genere che suscita crescente entusiasmo
’
E
Il maggiore mistero di Poe
riguarda proprio se stesso
naturale: sentivo di aver imparato molto scrivendo il primo romanzo ed
esplorando questi temi, ma nello stesso tempo mi sembrava di non aver finito o completato di sfruttare le mie
idee. Così, piuttosto di muovermi in
qualcosa di diverso, ho preferito continuare quel viaggio di esplorazione
letteraria.
Alla fine di L’ombra di Edgar dice
che, nel fare le ricerche per il romanzo, ha scoperto anche alcune cose
nuove: L’ombra di Edgar è anche un
romanzo poliziesco in cui Matthew
Pearl stesso svolge delle indagini per
far luce sul mistero della morte di
Poe?
C’è un parallelo tra quello che i personaggi fanno nel libro e quello che faccio io come scrittore. È stato qualcosa
di eccitante per me perché ci sono state molte sorprese, molte scoperte da
parte mia, così come ci sono le scoperte che i personaggi fanno lungo il corso del romanzo. Quindi sì, c’è una duplice investigazione anche se la mia è
meno drammatica di quella che si
svolge nel libro, perché mi ha richiesto
solo stare lunghe ore seduto a fare ricerche nelle biblioteche e non essere
inseguito da assassini.
A proposito, perché Poe? Quale delle opere di Poe preferisce? Nel romanzo si parla soprattutto delle storie poliziesche…
Poe ha scritto una vasta gamma di tipi
di storie, impossibili da contenere in
questo romanzo. Mi sono concentrato
sulle detective stories, in parte perché
questo è un romanzo di indagine poliziesca, un mystery relazionato a Poe.
Personalmente amo i romanzi polizieschi di Poe, il primo che ho letto è stato La lettera rubata e ha avuto un ruolo speciale nella mia scoperta di Poe.
IL LIBRO
MATTHEW PEARL
"L’ombra di Edgar"
Trad. Roberta
Zuppet
pp. 507, euro 18,50
Rizzoli, 2006
Sulle orme di Dupin
e della letteratura
Il giovane avvocato Quentin
Clark ha due amori nella sua
vita, per la fidanzata Hattie
Blum e per le opere di Edgar
Poe. Quando apprende della
morte improvvisa dello scrittore, decide che deve indagarne
le cause e, per prima cosa, si
mette sulle tracce dell’uomo
che può aiutarlo, la persona
che ha ispirato a Poe il suo famoso Dupin, capace di risolvere i casi più difficili. Quentin
Clark tralascia ogni cosa per
scoprire la verità, vittima del
fascino del mondo della letteratura.
Amo anche Il barilozzo di Amontillado, perché è nello stesso tempo terribile e intelligente, mette paura ed è anche molto triste: Poe riesce a risvegliare così tante reazioni diverse insieme.
Perché Poe? Ho scoperto Poe quando
avevo più o meno quindici anni, è stato il primo scrittore che ha suscitato in
me un’eccitazione da lettura, che mi ha
fatto desiderare di leggere altri suoi libri. Più tardi, mentre facevo ricerche
per Il circolo Dante, mi sono di nuovo
imbattuto in Poe, perché l’ambiente di
cui parlavo era costituito da nemici
letterari di Poe. Ho provato allora un
nuovo e diverso interesse per Poe e
questo mi ha motivato a riscoprire una
mia vecchia passione, ricordando
quanto lo avessi amato una volta. E naturalmente adesso ho potuto apprezzare maggiormente la sua complessità.
Il padre di Quentin Clark, Poe e
Clark: questi tre personaggi rappresentano i due estremi e la via di mezzo? Razionalità e genio, e Clark che
ammira il genio e vorrebbe imitarlo?
Quando ho iniziato a lavorare sul personaggio di Quentin avevo bisogno
di immaginare che cosa lo mettesse
nella posizione di apprezzare Poe, che
cosa lo portasse ad ammirare così tanto Poe. E si è venuta delineando la figura del padre: l’interesse di Quentin
per Poe è una fuga dal padre. Quentin
vuole imitare Poe ma non ne è in grado. Alla fine Quentin Clark non è un
artista anche se ha qualcosa di artistico nel modo in cui vede il mondo.
Per quale motivo Poe è stato così
ignorato dai suoi contemporanei?
Per la vita che ha condotto, come è
successo a Byron, o perché le sue
opere erano così insolite, al di fuori
dei canoni del tempo?
Per entrambi i motivi. La sua personalità, come d’altronde quella di Dante,
non era espansiva. Poe non era un uomo socievole e alienava la simpatia
della maggior parte dei membri della
comunità letteraria che avrebbero potuto aiutarlo nella carriera ed anche
ad essere apprezzato. Poe era paranoico, sospettoso quando cercavano di
aiutarlo, sabotava qualunque iniziativa
a suo favore, era autodistruttivo. Rima-
Nella foto Matthew Pearl, autore per Rizzoli
di L’ombra di Edgar
se isolato come scrittore, senza sostenitori. D’altra parte la sua produzione
letteraria era così insolita che sarebbe
stata difficile da proporsi anche avesse avuto un carattere più facile, era
difficile che trovasse l’apprezzamento
di un vasto pubblico. Inoltre, a parte il
romanzo Le avventure di Gordon Pym,
che non ebbe successo, scriveva storie
brevi, un genere che ai lettori non piace molto. E aveva un approccio alla
realtà che non si adeguava alle prospettive fissate dalla società dell’epoca: Poe non guardava attraverso la lente della religione o dei valori cristiani.
Poe e le donne: alla luce della psicologia moderna, come si può considerare il rapporto di Poe con le donne?
Poe era il soggetto perfetto per gli studi di psicanalisi, quando questa scienza prese piede nel secolo XX: sua madre era morta quando lui aveva due anni, e lui era presente quando lei morì.
Per tutta la vita Poe cercò una madre
sostitutiva e non riuscì mai ad avere un
rapporto normale con donne adulte.
Sposò la cugina di tredici anni e, quando questa morì, sembra che Poe tendesse a ripetere lo stessa schema di innamoramento. E poi aveva un grande
affetto per la suocera, che era anche
sua zia e che lui chiamava Muddy,
con un nomignolo che è una deformazione di Mother. Corteggiò anche altre
donne: dopo la sua morte si speculò
parecchio se Poe fosse in grado o no di
avere un rapporto sessuale normaleperché si cercava di capirne la personalità, così ombrosa ed elusiva.
Ha sperimentato anche lei, come
Clark, il pericolo di essere trascinato dentro i libri, di vivere in un altro
mondo, il mondo dell’immaginazione?
In un certo senso sono fortunato, mi
getto nei libri ma senza conseguenze
dannose, questo è il vantaggio di essere uno scrittore. Ma appena ho iniziato a scrivere Il circolo Dante ho capito quanto fosse pericoloso far parte
del mondo letterario, perché stavo studiando per diventare avvocato e dedicavo sempre più tempo a leggere e
scrivere. In definitiva non ho sostenuto gli esami per esercitare, sono stato
tentato da altro, proprio come Quentin
Clark. Solo che per me quest’altro
mondo è diventato la vita, per Quentin
è solo un’avventura temporanea.
Pensa che il mondo dell’immaginazione offerto dai libri si possa paragonare a quello offerto dai videogame?
Non ho mai giocato ai videogame, e
forse quello che dirò non è esatto, ma
non penso che sia la stessa cosa. Con i
videogame il cervello non usa l’immaginazione, riceve degli impulsi e reagisce in maniera programmata. Nella
lettura l’immaginazione ha un altro
ruolo, la mente del lettore ha una parte importante quanto la parola del testo. Dico sempre che il libro non esiste
senza il lettore, e in definitiva esistono
tante versioni dello stesso libro quanti sono i suoi lettori. È una cosa che fa
una certa paura allo scrittore perché
perde il controllo, ma questo è il motivo per cui la letteratura è così potente.
Sta scrivendo un nuovo romanzo?
Sarà ancora un thriller letterario?
Fino a settembre non metterò mano ad
un nuovo libro, ma spero di scrivere
molti altri libri: molti saranno esperimenti per me, come lo è stato Il circolo Dante, ma sarebbe strano se il mio
prossimo libro non combinasse ancora letteratura e suspense. Perché mi
piace e sento di non aver ancora completato la mia esperienza con questo
genere.
S C A F F A L E
URSULA K. LE GUIN, I doni,
trad. Riccardo Valla, pp. 235,
euro 17,60, Editrice Nord 2006
Ursula Le Guin, californiana, figlia
di una scrittrice e del celebre antropologo Alfred L. Kroeber, ama scrivere fantasy. Questo parla degli abitanti dei Monti, che possiedono dei
magici «doni» ereditati dagli avi: la
capacità, con un gesto, uno sguardo,
una parola, di attirare a sé gli animali, di accendere il fuoco, di spostare
la terra, e se necessario, di distruggere gli altri. Ma due ragazzi, Orrec
e Gry, atterriti da questo potere,
scelgono consapevolmente di non
usare i «doni».
ETAHAN COEN, I cancelli dell’Eden, trad. Marco Pensante,
pp. 220, euro 10,50. Einaudi
2006
I personaggi di questo libro vorrebbero essere ammessi nel Paradiso. Per essi rappresenta i cancelli
dell’Eden. È il deludente e amaro
sogno americano sicché infine quel
paradiso si potrebbe paragonare ad
una squallida stanza di uno scadente motel. Coen ci offre una mappa
dell’inadeguatezza dove si aggirano
personaggi ambigui per mestieri e
personalità diversi tra di loro. Con il
fratello Joe ha realizzato anche molti film ed è tenuto tra i maggiori registi dei nostri tempi.
KELLY JONES, Il settimo unicorno, trad. Silvia Castoldi, pp.
394, euro 18,00, Rizzoli 2006
Sei arazzi quattrocenteschi raffiguranti una dama con un leone ed un
unicorno costituiscono un grande
tesoro nel museo di Cluny a Parigi.
Alex Pellier che vi lavora viene
mandata nel monastero di Sainte
Blandine dove scopre qualcosa che
le fa nascere il sospetto che esista
un settimo arazzo. Il ritrovamento
di questo salverà il monastero destinato a diventare un hotel. L’amore
tra la dama ed il tapissier che ha realizzato il settimo arazzo, ambientato nel misterioso e affascinante
mondo dei musei.
P. J. TRACY, Vuoi giocare?,
trad. Adria Tissoni, pp. 394, euro 18, Nord 2006
Due parrocchiani molto ricchi vengono uccisi nella chiesa di padre
Newberry. Anche nel Minnesota si
hanno altri delitti. Si trova il collegamento tra gli omicidi. Gli assassini sono cinque e stanno imitando un
videogame non ancora in commercio. C’è una donna tra di loro, Grace che gira sempre armata. Perché
hanno creato un gioco tanto realistico? Ma la domanda più importante
e inquietante appare sul monitor:
«Vuoi giocare?».
LLOYD ALEXANDER, Terra
d’Occidente, trad. Lucio Angelini, pp. 190, euro 12, Salani 2006
Nella città di Dorning il terribile
ministro Cabbarus perseguita quanti sono sospettati di stampare scritti illeciti e sovversivi per cui Theo,
tipografo apprentista di Anton, fugge uccidendo per sbaglio un soldato. La sua vita cambia e dovrà sempre fuggire fino all’incontro con
persone diverse tra loro per stile,
pensieri e risorse. Lloyd Alexander
è autore tra i più premiati al mondo.
S t los
Nella foto sopra Steve Berry (fotografato da Joel Silverman),
autore per Nord di L’ultima cospirazione. In basso Alexandre
Jardin che da Bompiani ha pubblicato Una famiglia particolare
emergente serviva divulgare un messaggio che fosse cattolico nel senso
etimologico del termine, cioè universale, e dunque giovava che Gesù fosse
più di un semplice profeta.
E perché ha deciso di trattare un argomento scottante e intoccabile come la resurrezione di Cristo?
È un argomento che mi ha sempre affascinato e perciò mi ha spinto a leggere molto e, dunque, a notare moltissime incongruenze nel Nuovo Testamento. È molto interessante quel periodo in cui nasce il cristianesimo: la
religione romana era in declino e il
giudaismo si ritirava in se stesso, la
gente voleva qualcosa di diverso e i seguaci di Gesù, che altro non erano che
ebrei in cerca di una nuova prospettiva, formularono la loro nuova visione
del mondo. Il cristianesimo si basa sul
fatto che Gesù è morto in croce, risorto e asceso al cielo. Ma pensiamo a cosa sarebbe significato per la cristianità il ritrovamento delle ossa di Cristo. Ma è proprio sulla crocifissione
che i Vangeli divergono ed è per questo che sono stati oggetto di migliaia di
studi. Mi ha sempre molto interessato
anche il fatto che la religione ignora
queste incongruenze e le moltissime
domande a cui non si dà risposta.
Non teme di sollevare un vespaio,
non inferiore a quello sollevato da
Dan Brown col suo Codice da Vinci?
Ma è proprio questo lo scopo del mio
libro, sollevare un vespaio. Ovviamente bisogna tenere presente che c’è una
distinzione tra fede e ragione e non c’è
nulla nel mio libro che possa minare la
fede del lettore, ma c’è parecchio che
possa sfidare il lettore a cercare, a
chiedersi come è nata la religione. Non
ha nulla di così mistico, né di così magico, né di così religioso. E tuttavia,
non temo di cadere nel blasfemo, perché comunque, a prescindere dalla conoscenza razionale, credere, come dicono Geoffrey e Stephanie, è un atto di
fede e la fede elimina anche la logica.
Ma le buone persone seguirebbero in
ogni caso gli insegnamenti di Cristo.
Al centro dei misteri del suo libro
c’è proprio la conoscenza. Al centro
dei misteri del suo libro c’è proprio
la conoscenza. È la conoscenza il
frutto proibito e la Grande Eredità
custodita dai Templari?
Esattamente. Ciò che ha dato ai Templari il loro potere non è la ricchezza,
ma la conoscenza. Il fatto che tutto è
scomparso dopo il 13 ottobre 1307,
giorno in cui Filippo IV ordinò il loro
arresto lascia molti punti oscuri. Si
parlava di un tesoro dei Templari, di un
luogo leggendario che custodiva ricchezze e testi proibiti dalla Chiesa, si
raccontava che dopo la soppressione
dell’Ordine il nascondiglio della Grande Eredità rimase segreto, e che carri
coperti di paglia viaggiarono verso i
Pirenei, anche se ovviamente non si
può sapere nulla di certo perché purtroppo non ci sono cronache dell’Ordine. E se al tempo dei Templari le ossa
di Cristo fossero state ritrovate? Era
questa la Grande Eredità? Ritrovare la
Grande Eredità forse avrebbe potuto
cambiare in modo fondamentale la
cristianità.
Lei adombra anche la possibilità che
l’immagine impressa sulla Sacra
Sindone di Torino sia quella del
maestro Jacques de Molay.
È quello che sostiene un personaggio
del mio romanzo. Afferma che l’immagine impressa per un processo chimico sul lenzuolo era quella di De
Molay, arrestato nel 1307 e inchiodato nel 1308 a una porta nel Tempio di
Parigi, in modo simile a quello di Cristo. Io non faccio che riportare nell’invenzione del romanzo un’ipotesi di
due studiosi. Christopher Knight e Robert Lomas che nel loro libro Il secondo Messia sostengono che è sensato
pensare che una cosa del genere è possibile sia avvenuta, anche se sulla questione se il lenzuolo di lino sia del I secolo o di un periodo tra il XIII e il XIV
secolo ci sono molte questioni.
Perché i Templari appaiono in nero
nel suo racconto? E ce ne sono oggi?
Non è così per tutti i Templari, non sono certo eroi del male; questo vale solo per il personaggio di de Roquefort,
da me inventato e di cui mi sono servito per presentare l’ordine sia nel bene
che nel male. Proseliti oggi? Non so:
possiamo solo sperare che se ne stiano
nascosti in qualche parte.
a fascetta di Una famiglia par- ALEXANDRE JARDIN. Personaggi al limite dell’inverosimile
ticolare, ultimo libro di Alexandre Jardin, dovrebbe allettare e
invece insospettisce: «300.000 copie
vendute in Francia». Solitamente, nella maggior parte dei casi, urli di copertina come questi sono sicure anticaQuello che ha scritto è tutto vero?
mera alla noia, al bestseller imposto,
Purtroppo no. Ho dovuto censurare
all’idiozia del meccanismo editoriale
VIVE A MILANO. COLLABORA,
moltissimi episodi che forse sarebbeche fa coincidere le vendite alla quaTRA GLI ALTRI, A "LA REPUBro apparsi eccessivi. È certo però che
lità di scrittura. Un meccanismo perBLICA", "IL GIORNALE" E
sono tutte vere le emozioni che ho
verso, la «dittatura delle fascette», che
"ROLLING STONE"
cercato di trasmettere nel libro. Quelrischia di far perdere l’interesse dei
le di un uomo che ha deciso di racconlettori più curiosi, quelli meno attratti
GIAN PAOLO SERINO
tare il proprio passato, la propria indal luna park dei lanci promozionali,
fanzia, attraverso un dolore filtrato
degli autori cartonati formato famidal mio senso innato dell’umorismo.
glia, delle pubblicità ossessive sulle ma che, grazie alla bravura di Jardin,
Nella sua "Autopsicobiografia"
prime pagine di quotidiani che, ridot- appassiona, stupisce, diverte e comPessoa sottolinea che «lo scrittore è
ti spesso a contenitori di spot cartacei, muove. Insomma: gli ingredienti tipiun mentitore. Finge così totalmente
non possono poi far altro che gridare ci di quei bestseller da lasciare sullo
da fingere che è dolore il dolore che
al capolavoro in quelle che un tempo scaffale. Per una strana alchimia invedavvero sente».
ce Una famiglia particolare ha paserano la terza pagina.
È un cugino che ha scritto questa fraIn questo caso però Una famiglia par- saggi esilaranti, trovate al limite del
ticolare è davvero uno tra i romanzi geniale, situazioni sempre ai limiti tra pagne per lasciare assegni in bianco se! Mi ci ritrovo molto. Anche perché
migliori di questa stagione letteraria: reale e verosimile. I protagonisti del nelle cabine del telefono nella spe- nel mio libro, che ho cercato di rendeuna storia assurda (ma vera, assicura romanzo sono una nonna, chiamata ranza che qualcuno li trovi e lo porti al re divertente agli occhi di chi non ha
Archibugio in tracollo finanziario. Uno zio, chiama- vissuto la mia storia, c’è un grande dol’autore): una stovirtù di una vita- to Merlino, inventore ossessionato lore che accomuna tutta la mia famiria autobiografica
I
n
t
e
r
v
i
s
t
e
lità esplosiva che dall’idea di vincere la forza di gravità. glia: la delusione di una realtà che li ha
che vede al centro
la porta a lasciare Una madre che, assieme al marito, vi- delusi disperatamente. Tutte persone
della narrazione
ALEXANDRE JARDIN
l’epopea della fa"Una famiglia particolare" le finestre della ve un rapporto da coppia aperta di- allegramente disperate.
sua villa aperte chiarata: amanti che vanno e vengono Nel libro lei si definisce «un fallito
miglia Jardin.
pp. 222, euro 15
nella speranza alla luce del sole. Come sopravvivere dell’assoluto»…
Una galleria di
Bompiani, 2006
che qualche la- a una simile «non educazione»? A un È abbastanza vero.
personaggi ai lidro penetri in tut- tale uragano di deliri? Ad una famiglia Al contempo però confessa di avere
miti del surreale,
ti i sensi. Un padre, scrittore e famoso che trovava negli eccessi l’unica via di la mania della lotta sociale…
ma che intrigano subito il lettore.
Perché questa «famiglia particolare» è sceneggiatore negli anni d’oro del ci- fuga dalla follia della borghesia? Sti- È vero. Io credo che attraverso un imuna sorta di circo barnum: uno zoo nema francese, che per il gusto del ri- los ne ha parlato con l’autore, in Italia pegno civile, e non politico, si possano fare grandi cose. Credo nelle libeumano che sconfina nel vaudeville, schio estremo di notte vaga tra le cam- per presentare il suo libro.
re associazioni di cittadini, molto meno nelle istituzioni. Ad esempio, tra le
molte associazioni che coordino, una
si chiama «Leggere e far leggere», un
progetto che vede coinvolti più di 11
mila pensionati francesi che, ogni settimana, si recano in varie scuole elementari per leggere libri ai bambini.
Piuttosto lontano dai concetti della
sua famiglia: «Per loro - scrive nel libro - la normalità era sinonimo di
decadimento».
Hanno protetto solo la loro realtà: le
giornate erano messe in scena, la vita
una continua ma sincera recita teatrale.
In Francia in molti l’hanno definita
l’anti-Houellebecq: il libertinaggio
vitale da lei proposto in contrapposizione al nichilismo estremo di
Houellebecq…
Non credo che ami i miei libri. Come
io non amo i suoi. No, non abbiamo
proprio niente in comune.
Nella raccolta Il senso della lotta di
Houellebecq c’è però una poesia che
mi ha fatto molto pensare al suo libro: «Abbiamo attraversato stanchezze e desideri / senza ritrovare il
gusto dei sogni dell’infanzia / Non
c’è più granché in fondo ai nostri
sorrisi / Siamo prigionieri della nostra trasparenza».
Purtroppo devo ammettere, davvero a
malincuore, di ritrovarmi molto in
questa poesia. Mi ha fregato: è l’unico
giornalista che ha trovato un contatto
tra me e Houellebecq. La prego solo di
non dirlo troppo in giro.
un vero park teologico
quello in cui ci attira Steve
Berry, già autore del Terzo
segreto,
e
adesso
dell’Ultima cospirazione,
un romanzo di enigmi, indizi, trappole sui quali incombe un segreto indicibile. Eppure Berry, un avvocato con
due grandi passioni, la storia e la narrativa, confessa che alla conclusione di
questo suo ultimo libro pronto certamente a diventare un bestseller, e alla
cui idea lavorava da molti anni, c’è arrivato faticosamente, e solo una notte
durante un viaggio in aereo ha capito
come avrebbe potuto terminare il suo
romanzo. Una storia in cui intenzionalmente intende attirare il lettore affinché si perda negli intrighi che ogni
bravo scrittore deve saper proporre.
