06_Rassegna - Riccioni - Recenti Progressi in Medicina

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06_Rassegna - Riccioni - Recenti Progressi in Medicina
Rassegne
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La limitazione dei trattamenti:
una forma di eutanasia?
Un approccio scientifico
al dibattito sulle decisioni
alla fine della vita
luigi riccioni1,2, maria teresa busca3,
lucia busatta4, luciano orsi5, giuseppe r.
gristina2
UO Centro di Rianimazione 1, Ospedale San Camillo-Forlanini,
Roma; 2Gruppo di Studio per la Bioetica, Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI);
3
Master in Bioetica e Consulenza in Etica Clinica, Dipartimento di
Filosofia e Scienze dell’Educazione, Università di Torino; 4Facoltà
di Giurisprudenza, Università di Trento; 5SC Cure Palliative ASST
Carlo Poma, Mantova.
1
Pervenuto il 28 gennaio 2016. Accettato senza richiesta di modifiche
l’8 febbraio 2016.
Forgoing treatments: a kind of euthanasia? A scientific approach to the debate about end of life decisions.
SUMMARY. In the last decade an extensive debate on
the topic of end of life decisions has developed in western
countries, obtaining a worldwide media relevance. Philosophers, theologians, legal experts and doctors, focus their
attention on the three thorny issues of the topic: forgoing
treatments, euthanasia and assisted suicide. A thorough
and respectful discussion on these issues should include
all stakeholders – above all palliative care physicians – and
should be encouraged in order to understand the views in
favor or against the three practices, checking the different
moral positions, and analyzing the cultural, social and legal
aspects in the background on one hand, and, on the other,
their impact on the health care systems. At present, in the
fields of communications and politics, the debate related
to the topic of these end of life practices is characterized
by a confusion of terms and meanings. As an outcome,
the term “euthanasia” is misused as a “container” including
forgoing treatments, euthanasia and assisted suicide, while
palliative sedation is wrongly considered as a procedure to
cause death. This confusing approach does not permit to
understand the real issues at the stake, keeping the debate
at the tabloid level. Conversely, sharing the precise meaning of the words is the only way to provide tools to make
rational, autonomous and responsible decisions, allowing
individual informed choices in compliance with the principle of autonomy. This article is not aimed to take a moral
stand in favor or against forgoing treatments, euthanasia
and assisted suicide. Through an analysis based on scientific
criteria, the authors firstly review the definitions of these
three practices, examining the concepts enclosed in each
term; secondly, they offer a glance on the legal approach
to end of life issues in western countries; lastly, they investigate the relationship between these practices and palliative care culture in light of the medical societies official
statements. The authors chosen to examine the topic of
forgoing treatments, euthanasia and assisted suicide from
a scientific point of view, because the clinical approach, tak-
Recenti Prog Med 2016; 107: 127-139
ing into account the biological context of disease related to
the human and social domains, seems to be able to better
gather all the aspects of end of life practices, providing useful information to deal with them also in a philosophical or
juridical perspective.
Introduzione
In Europa, e più in generale nel mondo occidentale, la transizione demografica ha determinato un
prolungamento della vita media che è però coinciso
con un aumento costante delle patologie cronicodegenerative1. D’altra parte, gli sviluppi scientifici e
tecnologici hanno permesso all’uomo di agire non
solo sulla natura che lo circonda, ma anche sulla sua
natura, e la morte è stata trasformata da “evento” naturale in “processo” medicalizzato2. Questi fenomeni
hanno contribuito a far emergere, nell’ultimo decennio, un esteso dibattito sul tema della fine della vita
cui prendono parte filosofi, teologi delle principali
religioni, giuristi e medici, con ampia risonanza offerta dai media3-7.
L’attenzione di tutti è focalizzata sulle tre spinose questioni su cui il tema s’incentra: la limitazione
delle cure (LdC), l’eutanasia e il suicidio assistito (E
e SA) da medici o da altro personale. Peraltro, molti
Stati hanno, nel tempo, legiferato in merito a queste
pratiche8.
Una discussione di tutte le parti interessate su
questi temi, ampia, approfondita e rispettosa, dovrebbe essere incoraggiata al fine di comprendere
le ragioni, verificare le diverse posizioni morali, le
giustificazioni offerte a favore o contro, e analizzare
gli aspetti culturali, sociali e giuridici che sono sullo
sfondo assieme alle implicazioni che il tema della fine
della vita ha per i sistemi sanitari.