Berry, che è giunto in Italia per presentare il suo libro, ne ha parlato con Stilos.
Un ordine medioevale, una congiura moderna, un segreto sconcertante. Come sono diventati un libro
questi tre elementi?
Avevo un’idea sul concetto di cristianità e pensavo a qualcosa che fosse
universale, che si adattasse a tutti. Il
terzo segreto riguardava la chiesa cattolica ed invece con questo libro volevo esplorare dall’interno un aspetto
tuttora misterioso della cristianità e
intrecciarlo con le vicende dei Cavalieri Templari, un ordine monastico-militare formatosi a Gerusalemme all’inizio del dodicesimo secolo con la missione di proteggere i pellegrini cristiani in viaggio per la Terra Santa. Quei
Poveri Soldati di Cristo e del Tempio
di Salomone, come si chiamavano inizialmente, dall’originario numero di
nove erano diventati migliaia sparsi in
tutta Europa. Le loro ricchezze divennero col tempo ingenti, erano diventati tanto potenti da finanziare re e stati.
Inevitabile che suscitassero invidia e
quando un papa come Clemente V divenne un burattino nelle mani del re
Filippo IV che odiava i Templari e ordinò di arrestarli in massa e di ucciderli, l’ordine si sbandò e apparentemente sembrò terminare con l’uccisione
del maestro Jacques De Molay. In una
storia così è inevitabile che ci siano intrighi e misteri; dunque io ho voluto
immaginare una congiura moderna e
un segreto, un altro sconcertante segreto a legare i primi due elementi. A
quel punto il romanzo era praticamente fatto.
Ma c’è stato un luogo o una situazione che l’hanno convinta a scrivere la storia?
Sì, la celeberrima cittadina di Rennesle Chateau, una località della Linguadoca, tra i Pirenei e il Mediterraneo. È
stata la visita a questo luogo che mi ha
permesso di legare gli elementi sui
quali lavoravo da diciotto mesi. Rennes-le Chateau è un posto straordinario, avvolto nel mistero, un luogo di
molte leggende, di moltissime domande senza risposta che si adattano a
quegli aspetti del cristianesimo ancora
oscuri. E soprattutto è straordinaria la
sua chiesa, piena di immagini religiose che si susseguono una dopo l’altra,
ciascuna delle quali ha qualcosa di
strano. Criptogrammi e immagini contrastanti, segni mistici e misteriosi che
È
L
IL LIBRO
STEVE BERRY
"L’ultima
cospirazione"
Trad. Gianluigi
Zoddas
pp. 503, euro 18,60
Editrice Nord, 2006
Sulle tracce
di un libro-verità
La tranquillità di Cotton Malone, bibliofilo ed ex agente
operativo al servizio del dipartimento di giustizia americano,
viene turbata da uno scippo
subito da un suo ex superiore,
Stephanie Nelle, giunta in Danimarca per partecipare ad
un’asta di libri antichi. E così
Malone scopre che Stephanie
sta seguendo le tracce di un libro che potrebbe risolvere il
mistero del tesoro scomparso
dei Cavalieri Templari e rivelare un segreto proibito della
Chiesa.
STEVE BERRY . La vicenda leggendaria dei Templari, i segreti di
Rennes-le Chateau e un ipotetico testo sacro che conterrebbe
rivelazioni scandalose per il cristianesimo. Una nuova prova del genere
del mystery esoterico che sfida "Il codice da Vinci" e rifà la storia
Nel Vangelo di Simone
una bomba sulla chiesa
VIVE A MESSINA. INSEGNA IN
UN LICEO CLASSICO. PER L’EDITRICE LA SCUOLA HA PUBBLICATO TRE ANTOLOGIE DIDATTICHE
PATRIZIA DANZÈ
quando entri ti assalgono come in un
parco di divertimenti, un parco teologico in questo caso. A Rennes si custodiscono tuttora dei misteri riguardanti
oscure storie sul famoso abate Saunière, e i criptogrammi sono parte effettiva della storia di Rennes, anche se
quelli contenuti nel romanzo sono, tuttavia, un prodotto della mia immaginazione.
E come mai ha ambientato la vicenda, almeno inizialmente, in Danimarca?
Ma perché è uno dei paesi che amo di
più e l’asta dei libri che si tiene nell’antica città di Roskilde uno dei posti da
me preferiti tra altri nel mondo. Mentre ero seduto in un caffè di Hoibro
Plads ho deciso che la mia storia doveva cominciare da quella piazza anima-
ta. Mi piacerebbe viverci come Cotton
Malone, che non a caso è un libraio e
un appassionato bibliofilo, giacché la
vendita di libri antichi è una forma
d’arte, in Danimarca.
Ed infatti il mistero della vicenda
ruota attorno ad un libro.
Sì, un libro, il "Vangelo di Simone",
che è una mia creazione e nel quale è
contenuta una testimonianza, la cui rivelazione sarebbe stata scandalosa per
la Chiesa giacché avrebbe potuto minare le fondamenta sulle quali poggia
il cristianesimo. Per il "Vangelo di Simone" mi sono servito delle mie conoscenze personali, dei miei studi e di un
libro autorevole intitolato "Resurrection, Myth or Reality" del reverendo
John Shelby Spong.
Lei è cattolico?
Sono cattolico e conosco bene il Nuovo Testamento, come Cotton Malone,
esperto conoscitore dei Vangeli. Il mio
personaggio ha condotto molti studi
sulla Bibbia e conosce i suoi punti deboli. Ogni Vangelo era un nebuloso
miscuglio di fatti, voci, leggende e miti sottoposti a innumerevoli traduzioni,
edizioni e correzioni. Alla Chiesa
La vita come un paradosso
pagina
17
Trovarobe
autori
stranieri
GIULIO MOZZI
PARLARE AI LIBRI
Ce l’ho fatta, ce l’ho fatta! A due
anni e quattro mesi dal trasloco,
finalmente ho comperate le librerie nuove: quelle da mettere
nel garage (nella casa nuova ho
un garage grandissimo, e non
possiedo automobile: poiché la
mia «sala di lettura» ufficiale,
cioè il luogo dove leggo di più, è
il treno, potrei inventarmi un’alternativa secca: gente, o ci avete
l’automobile, o leggete i libri;
tutt’e due le cose non si può; ma
non so se sarebbe poi vero). Tutta la parete destra (la sinistra è
destinata agli scaffali in metallo,
di seconda mano, per raccogliere il «materiale vario» che in
ogni casa misteriosamente si accumula e si conserva, benché
nessuno sappia cosa farsene) è
oggi ricoperta da una bella libreria in legno: sei colonne, sei scaffali per colonna, novantadue centimetri per scaffale, ossia trentatre metri e dodici centimetri di
scaffali, tranquillamente raddoppiabili in sessantasei metri e ventiquattro centimetri - visto che
la doppia fila, a casa mia, non è
mai stata soluzione estrema, bensì pratica abituale. Bene. Ho scoperto che sessantasei metri non
bastano. Ma questa è un’altra
storia.
La storia di oggi è che mi sono
messo finalmente ad aprire gli
scatoloni (quasi tutti già aperti, a
dire il vero: perché nel corso di
due anni e quattro mesi mi sono
lanciato parecchie volte alla ricerca di libri che mi servivano
assolutamente e che da qualche
parte in qualche scatola dovevano esserci - riuscendo, devo dire,
a trovarli quasi sempre, grazie
all’aver scritto su ogni scatolone
lo scaffale di provenienza nella
vecchia casa). Mi sono messo ad
aprire gli scatoloni, uno per uno,
e a riempire gli scaffali, imbastendo a occhio un ordine che
poi, con un po’ di calma, perfezionerò. Negli scaffali in basso le
opere di consultazione (il mio
prezioso Littré in sette volumi, le
Garzantine d’annata, il Premoli,
il Petit Robert ecc.); in alto destra
i fumetti; al centro i libri genericamente d’arte; la musica di qua;
la poesia di là; il fritto misto un
po’dappertutto; i tascabili da una
parte (sono quelli che, nella doppia fila, vanno davanti); le edizioni rare o pregevoli o antiche
negli scaffali con gli sportelli (un
Della perfetta poesia del Muratori in prima edizione, una Retorica del Gravina in seconda, varie edizioni del Rimario del Ruscelli, giù giù fino ai tranquillissimi Meridiani d’oggi o a qualche edizione non comune degli
ultimi anni, come il Tristano di
Balestrini o Cara di Porta o le
sette diverse versioni Transeuropa, con copertine colorate a
mano, del Jack Frusciante è
uscito dal gruppo di Brizzi); eccetera.
Ecco: nell’arco di due giorni, tutti questi libri che non vedevo da
due anni e quattro mesi sono passati per le mie mani. Tutti hanno
ricevuto un colpo di straccio, tutti sono stati guardati e collocati al
loro posto. Tutti - dico, tutti - li
ho riconosciuti; e li ho cordialmente salutati (loro non mi hanno risposto; ma io lo so, che parlare ai fiori o ai libri non è grave;
è grave quando i fiori e i libri cominciano a risponderti).
Di ciascuno di questi libri, la
maggior parte dei quali sono libri
qualunque, libri che hanno più o
meno tutti (tutti quelli che leggono appassionatamente, almeno),
di ciascuno di questi libri, mi sono reso conto tirandoli fuori dagli scatoloni e spolverandoli e
mettendoli a posto, potrei raccontare la storia. Quando l’ho
comperato, dove, quando l’ho
letto, dove, se l’ho riletto, dove.
Sarà per questo che sono diventato, senza averne peraltro alcuna
intenzione, un cosiddetto scrittore?
18
i chiude con le parole «Che
ne sarà della mia opera dopo di me?» il libro La notte
dei calligrafi di Yasmine
Ghata, e la risposta è nelle
pagine stesse del romanzo, un omaggio della scrittrice alla nonna calligrafa di cui ha visto un esemplare nell’ala Richelieu del Louvre. È Rikkat
Kunt stessa a raccontare la storia della sua vita, «Mi sono spenta il 26 aprile 1986»: anche questa una voce che
viene dall’aldilà, come quelle che interferiscono a tratti nella narrazione, di
altri famosi calligrafi del passato, e come ben si addice ad una forma d’arte
per cui una lunga notte è iniziata nel
1926, quando Atatürk mette al bando
l’alfabeto arabo e, con esso, la calligrafia e i calligrafi. Quando Rikkat
aveva iniziato gli esercizi di calligrafia, era stata come una ribellione silenziosa della sua mano all’essere stata
offerta in matrimonio ad un dentista,
quasi un’affermazione di libertà dai
lacci della tradizione, in quanto i calligrafi erano usualmente uomini. Leggiamo le tappe della vita di Rikkat, il
concorso per insegnanti da lei vinto
nel ’36, la nascita del figlio, la partenza da Istanbul a seguito del marito e
poi il ritorno, la separazione, il secondo matrimonio e un altro figlio (Nour,
che diventerà il padre di Yasmine
Ghata), la tragedia familiare che verrà
svelata solo alla fine e che causa lo
strappo più doloroso della vita di
Rikkat, l’allontanamento dal figlio di
soli sei anni. Ha sempre un tono pacato la voce di Rikkat, di chi ha superato ogni passione. Le sofferenze del
passato trapelano nel movimento delle sue mani sulla carta, nella forza del
tratto del calamo, nel tremito delle dita che, per tradizione, anticipa al calligrafo la morte di una persona cara.
Quella del padre, della madre, del figlio Nour - adorato, perduto, ritrovato,
anche se lontano, in Francia. E allora
la mente di Rikkat cede, la sua mano
altera i tratti, infrange le regole, i segni
si fanno vigorosi e spezzati invece
che sottili e raffinati: non teme più né
Dio né la morte, si è interrotto il dialogo privilegiato con Dio che solo i calligrafi possono intrattenere.
Possiamo leggere più cose in La notte dei calligrafi: la storia di una donna
singolare e quella di un’arte che non
ha altro fine che esaltare la divinità, la
storia di un paese tra Oriente e Occidente (e la casa di Rikkat sul Bosforo
acquista quasi un valore di metafora)
forzato in una laicità non sentita da
tutti, la nostalgia per un mondo di bellezza scomparso, e infine possiamo
scorgervi un Islam mistico e non violento, svanito pure questo insieme agli
arabeschi tracciati con polvere d’oro
diluita nel miele. Stilos ha intervistato
Yasmine Ghata, che è nata a Parigi nel
1975, ha studiato Storia dell’arte alla
Sorbona e all’École du Louvre e si è
specializzata in arte islamica.
Nell’epilogo del romanzo lei racconta di quando ha visto una delle opere di sua nonna al Louvre: che cosa
sapeva di Rikkat prima di allora?
Prima di vedere l’opera di mia nonna
al Louvre, di lei sapevo solo due cose:
molto vagamente, che era un’artista, e
che era morta. Ho iniziato allora una
ricerca biografica e artistica su di lei e
mi sono resa conto che nel suo paese
era celebre: ho incontrato a diverse riprese persone dell’ambiente universitario che mi hanno detto che, insieme
con Muhsin Demironat, è stata l’ultima calligrafa. Mia nonna ha insegnato all’università, negli anni ’70 ha ri-
S
ALFIO SIRACUSANO
YASMINE GHATA . Da una esperienza vera alla creazione di una storia
immaginaria, che getta luce su un mondo regolato dall’ineffabile.
«Mentre scrivevo il libro avevo l’impressione che mia nonna fosse viva ed
è questo che mi ha dato la convinzione che i calligrafi non muoiono mai»
Il potere del calligrafo
è essere la mano di Dio
LIGURE, VIVE A MILANO, DOVE OPERA COME TRADUTTRICE. PER ANNI HA INSEGNATO
INGLESE NEI LICEI
MARILIA PICCONE
creato una cattedra per l’insegnamento della calligrafia. La sua intenzione
era dare alle generazioni future una
chiave per capire l’eredità dell’arte
calligrafa e nello stesso tempo per essere in grado di conservarla con operazioni di restauro. Trovo molto interessante che questa nuova generazione di calligrafi non parli arabo. Solo di
recente un piccolo gruppo ha deciso di
imparare l’arabo, soprattutto per riuscire a tradurre i vecchi documenti.
Per me questa indagine alla scoperta di
mia nonna è stata una maniera per
vincere la morte: quando è mancato
mio padre non abbiamo più avuto contatti con la famiglia in Turchia, lui era
quello che manteneva vivi i rapporti. È
per questo che nel libro ho impiegato
la prima persona narrante, per vincere
questo vuoto. Ho scritto il libro per
crearmi un’eredità, perché mia nonna
non aveva potuto trasmettermela.
Nel libro viene spiegato come il calligrafo sia considerato la mano di
Dio, e infatti si dice anche che i calligrafi non hanno un cuore per l’amore: è una sorta di sacerdozio, il
N
IL LIBRO
YASMINE GHATA
"La notte dei calligrafi"
Trad. Yasmina
Melaouah
pp. 124, euro 11
Feltrinelli, 2006
Ritrovare la nonna
al museo del Louvre
Marzo 2000, in una visita al
Museo del Louvre lo sguardo
di Yasmine Ghata si posa sul
nome del calligrafo che appare
nel cartiglio esplicativo di un
poema ottomano: è quello di
sua nonna, Rikkat Kunt.
dedicarsi alla calligrafia?
Sì, anche se questa è una finzione letteraria che si è sostituita alla realtà. Il
calligrafo non può essere considerato
come una persona ordinaria. Per me
essere un calligrafo significa esercitare un’arte che serve da tramite tra
l’uomo e Dio. Mentre scrivevo il libro
avevo l’impressione che mia nonna
fosse viva ed è questo che mi ha dato
la convinzione che i calligrafi non
muoiono mai. In un certo senso era
stato come se Rikkat avesse due vite,
come calligrafa e come donna: nella
vita di donna lei era spettatrice, mentre era attrice in quella di calligrafa. È
per questo che nel libro dico che i calligrafi non hanno un cuore per l’amore, perché la loro vera vita è quella artistica.
Nel libro affiorano due diverse concezioni della calligrafia: il preside
della facoltà in cui insegnava sua
nonna pensava alla calligrafia come a un’arte statica e, come tale, ormai finita. Sua nonna, invece, sosteneva che la calligrafia può esprimere la sensibilità di un’epoca nuova:
come? Ci sono degli esempi di questa possibilità di adattare la calligrafia ai tempi moderni?
La nonna era molto accademica e non
ha fatto trasgressioni nell’arte calligrafica, ma molti calligrafi contemporanei hanno cercato di modernizzare e
attualizzare questo patrimonio e io mi
sono ispirata a questi artisti per spiegare le trasgressioni della nonna- il tunisino Mehdi Qotbi, ad esempio, è uno
di questi calligrafi moderni. La calligrafia ottomana ha delle regole fisse,
con proporzioni stabilite, con dei margini precisi, è come se ci fossero delle regole matematiche. I calligrafi moderni hanno deciso di spazzare via
tutte queste regole, viene in mente l’analogia con certi movimenti innovativi nella pittura, il cubismo ad esempio.
Soprattutto, i calligrafi moderni hanno
svuotato la calligrafia del contenuto
BEN MARCUS. Un romanzo che premia il nonsense
ell’uomo in fil di ferro
Oceano o Fiume, i Gary e i
Lewis vengono racchiusi in
una bolla in due camere separate collegate da una cellula porosa, attraverso cui il fil di ferro si può muovere li- le dentro un universo di parole che si
beramente... Quando Gary e Lewis combinano per non dire fingendo di
sono collegati dal fil di ferro, la com- dire, perché «le regole del progetto di
binazione di flap, filo e nome forma Vita così come lo intende Marcus una famiglia completa, e nella cellula usiamo parole di Luca Ragagnin - parha luogo un’emozione: gli uomini tecipano simultaneamente degli opinerti vengono ricoperti dal flap per posti», e mentre raccontano, nell’ordiformare una casa circondata dall’ac- ne: il sonno, Dio, gli alimenti, la casa,
qua; in questo progli animali, il temcesso vengono lipo atmosferico, le
R
e
c
e
n
s
i
o
n
i
berati i parenti che
persone e la società
scorrono attraver(ciascuno accomBEN MARCUS
so il fil di ferro nelpagnato da non
"L’età del fil di ferro
le altre stanze; e i
meno spiazzanti
e dello spago"
padri stessi salpaTrad. Rossella Bernascone Glossari), in realtà
no sul dorso del fil
pp. 150, euro 12, Alet, 2006 frantumano i temi
di ferro». Questo a
dentro articolati
pagina 111 di L’età del fil di ferro e che quasi sempre ne divergono, come
dello spago di Ben Marcus: cosa vuol periodi e parole degli articolati diverdire non si capisce, come non si capi- gono al loro interno in un’incredibile
sce perché questo di Marcus viene girandola di invenzioni che a prima vichiamato romanzo quando invece ha sta parrebbero metaforiche ma quasi
tutta l’aria di essere un percorso di mai hanno l’aria di essere metafore.
guerra tra l’ironico e il finto demenzia- Anche se vi si respira un senso vago di
«
S t los
Quando l’inglese era gergo
descrizione-decrittazione di un mondo
sconosciuto perché arcaico e misterioso che trae il nome dall’età del fil di
ferro e dello spago: che è poi il «periodo in cui la scienza inglese ideò un sistema gergale astratto basato sul modello fibrillante delle strutture di spago e fil di ferro installate sulla bocca
durante il discorso». Aggiungendoci:
«Anche i sistemi e le figure patriarcali, compresi i Michael Marcus (padre
di Ben), vennero costruiti in questo
periodo: sono gli unici padri a essere
sopravvissuti alla loro era».
Uscito in America nel 1995 e solo ora
tradotto in Italia, è questo il primo libro di Ben Marcus, nato a Chicago nel
1967 e oggi docente di scrittura creativa alla Columbia University. Ed è libro tra i più originali e ardui, se all’arditezza di chi lo ha scritto dovesse
sommarsi l’arditezza della sua decrittazione. Che lo stesso autore scoraggia
in più di un luogo, lasciando intatto il
miracolo dell’invenzione creativa, e in
definitiva della sua sintassi: logica e
inevitabilmente surreale. Tutto porta
dunque alla sintassi, al linguaggio.
Leggi e non capisci. Anzi: «capisci»,
ma non capisci cos’hai capito, in
Nella foto superiore Yasmine Ghata, autrice per Feltrinelli di La notte dei calligrafi. In basso Ben Marcus, che
da Alet ha pubblicato L’età del fil di ferro e dello spago
religioso per fare qualcosa di unicamente estetico.
Sono frequentate attualmente le
scuole per calligrafi? Ne esistono di
due tipi diversi, presso le madrase,
e quindi a fine religioso, e presso le
università?
In Turchia non ci sono più le madrase,
in Iraq ci sono delle scuole coraniche
che insegnano la calligrafia. Nelle mie
ricerche mi sono occupata solo dell’ambito universitario e quindi delle
scuole laiche. C’è un piccolo gruppo
di studenti interessati ad imparare l’arte calligrafica, e poi pochissimi parlano l’arabo.
Forse la domanda sarebbe se è possibile che esista la calligrafia tradizionale in un mondo laico… Quello
che è certo è che non può essere
messa in competizione e in opposizione alla stampa, in quanto il fine è
del tutto diverso.
La calligrafia è un atto di fede, Atatürk
l’ha rimossa perché voleva dare una
svolta all’intero paese, voleva che la
Turchia diventasse un paese moderno.
Se si voleva mantenere in vita la calligrafia, si doveva evitare l’obbedienza
religiosa. Solo separando la calligrafia
dalla fede religiosa era possibile farla
evolvere negli anni. La stampa ha solo accelerato il processo di sparizione
della calligrafia, già iniziato prima ancora di Atatürk, e certamente la calligrafia non è in opposizione alla stampa, perché la calligrafia è arte.