In Italia il dibattito sulle questioni attinenti alla fine della vita, oscilla tra una radicale ideologizzazione
e il silenzio, mentre, in alcuni casi, un artificioso coinvolgimento emotivo, ottenuto attraverso la spettacolarizzazione mediatica della malattia e della morte,
ha sostituito la necessaria profondità e complessità
della riflessione.
Questa situazione si accompagna a una confusione di termini, significati e contenuti, spesso rintracciabile sia nell’ambito dell’informazione sia in quello
della politica, per cui espressioni quali LdC ed E e SA
vengono tutte ricomprese nella parola-contenitore
“eutanasia”.
Al contrario, un approccio ragionato, basato cioè
sulla condivisione del significato preciso che vogliamo dare alle parole che concordiamo di utilizzare, si
dimostra l’unico davvero utile a compiere scelte individuali meditate e consapevoli alla luce del principio
di autodeterminazione (autonomia)9. Infatti, quando
in ambito scientifico o giuridico si parla di LdC ed E
e SA s’intendono concetti del tutto diversi tra loro,
che implicano scelte compiute da persone affette
da malattie differenti per natura e gravità, cui corri-
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Recenti Progressi in Medicina, 107 (3), marzo 2016
Per LdC s’intende «l’interruzione o il non avvio di trattamenti diagnostici o terapeutici che risultino eticamente
sproporzionati e/o clinicamente inappropriati»10.
Sono “eticamente sproporzionati” i trattamenti
che per il malato comportano oneri superiori ai benefici attesi. Gli oneri s’intendono come oggettivi, cioè
previsti dalla scienza medica – gli effetti collaterali dei
trattamenti – o soggettivi, quelli percepiti come tali
dal malato. Sono invece “clinicamente inappropriati”
i trattamenti che non corrispondono più ai criteri di
efficacia non essendo più in grado di modificare positivamente la prognosi (guarigione o stabilizzazione
della malattia).
In Italia, la LdC è prevista dall’articolo 16 del Codice di Deontologia Medica (CDM)a e può attuarsi in
qualsiasi contesto assistenziale.
Una LdC può avvenire a seguito della decisione
del malato che esprime insindacabilmente il suo dissenso rispetto all’inizio delle cure o che, altrettanto
insindacabilmente, ritira il suo consenso alla loro
prosecuzione, come garantito dall’articolo 32 della
Costituzioneb, dall’articolo 5 della Convenzione Europea sui Diritti Umani e la Biomedicina (Convenzione di Oviedo)c, dall’articolo 35 del CDMd; oppure
per decisione dei medici nel caso di un malato non
più in grado di decidere per sé, quando le cure e/o
i supporti vitali, non contrastando più validamente
il processo di malattia, non sono in grado di modificare una prognosi ormai certamente infausta11. In
quest’ultima situazione i fatti salienti sono: la liceità
morale di evitare inutili sofferenze; l’irreversibilità
del processo del morire scientificamente provata; il
limite sperimentato della cura; l’inutilità della sua
prosecuzione.
La causa della morte in questo caso è, dunque,
la malattia; pertanto, la LdC non viene posta in essere per abbreviare la vita del malato (come nel caso
dell’eutanasia), ma per lasciare che si concluda un
processo di morte causato da una malattia non più
guaribile né stabilizzabile12.
Nel mondo occidentale questo approccio è ormai
condiviso in molti settori dell’attività clinica13, e anche nell’ambito delle cure intensive è stato ormai raggiunto un ampio consenso circa il fatto che non tutti
i malati possono essere salvati e molti devono essere
accompagnati a morire14,15.
In termini giuridici, pur non esistendo in Italia una
legislazione specifica, la LdC trova un robusto corpo
di argomentazioni riguardanti la sua liceità oltre che
nei già citati riferimenti, anche nelle sentenze della
Cassazione e del Consiglio di Stato nei casi Welby e
Englaro16-18.