È riconoscibile lo stile dei calligrafi?
Sono firmate le loro opere?
Le loro firme sono indicate nel colophon del Corano che riporta la data
e la firma dei calligrafi che molto
spesso non sono gli stessi che eseguono le illuminazioni. Non è possibile riconoscere lo stile individuale dei
calligrafi, si può riconoscere il secolo
in cui hanno operato, il luogo in cui vivevano- ad esempio le calligrafie degli stati settentrionali dell’Africa sono
molto meno raffinate di quelle della
Turchia- e le varie scuole da loro seguite.
Quando il vecchio calligrafo Selim
viene trovato impiccato, si sottolinea che aveva il turbante arrotolato sopra il fez, il che indica il rifiuto
della nuova direzione che Atatürk
aveva dato alla Turchia: si uccide
perché gli è impossibile vivere così?
Sì, questa è la mia visione di Selim, in
armonia con l’impero ottomano e in
disarmonia con il mondo laico che ha
soppresso la religione: Selim è uno dei
personaggi chiave del libro, appartiene a quel genere di persone che aiutano a comprendere il senso della vita,
che hanno un ruolo di accompagnatori in un viaggio iniziatico, come il personaggio del libro Ibrahim e i fiori del
Corano di Eric-Emmanuel Schmitt - e
del film tratto dal libro. Selim regala a
Rikkat gli strumenti della sua arte e dà
così inizio alla sua vita di calligrafa. A
me è mancata molto, nell’infanzia,
una figura del genere: la vita si apprende meglio da qualcuno, per un
giovane è duro vivere se manca una di
queste figure mitiche che ti insegnano
a vivere.
Ed è per lo stesso motivo che si lascia morire sua nonna?
I calligrafi sono disincarnati, per loro
la morte è solo un atto di passaggio.
Quando pensavo alla morte di mia
nonna, immaginavo una morte serena:
non so nulla in realtà della sua morte,
sono solo stata sulla sua tomba, dove,
secondo l’uso turco, c’è un grande roseto, come su tutte le tombe delle
donne.
quanto ciò che hai capito hai capito
che non ha senso, nel senso che è
scritto in una lingua che rispetta le
strutture logiche, e quindi dice cose,
ma dice cose che contraddicono le logiche delle strutture esistenti, viventi,
pensanti e operanti nel campo logico
dell’esperienza di ciascuno di noi. E
quindi l’apparente reale di pensieri
surreali, o di storie surreali (come nell’altro libro, Il costume di mio padre),
sconfina oltre se stesso, si fa metafora
assurda di se stesso, disegna il mondo
com’è (incomprensibile, inaccettabile) attraverso la rappresentazione del
suo non essere accettabile perché non
comprensibile. La stessa ironia, che
pure si autoalimenta di una miriade di
invenzioni al limite dello stupefacente, rischia di negare se stessa in quanto ironia, divertissement puro e finisce
col diventare umorismo tetro. Come
appare dalla comparsa ricorrente della categoria del saprofago (che si nutre di cadaveri e per di più, apprendiamo a pagina 46, «non può acquisire il
titolo di proprietà di un pollo che abbia
testé scoperto») o, per fare solo un altro esempio, di quella della «monica»:
che è l’atto dell’autoestinzione (suicidio) perpetrato come spettacolo.
Altro
pagina
autori
stranieri
WALTER PEDULLÀ
QUESTIONE DI MARCHIO
È legge di mercato che nessuno
mette più in discussione: un’industria che si sia conquistato un
grande successo nazionale e internazionale utilizza il marchio
trionfatore per vendere non solo
la merce per la quale è diventata
celebre ma anche tutto quello
che di affine o analogo produce.
Per esempio, Versace, che ha cominciato con gli abiti, ora invade
il mercato con scarpe, portafogli
e profumi, che esibendo il marchio della casa madre, costringono i produttori di queste merci
minori a cedere grosse fette di
mercato, pur offrendo prodotti
che forse sono migliori.
Non saprei dire se la merce dell’industria che ha imposto il proprio marchio oltre il proprio territorio «naturale» sia peggiore.
Vince chi conquista il grande
pubblico: proprio come in democrazia. Dove i grandi partiti
hanno la meglio sui piccoli, senza che si possa sostenere che i
primi abbiano ragione. Insomma a saper vendere la propria
merce capita anche che i più si
convincano che è migliore. Valgono i rapporti di forza che uno
si guadagna per virtù individuale o per iniziativa della storia e
della sua serva-padrona, la tecnica. È la legge del più forte,
non escluso chi è forte pure senza virtù individuale. Se il marchio ha vinto - per esempio nella Tv - il prodotto si impone e
forse oscura quello che magari
vale di più. Inutile ironizzare sul
successo dei libri di Vespa: il
marchio funziona anche fuori
dalla Tv, ad esempio in libreria,
dove emargina saggistica politica che meriterebbe più lettori.
Dalla Tv arriva anche il marchio di un altro buon conduttore
di programmi Tv, i cui romanzi
tra l’invidia dei colleghi vanno a
ruba, accontentandosi di essere
avvincenti nella trama e attuali
nel tema. Registriamo il fenomeno.
Il marchio impone la sua legge
anche nell’arte, nel giornalismo,
nella politica, nello sport. Le memorie di Materassi in questo momento avrebbero più lettori di
quelle di Prodi. Il sindaco di una
grande città, Milano, Napoli,
Roma, pubblicando un volume
di racconti, potrebbe vendere più
copie di tanti noti narratori: le
quali sono direttamente proporzionali all’interesse che i lettori
mostrano verso una qualsiasi attività del loro primo cittadino.
Non c’è nulla di cui menare
scandalo. La legge è quella,
comprese le eccezioni. Al Premio Strega è successo che un
romanziere di professione ha
vinto su un personaggio politico
che aveva più carisma: un più
suggestivo marchio. E così, senza rischiare di perdere sempre,
possiamo tifare per l’eccezione
alla regola, per l’artigianato e
per il prototipo, in una parola
per ciò che è peculiare dell’arte e
della letteratura.
Conta molto il marchio del grande giornalista sulla letteratura.
Un suo libro di viaggi, un volume di interviste e di articoli, un
suo romanzo storico o d’attualità
fa sentire il rapporto di forza nel
giornale proprio e del collega.
Lo si recensisce di più e meglio
che non l’opera di uno scrittore
che si sfianca su ogni parola e
pensiero alla ricerca di qualcosa
di non detto. Qualcuno protesta,
ma è questa la legge vigente nel
mercato unico dove una scarpa è
merce quanto un bel racconto.
Carlo Emilio Gadda lo capì subito, nel 1924, che ha più successo
del romanzo di un agguerrito
narratore «l’autobiografia di uno
stupratore, di un mozzo di bastimento, di un’imperatrice, di una
donna scandalosa, di un anarchico condannato alla Siberia»,
o il libro di «un giornalista di grido e del padrone di un giornale».
Questa è la legge.
GIANNI BONINA
a dove Dan Brown poteva mai cominciare il suo
viaggio di scoperta del
mondo (che lo ha portato a due romanzi scientifici, Crypto e La verità del ghiaccio, e
a due umanistico-esoterici, Angeli e
demoni e Il codice da Vinci) se non
dall’elemento base, cioè l’anello, che
ha ispirato la cultura norrena come
quella mediterranea, facendo incrociare il mito classico con la materia
bretone? L’anello di cui si impossessa
Sigfrido nel Cantare dei Nibelunghi
per accrescere le proprie forze è lo
stesso che, per rendersi invisibile, Bradamante strappa al saraceno Brunello
nell’Orlando Furioso; e sempre un
anello, che dà insieme poteri e invisibilità, è il motivo che muove le fantastiche avventure tolkiniane di Frodo.
Cosa fa Brown? Recupera questo oggetto e ne fa il must di quello che è il
suo romanzo d’esordio, seppure arrivato per ultimo in Italia. Anche in
Crypto infatti la caccia all’anello sottende la conquista di un potere che di
magico, rispetto alla concezione eddica e rinascimentale, ha oggi conservato il significato di dominio, mentre la
forza non si esercita più con l’imposizione o l’ostentazione ma si esperisce
con l’applicazione che dell’anello si
faccia in un sistema informatico.
Ora dunque sappiamo che sin dai primi passi Brown ha chiaro il modello
narrativo: è quello che gli deriva dalla
tradizione epica, dai cicli della quête e
del mistero di tipo arturiano e celtico,
il pabulum dove sono nati il graal,
Excalibur, la chanson de geste e prima
ancora gli argonauti e i poemi omerici. Rifacendosi alla più duratura e consolidata mitografia, aggiornandola con
qualche spunto moderno, Brown entifica un gusto che si precisa oggi nel
«romanzo di variazione», il cui wit è di
combinare invenzione e documentazione, storia e leggenda, credenza e
finzione in un disposto che porta a
stadi avanzati il processo di sviluppo
del romanzo come genere capace di
accogliere ogni trattamento e digressione. Se il successo letterario è arriso
a Brown solo con l’ultimo di una serie
ripetuta di tentativi della stessa portata, appena corretti, è perché Il codice
da Vinci, rispetto ai primi tre, è il romanzo che meglio e più a fondo mutua la materia epica protendendosi fino a raggiungere il cuore della matrice esoterica. Ma i precedenti titoli più
che dei conati sperimentali vanno visti
alla stregua di stazioni di avvicinamento e di guadagno, poste di verifica
e collaudo di un prototipo in fase di rodaggio e definizione.
Non è infatti un mero esercizio di rifacimento l’esito che ognuno dei tre romanzi successivi a Crypto sortisce nel
ripetere una sempre identica fabula,
D
IL LIBRO
DAN BROWN
"Crypto"
Trad. Paola Frezza
Pavese
pp. 427, euro 18,60
Mondadori, 2006
Hacker in azione
e mondo a rischio
In azione hacker della prima
generazione (tali dal momento
che il libro è uscito negli Usa
nel 1998, il primo che lo scrittore americano ha scritto): vogliono sabotare il sistema
informatico della Nsa, il sancta
sanctorum degli Usa. Per la
verità l’hacker è uno soltanto e
per giunta insospettabile, giacché si tratta di una testa d’uovo della stessa Nsa. Ma ha delle riserve innate contro gli Usa
e medita una vendetta che lasci il segno. Ma non ne vedrà
l’esito perché muore.
DAN BROWN . Il primo romanzo dell’autore americano è di argomento
scientifico, come "La verità del ghiaccio". Affronta un tema divenuto
attualissimo, quello delle intercettazioni. E recupera un elemento che
rimanda alla narrativa epica norrena e rinascimentale: l’anello che dà potere
Tra privacy e security
Crypto sceglie gli Usa
servendosi di figure che diventano
maschere per la loro immutabilità e
reiterando logiche, giri narrativi, scene e svolgimenti che ubbidiscono a
uno scioglimento invariato. Più che
come rifacimento ogni romanzo si è
piuttosto andato costituendo come
versione migliorata dello stesso modello fino al raggiungimento del massimo risultato. Sicché in Crypto si
possono individuare temi e motivi che
ritroviamo nel Codice da Vinci con la
facilità con cui è possibile rintracciare nell’aspetto di una persona adulta i
segni della sua fanciullezza.
A metà degli anni Novanta, quando il
computer si erge a grande seduttore
dell’umanità nelle vesti di novello
Merlino, il trentenne Brown crede che
sia il groviglio dei suoi chip a rappre-
tephenie Meyer, classe 1970, è STEPHENIE MEYER.
una giovane americana che ha
battuto il record di vendite con il
suo primo romanzo, Twilight. Il libro
racconta la storia di Isabella Swann,
una bella adolescente appena arrivata
nella città di Forks dove vive suo padre. L’accoglienza che le riservano i
VIVE A BOLOGNA. DOTTORE
compagni di scuola è piacevole, ma
DI RICERCA IN ITALIANISTICA.
c’è un ragazzo, Edward Cullen, che
"GLI INSETTI SONO AL DI LÀ
invece le riserva uno strano trattamenDELLA MIA COMPASSIONE"
to. Il giovane è introverso e solitario,
(PENDRAGON, 2001)
di una bellezza evidente ma carica di
un’aura misteriosa da cui Isabella si
CHIARA CRETELLA
sente subito attratta. L’amicizia-relazione tra i due arriva ad una svolta di informazioni. La regola generale è
quando il giovane dichiara a Isabella che i lettori finora non hanno scoperdi essere un vampiro. Il romanzo vira to il mio romanzo navigando su internel gotico, inscenando una storia gio- net. In ogni caso la rete permette però
vanile visionaria, capace di affrontare di instaurare uno splendido rapporto
le turbe dell’adolescenza. Stilos ne ha tra me e i miei fan e questo non sarebbe mai potuto avvenire con il vecchio
parlato con l’autrice.
Il tuo testo è sbarcato in Italia da sistema delle lettere. Mi sento continuamente collepoco ed ha già
alle aspettavenduto molto.
I n t e r v i s t e gata
tive ed alle reazioNon solo, nel gini di chi mi legge,
ro di pochissimo
STEPHENIE MEYER
a quello che speè nato un blog in
"Twilight"
rano di scoprire in
cui i giovani parTrad. Luca Fusari
futuro. Attraverso
lano del romanpp. 412, euro 16,50
siti quali Il Lessizo e si confrontaFazi Lain, 2006
co di Twilight
no commentando il testo. Questa simultaneità è (www. twilightlexicon.com) sono ad
davvero frutto dell’era globale, ma esempio in grado di coordinare gli inquanto conta la dimensione pubbli- contri con i miei fan più ardenti, di daco/privata di queste community nel re informazioni in più (retroscena, stosuccesso e nella diffusione di un te- rie correlate…). Mi diverte tantissimo
sto? Che tipo di nuovo rapporto lo la possibilità di avere risposte in temscrittore riesce ad instaurare col suo pi così rapidi e di chattare on line con
chi mi legge. Mi sono addirittura fatpubblico?
Non sono convinta che internet e i ta alcuni buoni amici in questa manieblog abbiano influenzato le vendite ra.
del libro. Mi sembra che la maggior Nel tuo testo è inserita anche una
parte delle persone che partecipano colonna sonora del romanzo. È una
ai blog su Twilight abbiano prima sco- pratica che anche in Italia è stata
perto il libro a poi siano andate sulla molto usata. Ma forse dirotta il testo
rete per saperne di più. Alcuni fan verso una montatura scenica, direi
americani hanno creato siti ricchissimi filmica. Molti dei prodotti importa-
S
S t los
sentare il fatto nuovo capace di destare non solo interesse ma anche e soprattutto meraviglia, quella stessa meraviglia che per secoli ha fatto, e continua a fare, la fortuna della narrativa
d’avventura ed epico-allegorica. E
pensa che il gusto del pubblico vada
soddisfatto spicciolando in un technothriller il vecchio cantare popolare.
Crypto nasce dunque da questo cozzo
di intenzioni che però deflagra in un
golem narrativo nel quale la presenza
dell’apparato tecnico, non avendo la
stessa forza di quello spiritualistico,
lascia da solo il thriller a profondere
suspence, non facendo alla fine che riprodurre tirate già viste proprio e soprattutto in America, oggi soprattutto
con Deaver e Grisham.
In Crypto lo spettro orwelliano del
Grande Fratello non integra tanto un
mistero quanto un ancipite incubo
moderno: da un lato il timore di svuotare di senso il credo della privacy e da
un altro l’incognita che la perdita di
banche dati comporterebbe circa la
sicurezza nazionale. Un hacker intende violare il sistema informatico superprotetto della Nsa (l’agenzia di
spionaggio di cui poco e niente ancora oggi si sa) in nome di una libertà individuale che negli States è tanto sacra
quanto lo è, dopo soprattutto l’11 Settembre, il bisogno di uno scudo antiterroristico. Brown ci racconta questo
conflitto (che nel ’98 non è ancora
compreso nel significato attuale di alternativa drammatica tra licenza e divieto di intercettare telefonate, Sms ed
email) e non può non rifarsi a quello
Boom di un romanzo gotico
L’amore piace vampiresco
ti dall’America hanno questa caratteristica, che ha invaso anche il mercato italiano. Ossia, tanti autori scrivono pensando alla sceneggiatura
da trarre dal testo. Bisognerebbe
probabilmente parlare della differenza tra letteratura e fiction? Questa antitesi è sentita nel mercato
americano o vi è strettamente collegata? Il tuo romanzo ad esempio è
stato subito opzionato per una versione cinematografica da Madonna, Mtv e Paramaount.
Non pensavo a una versione cinematografica di Twilight quando ho scelto
la colonna sonora. In realtà, in quel
momento, non pensavo neanche che
Twilight sarebbe diventato un romanzo. Stavo scrivendo una storia per passare il tempo e non avevo nessuna intenzione di farla leggere ad altri. Men-
tre scrivevo vedevo però le scene che
stavo costruendo tanto chiaramente
che sembravano immagini tratte da
un film. Ascoltavo musica alla radio e
certe canzoni mi ricordavano episodi
del romanzo e spesso mi è capitato di
pensare «se questo fosse un film questa sarebbe la canzone adatta per questa scena». Ho stilato la lista di brani
musicali come un mio gioco personale, mettendo le canzoni in ordine cronologico, riascoltandole mentre portavo avanti la stesura di Twilight. Più
tardi, mentre lavoravo con il mio editore, ho menzionato tra tante cose anche la presenza di questo elenco, e la
cosa ha suscitato interesse. La casa
editrice ha pensato che i lettori si sarebbero divertiti a scoprire quale musica ascoltavo mentre scrivevo e così
mi hanno chiesto il permesso di segnalare le canzoni sul loro sito. Ho poi
fatto lo stesso anche sul mio sito personale. E la casa editrice aveva ragione: continuo a ricevere nuovi suggerimenti musicali ogni giorno dai miei
fan. Continuo a vedere una differenza
tra la letteratura pura e quella di consumo, anche se non so se tutti sarebbero d’accordo nella mia maniera di distinguerle. Ci sono libri che ho letto in
cui l’autore sembra non essersi preoccupato neanche per un momento di un
eventuale pubblico di lettori, ed il libro
riporta solo quello che lo scrittore si
voleva raccontare. Libri che nascono
dal desiderio di dare piacere all’autore prima di tutto. Questi sono i romanzi che per me fanno parte della
letteratura pura. Quando prendo in
mano altri testi, capisco invece che lo
pagina
Nella foto superiore Dan Brown, autore per Mondadori di
Crypto. In basso Stephenie Meyer, che da Fazi Lain ha
pubblicato Twilight
che allora è visto come un mistero
impenetrabile: l’esistenza di «Echelon», il più grande sistema clandestino
di intercettazioni messo in essere da
Washington a livello mondiale e controllato dall’ancora più clandestina
National Security Agency, proprio
della quale Brown ci svela logiche e
programmi.
Oggi sappiamo, grazie al recentissimo
Intercettare il mondo (Einaudi) di Patrick Radden Keefe, che Brown vide
benissimo quanto fosse insaziabile la
voracità della Nsa di conoscere tutto
di tutti e quanto questa aspirazione
fosse ritenuta importante ai fini della
sicurezza nazionale. In dieci anni, con
il miglioramento e la diffusione dei
mezzi tecnologici, il contrasto tra le
due opposte dottrine, privacy e security, si è esasperato sicché Crypto
giunge nel momento in cui il dibattito,
anche in Italia, è diventato vivissimo.
Il romanzo sembra dare ragione al
primato della sicurezza se alla fine il
sistema informatico si salva e i dati segreti non finiscono nel web, ma
Brown non nasconde simpatie per le
ragioni opposte: e forse perché la sua
posizione più sincera è a metà delle
due teorie non riesce a distinguere con
precisione il bene e il male, per cui una
crittologa come Susan Fletcher, che
non meno del fidanzato David Becker
(copia, anzi modello del futuro Robert
Langdon, dove Susan anticipa sia
Sophie Neveu che Vittoria Vetra) sembra una convinta sostenitrice della
causa della privacy, si ritrova a promuovere accanitamente le ragioni della difesa militare insieme con tutto lo
staff della Nsa, mentre solo, a reiterare fino al sacrificio della vita la nobile istanza del rispetto della personalità
individuale, viene lasciato un immigrato giapponese reso deforme dagli
effetti di Hiroshima, animato da propositi vendicativi contro il progresso
della scienza e dunque posto sotto una
luce negativa. E, per soprammercato,
ad aspirare al possesso dell’anello che
custodisce il potere difeso dalla Nsa
senza scrupoli e con molta spregiudicatezza è un «cattivo» che non è americano ma anch’egli giapponese. Un
trattamento, quello di Brown, come si
vede molto americano. Come di tipo
americano è il plot: ancora una volta
improbabile e agito sull’escalation
dei colpi di scena: un’escalation troppo vertiginosa e forsennata. I colpi di
scena producono un bell’effetto quando non sono frutto del caso: ma se troviamo che David Becker, messo alla
caccia del fantomatico anello (nella
Siviglia che Brown conosce bene perché ci ha studiato da giovane storia
dell’arte), incontra la ragazza punk
che cerca disperatamente nei bagni
dell’aeroporto, per giunta sbagliando
perché finisce guarda caso in quelli
femminili, allora il romanzo non è più
un thriller ma una commedia.
scrittore si sta rivolgendo a un pubblico specifico e che ha cercato i giusti
agganci per vendere proprio presso
quel certo tipo di pubblico. E non trovo che questi libri siano una lettura entusiasmante, anche se ci sono alcune
belle eccezioni.
In Italia da qualche anno assistiamo ad un revival ed ad un interesse
per il gotico. Altre declinazioni fantastiche, fantasy, horror, psichedelico-visionarie, sono poco praticate
dalla nostra letteratura, mentre in
America sembrano essere parte
fondante di una consolidata tradizione.
È buffo che il mio primo romanzo sia
stato catalogato come facente parte
del genere gotico; non sono un’amante dell’horror, piuttosto preferisco il
fantasy. In America l’horror è effettivamente un genere molto popolare,
anche se personalmente non capisco
perché piaccia tanto. Sono troppo paurosa per divertirmi con storie che ispirano terrore, e la lettura di Stephen
King mi procura tremendi incubi. Probabilmente la maggioranza dei miei
connazionali si diverte ad essere terrorizzata molto più di me. Forse ho
un’immaginazione troppo vivida per i
libri horror.
Twilight ha spopolato in una fetta di
lettori molto giovani, per la loro
identificazione nei personaggi, per
la semplicità della prosa, ma anche
per il tema dell’amore dannato. Il
romanticismo nero pare agire pure
nell’epoca delle chat-line.
Non credo sarò mai in grado di eliminare il romanticismo dai miei libri,
non importa quale sia il loro tema, né
mi interessa il trend letterario del momento. Per me l’aspetto amoroso rappresenta la parte migliore di una storia. È il momento del divertimento.
Una storia senza amore mi sembra
molto poco interessante.
19
Occidente
autori
stranieri
VANNI RONSISVALLE
CORPI
2006. Come difendersi dalla volgarità dell’estate, dei corpi e della tv? Fuggendo nell’altro emisfero supponibilmente piovoso e
sanamente malinconico; oppure
acquistando piccoli libri. Di narrativa, naturalmente. Diffidate, se
letterati, dall’apparente cortocircuito con le case editrici che offrono alla vostra attenzione professionale volumetti leggeri; meglio cercarseli in libreria, riempire una di quelle borse da supermercato con cui i grandi bookstore sdrammatizzano il rapporto
con i clienti lettori. I piccoli libri
di narrativa, i romanzi brevi o i
racconti lunghi si leggono speditamente, li infilate nella tasca della sahariana se siete gente da safari, nella sacca da trekking se siete gente così o nel piccolo bagaglio che vi accompagna quando
siete ospiti beneducati in barca
di amici. Però scegliete con cautela. Potreste scivolare in perversi malintesi. Non tutti i piccoli
romanzi sono Il vecchio ed il mare di Hemingway o Doppio sogno di Schnitzel o appartengono
al catalogo Sellerio. Come la
massaia che fa le valigie in previsione di eventi duri quale una vacanza al mare e si munisce di antidoti contro i morsi dei caimani o
la febbre gialla, fate attenzione a
ciò che comprate per una fuga
nella buona lettura.
In quella mia borsa sono finiti
due libretti, due invitantissimi libretti. Uno è così sottile che ti
obblighi a centellinarne le pagine
come quei rosolii che le nonne offrivano in bicchierini non più
grandi di un ditale. Si chiama
Scritto sul corpo, l’autore è Alan
Bennet, lo pubblica Adelphi.
L’altro, L’animale morente, è appena più spesso, ugualmente di
un eminente scrittore, Philip
Roth, Einaudi, ma è un brutto libretto. In comune queste succinte opere letterarie hanno il soggetto. Il corpo: cosa vi è di più abusato in letteratura del corpo? il
corpo è statisticamente in testa
in quanto anche strumento privilegiato per esprimere sia se stessi sia la spiritualità. Cosa sono,
tanto per citare, Il paradiso perduto di Milton, La via del tabacco di Ersckine Caldwell, se non
celebrazioni del corpo? Sia in
quel testo di ispirazione biblica
sia in una vicenda connessa alla
grande depressione americana
del ’29. Il corpo raccontato da
Roth (quello di un vecchio erotomane dalla diffusa virilità che si
concentra in fine su una sola donna) è la sublimazione di colossali ovvietà, il Dado Liebigh dei
luoghi comuni: ci vuole molta
abilità per ridursi a sembrare uno
scrittore qualunque. E che si inventa Roth per concludere il suo
romanzino? Citare se stesso: come in Pastorale americana affida
al cancro l’epilogo; una grandscene finale che vorrebbe essere
raccapricciante ma è mestamente
ridicola: il satiro canuto che si
eccita palpando i noduli delle metastasi in quel seno che lo aveva
fatto delirare. Semplice, grandiosa e tragica è invece l’auscultazione ansiosa del proprio corpo,
repulsivo e mal cresciuto, da parte di Alan Bennet per dare un
senso alla scoperta della sua
omosessualità. Un ripiegamento
per via di un confronto sotto la
doccia con il bassoventre di un
compagno di college. Basta poco.
Per chi non ama leggere suggerisco per farsi un’idea del trionfo
del corpo di riflettere sull’emozione complessa (Robbe Grillet
non avrebbe dubbi a definirla
erotica) del colpo di testa di Zidane nello sterno di un altro eroe dei
nostri tempi. E su ciò che il corpo
produce - secrezioni, sudorazioni,
eccetera - se si vuole anch’esse
materia di grande letteratura.
Pensate allo sputo di Totti assorbito dalla platea calciofila della tv
del mondo. Corpi.
S t los
autori
stranieri
pagina
20
Nella foto Elsa Osorio, autrice per Guanda di Lezione di tango
ELSA OSORIO . La vita di un paese colta in
S C A F F A L E
un’epoca cruciale e l’identità sociale distrutta
da governi e dittature: sullo sfondo di un
ritmo che scandisce l’esistenza collettiva
L’Argentina
ha il passo
del tango
U
EMILIA PAGLIANO
n libro da leggere sedendosi in poltrona e mettendo
sul lettore un cd di Carlos Gardel Lezione di tango
dell’argentina Elsa Osorio. Perché il tango è il protagonista del romanzo, la musica del tango risuona in
ogni pagina mentre i personaggi sembrano allacciarsi a turno sulla pista nelle figure della danza per poi sciogliersi e
lasciare il posto ad altri ballerini. Dopo I vent’anni di Luz, una storia dolorosamente drammatica di due figli di «desaparecidos», Elsa Osorio ha scritto un romanzo di più ampio respiro, affollato di
personaggi le cui vicende prendono l’avvio dalla fine dell’800, anche se il pretesto narrativo nasce dall’incontro casuale, a Parigi, tra
il regista argentino, Luis, e Ana, figlia di argentini fuggiti in Francia dalla dittatura del ’76. Il bisnonno di Ana, Hernàn Lasalle, era
un gran ballerino di tango e a Luis ne aveva parlato la nonna, un
tempo domestica in casa Lasalle. La storia delle due famiglie diventa il soggetto del film di Luis: l’orologio del tempo si riavvolge di un secolo, il porto di Buenos Aires accoglie centinaia di migliaia di immigrati, guardati con disprezzo dalle ricche famiglie del
luogo, proprietarie delle estancias dove si alleva il bestiame e di
lussuose case in città, nell’aria volano le prime note del tango, suonato e danzato in locali popolari. Perché è subito scandalo, nessuna donna per bene ballerebbe il tango, lasciandosi abbracciare da
un uomo in una stretta più ravvicinata ancora di quella del valzer,
sull’onda di quelle parole che sono più che sessualmente allusive.
Sullo sfondo dei primi moti socialisti in Argentina, è la storia del
tango che Elsa Osorio ci narra, di come il tango acquisti grandezza e dignità mentre si affermano i nomi dei primi compositori. E
la storia dell’evoluzione del tango nel romanzo procede di pari
passo con quella delle donne, le più pronte ad accogliere i segnali di liberazione proprio perché da sempre vittime delle costrizioni sociali e famigliari. Donne infelicemente sposate, donne che
hanno il coraggio di opporsi al volere della famiglia, seguire l’uomo che amano e poi abbandonarlo quando si rendono conto che
è stato un errore, donne che si lasciano mantenere ma sono anche
capaci di uccidere l’amante quando questo sposa un’altra. E infine donne come la socialista Rosa a cui Juan Montes, il nonno del
regista Luis, dedica il suo primo tango, innamorato di lei fin da
quando sono solo due ragazzini e incapace di spiegarsi la sua
scomparsa, quando Rosa deve lasciare Buenos Aires per evitare un
arresto. La storia di Rosa e di Juan finisce per prevalere in questo
romanzo iniziato con un’altra coppia e in un altro paese, attraverso loro due e il loro amore parla il tango, mentre lei diventa una famosa cantante e lui compositore e musicista. Tutti gli altri numerosi personaggi restano pallidi sullo sfondo, le loro voci - anche
quelle già attutite che commentano dall’aldilà - in qualche modo
soffocate dalle note del tango che copre pure le proteste e i disordini, peraltro solo accennati, della Buenos Aires del 2001 a cui Ana
finalmente ritorna. Stilos ha intervistato la scrittrice argentina Elsa Osorio che risiede da anni a Madrid.
Dopo la storia intensa di Luz, nata dalle drammatiche vicende dell’Argentina sotto la dittatura, in Lezione di tango, risuonante di musica ad ogni pagina, respiriamo un’atmosfera più
leggera. Ha sentito la necessità di dipingere anche un’altra
Argentina?
È vero che in Lezione di tango è rappresentata un’epoca meno cruda, meno tremenda di quella di I vent’anni di Luz, eppure in qualche modo i due libri sono collegati: nel primo il tema era quello
GIOVANNA MOZZILLO
IL LIBRO
ELSA OSORIO
"Lezione
di tango"
Trad. Roberta
Bovaia
pp. 415, euro 16
Guanda, 2006
La storia di
due famiglie
e di un secolo
Un uomo e una donna si incontrano a Parigi, in un locale dove si balla il tango. Lui è un regista argentino, lei è
una giovane sociologa, emigrata dall’Argentina da piccola. Scoprono un legame tra le loro famiglie e nel regista nasce l’idea per un film: sarà la storia di un secolo in
Argentina attraverso quella di due famiglie e del tango.
dell’identità rubata, in questo si tratta di un’identità sociale che non
viene rubata ma in un certo senso distrutta da governi e dittature
- è questo il punto in comune tra i due libri. In Lezione di tango vado agli anni della ricchezza del paese, quelli in cui si forma questa società grazie alla forte immigrazione, l’epoca dell’industria
agricola e dell’allevamento di bestiame, e nello stesso tempo è
un’epoca che ha con sé un progetto culturale, e c’è un crescendo
di tutto questo fino a quando interrompo la narrazione: è il 1930,
l’anno del primo colpo militare, anzi, non è il colpo solo dei militari, sono stati anche i civili che hanno chiamato i militari al potere. Ed è l’inizio della disfatta, è come il principio di qualcosa che
avrebbe portato alla crisi finale. Il primo romanzo era un romanzo più duro e più sofferto, questo mi ha impegnato di più nella ricerca. Ho scoperto tante cose che non sapevo dell’Argentina, le
lotte operaie ad esempio. Ma ho scoperto anche che sono stati anni di entusiasmo e di speranza, perché il sogno è che l’Argentina
diventi un grande paese e può diventarlo perché ha una buona classe media, ma tra le dittature e la corruzione dei governi come quello di Menem l’epilogo sarà la crisi del 2002.
Il tango è il personaggio principale e incorporeo del romanzo:
è una delle anime dell’Argentina? Poteva nascere solo in Argentina o è stato un caso e sarebbe potuto nascere anche in un
altro paese dell’America latina?
Il tango poteva nascere solo in Argentina ed è vero che è un personaggio incorporeo nel libro, ma non parla a tutti, soltanto ai suoi
figli, a quelli che vivono la vita del tango con passione. E il tango
racconta la sua essenza, come si è formato. C’è una parte del libro
in cui si parla di questa straordinaria atmosfera di Buenos Aires,
dove immigrati e criollos - la gente del posto - si fondono in una
danza che è un abbraccio e il tango dice che si discute tanto delle
sue origini, ma quello che gli ha dato origine è questo abbraccio
tra la gente che sbarca dalle navi e quella che è già lì. Questa è l’anima del tango. In Argentina c’è stata una fusione meravigliosa tra
la gente del luogo e gli immigrati che sono arrivati in grande numero perché venivano invitati a trasferirsi in Argentina, perché c’era bisogno di loro. In pochi anni la popolazione dell’Argentina si
duplicò, l’Argentina era il paese delle possibilità, la gente arrivava che era analfabeta e la generazione successiva aveva già fatto
straordinari passi avanti.
Il tango come musica e il tango come danza: esprimono la
stessa cosa o c’è un valore aggiunto di libertà espressiva nel-
la danza?
Il tango nasce come danza, le parole vengono dopo. Non sappiamo esattamente come si ballasse il tango all’origine, perché era un
ballo da postriboli, e penso certamente che la danza aggiunga un
valore in più: è importante come un rito, ci sono i vestiti, c’è un silenzio carico di tensione. Il tango si può ballare in molti luoghi, ma
l’anima del tango è solo in Argentina. È per questo che, nel romanzo, il tango prende parte alla vita dei personaggi e si risente se quelli che vede abbracciati nella danza non portano questo abbraccio
fino in fondo, in un’unione per la vita.
Quando parlano «le ombre», le voci dall’aldilà, pare quasi
che il tango sia un luogo: un luogo dello spirito?
Proprio così: tutti questi personaggi a cui il tango parla hanno dato la vita per il tango, il tango è un abbraccio tra uomo e donna e,
quando questi personaggi muoiono, si trasferiscono nel luogo che
è Tango, come un palco in un teatro in cui stanno a guardare gli altri che vivono ancora. La regola è che la persona che stanno evocando non può parlare, sono gli altri che parlano. Così quando Rosa incontra Juan, i morti commentano.
E, a proposito delle voci dall’aldilà che sembrano quelle di un
coro: vogliono dare un senso di eternità al tango, all’anima
dell’Argentina?
Sono proprio come le voci di un coro, anche se non è qualcosa che
ho pensato quando ho costruito il romanzo. In me c’è l’idea che
esista un’eternità con una gioia continua e diffusa, in cui non si
debbono dimenticare i tempi felici.
Quando si parla di Carlitos comprendiamo che è Carlos Gardel, ma quali altri personaggi sono ispirati a persone vere?
Juan Montes e Rosa sono personaggi fittizi ma tutti i musicisti che
sono intorno a loro sono personaggi che sono esistiti veramente.
Quando Rosa canta il primo tango, i nomi dei musicisti che l’accompagnano sono veri. Juan e Rosa rappresentano un periodo speciale nel tango: c’era stata una specie di scontro tra i musicisti che
avevano avuto una formazione classica e avevano studiato in conservatorio e quelli più popolari, ai primi non piaceva che si aggiungessero le parole alla musica. Ecco, l’amore tra Juan e Rosa rappresenta il superamento di questo contrasto, la coniugazione dei
due elementi, le parole e la musica.
Sono i personaggi femminili quelli che hanno il coraggio di
comportamenti diversi, Mercedes e Rosa, ma anche Yvonne.
E, in tempi recenti, sono le donne che hanno portato avanti la
protesta in nome dei loro «desaparecidos»: il sesso debole è in
realtà il più forte?
Certamente sì, e non è un’opinione soggettiva: è vero che negli ultimi tempi sono state le donne, le madri, le nonne, a portare avanti la lotta in nome dei loro cari. Per questo l’eroina del romanzo è
Rosa che fa la sindacalista e affronta l’esilio e poi il ritorno, ed è
per questo che le ho dato un ruolo importante come cantante di tango. C’era veramente una cantante molto nota, Rosita Quiroga, c’era pure una famosa bandeonista, ma la realtà è che nel tango ci sono più uomini che donne. I testi del tango raccontano sempre la
stessa storia: c’è sempre una ragazza che lascia il quartiere e il fidanzato per un amore frivolo e c’è sempre un uomo che piange…
Ho provato a contare le parole usate per indicare una donna nei testi dei tanghi, ce ne sono molte di più di quelle che si usano adesso. E ad ogni modo sono gli uomini che scrivono i testi del tango,
perché quella era una società maschile. Ed ecco perché Rosa è così importante nel libro e perché parlo poco, invece, di Carlos Gardel. Perché volevo evitare che Gardel fosse l’unico mito.
ELIETTE ABÉCASSIS. Indagine su maternità e dintorni
i sa che la dissacrazione è arte
rischiosa. E che a praticarla si
rischia il biasimo, o addirittura
l’ostracismo, da parte della comunità
dei benpensanti. Un biasimo tanto
più iroso, un ostracismo tanto più ar- dretto idilliaco diffuso e imposto dalduo a eludersi, quanto più quel che in- la morale comune e dalle consuetuditendiamo dissacrare si propone come ni. Per esempio, la tesi, contrabbandaoggetto di venerazione universalmen- ta da tanta psicologia odierna, seconte tributata. Ma Eliette Abécassis non do la quale è giusto e proficuo che il
si è lasciata intimidire. E, armata di quasi padre assista alla nascita. Inveumorismo tace quando mai!
gliente e di grinAvevano ragione
R
e
c
e
n
s
i
o
n
i
ta da guerrigliea oltranza le nora, ha osato parstre nonne allorELIETTE ABÉCASSIS
tire all’attacco
ché risolute pro"Lieto evento"
di quello che per
Trad. Maria Laura Vano- clamavano: «Per
laici e per crecarità, niente
rio
denti, per conmaschi! Il parto
pp. 162, euro 14
servatori e per
è roba da sole
Marsilio, 2006
innovatori, in
femmine!» In
ogni tempo e
quanto nel vedere la propria donna, la
sotto ogni cielo, costituisce il culto propria partner, la propria amante,
per eccellenza, indiscusso e inconfu- straziata lacerata squarciata sanguitabile: nientedimeno, la maternità.
nante, lui ha l’impressione di assisteDunque, nel recente Il lieto evento re a un film dell’orrore con lei per
edito da Marsilio, ecco l’autrice che a protagonista, e, se anche non sviene
uno a uno e puntigliosamente ribalta come il Nicolas del romanzo, comungli assiomi di cui è puntellato il qua- que resta scioccato, e sull’eros lo choc
S
KEITH DONOHUE, Il bambino che non era vero, trad. Elisabetta Humouda, pp. 339, euro
17,50, Rizzoli 2006
Henry Day scappa da casa per non
ritornare più. Al suo posto c’è la sua
copia, un ragazzo changeling che è
di una tribù di eterni bambini. In casa Day si muove a suo agio immedesimandosi in Henry mentre quello vero entrato nella tribù vive le
difficoltà della vita nei boschi con
un altro nome. Nella sua mente non
v’è più la sua identità, ma fortunatamente non è del tutto così: vuole ritrovare se stesso con l’aiuto di persone che incontra man mano. Questo è il primo romanzo di Heith Donohue del Maryland, direttore delle
comunicazioni per l’Archivio nazionale di Washington.
Il parto? Una questione fra donne
avrà effetti nefasti che dureranno nel
tempo.
In quanto l’eros è un’entità delicatissima, basta così poco perché svilisca,
svigorisca, languisca. Tanto più che
quando col prezioso fardello si torna a
casa, inevitabilmente si scopre che
tutto è cambiato: perché il neonato, nel
nostro caso la neonata, Léa, lungi dall’essere il dolce roseo angioletto propagandato dagli opuscoli per donne in
attesa, è in realtà una tiranna, ingorda,
impaziente, egocentrica, sfrenatamente collerica, che da colei che nella sua
imprevidenza si è incaponita a metterla al mondo esige ininterrotta instancabile dedizione - giorno e notte, notte e giorno, allattare, lavare, cambiare,
cullare, e il ruttino, mio Dio! lo ha fatto il ruttino?, il tutto senza soluzione di
continuità - sicché, è inevitabile, la
neo madre perde la sua identità, è come fosse fagocitata, per cui - che frana, santi numi, che crollo a scatafa-
scio! - non si veste più, non si trucca
più, e niente parrucchiere, niente letture, niente serate con gli amici, e poi le
gloriose ambizioni di carriera desolatamente accantonate, e i viaggi, oh, i
viaggi ridotti a un ricordo del tempo
che fu.
Sicché la notte, troppo stanca per dormire, Barbara (così si chiama l’io narrante) se ne sta a rievocare quello
che ha perduto: Cuba e i suoi profumi
inebrianti (era stato lì che sotto le stelle dell’Avana Nicolas aveva chiesto
«Facciamo un figlio?» e lei d’impulso
aveva risposto «Sì»), e l’Africa, e Venezia, e la casa in festa piena di gente
fino all’alba, e le serate nei bar dense
di sussurri e risate, e i ritmi esaltanti
dei night. Tutto svanito: svanito il sogno, svanito l’incantesimo, svanito il
romanticismo. E lei, umiliata dalla
cellulite, dalle smagliature, dalle
emorroidi e dalle altre piacevolezze
connesse alla condizione di puerpera,
è una donna sfinita, una donna inebetita: una donna «abolita». Abolita dall’irruzione devastante di questa creatura, creatura a cui però suo malgrado
è già visceralmente legata e la cui lontananza è destinata a straziarla, come
sarà costretta a scoprire quando la piccola verrà portata via da Nicolas.
Perché sì, a questo modo si conclude
la storia: che il rapporto tra loro si altera e degenera e si sgretola ed è inutile che lei si umili a accettare aiuto
dalla madre. Che pure detesta, e per lei
la più grande vittoria era stata essersi
resa indipendente dalla sua invadenza.
E come no, entrambi e con tutto il
cuore avrebbero voluto salvarlo lo
specialissimo amore che li ha uniti,
ma come fare se la condizione genitoriale li ha così sconcertati, avviliti,
esasperati? E poi è successo che i loro
tempi non hanno coinciso: quando era
lei a anelare alla riconciliazione, lui la
ha delusa, quando è stato lui a tende-
ERIC ROHMER, Elisabeth,
trad. Marianna Basile, pp. 180,
euro 8,40, Mondadori 2006
Il romanzo è ambientato nel ’39 in
una campagna francese. Attorno a
Elisabeth si muovono quadri di vite come in una sceneggiatura. Rohmer, allora, decide di non usare più
la penna ma la macchina da presa
per tutte le sue storie. Così le personalità si mostreranno attraverso la
descrizione, gli atteggiamenti e le
parole. Elisabeth rappresenta l’inizio della vocazione dell’autore per
il cinema. Diventerà celebre per i
suoi saggi su Hitchcook, i cortometraggi e poi verranno anche i
film. Ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera.