In ultimo, una recente indagine19 ha evidenziato i
fattori che influenzano le pratiche alla fine della vita
in diversi Paesi (fattori giuridici, geografici, culturali,
gli atteggiamenti di medici e infermieri, malati e famiglie) e ha confermato come le scelte alla fine della vita
a
Art. 16 CDM – Procedure diagnostiche e interventi terapeutici
non proporzionati: Il medico, tenendo conto delle volontà espresse
dal malato o dal suo rappresentante legale e dei principi di efficacia e
di appropriatezza delle cure, non intraprende né insiste in procedure
diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed
eticamente non proporzionati dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento
della qualità della vita. Il controllo efficace del dolore si configura,
in ogni condizione clinica, come trattamento appropriato e proporzionato. Il medico che si astiene da trattamenti non proporzionati
non pone in essere in alcun caso un comportamento finalizzato a
provocare la morte.
b
Costituzione Italiana – Parte I Diritti e doveri dei cittadini – Titolo II Rapporti etico-sociali – Art. 32: La Repubblica tutela la salute
come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere
obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
c
CEDU – Capitolo II: CONSENSO – Art. 5: Un intervento nel
campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la
persona interessata abbia dato consenso libero e informato. La persona riceve un’informazione adeguata sullo scopo e sulla natura
dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona
interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio
consenso.
d
Art. 35 CDM – Consenso e dissenso informato: L’acquisizione
del consenso o del dissenso è un atto di specifica ed esclusiva competenza del medico, non delegabile. Il medico non intraprende né
prosegue in procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici senza
la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza
di dissenso informato. Il medico acquisisce, in forma scritta e sottoscritta o con altre modalità di pari efficacia documentale, il consenso
o il dissenso del malato, nei casi previsti dall’ordinamento e dal Codice e in quelli prevedibilmente gravati da elevato rischio di mortalità
o da esiti che incidano in modo rilevante sull’integrità psico-fisica.
Il medico tiene in adeguata considerazione le opinioni espresse dal
minore in tutti i processi decisionali che lo riguardano.
spondono altrettante scelte compiute con differenti
responsabilità e implicazioni morali da professionisti
sanitari e caregiver.
Di conseguenza, se la riflessione bioetica ha come obiettivo primario quello di fornire strumenti per
prendere decisioni in maniera razionale, autonoma e
responsabile, è necessario prima di tutto fare chiarezza esaminando attentamente tali differenze, per avviare una discussione che non risenta di preclusioni
e preconcetti.
Scopo dell’articolo non è quello di prendere una
posizione a favore o contro la LdC ed E e SA.
Esso intende: 1) offrire un’analisi critica della terminologia e dei concetti sottesi da ciascun termine
per permettere un dialogo fondato sul criterio scientifico della condivisione dei significati; 2) inquadrare, in una prospettiva comparativa, i diversi approcci
giuridici alla LdC ed E e SA nel mondo occidentale; 3)
verificare in quale relazione le tre pratiche si pongono
rispetto alle cure palliative (CP) alla fine della vita.
Per raggiungere questi obiettivi, la letteratura
scientifica è stata assunta come riferimento primario
perché l’approccio clinico al tema della fine della vita
sembra essere quello maggiormente in grado di coglierne gli aspetti salienti grazie al più immediato e
diretto riferimento alla malattia e al contesto umano
e sociale in cui essa si manifesta.
Limitazione delle cure
L. Riccioni et al.: La limitazione dei trattamenti: una forma di eutanasia?
siano spesso collegate all’appartenenza dei professionisti sanitari a un credo religioso20.
Questi risultati sottolineano la necessità di un consenso tra credenti e non credenti, quando vengono
considerate ipotesi di leggi riguardanti le decisioni alla
fine della vita e la LdC.
È interessante a questo proposito citare due documenti finalizzati a offrire alla politica una serie di
riflessioni per affrontare la complessa questione di
una legge sulla fine della vita nel nostro Paese: il più
recente, condiviso da credenti e non credenti, redatto dal Comitato Scientifico del Cortile dei Gentili
(fondazione del Pontificio Consiglio della Cultura)
in collaborazione con la Società Italiana di Anestesia
Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) e la Società Italiana di Cure Palliative (SICP)21,22,
il secondo redatto nel 2012 da giuristi, medici e filosofi23.
Inoltre, onde fugare perplessità correlate ad approcci etici alla LdC improntati alla religione cattolica, va sottolineato che il Catechismo della Chiesa
Cattolicae la ritiene del tutto ammissibile.
Infine, sempre in tema di LdC, è importante ricordare che il senso dell’agire clinico non deve mai
essere tra “fare” o “non fare nulla” ma tra “fare” o
“fare altro”, ossia tra la prosecuzione di trattamenti
sproporzionati e l’inizio di trattamenti che garantiscano invece una presa in carico globale del malato,
finalizzata a migliorare la qualità della parte finale
della sua vita, riducendo la sofferenza psicologica
e fisica, risparmiandogli la solitudine, considerandolo vivo fino alla fine e meritevole di solidarietà e
rispetto come risulta dal contenuto dell’articolo 39
del CDMf.
Così, il tema della LdC introduce quello delle CP.
Le cure palliative
In base alla definizione data dall’OMS24 «le CP consistono in un approccio atto a migliorare la qualità di
vita dei malati affetti da una malattia inguaribile ed
evolutiva e dei loro familiari, prevenendo e alleviando la sofferenza grazie alla precoce identificazione,
alla valutazione accurata e al trattamento del dolore
e dell’insieme dei problemi fisici, psicosociali e spirituali».
e
Catechismo della Chiesa Cattolica – Parte III la vita in Cristo
– Sezione II i dieci comandamenti – Cap. II “amerai il prossimo tuo
come te stesso” – Art. 5: il quinto comandamento: il rispetto della
vita umana. Par. 2278: L’interruzione di procedure mediche onerose,
pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi
può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’“accanimento
terapeutico”. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non
poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal malato, se ne
ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno
legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli
interessi legittimi del malato. Par. 2279: Anche se la morte è considerata imminente, le cure che d’ordinario sono dovute a una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte. L’uso
di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il
rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere conforme alla dignità
Gli obiettivi delle CP sono:
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alleviare il dolore e altri sintomi gravosi;
affermare la vita e considerare la morte come un
processo naturale;
non accelerare né ritardare la morte;
integrare gli aspetti psicologici e spirituali nella
cura del malato;
offrire un sistema di supporto ai malati per vivere
nel modo più attivo possibile fino alla morte;
offrire un sistema di supporto per aiutare la famiglia a far fronte alla malattia e al lutto;
utilizzare un approccio interdisciplinare per rispondere ai bisogni dei malati e delle famiglie;
migliorare la qualità di vita e avere un’influenza
positiva sul decorso della malattia.
Le CP si possono iniziare precocemente nel corso di
una malattia grave, insieme alle terapie aventi uno
scopo curativo e includono le indagini diagnostiche
necessarie per migliorare l’individuazione e il trattamento di complicanze cliniche gravi.
In Italia, la legge n. 38/2010 definisce a sua volta
le CP come «l’insieme degli interventi terapeutici,
diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona
malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla
cura attiva e totale dei malati la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e
da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici»25.
Nel 2013 l’European Association of Palliative Care
(EAPC) ha ripreso la definizione di CP data dall’OMS26.
Come stabilito in un documento redatto dalla SICP nel 201527, è auspicabile che le CP inizino
precocemente nel corso della malattia simultaneamente ai trattamenti attivi, consentendo così l’integrazione dei due approcci nel continuum della cura
del malato.
Le finalità delle CP precoci e simultanee sono:
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la presa in carico globale del malato e della famiglia;
il trattamento di tutti i sintomi somatici, compreso
il dolore, correlati alla malattia;
la valutazione dei bisogni psicologico-relazionali
del malato e dei familiari;
la valutazione del livello di consapevolezza della
prognosi da parte del malato e dei familiari;
umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è
soltanto prevista e tollerata come invitabile. Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo
titolo devono essere incoraggiate.
f
Art. 39 CDM – Assistenza al malato con prognosi infausta o con
definitiva compromissione dello stato di coscienza: Il medico non
abbandona il malato con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza, ma continua ad assisterlo e se in
condizioni terminali impronta la propria opera alla sedazione del
dolore e al sollievo dalle sofferenze tutelando la volontà, la dignità e
la qualità della vita. Il medico, in caso di definitiva compromissione
dello stato di coscienza del malato, prosegue nella terapia del dolore
e nelle cure palliative, attuando trattamenti di sostegno delle funzioni vitali finché ritenuti proporzionati, tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento.