ANNIE VIVANTI, Marion artista di caffè-concerto, Carlo Caporossi (cura), pp. 153, euro 10,
Sellerio 2006
Annie Vivanti era stata assieme a
Marion artista di cafè-chantant. Si
muove dietro all’amorale stellina
Marion, adolescente alla ribalta, e
diventa la maschera che prima nasconde e poi rivela la finzione che
esiste nell’esperienza artistica. Il libro divenne importante come esempio della perdizione, scandaloso per
quei tempi ma sostiene un tema
sempre attuale. Marion scivola in
un cinismo che è la sua «normalità»
e proprio in questo cinismo sta la
tragedia della storia. Tutttavia Marion non è la traviata né un fiore infangato. Il romanzo non elargisce
particolari ma e i dialoghi sono brevi e convincenti. Questo è il primo
romanzo pubblicato nel 1891.
RENÉ BARJAVEL, La notte dei
tempi, trad. Paulette Peroni, pp.
260, euro 8,50, Cosmo 2006
Nel corso di scavi archeologi in Antartide, i lavori si fermano perché al
di sotto i mille metri di ghiaccio gli
strumenti segnalano la presenza di
un’emittente ad ultrasuoni. In un
periodo tanto remoto , la scienza
non riscontra forme di vita umana
ma si decide di scavare ugualmente per scoprire il mistero. La notte
dei tempi propone una situazione in
cui il presente ed il passato si
confondono e gli individui, non
senza paura, sono i responsabili della sorte del mondo.
re la mano, lei si è irrigidita. E si è ritrovata sola: a chiedersi perché tutto si
sia guastato, e immiserito, e banalizzato, appena hanno cessato di essere una
coppia e sono diventati una famiglia.
Era fisiologico e inevitabile che accadesse o sono stati loro a sbagliare in
qualche cosa? E perché nessuno si è
premurato di avvertirla che la maternità poteva trasformarsi in una trappola in cui avrebbe perso il diritto alla
gestione di se stessa?
In conclusione un libro audace, scanzonato, provocatorio, a volte crudele,
e, ovviamente, anche paradossale. Ma
in fondo alla base di ogni paradosso
cosa c’è se non una realtà conculcata
e, da parte di chi parla o scrive, l’esigenza di denunciarla a voce così prorompente da soverchiare le dissertazioni mielate dell’ipocrisia? Quel che
è certo comunque è che, malgrado la
verve scoppiettante della scrittura, alla fine il lettore si ritrova con la bocca
amara: perché attraverso la disincantata e impudica analisi dell’autrice ancora una volta è costretto a constatare
con quale spaventosa e irreparabile
facilità il miracolo della condizione
umana propenda a tralignare in incongruenza.
S t los
schede
libri
PAOLO DI PAOLO, Nuovi cieli,
nuovissime carte, pp. 142, euro 12,
Empiria 2006
Lasciare che le parole giungano come
un dono, che le parole degli altri, scrutate, indagate, figurate nella mente, e
le storie, desiderate, inseguite, inventate, divengano voci, «salgano sulla
lingua» e assumano forma letteraria.
È l’augurio e l’esortazione che Dacia
Maraini rivolge ad un giovanissimo
autore che si affaccia al mondo delle
lettere, Paolo Di Paolo, che ha già
pubblicato Un piccolo grande Novecento con Antonio Debenedetti (Manni editore) e Ho sognato una stazione
con Dacia Maraini (Laterza). Oggi Di
Paolo, che collabora con Stilos, e ha
curato, sempre con la Maraini, il testo
teatrale Il respiro leggero dell’Abruzzo, esordisce con Nuovi cieli, nuovissime carte, suggestivi racconti-divagazioni in cui la cosa più bella che traspare - data per certa la sapienza di
una scrittura colta e già matura - è la
lietezza di un inizio che si annuncia
promettente.
Per Di Paolo la stagione/malattia della scrittura comincia lontano, da un
tempo allegro (ricorda lui stesso) in
cui, almeno, faceva ridere le Maestre.
C’era già allora, nell’avvio della scrittura infantile, nella febbrile attesa del
plauso delle insegnanti, un esaltante
cercarsi come scrittore, a tratti doloroso quando trasalimenti e immagini si
alternavano, mescolandosi, per notti
intere, notti ebbre ed estatiche in cui
andava cercando nella mappa del suo
inconscio narrativo il tesoro a lungo
inseguito: le parole. C’erano già nella
sua testa cento romanzi già scritti,
c’erano già tanti «racconti-rampicanti» cresciuti rigogliosi nel tempo e oggi divenuti i «nuovi cieli» attorno ai
quali ruotano tutte le sue storie. (Patrizia Danzè)
21
ALMANACCO
ALBERT COSSERY
ra il 1984 e il 1989, Abd alRahman Munif, scrittore giordano di nascita ma, per diverse
ragioni, molto addentro alle questioni
riguardanti i Paesi della penisola araba, ha dato alle stampe i cinque volumi de Le città di sale. Si tratta di un’opera imponente, nella quale, per la
prima volta, veniva mossa una critica
al servilismo dei prìncipi del deserto e
all’ipocrisia di Paesi che, come gli
Stati Uniti, pur essendo considerati la
fucina degli ideali liberali, si facevano
tuttavia complici d’una repressione
che, dagli anni dell’inizio dello sfruttamento del petrolio, s’era notevolmente accentuata.
E qui, infatti, l’autore racconta la storia di un immaginario Paese del Golfo
Persico dove le compagnie petrolifere
occidentali cominciano a tramare per
l’istituzione d’un regime oligarchico
alleato, sino a trasformare il non più
tanto immaginario Paese arabo in un
anomalo satellite capitalista.
Negli stessi anni, e precisamente nel
1984, le edizioni Gallimard pubblicavano a Parigi "Une ambition dans le
desert", libro che è un’ulteriore conferma di come vi fosse già, al tempo,
un dibattito tra gli intellettuali arabi,
sulla questione dell’impoverimento
culturale e dei drammatici conflitti di
classe che lo sfruttamento massivo
delle risorse naturali avevano prodotto.
T
La saggezza, il potere o la bellezza?
GORE VIDAL
"Il giudizio di Paride"
Trad. Caterina Cartolano
pp. 369, euro 18
Fazi, 2006
PINO CORRIAS
Vajont, Vermicino e altri «luoghi comuni»
Dieci storie significative del dopoguerra italiano, che si intrecciano quasi sempre col potere mediatico degli
ultimi quarant’anni. Primo di questi
racconti è il Vajont, che costituisce
«l’inizio - nell’Italia dei nuovissimi televisori - di un’opinione pubblica che
albeggia sul nero della cronaca». Ma
anche la strage di Piazza Fontana, l’omicidio di Pier Paolo Pasolini, il sequestro di Aldo Moro, la tragedia del
Vermicino, l’arresto di Mario Chiesa,
la strage di Capaci, il delitto di Cogne,
la reggia di Arcore e la Cinecittà di Federico Fellini.
I ritratti di Corrias si legano tutti ai
luoghi, è vero, ma sono inevitabilmente collegati ad alcuni personaggi
significativi come il conte Volpi Misurata, imprenditore di primissimo piano, governatore della Tripolitania e
ministro della Finanze durante il ventennio fascista, poi rifugiato in Svizzera e finanziatore redento del Comitato
di liberazione nazionale, nonché primo azionista della Sade, la società che
promosse ad ogni costo la costruzione
della diga sul Vajont. Ma anche come
il presidente della Repubblica Sandro
Pertini, che presenzia (intralciandoli)
i tentativi del salvataggio del piccolo
Alfredino Rampi, precipitato in un
pozzo di Vermicino.
Luoghi comuni è senza dubbio un libro che coniuga la vena saggistica ad
una scrittura che non è solo toponomastica, ma anche sensibile, percettiva, umana. Non può essere definito un
Fenomenologie dell’imperialismo
L’autore, Albert Cossery, è egiziano:
nato nel 1913 al Cairo e trasferitosi a
Parigi nel 1945, in cui si dice viva, da
allora, nello stesso albergo a Saint
Germain de Près, e dove si legò ai protagonisti della scena culturale del tempo, tra cui Camus, Sartre e Henry Miller, il quale, oltre a incoraggiare la
pubblicazione dei suoi libri in Francia,
curò l’edizione americana di una sua
raccolta di racconti.
Al centro della storia narrata in Ambizione nel deserto, ora tradotto dalle
edizioni Spartaco, è la capitale di un
piccolo emirato arabo, Dofa, che dopo
essere stata perlustrata a fondo per fini petroliferi dagli imperialisti, ma
senza successo, si ritrova a dover fronteggiare quella che in principio sembra essere soltanto la parodia di una rivoluzione: con attentati terroristici che
fanno più rumore che danno. A indagare su questi enigmatici episodi, più
ALBERT COSSERY
"Ambizione nel deserto"
pp. 193, euro 15
Spartaco, 2006
per diletto che per dovere, è Samantar,
un uomo assolutamente privo di ambizione, idealista e anarcoide - «appartengo a un’altra civiltà, quella che
mette al di sopra d’ogni cosa il semplice fatto di vivere» ci dice -, il cui unico scopo è quello di mantenere quella
quiete garantita fino ad allora all’emirato dalla sua stessa miseria, la stessa
che lo ha salvato dalla rapacità di potenze interne ed esterne.
Convinto che ogni istituzione umana si
fondi su un’impostura, Samantar ha
rinunciato ai privilegi che una parente-
HENRY GREEN
"Partenza in gruppo"
Trad. Carlo Bay
pp. 230, euro 18,00
Adelphi, 2006
Una conversazione
in cerca
di personaggi
rotagonista del romanzo di Henry Green sembra la nebbia, che blocca i
treni in partenza posponendo la partenza di un gruppo di ricchi vacanzieri londinesi e imprigionandoli nell’albergo della stazione. Non si tratta solo di un pretesto meteorologico per far interagire dei personaggi in un interno
e studiarne le reazioni: l’evanescenza, l’impalpabilità, l’ottusità della nebbia si
impadroniscono anche delle menti dei personaggi. Non è che la nebbia si limiti a condizionarli: diventa la loro stessa consistenza. O inconsistenza (forse erano già inconsistenti: mondani, frivoli, ciarlieri, soprattutto inconsapevoli).
Addirittura - secondo Tim Parks, autore della postfazione - è come se la nebbia fosse «penetrata nella mente e nella sintassi dello scrittore, obbligando lui
e noi ad avanzare a braccia tese». Infatti il lettore procede brancolando, cercando di attribuire corpo, individualità, alle battute e ai pensieri che si susseguono.
Parks, accanito tifoso dell’Hellas Verona, non poteva evitare la metafora calcistica: «Il lettore ha difficoltà a distinguere i personaggi uno dall’altro quasi fosse costretto a seguire un partita di calcio nella nebbia: è difficile vedere chi ha
la palla».
In effetti le conversazioni sono tutto un rimpallo, con retropassaggi, dribbling, punizioni a cucchiaio. Bellissimi gesti, se non ci fosse la nebbia a impedirci di goderne. Benché Parks trovi che «molto del piacere che proviamo deriva proprio
dal grande sforzo per distinguere». La narrativa come enigmistica. Non c’è altro modo, pare, per dare intensità a quello che Green vuol farci sentire: non solo non ci sono individui speciali come Dedalus o la signora Dalloway, ma neppure individui tout court. L’identità
è una finzione troppo comoda. I personaggi fluiscono uno nell’altro.
Così è la conversazione, ci rendiamo conto alla fine, la reale protagonista del romanzo: a recitare le battute di questa partita di pallone sono personaggi intercambiabili, personaggi agiti. Nessuno conduce
davvero il gioco, anche se Amabel,
la ragazza che il ricco Max intendeva scaricare, sembra consapevole,
agguerrita e determinata: le battute
di ogni personaggio potrebbero essere quelle di un altro. Infatti in altri momenti le stesse considerazioni vengono fatte da chi poco prima
le avversava. Si potrebbe pensare
che questo dipenda dalla stretta affinità dei protagonisti, dall’appartenenza di classe, si potrebbe addirittura sospettare la satira sociale, ma Green non è Waugh e in ogni caso anche le
classi inferiori, che non hanno trovato rifugio nel lussuoso hotel, agiscono per
compulsione. «Ogni arte del narrare - scriveva di recente Alfonso Berardinelli
- si fonda sul resoconto ansiosamente meticoloso di qualcosa che non è mai spiegabile nel momento in cui sta avvenendo». Berardinelli, però, si riferiva a Mario Soldati, scrittore godibilissimo, eccitante. Green non ha nulla di eccitante e
per trovarlo godibile ci vogliono i gusti del connazionale Tim Parks. Ma anche
se faticosa, la lettura è di grandissimo interesse per l’intuizione di base. Green
introduce un’impostazione letteraria più moderna (ancorché, forse, arcaica) di
quella degli illustri colleghi del flusso di coscienza: il flusso, qui, è collettivo, non
prende la forma del monologo ma della conversazione, spesso, paradossalmente, interiore. Questa intuizione va ben oltre l’ambito narrativo: potremmo definirla psicologica ma anche sociologica, politica, spirituale, forse metafisica. L’assunto è questo: la personalità è una comoda invenzione, un colossale equivoco.
Questo punto di vista è stato proposto anche da James Hillman e Michael Ventura in Cent’anni di psicoterapia e il mondo sta sempre peggio (1992): «Il sé è
l’interiorizzazione della comunità. Dovremmo dire: Convivo ergo sum».
Elio Paoloni
P
GORE VIDAL
Il giovane Philip Warren, prima di
decidere cosa fare nella vita, decide
un viaggio e incontra a Roma la moglie di un politico, in Egitto un’astrologa austera e a Parigi una bella donna con un marito geloso. Philip deve
scegliere tra la saggezza, il potere e
la bellezza.
pagina
PINO CORRIAS
"Luoghi comuni"
pp. 225, euro 15
Rizzoli, 2006
saggio storico, non lo si può chiamare
libro a tesi, non è una raccolta di inchieste. Corrias ha deciso di misurare
il polso al nostro Paese, muovendo
dall’inizio degli anni sessanta ed arrivando fino ai giorni nostri. E in questa
storia non poteva trascurare il ruolo
della comunicazione televisiva, la sua
funzione informativa, ma anche la sua
forza mistificante e allucinatoria.
Come quando, per la prima volta in
presa diretta, ci consegna i corpi scarnificati di Longarone; oppure quando
trasforma la tragedia del Vermicino,
inaugurando il primo collegamento
televisivo, durato 18 ore in una no
stop che ha fatto storia, scardinando il
palinsesto di una Rai ancora imbalsamata e alterando tutti i circuiti politiciistituzionali da allora molto più sensibili all’etere e ai suoi protagonisti.
Un reportage storico attualissimo, che
trae tutta la sua forza da una analisi
molto personale, epperò per questo
non meno autentica e significativa,
l’unica comunque capace di analizzare in modo originale alcune delle più
compulsate vicende degli ultimi quarant’anni.
Filippo Maria Battaglia
SIMONE GIUSTI
ORHAN PAMUK
la con l’emiro poteva assicurargli, ma
è rimasto tuttavia legato al primo ministro, suo cugino Bin Kadhem - personaggio controverso, di cui non vogliamo anticipare nulla al lettore - del quale è divenuto fidato, ma critico, consigliere, se è vero che non gli risparmia
giudizi impietosi: «Pretendere di sacrificarsi per il bene del popolo è la scusa
di ogni ambizione politica. Ma il popolo non ti ha chiesto niente. Vuole semplicemente vivere in pace». Senza mai
abdicare a un anticapitalismo spinto, se
può affermare quanto segue: «L’infiltrarsi dell’ideale reazionario tramite
una marea di merci è un colonialismo
peggiore della conquista di un paese
con le armi. La grande potenza imperialista infatti non possiede altra cultura se non il commercio. Con quel
mezzo riesce ad abbrutire anche i popoli più evoluti. Non scordare che gli
uomini sono come bambini che si meravigliano davanti all’abbondanza di
giocattoli esposti in una vetrina».
Le ipotesi sono le più diverse: che si
tratti di una vera e propria rivoluzione
proletaria oppure di un complotto per
scatenare la repressione da parte dello
Stato, per esempio. La soluzione però
sarà la più triste, quella di cui Samantar è assoluto sostenitore: ovverosia
che è la brama di potere a muovere il
mondo, mentre chiudiamo il libro con
un senso di amarezza non da poco
Silvia Lutzoni
GIUSEPPE O. LONGO, La camera d’ascolto, pp. 187, euro 13,
Mobydick 2006
Nelle opere più recenti di Giuseppe O.
Longo prevale la forma dell’affabulazione, con un io-narrante che racconta quasi incessantemente (a volte addirittura nella forma dello stream) le sue
vicende. L’autobiografismo viene
proiettato su molti personaggi, che
paiono in vari casi repliche l’uno dell’altro: notevole per esempio la ricorrenza di situazioni e persone che rimandano al mondo mitteleuropeo, da
Trieste all’Austria e in particolare all’Ungheria, quasi che i singoli tasselli contenuti in questo libro o in vari
precedenti, da Lezioni di lingua tedesca a Trieste: ritratto con figure, altro
non fossero che le parti di un mosaico
da ricomporre. Mosaico che potrà essere considerato la psiche stessa dell’io-scrivente, le sue molteplici angosce che si possono estrinsecare tanto
in una luttuosità percepibile al fondo
di storie d’amore incompiuto quanto,
come qui in "Una semplificazione del
dolore", nella stessa sovrapposizione
di tempi e luoghi di un’intera vita,
che slittano senza regola e senza scopo apparente gli uni sugli altri. L’esibizione degli strappi arriva a un culmine nel racconto che dà il titolo alla raccolta: «In queste notti calde e serene
sono preda di ricordi febbricitanti e lacerati, vanno e vengono i ricordi nel
dormiveglia come i cani che lungamente latrano alla luna nella lontananza della campagna». È il momento di ripercorrere il rapporto con la
madre, con la sua vita e con la vita
stessa del suo figlio, che alla fine pare
resistere, quasi attraversato e travolto
dalle angosce dell’intero mondo, solo
per difendere all’estremo un ricordo
splendido della donna che lo ha generato. (Alberto Casadei)
MARILÙ MANZINI
Vizi privati in un quaderno comune
In un’agenda tre amici annotano i loro vizi indicibili: Maria Vittoria si
droga, Paola va a letto con chiunque
le prometta carriera, Riccardo manda in rovina il locale che gestisce.
Romanzo cosparso di «privé», discoteche frizzanti e letti in cui le lenzuola raccontano tutto.
MARILÙ MANZINI
"Il quaderno nero
dell’amore"
pp. 327, euro 15
Rizzoli, 2006
GUIDO ZAGHENI
La Chiesa nel fascismo non rimase chiusa
Il fascismo italiano, almeno quello
delle origini, «è stato il tentativo di
una nuova strada, la ricerca di una
terza via equidistante sia dal liberalismo che dall’utopia comunista. L’idea
della rivoluzione fascista affascinava
e suscitava interesse perché puntava
non solo a migliorare le condizioni
materiali di vita del popolo, ma si proponeva di creare l’uomo nuovo e una
civiltà nuova».
Con queste premesse, nel suo nuovo
La croce e il fascio. I cattolici italiani
e la dittatura, Guido Zagheni, sacerdote dal 1967, che ha sempre alternato la vita pastorale, lo studio e l’insegnamento, delinea ili delicato rapporto instauratosi fra la Chiesa, una presenza, allora, profondamente ancorata nella coscienza del popolo, e il fascismo. La lettura di un ventennio di
storia italiana libera da pregiudizi e
ideologie, che passa attraverso i momenti più determinanti e le figure di
spicco, come Pio XI. Nella prima parte, "Il fascismo italiano", l’autore ripercorre minuziosamente la nascita,
l’affermazione di questo movimento,
la conquista legale del potere, la figura di Mussolini e il consolidamento
della sua autorità, anche in un’ottica di
rapporti con la monarchia, del suo
ruolo internazionale e dell’alleanza
con la Germania. Nella seconda parte,
invece, dedicata a "Chiesa e fascismo.
Incontri e scontri", Zaghemi si sofferma sul «drammatico contesto del pontificato di Pio XI», sull’attuazione del
GUIDO ZAGHENI
"La croce e il fascio"
pp. 384, euro 18
San Paolo, 2006
progetto che il pontefice cercò di portare a termine - la conciliazione con lo
Stato italiano e la definizione dei rapporti Stato/Chiesa, la lotta contro i regimi totalitari e le scelte razziali, la
riforma dell’Azione cattolica. L’epilogo drammatico, cui è dedicata la terza
parte, delinea infine «le vicende politiche che, dal 1939 al 1945, hanno
toccato l’Italia». L’imperialismo, con
la guerra d’Etiopia, la presa di posizione nella guerra di Spagna, l’ingresso
dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, portarono ad una crisi politica
che segnò «la morte della Patria», la
guerra civile e la resistenza, con vendette personali e politiche che non
cessarono neppure dopo il 25 aprile.
La tesi è che la Chiesa, con i suoi vescovi, parroci, associazioni caritative
e con la dedizione di tanti credenti, ebbe un ruolo tutt’altro che insignificante. Fedele a se stessa, anche laddove ha dovuto trattare con il potere o
subire persecuzioni, ha costituito un
punto di riferimento importante ed ha
fatto sì che le forze vive sopravvivessero per poi contribuire alla ricostruzione democratica.
Lidia Gualdoni
KAREL GLASTRA VAN LOON
Poesia? Primo, giù la Linea lombarda Quando la cultura unisce anche i nemici Nel pozzo del passato si cela la verità
La scuola, l’educazione letteraria,
l’editoria, ma pure la traduzione, le
riviste, le forme della poesia. Giusti,
ricercatore di Italianistica, si impegna in una polemica che riguarda
soprattutto la Linea lombarda a favore di una correzione in senso più
meridionale della poesia.
SIMONE GIUSTI
"Linea meridiana"
pp. 144, euro 12
Unicopli, 2005
Un gentiluomo veneziano viene catturato dai pirati e poi venduto ad un
astrologo turco. Due culture diverse,
ma entrambi coltivano gli stessi interessi e collaborano insieme a delle ricerche, studiano e progettano orologi parlando sempre di astronomia.
Un incontro tra Est ed Ovest.
ORHAN PAMUK
"Il castello bianco"
Trad. Gianpiero Bellingeri
pp. 172, euro 9,80
Einaudi, 2006
Per la morte della diciassettenne Lisa sono indiziati il fidanzato Talm, la
madre Sophie ed il patrigno Sebastian che vive da barbone. Talm si
convince che il padre sa molto e scopre che la morte di Lisa si cela nel
suo passato e che la colpa e l’innocenza sono due concetti relativi.
KAREL GLASTRA VAN
LOON
"Il respiro di Lisa"
Trad. Claudia
Di Palermo
pp. 233, euro 13,50
Fazi, 2006
S t los
schede
libri
pagina
22
ALMANACCO
CARLO GRANDE
"Padri. Avventure di maschi
perplessi"
pp. 122, euro 10
Ponte alle Grazie, 2006
Essere figli
e diventare
di colpo padri
età di mezzo (quella dei quarant’anni) è un fiume difficile da guadare. Ci
si sente ancora giovani, attratti dall’avventura del mondo, eppure i capelli cominciano a incanutire; il trascorrere del tempo provoca la sensazione di avere ancora bisogno di un padre a cui rivolgere domande, ma ci ricorda
anche che siamo noi stessi padri di altre creature desiderose di crescere. Questa
situazione di equidistanza tra passato e futuro, tra rimpianto per quello che eravamo e attesa per quello verso cui siamo incamminati, fornisce il filo conduttore alle nove sequenze narrative che coltivano in punta di piedi il modello del racconto di formazione e che Carlo Grande raduna sotto il titolo di Padri. Al fondo di ciascuna vicenda, collocata in un villaggio turistico o in un campo di calcio, perfino durante una battuta di caccia, si percepisce una condizione di sospensione, un senso di vertigine e disorientamento, forse un sentimento giustificato
di angoscia, culminato nell’affermazione messa sulla bocca di uno dei personaggi: «Un giorno smetterò di essere figlio e mi sentirò terribilmente solo». Ciò significa che i protagonisti di questi brevi testi sono destinati a diventare padri rischiando inconsapevolmente di smarrire la fisionomia di figli, di perdere cioè
non solo quella parvenza di felicità, che proviene dal mondo dell’infanzia, ma
anche la propria identità fino al punto che ciascuno di essi vive in un alone di disincanto: è consapevole di appartenere a un’epoca che sociologicamente ha modificato il tessuto urbano e l’antropologia del nucleo familiare, si muove a tentoni, annaspa nel buio come un indovino cieco o come Teseo nel palazzo di
Cnosso. Ciò che sembra mancare a questi uomini, tuttavia, è il filo di Arianna.
Perciò sono «perplessi», come indica l’aggettivo che compare nel sottotitolo. «È
che a quarant’anni, specie di questi tempi, le cose sono maledettamente complicate», confessa a un certo punto l’io narrante di "Fathers in arms", un racconto
dove un padre e un figlio giocano a far la guerra con armi finte. «Viviamo in una
grande melassa nella quale è facile perdere la strada. Navighiamo a vista».
È paradossale, ma questa nozione di viaggio senza bussola va a coniugarsi con
l’immagine della degenerazione, per cui il mondo appare «più volgare e più vuoto», la città sembra un deserto e chi attraversa l’età di mezzo non si sente in grado di sopperire al vacillare della propria paternità. Alla generazione che Carlo
Grande elegge a emblema di queste storie non fa difetto, come si vede, la volontà
di muoversi. Semmai è vero il contrario: distratta da carriera e lavoro, essa si sposta troppo rapidamente, tra luna park e anonime periferie cittadine, sorvolando
superficialmente su quegli aspetti che sono parte integrante del processo di maturazione attraverso cui un essere umano si trasforma da figlio in padre; si tratta, dunque, di una generazione distratta da altro o da un «altrove» che in realtà
mette a nudo la fragile capacità di trovare compiutezza. In un certo senso verrebbe quasi da pensare che i quarantenni raccontati nel libro siano individui ancora da farsi, nostalgicamente ancorati al ricordo di una dimensione epico gloriosa, impossibile da raggiungere: la stessa che contraddistingueva invece l’esistenza dei loro stessi genitori, dei nonni, dei bisnonni, cioè di quella schiera che
Giambattista Vico aveva chiamato eroi. Come già era stato nei precedenti romanzi, anche in questi racconti Carlo Grande si conferma uno scrittore dal sapore hemingwayano: ama il combattimento, la guerra, il rischio della vita, ma si dispera di fronte alla solitudine di una fucilata o alla vittoria di un cacciatore su una
preda. In questa perenne epicizzazione dell’esistenza, narrata in forma di dramma e di combattimento, consiste la cifra più convincente della sua scrittura. Non
a caso tra i nove testi spicca "Il mio Kailash": il racconto di un io che vive la scalata al Monviso come un esame di coscienza, un’ascesa al paradiso degli eroi o,
molto più allegoricamente, con il medesimo stupore di «un bambino che è riuscito a salire in braccio a suo padre».
Giuseppe Lupo
Jack Black / Carlo Grande
Gabriele Dadati / Gian Maria Molli
L’
na scrittura «biologica» che
scorre con i ritmi concitati del
respiro e nel contempo incide
sul reale con precisione chirurgica.
Una scrittura svelta, scivolosa, elastica, irrequieta e insieme capace di rallentare i movimenti vivisezionandoli
con l’occhio indagatore del detective.
Sette racconti, sette giri di compasso
che contornano sette distinte modalità
espressive, ma tenuti insieme proprio
dalla loro diversità. La varietà dei modelli e la complessità stilistica dei testi
mettono infatti in chiaro non tanto
una pur rilevante versatilità naturale
dell’autore quanto un intenzionale
progetto operativo: quello di lavorare
nella direzione dell’apertura, dello
sperimentalismo inteso come consapevole ricognizione nei linguaggi che
si interrogano su se stessi e sulla loro
potenziale pluralità.
I punti di riferimento di Gian Maria
Molli sono grandi figure come Antonio Pizzuto, i suoi orizzonti comunicativi non si intrecciano con le esigenze
dell’informazione pura e semplice.
Insomma in questo suo nuovo libro,
che giunge a distanza di sei anni dal
precedente, Molli opera da autore che
U
risponde a ritmi interiori piuttosto che
a scadenze imposte, e persegue un’idea di scrittura come valore in sé.
Visioni squaderna infatti - come afferma Antonio Pane nella presentazione
- «l’ordinaria follia (…) di un mondo
non condiviso», costituisce una disincantata denuncia, una meditata presa
di distanza che mette a fuoco le spigolosità del quotidiano, si muove fra le
sottili fessure che congiungono incubo e realtà, oscilla fra rabbia e pietas,
ma si sottrae alla logica del cronachismo, se non per una certa predisposizione verso la rappresentazione dettagliata, sia essa in «in diretta» o «in differita». Alcuni di questi racconti, per
esempio, trasformano la differita in
un procedimento quasi beckettiano:
quello che succederà, o che è già successo, è escluso dall’orizzonte narrativo che invece è centrato sulla descrizione dell’attesa, con tutte le tensioni
e le ansie che può generare, o su flussi di parole che rievocano antefatti, più
o meno caoticamente. In mezzo al
traffico cittadino qualcuno ha appena
ucciso una bambina, ma il racconto ci
mostra solo la folla vociante che a distanza di pochi momenti commenta
GABRIELE DADATI
"Sorvegliato dai fantasmi"
pp. 140, euro 12
Pequod, 2006
Cambiamenti
intimi
dell’esistenza
orvegliato dai fantasmi è l’opera prima di Gabriele Dadati, un piacentino ventiquattrenne già noto nell’ambiente letterario per aver pubblicato
racconti su riviste e per aver partecipato a diverse antologie tematiche. Tra
l’altro è il fondatore di una rivista interessante come "Ore liete" che coniuga arte e letteratura prestando molta attenzione alla forma dei contributi.
Questa raccolta d’esordio è composta da nove racconti e una dedica conclusiva in forma narrativa e molto alla lontana ricorda opere come Cattedrale e Da
dove sto chiamando di Carver. Dadati è attento alla sfera intima dei personaggi e riesce a descrivere con tratti decisi emozioni e sensazioni che attraversano
una vita intera. Scopriamo i cambiamenti nell’esistenza di un uomo dopo la nascita di un figlio ("Vittorio si è scavato una nicchia", già pubblicato su Dammi
Spazio, Edizioni Il Foglio), ma viviamo pure una serata a cena dove si parla di
un figlio perduto e della finale mondiale con il Brasile ("Portaceneri"). Nel racconto più costruito e dotato di una vera trama Dadati racconta le vicissitudini
di un maltese sulle orme di Max Pezzali degli 883, fuggito con la sua ragazza,
che alla fine scopre la bellezza facendo lo scarpaio in una cittadina come Vigevano ("Quando saremo veri"). Si continua con l’attesa di un figlio che descrive la bellezza di una donna incinta e le sensazioni di un uomo che vede il mondo popolato da fantasmi ("Chi non c’era"). Dadati rende omaggio ai suoi riferimenti letterari con "Leros", che cita Cimitero delle 366 fosse di Daniele Del
Giudice e alcune poesie di Pablo Neruda, e "L’avventura di due sposi", che ha
lo stesso titolo di un racconto di Italo Calvino ma racconta una storia diversa.
Riporto una breve parte di un racconto che merita segnalazione, descrivendo la
vita di due sposi operai che non si vedono quasi mai perché lavorano in fabbrica a turni alterni: «Non so perché, ma capisco che se avessimo un figlio nostro
il mondo mi farebbe meno paura e non avrei bisogno di annusarlo nei capelli
di Elide prima di uscire impaurito e misero come sono sempre stato. (…..) Perché saprei bene che il nuovo corpo per cui ha un senso spegnersi è quello del
figlio».
Dadati affronta anche la tematica epistolare nel racconto "Cara Emanuela", dove compone un capolavoro di lettera dal carcere, intensa e filosofica, che abbraccia motivi religiosi ed evolutivi e fa capire come la galera modifica la prospettiva di un uomo. Il racconto fantastico ispirato a Italo Calvino fa capolino nella "Dichiarazione di Charles Manson" e in "Apocalisse". Nel primo si utilizza
un personaggio reale attribuendogli ricordi e sensazioni immaginari e nel secondo si racconta la morte di un vecchio in ospedale mentre passa una cometa alla vigilia della Guerra del 1915-18.
Gordiano Lupi
S
GIAN MARIA MOLLI
"Visioni"
pp. 155, euro 10
PS, 2006
La realtà poggia
su un tavolo
traballante
l’accaduto con straniante indifferenza.
Una ragazza scopre durante la notte
gli amplessi dei genitori, ma Molli ci
mette davanti al guazzabuglio dei suoi
pensieri adolescenziali e ci presenta
una riflessione a posteriori sotto forma di improbabile, ironico e risentito
rendiconto alle amiche. Un vecchio
pensionato, solo in casa, non è più capace di rialzarsi dopo una caduta ed è
costretto a rimanere immobile, mentre
il tempo passa inesorabilmente e nel-
la sua mente si svolge una ressa di
pensieri, angosce, rancori, ma solo da
questo flusso di coscienza, in una situazione di immobilità, ha origine la
vera e propria narrazione. Un aspirante scrittore siede nella sala d’attesa
di un importante editore, nel frattempo scorrono sulla pagina frammenti
del testo che vorrebbe pubblicare, ma
l’attenzione è puntata sull’interminabile anticamera durante la quale si
svolgono microeventi insignificanti
L’AUTORE. Gian Maria Molli, 61 anni,
fiorentino, giornalista professionista, conduttore del Giornale Radio Rai (GR3), ha
pubblicato la prima raccolta di racconti, Il
pozzo (Firenze, 1974), a cui sono seguiti la
fiaba ecologica Dani il cinghialino (Firenze,
1988), il romanzo breve Zoo (Udine, 1990) e
la seconda raccolta di racconti Fiori (Roma,
2000).
Un fuorilegge
nell’America
dei sogni
vete presente il sogno americano? Quell’idea ottimistica per cui un eroe
solitario si scontra col male e alla fine si redime nella redenzione generale del mondo? Che è poi una delle facce della «frontiera», l’altro sogno che si sarebbe infranto a Dallas? «Ad ovest c’è una luce, recitava il sogno,
è lì, dobbiamo solo raggiungerla. È il nostro destino, la nostra meta. E nulla ci
fermerà». Come nulla sembra possa fermare il Jack Black di questo libro: autore e protagonista e insieme vittima ed eroe di una storia di perdizione e redenzione che appunto quel sogno illumina.
Uscito in America nel 1926 col titolo "You Can’t Win", ora tradotto per Alet e
arricchito da una prefazione di William S. Burroughs, il libro racconta in forma autobiografica, e con ricostruzione decisamente pignola, la vita dello scassinatore Jack Black, vissuto a cavallo tra Otto e Novecento negli Stati Uniti degli anni eroici dei grandi spazi e della frontiera, avviatosi giovanissimo al delinquere e divenuto per questo testimone straordinario di un certo modo di essere del mondo delinquenziale di quegli anni lungo la dorsale ferroviaria che legava l’Est all’Ovest degli States e del Canada anch’esso pionieristico di quel
tempo: tra città che nascevano dietro l’impeto di un’immigrazione selvaggia e
locali da gioco in cui si disfacevano le fortune improvvise, mentre bande di vagabondi occupavano i margini di un mondo quasi senza regole che non fossero quelle dell’appartenenza alle micro-zone in cui questo mondo era, appunto,
diviso. Black aveva scelto la zona della malavita: solitaria, autoregolamentata,
capace di straordinarie testimonianze di lealtà come di momenti di perfidia assoluta, contrapposta in duello perenne alla zona della «legge», fatta di poliziotti e giudici spesso corrotti e crudeli, oltre che di prigioni quasi sempre fetide dove assai spesso si distruggevano le vite e le menti dei detenuti.
Il libro è pertanto una catabasi, racconto di una vera e propria discesa agli inferi, per le infinite e sempre simili situazioni di un precipitare senza scampo (da
qui il titolo) sempre più giù: soprattutto nell’abiezione ultima della droga dalla quale l’eroe protagonista uscirà per forza di volontà in una coll’uscire dalla
scelta del delinquere e con la conquista, finalmente, della condizione mentale
e culturale dell’onesto lavoratore che «parvo gaudet» e non più «alia appetit».
Ne viene fuori uno spaccato straordinario, è stato detto, di un’America che non
c’è più, se non in certi film di John Ford o nel mito chapliniano: nella quale
un’umanità marginale viaggiava nei vagoni dei treni merci e poi si affollava nei
saloon fumosi o si riuniva in pittoreschi raduni tra i boschi o si ritrovava nelle
prigioni sistematicamente frequentate, tra condanne, evasioni e nuovi arresti
spesso per pure banalità. A progettare colpi e a stringere amicizie, dentro un’etica di gruppo che non ammetteva deroghe e si faceva punto d’onore il mantenere la parola data. Black visse per trent’anni questa vita, educato - si fa per dire - dall’esempio di George mezza gamba, Sanctimonius Kid, Mary stinco di
maiale e tanti altri che compongono una specie di corte dei miracoli assolutamente imprevedibile, anche se di grande effetto narrativo. Fino a quando la
spinta al bene non produsse i suoi effetti e l’incallito delinquente sopravvissuto a tutte le umiliazioni, dalla tortura con la camicia di forza alla fustigazione
alla caduta nella dipendenza dall’oppio, non conobbe la sua anabasi e divenne
il cittadino modello che sconsigliava a chiunque di lasciarsi tentare dalla via facile del delinquere e insieme predicava, per le autorità di polizia, la tolleranza
e la fiducia nelle capacità rigenerative di chi fosse caduto nel crimine. Con l’ottimismo americano che ne connota il sogno, e l’innocente fiducia di un tempo
in cui l’America si credeva ancora innocente. E forse lo era, se è vero che quello in cui il libro fu scritto, dopo la grande guerra e prima della grande depressione, era ancora il tempo delle grandi speranze che convergevano proprio nell’America.
Alfio Siracusano
A
che però l’autore elenca con precisione iperrealistica, maniacale, ingigantendo in tal modo l’ansia dell’aspettazione. Al presente, insomma, non sta
succedendo nulla. Il presente genera
tensione perché è il tempo dell’immobilità. Solo il passato o il futuro
possono in qualche modo svolgersi
dinamicamente. Ma sono collocati
«fuori fuoco», agiscono oltre i margini della pagina.
Altre volte poi il racconto è scomposto
prismaticamente, come succede per
esempio in "Sirena": siamo in spiaggia, una bellissima ragazza in costume
da bagno corre sul bagnasciuga e scavalca forse involontariamente un giovane disteso sulla sabbia e nel salto gli
offre alla vista un sesso quasi completamente scoperto. Il giovane si lancia
allora all’inseguimento della bellissima e subito dopo, per incredibile fatalità, annega. Ma l’evento è raccontato
alla moviola, ripetuto tre volte da tre
diverse voci narranti, una delle quali è
quella del giovane appena annegato. I
punti di vista si moltiplicano, si perde
la prospettiva centrale.
Altre volte ancora l’anima della narrazione è il rovesciamento delle pro-
Joanna Scott
Julio Cortázar
Jack Black
Egon
Il giro del giorno
in ottanta mondi
Non c’è scampo
“Quando mi chiedo
perché scrivo romanzi,
penso al lavoro di
Joanna Scott e mi
vengono in mente
quali grandi cose
si possono fare con
carta e inchiostro.”
“Uno di quei libri
che offrono al lettore
pericoli piacevoli come
un tuffo al cuore
per uno scricchiolio
notturno.”
Giuseppe Montesano
Michael Cunningham
“Mezzo secolo dopo
citavo a memoria
interi passi di Jack
Black, e se riesci a
ricordarti un pezzo
dopo cinquant’anni
dev’essere buono
per forza.”
William S. Burroughs
www.aletedizioni.it
[email protected]
JACK BLACK
"Non c’è scampo"
Trad. Federica Angelini
pp. 374, euro 15
Alet, 2006
spettive: il vecchio, incapace di rialzarsi dopo la caduta, si abbandona al
ricordo nostalgico della moglie morta,
ma quando nel delirio finale quest’ultima gli appare come se fosse tornata
in vita, il senso di quelle che sembravano amorevoli rievocazioni cambia
completamente, scattano inattesi sensi di colpa che smentiscono i fatti richiamati alla mente fino a poco prima.
Allo stesso modo il manoscritto dell’aspirante scrittore, via via che viene
sottoposto a revisioni, si sottrae alle
aspettative del pubblico di massa fino
a diventare «impubblicabile» agli occhi dell’editore e così, nel finale, l’anticamera del protagonista assume un
senso del tutto diverso. Le cose insomma, come in un palcoscenico pirandelliano, non sono mai come sembrano. La presunta «realtà» poggia su
un tavolaccio traballante. Così, attraverso queste ed altre modulazioni narrative, in sette folgoranti «visioni»
che si leggono d’un fiato, «Molli percorre per noi - conclude Pane - alcune
stazioni dell’orrore presente, alcuni
fra i moltiplicabili esempi della nostra
patologica normalità».
Alfonso Lentini
NOVITÀ
John Milius
Francis Ford Coppola
Apocalypse Now Redux
S t los
schede
libri
i fronte alle ricognizioni odeporiche hai sempre un po’di diffidenza: i letterati, anche quelli eccezionali (per dire: un Ceronetti colorito e tagliente) sembrano sempre andare in giro col mento poggiato sulla mano. I
passi del flanêur si arenano spesso nella postura dello spleen, che sarà pure sublime ma è innanzitutto cupa. Questa collezione invece splende come un vassoio d’acciaio satinato. Nel suo "Maccheronica", riferendosi a un ristorante barese e ai suoi clienti, Langone ripete quindici volte il termine «scintillante». È
l’aggettivo giusto anche per la sua scrittura, un ponte di cristallo sulle gravine.
Il Langone gastronomo aborre sia le svenevolezze francesi sia l’esotismo. Non
ama la nouvelle cuisine, si occupa della tradizione (che non è museo delle cere ma identità). Il Langone scrittore detesta gli sperimentalismi: la tradizione è
il suo forte (ma non lo ingessa). Cerca la bella frase, anzi la trova, ma non si tratta di estetismo: la bellezza ha che vedere con la verità, anzi con la Verità, essendo il Collezionista cattolico di «perfetta ortodossia». La bella frase è retta, non
si presta a equivoci. È onesta perché si preoccupa del lettore. Langone mette insieme patristica e Motley Crue, D’Annunzio e Brizzi, Madonne e troie. E tutto si tiene. Discettando sull’opportunità di utilizzare la carta di credito nel prenotare la stanza in albergo per un incontro amoroso tira in ballo Ezra Pound e
San Bernardino da Feltre ma in poche righe, con leggerezza e ironia, riuscendo anche a elargire dritte sul modo di comportarsi nel prenotare (l’autore ha uso
di mondo). È, insomma, il perfetto interprete della sprezzatura.
I viaggi del Collezionista (l’Italia gli basta e avanza, non è un giramondo) originano nitidissime recensioni di città (e di regioni: «La curva di Castelfranco
è di più e di meno di un trattino, è qualcosa che con la burocrazia non ha più nulla a che fare, è una torsione dello spirito, ecco, è una piega dell’anima della nazione, ci vogliono le vibrisse per sentirlo»).
Si sa com’è con questi libri, fai una selezione, leggi all’indice Irpinia e dici seeh,
questo lo saltiamo, andiamo piuttosto a rovistare nella fortuna di Parma (nessuno si è accorto che Stendhal ne parla male), nella tristezza di Milano (Vincenzina davanti alla fabbrica), nella felicità del Veneto (che non lo si chiami Nordest). Errore: anche di quest’Osso scarnificato Langone fa un boccone succulento. Non è un caso che nel capitolo "Irpinia" si citi Franco Arminio, «il paesologo», un poeta che cerca l’anima di ogni paese, restituendo specificità alla
«minutaglia insediativa».
Sembrerebbe un campo nuovo per il Langone che conosciamo - pittore di ristoranti, libri, messe: nato a Potenza, vive a Parma e scrive di letteratura sul "Giornale" e di enogastronomia su "Panorama" e sul "Foglio" - ma non è così: anche
quando faceva mostra di occuparsi di locande, guardava soprattutto fuori dal
piatto: «Col pretesto di una cena ho conosciuto città e paesi, poetesse e pittori,
contesse e commesse (e contesse che fanno le commesse) e tradizioni, e dispersioni, e pettegolezzi ed erudizioni, e ne ho fatto cronaca, e forse racconto». Non
importa quindi quale sia il particolare preso in esame, è sempre l’Italia che il potentino trapiantato va giudicando. Il giudizio è spesso sferzante, apodittico, a
volte assume la forma della maledizione: le intime corde provinciali e borboniche (Borbone-Parma o Borbone-Napoli, questo è il dilemma) non consentono relativismi a questo erotomane osservante, una via di mezzo tra l’estenuato arbiter elegantiarum e il fiero fustigatore di costumi. Un Negroni - come un
monumento - non è più o meno buono: è giusto o sbagliato. Ma, come chiarito nell’introduzione, il collezionista di città non è proprio l’autore: «in parte è
colui che l’autore sogna di essere»".
Insomma, un po’ ci fa. Il Langone vero è forse più accomodante del narratore:
«cattolicamente vorrebbe abbracciare e salvare tutto» e in ogni caso «dopo due
bicchieri gli scompare dal vocabolario qualsiasi negativa». Nulla che vedere,
insomma, con certi fustigatori retrò, sessuofobi e tristi: Langone è moralista e
insieme immoralista (non c’è posto migliore per morire «di un harem dentro un
presepe»). Il Perfetto Lucano descritto nel capitolo "Potenza", perfetto perché
non è incancrenito nel luogo d’origine (ma neppure emigrato, altra condizione non serena), è sempre divertente, anche qui nelle due accezioni: ti fa sogghignare, ridere, sorridere (anche amaro) ma soprattutto ti volge altrove, con punti di vista che risultano eccentrici solo perchè inosservanti (delle tendenze).
Elio Paoloni
D
aspare De Caro, storico e saggista, è nato a Roma nel 1930.
Sua l’Introduzione a La rivoluzione liberale di Piero Gobetti (nell’edizione pubblicata da Einaudi nel
1964) e la biografia Salvemini, uscita
nel 1970. Persistente e d’antica data
l’interesse per la storia rinascimentale
(nel 1969 esce Istituzioni del principe
cristiano; è del 2006 l’ampio saggio
Euridice. Momenti dell’umanesimo
civile). Redattore del "trimestrale di
cultura e politica" "Hortus Musicus"
(fino al 2005, quando la rivista ha cessato le pubblicazioni), si è occupato
inoltre di storia del pensiero economico, curando negli anni Ottanta, per le
edizioni dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, due volumi dell’economista francese Léon Walras e la sezione
di Scienze sociali della collana "Bibliotheca Biographica".
Non si smentisce la raffinata collana
"In Ottavo" di Quodlibet, che esordiva nel 2003 con Erbe selvatiche di Lu
Xun, proseguendo poi con le voci (tra
le altre) di Hugo von Hofmannsthal,
Robert Walser, Blaise Pascal, Henri
Michaux, Georg Trakl. Questa collana
s’è modellata su un distaccato ma fattivo ascolto dei problemi e degli interessi letterari del momento; proponendosi la sfida di editare, oltre a un
canone (per nulla maggioritario) di
grandi scrittori del passato recente e
lontano, narratori contemporanei come Farrukh Dhondy (Vieni alla Mecca) e Francesco Permunian (Il Principio di malinconia).
Con L’ascensore al Pincio, prosa del
battagliero e coltissimo Gaspare De
Caro (probabilmente noto ai più come
biografo di Salvemini e storico del
Rinascimento, o ancora come nitido e
equipaggiato saggista e articolista militante), si propone oggi - il parere è
espresso da Mario Lunetta nella sua
ampia Nota al volume - «un atto laico
d’intelligenza giudicante» e «un testo
di per sé straordinario, che contraddice, sia in sede di Weltanschaaung che
G
23
CAMILLO LANGONE
"Il collezionista di città"
pp. 249, euro 13
Marsilio, 2006
Ci sono anche
recensioni
delle città
ALMANACCO
Gaspare De Caro / Camillo Langone
Gian Paolo Serino / Stefano Tonic
Jakob Wassermann
L’aspetto
americano
di Panagulis
GIAN PAOLO SERINO
“Usa&getta. Fallaci
e Panagulis”
pp. 112, euro 9,90
Aliberti, 2006
a fatto bene Gian Paolo Serino a ricordare una figura come quella di Panagulis che oltre ad essere stato un deputato del Parlamento greco è stato anche poeta apprezzato da Pier Paolo Pasolini. Ma chi era quest’uomo? Alekos Panagulis, come spiega nel libro Usa&Getta il curatore Gian Paolo Serino, è stato un Che Guevara europeo. Certo meno conosciuto, più che dimenticato rimosso. Non è diventato un’icona da poster, ma la sua storia è quella di un eroe dimenticato da tutti: dal potere come dall’informazione. Nel 1968,
praticamente da solo, organizzò un attentato contro Papadopoulos, che allora
era a capo della Giunta dei Colonnelli. Una vera e propria dittatura militare, sostenuta dagli Stati Uniti che, in quella tirannia fascista, vedevano un argine al
dilagare del «pericolo rosso». Panagulis usò una carica di tritolo, lo stesso impiegato oggi dai terroristi musulmani, ma l’attentato non riuscì. Catturato
venne condannato prima a morte e poi, grazie alle pressioni internazionali, a cinque anni di carcere. Anni che definire duri è poco. Panagulis era sottoposto quotidianamente a trattamenti al limite dell’umano.
Serino si è imbattuto in Panagulis attraverso il romanzo Un Uomo, il libro che
la Fallaci dedicò alla sua storia. «Rimasi folgorato dalla sua figura e dalle sue
vicende. Da lì iniziai ad approfondire e a cercare tutto il materiale - poesie, articoli e documenti che lo riguardassero» ammette il curatore del libro.
Nell’introduzione alle poesie Serino racconta del rapporto sempre sospeso tra
la tragedia di un uomo, impulsivo ma mai domo, e la razionalità di una compagna pronta a sopportare anche gli eccessi, apparentemente «irrazionali», di Panagulis. Si evince che Oriana Fallaci, pur innamorata, approfittasse del loro rapporto. Una sorta di rapporto radical chic: la grande inviata che portava l’eroe,
il temerario terrorista, tra i salotti romani di via Veneto.
Serino, raccontando di un rapporto d’amore, mette in luce tutte le contraddizioni della scrittrice e giornalista toscana: «Guarda l’America, questa America che
nacque dai disperati in cerca di libertà e di felicità , che si ribellò all’Inghilterra perché non voleva essere una sua colonia. E poi? Inventò lo schiavismo, carne umana venduta a peso come carne dei bovi, schiacciò altri disperati in cerca di libertà e di felicità, infine fece di mezzo pianeta la propria colonia».
Il curatore, nell’introdurre la figura e l’opera del poeta e politico greco, cerca
di mettere in evidenza le affinità tra i metodi usati per annientare un uomo scomodo come Panagulis e gli uomini di Abu Graib. I metodi di tortura sembrano non essere mai cambiati: torture fisiche e psicologiche. Abusi che oggi i soldati americani fotografano con le loro macchine usa&getta mentre ai tempi di
Panagulis le pressioni che subivano i prigionieri politici non superavano i confini del carcere dove erano rinchiusi. Panagulis in carcere voleva scrivere poesie, quasi mai gli concedevano il lusso di carta e penna, così le sue poesie le ha
scritte con il sangue. Non è una metafora: con uno stecchino si bucava le vene,
utilizzava il sangue come inchiostro e le garze come pagine.
Il libro sembra testimoniare, anche attraverso le poesie di Panagulis che egli abbia condotto una vita coerente. Il che è forse il più grande testamento che «un
uomo» possa lasciare.
Davide Bregola
H
in sede linguistica, i numerosi esempi
di memorialistica italiana firmati a
fuoco col marchio delle scritture piccoloborghesi». Non solo: con questo
volume, Quodlibet intraprende un’originale linea d’azione rispetto a una
delle tendenze più marcate degli ultimi anni, che hanno visto un impressionante proliferare di romanzi, memorie
e scritture in proprio prodotte da critici e studiosi di professione.
Pubblicato a puntate sulla rivista
"Hortus Musicus" tra il 2003 e il 2004
col titolo Mio padre e dintorni, il racconto edito oggi in volume a solo è
strutturato in sei capitoli e gioca sul
terreno scivoloso dell’autobiografia e
della memoria familiare, ponendo al
centro dell’attenzione la figura paterna, guardata da un figlio adulto che ricorda le sue giovanili valutazioni: le
ridiscute e le interpreta. Prendendo le
mosse dall’inverno 1943 (Gaspare
Autobiografia
della
figura paterna
egistrare la realtà con l’aderenza più assoluta. È uno degli
obiettivi della letteratura, ad
ogni latitudine culturale, dall’invenzione, o scoperta, del naturalismo. Ma
come farlo? Sbeffeggiando espressioni gergali, dialetti e altre coordinate
puramente linguistiche? Nemmeno
Pasolini riuscì a rendere i suoi ragazzi di vita portatori di una vita autonoma fuori dalle pagine romanzesche.
Perciò, la registrazione della realtà va
considerata ancora una convenzione,
o meglio, un’intenzione narrativa, della quale contano soprattutto i risultati
letterari. Un paradosso. Per evitarlo,
Stefano Tonic, esordiente cinquantenne, dichiara sul retro di copertina il
meccanismo che innesca Adulti consenzienti. Dapprima si divertiva a registrare dialoghi con una microcamera nascosta negli occhiali. Poi si è divertito a immaginarli. E ha ottemperato alla massima che vuole l’immaginazione succube della realtà. Quest’antologia di racconti snocciola si-
Immaginazione
succube
della realtà
R
pagina
aveva allora 13 anni), l’autore procede a ritroso: descrive le vicende della
sua costellazione parentale nella Roma degli anni Venti (dove il padre
Mario, sedicenne e transfuga dal Sud,
scappa e inizia a lavorare appunto all’ascensore che collegava Piazza di
Spagna al Pincio), quindi nella Calabria tra Otto e Novecento, scenario del
decadimento della famiglia e poi della vita di don Benedetto, padre-padrone naturale di un invisibile Mario,
oltre che farmacista in odore di rivincita sociale, prontamente deluso dalla
refrattaria compagine del suo paese (di
tuazioni dialogate al limite del trasgressivo. Per esempio l’incontro focoso tra un uomo e una professionista
del sesso regolarmente sposata, che
esercita in incognito. Oppure le concitate recriminazioni di affaristi, scommettitori, cercatori di scandali per
conto dei giornali. Accomunate dall’etichetta del titolo, Adulti consenzienti, compongono una galleria della
contemporaneità italiana nemmeno
troppo nascosta dietro le quinte. Il
che rimanda a tutta quell’ostentata indignazione per le recenti sbobinature
pubblicate dai giornali. Dai torbidi
calcistici agli affari di una dinastia
reale, sembra che le intercettazioni
abbiano rivelato un occulto intreccio
di pulsioni, passioni e potere. Quando
GASPARE DE CARO
"L’ascensore al Pincio"
pp. 72, euro 11
Quodlibet, 2006
cui però continua a condividere tenacemente, fino alla morte, tutti gli arcaici «valori morali e intellettuali»).
Gaspare ritorna infine alla sua infanzia, quando frequenta assieme alla
«zia» (una trovatella cresciuta in casa
di Don Benedetto, fuggita parimenti a
Roma e autoelettasi protettrice di Mario) lo studio del «Consigliere», che in
nome della comune calabresità («sebbene a rigore il Consigliere fosse di
Catanzaro e la famiglia di mio padre
dell’opposto versante del tirrenico,
ma, si sa, le anime grandi badano poco ai dettagli») e con scopi autoceleSTEFANO TONIC
"Adulti consenzienti"
pp. 194, euro 15,50
Barbera, 2006
invece si tratta di consuetudini risapute e perfino trite. Mentre Stefano Tonic, difendendosi unicamente con uno
pseudonimo, compie un’impresa possibile solo alla letteratura. Disvela non semplicemente rivela - la geometria psicologica dei comportamenti adottati nel riserbo del privato sottoposto a intercettazione. Racconta attraverso le loro stesse parole questi
personaggi che siamo diventati noi
italiani del XXI secolo. In bilico tra un
futuro fagocitato senza digerirlo e un
passato monastico, patriarcale, che
seguita, dal canto suo, a inglobarci.
Allora il sesso, la carriera, le scommesse, i soldi, il gossip, sfilano in carrellata di parodia naturale. Non basta
saper ordinare al bar un Beefeater per
Testimonianza
sull’odio sordo
contro gli ebrei
JAKOB WASSERMANN
"Storia di un tedesco ebreo"
Trad. Palma Severi
pp. 133, euro 15
Il Melangolo, 2006
di Jakob Wassermann "Mein Weg als Deutscher und Jude",
’autobiografia
pubblicata per la prima volta nel 1921, quando l’autore era all’apice del-
L
la notorietà, è stata ristampata in Germania nel 2005, suscitando un vivace dibattito e un ritorno di interesse nei confronti dello scrittore dopo mezzo
secolo di totale oblio. Il libro già nel 1921 sollevò polemiche e lo stesso Thomas Mann, amico e collega di Wassermann, prese posizione contro di esso: tra
i due scrittori si sviluppò una controversia dai toni accesi riportata da Reich-Raniki nell’edizione tedesca. Finalmente, grazie a Palma Severi, abbiamo anche
l’edizione italiana, anche se non è stata tradotta la querelle tra i due scrittori.
Storia di un tedesco ebreo per la sua complessità e universalità è un testo che
va ben oltre la semplice autobiografia. La riflessione sul problema dell’identità
ebraica, resa urgente dallo sviluppo di un antisemitismo sempre più violento e
minaccioso, coinvolge un’intera generazione di intellettuali di origine ebraica
che improvvisamente prendono coscienza della precarietà della loro condizione. Se alla fine del XIX secolo, nell’Europa Orientale ed in particolare in Russia e in Romania, i pogrom e le leggi speciali che tendono a ricacciare gli ebrei
nei ghetti fanno ormai parte della quotidiana normalità, nell’Europa Occidentale, nonostante le leggi emancipatorie, e soprattutto in Francia in seguito all’affaire Dreyfus, di nuovo cresce nella società un odio antisemita che si alimenta
di tutti gli antichi pregiudizi antigiudaici. La domanda «Sono ebreo?» e, soprattutto, «Cosa significa essere ebreo?», si impone anche in intellettuali laici che
avevano perso quasi ogni contatto con la religione ebraica o che addirittura, come nel caso di Wassermann, rifiutavano anche l’idea di una nazionalità ebraica: «In un certo senso ero come Mosè che scende dal monte Sinai, ma ha dimenticato ciò che ha visto lassù, e ciò che Dio gli ha detto». Ma a riaccendere la
fiamma nascosta della propria identità sarà appunto l’odio nei confronti del popolo deicida, che nel contempo svela anche l’eterna contraddizione dell’antisemitismo: «A ben vedere si era ebrei soltanto di nome e per l’ostilità, l’estraneità o il rifiuto del mondo cristiano, basati, per parte loro, soltanto su una parola, un luogo comune, una falsità».
Nelle parole di Wassermann traspare l’esperienza vissuta da un altro grande intellettuale anarchico, Bernard Lazare, che nel suo libro testamento "Le Fumier
de Job" tragicamente si chiedeva: «Sono ebreo? Sono un uomo? Io sono
ebreo. Io sono un uomo». Ed è esattamente da questa domanda, che di fronte
all’odio dei tedeschi nei confronti degli ebrei diventa ogni giorno più impellente, che si dipana la sofferta riflessione di Wassermann: «Per la prima volta mi
imbattei in quell’odio sordo, ostinato, quasi muto, radicato nella popolazione,
a proposito del quale il termine antisemitismo non dice quasi nulla perché non
consente di individuarne la natura né l’origine, non la profondità né lo scopo.
Un odio che ha tratti di superstizione, di volontario accecamento, paura del diavolo, irrigidimento bigotto, rancore verso chi è svantaggiato e ingannato, e poi
ignoranza, menzogna e incoscienza, nonché fondato rifiuto, malvagità scimmiesca e fanatismo religioso. Lì ci sono avidità e curiosità, sete di sangue, timore
della seduzione e della tentazione, gusto del mistero e scarsa autostima». Parole scritte con dolore che cercano di scalfire in profondità l’anima tedesca e ristabilire un principio di verità contro la menzogna dilagante. E a chi, come prova della bontà del popolo tedesco, gli rimproverava di essere uno scrittore perfettamente inserito e apprezzato, Wassermann rispondeva: «Ma il punto non è
questo. Il punto non è ciò che ho realizzato e conquistato. Il punto è la menzogna che come un verme mi striscia davanti e ogni tanto solleva la testa chiazzata per sputarmi addosso». Questo libro, scrisse Gershom Scholem, «fu un autentico grido nel vuoto, che sapeva di essere tale». Wassermann muore nel 1934,
appena in tempo per vedere Hitler salire al potere e scorgere l’imminente tragedia della Shoah. Una tragedia che Wassermann aveva intravisto nell’odio dei
tedeschi e denunciato con orrore: «È come se solo presso i morti si potesse trovare giustizia dai vivi. Perché ciò che questi fanno è assolutamente intollerabile». Oggi le sue parole, allora cadute nel vuoto, possono essere utili per riaprire una discussione sull’antisemitismo che alberga nella coscienza di un’Europa libera e democratica, ma che al momento opportuno, oggi come ieri, sa essere intollerante e violenta.
Massimo Sestili
brativi («e poi al Consigliere piaceva
ostentare con indulgente larghezza le
sue eminenti relazioni sociali e gli ingenti benefici che ne potevano risultare») aiuta Mario, ormai sposato e con
più stringenti esigenze economiche, a
trovare un impiego da facchino, che
peraltro avrebbe potuto «conseguire
con le sue sole forze».
Lontano da pose nostalgiche o didattiche quando pure allegorizza e motteggia; ricorda o anticipa con pacatissimo coinvolgimento; tira le somme e
ragiona, De Caro ci dà la sua minuta
epopea familiare con la distanza e la
consapevolezza critica di chi racconta per exempla le tappe d’una storia
collettiva. Si ricorderà come nel bel libro di Asor Rosa L’alba di un mondo
nuovo, lo sguardo del bambino Alberto vada via via organizzando, tra i
rivolgimenti del Ventennio, un personale vocabolario: cosa sono la paura,
dirsi cittadini dell’occidente industrializzato.
Lo dimostrano gli altri racconti. Quelli nei quali il signor Tonic accompagna i lettori su terreni più intimisti.
Come in "Cospirazioni", dove due
amici rivivono la notte del 12 luglio
1969, quando gli americani sbarcarono sulla Luna, in differenti prospettive. Antonio, appassionato di complotti, ricostruisce il mito del falso allunaggio, con un’escursione sulle incongruenze fotografiche. Il narratore,
senza lasciarsi avvincere dal fascino
dello smascheramento, ricorda di avere vissuto quelle stesse ore in una colonia marina della laguna veneta, parcheggiato dai genitori in crisi che di lì
a qualche anno si sarebbero separati.
Un registro utilizzato con analoga perizia in "Vita da single", cronaca anche questa molto naturalistica del rito
di passaggio di un uomo comune, così comune che ci si riconosce subito
nella sua aderenza al vero.
Enzo Verrengia
il terrore, l’odio, la vigliaccheria, la
tortura, l’amore, l’eroismo. Mettendo in pulito la sua vicenda familiare,
guardandola «da lontano» e facendo
interagire con essa la formazione di
storico, anche De Caro formula un
suo impegnativo glossario: dove ad
ogni lemma - eroismo, paura, delusione, politica, religione, fuga, giudice s’affianca un’istantanea del padre, o
una figura-chiave della sua storia - fra
le altre, la già citata figura del Consigliere, le cui prodezze sono narrate nel
sesto e ultimo capitolo, allo scopo di
«dare risposta in un caso concreto alla domanda: chi è un giudice? A chi la
storia o la provvidenza nella loro saggezza danno il mandato di sciogliere o
di legare?». Sebbene povero, Mario
accoglie in casa l’amico ebreo negli
anni Quaranta (è la banalità dell’eroismo, simile alla banalità del male che
«autoassolve l’assassino») né per questo gli è estraneo il sentimento della
paura: «era spaventato dalla vita, da
ciò che gli aveva dato e da ciò che era
per dargli». Un sentimento da cui esce
deluso rispetto alle ansie di promozione riposte sul figlio («io sono stato
troppo importante per mio padre già
prima di esistere: era fatale che lo deludessi») e che lo rende vivissima incarnazione delle frustrazioni intellettuali, delle superstizioni religiose e
dell’«invincibile diffidenza politica»
cui in genere andò incontro chi «era
cresciuto nell’era fascista, se l’era goduta per intero, sin da bambino, con
tutta la capillare protervia quotidiana
dei gerarchi rionali e capifabbricato e
sabati fascisti e oro alla patria, senza
contare le belve dei piani alti».
Varrà la pena soffermarsi sullo stile:
un lessico ricco e preciso ma mai sovrabbondante, una sintassi sorvegliata, vivace e a volte aspra, sempre intelligibile pur nella sua spigolosità; ne
esce la scrittura in proprio di Gaspare
De Caro, che modula con sapienza
passaggi pianissimi e costrutti arditi.
Elena Frontaloni
storie
e storia
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S t los
RACCONTO INEDITO A PUNTATE DI MELISSA P.
13 MODI PER UCCIDERE MIO PADRE . Un crescendo di insofferenza
e rancore. «Ti fa schifo Diabolik, ma è sempre meglio del libro di Dolce
Remì che tua zia ti ha regalato la scorsa settimana. E cosa mai potresti
fare in questo paese di merda, ad agosto alle 2.30 del pomeriggio?»
sciare il paese per andare in quello
più vicino ad ascoltare la messa, ritornano sempre con un mazzo di fiori in
mano.
Tu li detesti e il tuo disprezzo è ricambiato. Non vogliono che ti avvicini a
loro nipote, che è più piccola di te di
un anno, dicono che una ragazzina
che legge certi libri, così pericolosi,
non può certo avere una buona influenza.
L’uomo sta adesso
riposando nel tinello, tiene una gamba sulla sdraio e
l’altra penzola
fuori. Indossa dei
pantaloncini larghi, così larghi e
grandi rispetto alle
gambe secche che
puoi vedere le palle
del vecchio, scure e
coperte di pelo bianco.
Distogli subito lo sguardo, arrossendo, e ti sistemi meglio sulla sedia perché la pelle sudata si è appiccicata
alla plastica.
Saluti con la mano
Marco, che sta rientrando dal lavoro
barcollando
L’illustrazione è di zombi_holocaust
sui suoi tacchi a spillo scuotendo vistosamente la sua bella chioma permanentata. Ha una cotta non troppo
segreta per tuo padre, e tuo padre sta
spesso con lui. Una volta lo hai sentito chiedergli che si prova ad avere un
cazzo dentro il culo. Marco gli ha detto che era come cacare: hai presente
quando lo stronzo cerca di uscire e poi
l’ano lo risucchia dentro?
Ogni volta che fai la cacca pensi a
quelle parole. La sensazione non ti
dispiace.
Gli dici che avete bisogno del secchio, ma non il motivo.
Con una cordicella lo fa scivolare giù
dal suo balcone e ti saluta dicendo
che hai un bel costume da bagno.
Qualsiasi cosa appartenente ad un essere di sesso femminile riesce ad essere bella e affascinante per Marco. Il
tuo costume è orrendo, firmato Arena,
in acetato fucsia e blu.
Entri dentro casa, la porta è sempre
aperta, la tendina di pizzo bianco è come una ragnatela che ti blocca il passaggio.
Vai in bagno a sciacquare via quello
schifo, riempi il secchio e poi lo svuoti dentro la tazza mentre il gatto si tira
su con le zampe posteriori e ficca la testa dentro il gabinetto. Il gesto non ti
regala nessuna sensazione. Dovresti
sentirti pulita, e invece non riesci a
non sentirti sempre più contaminata.
Sul divano tuo padre dorme. Accanto
a lui la copia di Dolce Remì aperta: ha
scoperto di essere un grande lettore di
libri per bambini. Lo vedi piangere
mentre legge, e tu sai perché.
Ti avvicini a lui, sposti il costume da
una parte dell’inguine fino a che le
labbra grandi della tua fica calva non
si mostrano in tutta la loro volgarità
bambina. Premi un dito al centro del
tuo sesso bagnato, forse per il
sudore o forse per quel disprezzo che ti fa sognare
di essere amata.
Fai giri concentrici con il
polpastrello fino a che lui
non apre gli occhi, ti guarda
con occhi da mucca morente e poi si gira dall’altra
parte.
(1- continua)
© Melissa P.
per Stilos, 2006
Nata a Catania nel 1985. A diciassette
anni esordisce con il romanzo "100 colpi di spazzola prima di andare a dormire", diventato un successo internazionale. "L’odore del tuo respiro" esce due
anni dopo. Nel maggio 2006 ha pubblicato "In nome dell’amore", lettera aperta al cardinale Ruini su temi come aborto, matrimonio e omosessualità
Un gattino
pulcioso
e Diabolik
buchi di plastica della sedia su
cui sei sdraiata disegnano una
griglia sulla tua pelle arrossata
dal sole, così che le tue cosce
sembrano quelle di un pollo arrosto. Dalla cucina, a pochi metri di
distanza, arriva l’odore di gamberetti
e calamari fritti che tua madre ha cucinato per pranzo. L’olezzo del detersivo dei piatti al limone si mischia alla
puzza dell’olio consumato usato per la
frittura, la brezza del mare si concilia
con il fetore del cesso che ha la cassetta rotta e non riesce a lavare via la
merda che tu e i tuoi genitori avete
scaricato stamattina. Il secchio lo avete prestato alla checca del piano di
sopra che adesso sta Dio sa dove a fare marchette su un marciapiede assolato di agosto. Avete provato con le
bottigliette d’acqua a mandare via gli
I
stronzi scuri e grandi, ma avete capito
che non faceva che peggiorare la situazione, che la merda si sfaldava in
tanti piccoli pezzetti che facevano ancora più vomitare.
La mattina è cominciata bene, con tua
madre che ti adagia accanto al cuscino
un gattino raccattato per strada, infestato di pulci che sembrano palline di
sporco su un tappeto di velluto bianco.
Ti sei svegliata con gli occhi bagnati e
hai sorriso, con la faccia grassa e le
guance bruciate dal sole che ti fanno
somigliare un pagliaccio. Hai giocato
un po’con il gatto e poi te lo sei portato in grembo cercando di levare via
quelle dannate bestiole saltellanti che
rosicchiano un po’ alla volta la pelle
tenera e sottile del tuo nuovo animale.
Adesso tieni in mano un fumetto di
Diabolik, e non sai bene perché. Ti so-
na mattinata luminosa, ma non
ancora canicolare, di un’estate
della prima metà degli anni
Settanta, vidi morire molte volte Carlo Pisacane. Di buonora mio padre
che era allora ancora sarto (sarebbe di
lì a qualche anno partito per il nord a
«fare il bidello») mi preparò ad un
evento speciale. Il sarto quella mattina
era incuriosito quanto me bambino e
nonostante ci dovessimo recare in una
pietraia nei pressi del cimitero vecchio
mettemmo in parte scarpe e abiti della domenica. Dalle case abbarbicate
sul paese, dove eravamo ancora lontani dalla glassa dell’alluminio anodizzato che avrebbe ricoperto anni dopo
porte e finestre, mi portò per mano per
circa tre chilometri a vedere come i
sanzesi avevano ucciso Pisacane.
LA RIVOLUZIONE IGNOTA DI PISACANE. Il ricordo di un «colpevole»
MELISSA P.
U
"Quanto è bello lu morire acciso"
(Italia 1976, col. 85’) Ennio Lorenzini. Con Stefano Satta Flores, Giulio
Brogi, Alessandro Haber, Angela
Goodwin, Elio Marconato.
La storia di Carlo Pisacane (Satta
Flores) e del suo tentativo fallito di organizzare una rivoluzione contadina
in Calabria ai tempi dei Borboni. Raccontata come una cantata popolare, la
storia dei «trecento giovani e forti» è
spezzettata in una serie di aneddoti
che rischiano di impoverire la figura
complessa di Pisacane, fino a farne
una specie di astratto eroe della rivoluzione. Nello sviluppo narrativo ha
ancora molto più rilievo l’ufficiale
borbonico interpretato da Brogi, al
quale Lorenzini affida il discutibile
compito di impersonare la morale del
film, massacratore dei rivoluzionari
pur avendo lucidamente presente (con
una coscienza inusitata per i tempi) le
linee dello sviluppo storico e la sua futura inevitabile sconfitta.
(da "Il Mereghetti. Dizionario dei film
2006")
Il binario su cui correva la macchina
da presa, promessa futura dei molti
treni che non avevo ancora visto e
che volevo comunque prendere già
allora per andare altrove, attrasse all’inizio la mia attenzione ancor più dei
genitori e dei nonni di molti miei compagni di scuola che vestiti e truccati da
contadini di oltre un secolo prima
aspettavano, sotto un sole che cominciava a salire, che quelli del cinema gli
dicessero cosa fare. In verità se si
escludevano le scarpe - praticamente
inesistenti - e i lunghi baffi attaccati
no sempre stati sul cazzo i suoi occhi
azzurri, i suoi trucchetti banali da banale ladro e sua moglie. Ti fa schifo
Diabolik, ma è sempre meglio del libro di Dolce Remì che tua zia ti ha regalato la scorsa settimana. E cosa mai
potresti fare in questo paese di merda,
ad agosto alle 2.30 del pomeriggio se
non sederti su questa sedia messa in
ombra dalla chiesa sconsacrata e leggere qualcosa che ti spedisca in un’altra dimensione, più sopportabile?
Nella casa di fronte la tua vive una
coppia di anziani che sta in guerra
con il comune, perché loro vogliono
che la chiesa sia benedetta e riabilitata a consacrare cerimonie e il comune
dice che la chiesa è troppo vecchia, e
che se solo il coro dovesse cantare a
voce troppo alta il soffitto crollerebbe.
Ogni domenica sono costretti a la-
Eran 300, giovani e forti. Embè?
VIVE A ROMA. AUTORE RADIOTELEVISIVO. LAVORA A RADIOTRE ("FAHRENHEIT") E SCRIVE
PER "L’UNITÀ" E "DIARIO"
MICHELE DE MIERI
sul labbro, molte di quelle comparse
vestivano così anche gli altri giorni di
centosessantasette anni dopo quel fatidico 2 luglio 1857. Quello che in
quei giorni era sostanzialmente diverso era la paga di molto superiore al salario che contadini, muratori, pastori e
artigiani di Sanza riuscivano a mettere insieme in una loro estenuante giornata di lavoro. Così Carlo Pisacane
che, insieme con un drappello dei suoi
compagni, era stato ucciso dai miei
antenati compaesani ora ricambiava il
terribile trattamento con un po’ di denaro che sarebbe stato utile alle famiglie quasi come nel 1857. Allora dopo
l’eccidio i Borboni riconobbero al
paese un premio di 2000 ducati che
però furono usati per completare la
strada di collegamento con il paese più
vicino.
Cilento regione geografica (2400
kmq) della Campania (Salerno), affacciata sul Tirreno tra la foce del Sele (golfo di Salerno) e quella del Bussento (golfo di Policastro). Già feudo
dei Sanseverino, poi smembrato dalla
dominazione spagnola, fu centro di
attività carbonara e liberale (fallita
insurrezione del 1828). Dal Cilento
partirono i moti del 1848.
(dall’"Enciclopedia Universale Garzanti")
Intanto noto che nessuna menzione è
fatta ancor oggi della sfortunata avventura di Pisacane e che fu proprio il
passato, allora recente, del Cilento che
dovette far propendere il rivoluzionario napoletano per la scelta di quell’area: «Io non ho la pretesa, come molti oziosi me ne accusano per giustificare se stessi, di essere salvatore della patria. No: ma io sono convinto che
nel Mezzogiorno dell’Italia la rivoluzione morale esiste: che un impulso
energico può spingere le popolazioni
a tentare un movimento decisivo ed è
perciò che i miei sforzi si sono diretti
al compimento di una cospirazione
che deve dare quello impulso. Se
giungo nel luogo dello sbarco, che
sarà Sapri, nel Principato citeriore, io
crederò aver ottenuto un grande successo personale, dovessi lasciar la vita sul palco».
E il palco, metaforico ma con tanto di
falò, fu messo su in fretta e furia la
mattina del 2 luglio 1857, quando dei
«trecento giovani e forti» restavano a
malapena un centinaio di rivoltosi in
rotta dopo l’eccidio di Padula, dove
furono affrontati e decimati dalle
guardie borboniche tra il 30 giugno e
il l luglio. E nel tentativo di riguadagnare il mare di Sapri, Pisacane e i
suoi incontrarono a Sanza un drappello di animosi miei compaesani tra cui
si distinsero alcune guardie urbane,
primo fra tutti tal Sabino Laveglia che
probabilmente fu colui che uccise
Carlo Pisacane. Poi arrivarono con
roncole e bastoni gli abitanti del paese, a cui i rivoltosi erano stati indicati
dal clero locale e da qualche benestante come briganti e stupratori, ma probabilmente al loro arrivo il massacro
era già stato portato a termine. Né chi
tirò la fucilata né chi dispose per il
giorno dopo che i cadaveri venissero
bruciati, e così avvenne, sapevano che
il comandante di quella tragica armata brancaleone era non solo un rivoluzionario di lungo corso - trentenne
era stato il capo delle milizie della repubblica romana del 1949 - ma il pensatore italiano che per primo aveva
posto la questione sociale al centro
della teoria rivoluzionaria: «La libertà
senza l’uguaglianza non esiste, e questa e quella sono condizioni indispensabili alla nazionalità». I Saggi, scritti da Pisacane tra il 1851 e il 1856, erano ancora pressoché ignoti e solo dopo la morte, insieme col testamento
politico redatto nelle ore precedenti lo
sbarco di Sapri, furono pubblicati e,
tocca dire, ben presto dimenticati. A
tutt’oggi si fatica a trovare, se non in
fornite biblioteche, l’ultima edizione
di La rivoluzione (Einaudi 1970 e ristampa 1976) di Carlo Pisacane, con
un lungo saggio introduttivo di Franco Della Paruta.
Pisacane, Carlo (1818-1857). Ufficiale dell’esercito napoletano. Nel
1847 andò esule in Francia... Pisacane affermò con chiarezza la tesi che,
per essere vincente, la lotta per l’unità
e l’indipendenza italiana non doveva
essere disgiunta dalla lotta per l’affrancamento sociale delle enormi
masse diseredate in special modo dei
contadini. Avverso alla concezione federalista del Ferrari e del Cattaneo,
Pisacane rimproverava a Mazzini (col
quale spesso collaborava) il carattere
genericamente umanitario e non coerentemente socialista del suo pensiero... Pisacane sottolinea ampiamente
la priorità logica ed euristica dei fattori economici in seno alla società e in
ogni singolo individuo: la libertà è
mera chimera se non è prima di tutto
intesa come libertà dal bisogno... Come ribadirà nel "Testamento politico" consegnato al giornalista inglese
J. Whithe (nota mia: era una donna
Jessie White Mario) prima di intraprendere, nel 1857, l’infelice spedizione di Sapri (ferito e accerchiato dai
borbonici, Pisacane si tolse la vita in
seguito al fallimento della spedizione), libertà e associazione, lungi dall’essere inconciliabili si rafforzano a
vicenda.
(da "Enciclopedia del pensiero politico", diretta da R. Esposito e G. Galli,
Laterza 2005)
Come tutte le totalizzanti prefigurazioni sociali del tempo i saggi di Pisacane contengono ovviamente anche
molte parti ampiamente superate dalla storia oltre che una dose d’inapplicabilità congenita, ma è pur vero che
una scomodità di Pisacane si può
scorgere ben prima dell’esito mortale
della sua spedizione. Una scomodità
così lampante, lui che parlava di rivoluzione quando tutti al massimo erano
per l’insurrezione di consorterie carbonare o per sollevazioni ispirate e finalizzate all’annessione col Piemonte,
che si volle normalizzare anche con
l’elaborazione di un martirio romantico: Pisacane che si uccide accerchia-
to dai nemici è un’elaborazione tutta
mitologica non suffragata né dalle testimonianze degli assalitori né da
quelle di uno dei suoi luogotenenti,
poi futuro ministro degli interni del
Regno, Giovanni Nicotera. A esempio
di una distrazione successivamente
anche storica, come riporta la scheda
del Mereghetti, Pisacane sarebbe
morto nell’intento di sollevare le popolazioni della Calabria!
Oggi per i turisti che lasciata l’autostrada Salerno Reggio Calabria all’uscita di Padula-Buonabitacolo prendono la strada statale 517 - ultimata
per la prima volta proprio con i soldi
dati dai Borboni per l’eccidio di Pisacane - e si dirigono verso Sapri, dopo
il cimitero nuovo di Sanza, a destra
della prima curva a sinistra, si scorge
a malapena, tozza, grigia e insignificante, la lapide che ricorda questo nobile napoletano che s’era incapricciato di portar da queste parti nientemeno che la rivoluzione: «2 luglio 1857
\ Nuovo decio \ disfidante il fato \
Carlo Pisacane \ da queste glebe livide di strage \ ruinava alla morte \ né
mai selvaggia tirannide \ strappò all’avvenire della patria \ un più eroico
cuore».
Da piccolo nelle improvvise soste di
confuse e interminabili partite di pallone, mi capitava di fissare spesso l’altra traccia di Pisacane: il busto che era
stato eretto nel centro della piazza in
occasione del centenario del 1957, e il
volto austero e fiero di quell’uomo
che un po’ anch’io mi sembrava di
aver ucciso pareva avere almeno cinquant’anni. Avrei scoperto solo anni
dopo che Carlo Pisacane, duca di San
Giovanni, quando morì aveva trentanove anni: gli stessi, mi accorsi un
paio di decenni dopo, mentre mi trovavo a L’Avana nella piazza della Rivoluzione, che aveva Ernesto Guevara de la Serna, detto il Che, mentre
sembrava mi guardasse da una gigantesca riproduzione che dominava
quella piazza allagata dal sole dei tropici. Così ora, non sempre, mi capita
di pensare al mio Cilento come alla
Bolivia dove il Che, con lo stesso ingenuo entusiasmo rivoluzionario di
Pisacane, andò a morire. Se penso al-
S C A F F A L E
FRANCESCA RIGOTTI, Il
pensiero pendolare, pp.119,
euro 11,50, Il Mulino 2006
In questo libro si parla di un movimento particolare: l’oscillazione del
pendolo che accompagna il pensiero pendolare. Oscilla da un estremo
all’altro, va e viene arricchendosi ad
ogni passaggio. Il pendolo rappresenta il modello della conoscenza.
Si può fare riferimento all’uomo
pendolare che sposta il corpo e la
mente da un estremo all’altro, oscilla come il pendolo e come il pendolo si arricchisce di conoscenze.
CARITAS ITALIANA,
Guerre alla finestra,
Paolo Beccegato, Walter Nanni
e Francesco Strazzari (cura),
pp. 449, euro 24, Il Mulino 2006
Il terrorismo è internazionale e le
guerre interminabili. Si indaga in
che modo i conflitti siano osservati
e trattati dalla nostra società. La ricerca in questo senso riporta contraddizioni: dal crollo delle Torri
gemelle è aumentata l’informazione ma nell’altro senso sono nate reticenze nelle forme del linguaggio e
sono sorti conflitti passati e nuovi.
Paolo Beccegato è responsabile dell’erea internazionale della Caritas
Italiana.
LUCIANO MANZALINI,
Dubbi di un presunto scrittore,
pp. 117, euro 12,00,
Pendragon 2006
La comicità si trova ovunque: nel
nostro corpo nei gesti, nei sentimenti e a volte rimane latente anche
per un lungo periodo. Alla fine viene fuori inaspettatamente in un momento inatteso per una qualunque
banalità. La bravura del comico sta
nell’esercitarsi su se stesso, nell’autoironia. Impara a ridere prima di sé
per poi estendersi al prossimo.
Manzalini è un bravo comico e conosce il suo respiro. Sa che prima o
poi le cose fanno ridere.
la fortuna iconica del medico d’origine argentina, al suo successo come
rivoluzionario a Cuba e a quello postumo anche come scrittore, vorrei
che un po’ di questa fortuna toccasse
pure a Carlo Pisacane. Mi rendo conto che né tazze, né piatti, né t-shirt all’improvviso invaderanno d’estate le
spiagge di Sapri o di Palinuro, e forse
è meglio così, ma certo almeno un
piccolo risarcimento alla memoria si
può desiderare, magari con qualche
buon libro: in commercio e senza inesattezze, con qualche cippo meno triste e meno nascosto. L’anno prossimo
ricorrerà il 150mo anniversario della
morte, speriamo.
Mi ero completamente dimenticato, o
forse non l’avevo mai saputo, che Pisacane deragliò dalla sua vita di nobile e di ufficiale napoletano per merito
di una donna: era l’8 febbraio del 1847
quando scappò da Napoli e dall’esercito con Enrichetta Di Lorenzo, moglie di un suo cugino. Si erano amati
in silenzio per quasi quindici anni,
praticamente da quand’erano bambini, e il teorico della rivoluzione sociale non si accontentò di quando «finalmente Enrichetta» gli disse «je t’aime
il 1 giugno 1945», ma inquadrò la cosa in un discorso ideologico più generale in cui le leggi naturali avevano
stabilito che «l’oggetto dell’amore nel
cuore dell’uomo è unico, né possono
amarsi due persone nel medesimo
tempo», motivo per cui i matrimoni
basati su ragioni d’opportunismo sociale potevano bellamente essere sabotati.
Poco più di un anno fa, è venuto a trovarmi a Roma mio padre, ormai è in
pensione e non deve più cummàttere
con adolescenti tarantolati nelle scuole medie del Cilento, dove mi chiedo
cosa gli raccontano di quel Pisacane
invecchiato in effigie nelle piazze. Era
una bella mattina di giugno e dopo un
breve giro in piazza Venezia siamo
entrati dentro la pancia fresca del Vittoriano, nel museo del Risorgimento.
Dopo le infinite vestigia mazziniane,
sabaude e garibaldine ci siamo fermati intorno a una teca: conteneva
una sciabola che doveva pesare non
poco. C’era scritto «Sciabola di Carlo
Pisacane». Ho dovuto leggere io per
mio padre che non ci vede bene
quand’è scritto così piccolo. Mi ha
chiesto: «Chissà se l’hanno presa a
Sanza quando è stato ucciso?». Non
c’era scritto niente, ho risposto che
poteva essere.