129
130
Recenti Progressi in Medicina, 107 (3), marzo 2016
93,9
Regno Unito
85,8
Irlanda
79,4
77,4
Norvegia
46,6
Australia
80,9
Olanda
52
Regno Unito
82
Francia
63,6
USA
84,5
Belgio
Germania
Austria
44,2
Olanda
42,8
Norvegia
42,6
Canada
40,8
76,1
Irlanda
40,2
Svezia
75,4
Germania
39,7
Austria
74,8
Belgio
39,3
Svizzera
Danimarca
73,5
Nuova Zelanda
Finlandia
73,3
Svezia
71,1
ITALIA
Spagna
23
Polonia
58,7
Polonia
24,3
Svizzera
60,8
Portogallo
25,5
Lituania
63,4
Spagna
32,5
30,9
22,9
Lituania
54
Danimarca
17,5
Repubblica Ceca
51,8
Francia
16,8
ITALIA
12,5
38,2
Ungheria
12,3
37,2
Finlandia
42,7
Ungheria
Turchia
Russia
10,2
Bulgaria
34,8
Kazakistan
5,7
Slovacchia
33,2
Romania
4,4
Grecia
32,9
Slovacchia
4,3
Grecia
30,1
Bulgaria
0
20
3,1
Portogallo
25,5
Ucraina
4,2
Repubblica Ceca
28,3
Romania
40
60
80
100
Figura 1. Quality of Death Index Italia vs resto d’Europa. I Paesi leader hanno le seguenti caratteristiche: (1) una efficiente rete di CP nel
contesto di una politica sanitaria in cui esse sono efficacemente implementate; (2) elevati livelli di spesa pubblica destinata ai servizi sanitari;
(3) ampie risorse educative dedicate all’insegnamento delle CP sia nei
corsi universitari sia in quelli di specializzazione; (4) ampi sussidi per i
pazienti e per i loro familiari finalizzati a ridurre il loro impegno economico; (5) ampia disponibilità di analgesici oppioidi; (6) elevati livelli
di consapevolezza nella popolazione in relazione all’importanza e al
valore delle cure palliative a livello sia clinico sia psicologico e sociale.
Modificato da www.economistinsights.com22
2,9
Russia
1,3
Ucraina
0,9
Kazakistan
0,7
Turchia
0,5
0
20
40
60
80
100
Figura 2. Proxy della capacità di uno Stato di erogare cure palliative
sulla base dei servizi disponibili in rapporto al numero dei decessi/anno.
Modificato da www.economistinsights.com22
In quest’ambito le CP precoci e simultanee garantiscono la continuità di cura attraverso una gestione
flessibile del malato e dei suoi bisogni, sostenendolo e
aiutandolo nelle scelte terapeutiche e nella programmazione del percorso di cura. I palliativisti collaborano con gli specialisti e i medici di medicina generale,
li supportano nel percorso di comunicazione con il
malato e la famiglia, anche al fine di evitare terapie
inappropriate e approcci di ostinazione diagnostica
e terapeutica negli ultimi mesi di vita, in ultimo, accompagnando il malato e la famiglia nell’accettazione
della fase avanzata di malattia al fine di raggiungere la
migliore qualità di vita possibile.
Nonostante la legge n. 38/2010 abbia istituito nel
nostro Paese la rete delle CP, l’edizione 2015 del Qua-
lity of Death Index (QDI)28, ideato e costruito da un
gruppo di ricerca di The Economist (Economist Intelligence Unit - EIU) per misurare la qualità delle CP in 80
Nazionig, informa che, in Europa, l’Italia è al quindicesimo posto su 27 Paesi con un QDI pari a 71,1 (range:
Regno Unito 93,9, Ucraina 25,5), come illustrato nella
figura 1, e che, utilizzando un indice che è un proxy
della capacità di una nazione di erogare CP sulla base
dei servizi disponibili rispetto al numero dei decessi in
un anno, il nostro Paese risulta al diciannovesimo posto su 31 (Europa più USA, Canada, Australia e Nuova
Zelanda) con un indice pari a 12,5, come mostra la
figura 2.
Il rapporto del Ministero della Salute al Parlamento sull’attuazione della legge per l’anno 201429 riporta
che solo il 37% dei malati giunti alla fine della vita a
seguito di una malattia cronico-degenerativa è stato
seguito dalla rete delle CP fino alla morte. Infine, lo
g
Il nuovo QDI (2015) rispetto a quello utilizzato per l’edizione
2010, valuta la qualità delle cure palliative erogate in 80 Paesi. Per costruire il QDI sono stati usati 20 indicatori quantitativi e qualitativi
compresi in cinque categorie finalizzati a esplorare il livello qualitativo delle cure palliative erogate: (1) la qualità del comfort ambientale e
dell’assistenza sanitaria; (2) le risorse umane dedicate; (3) l’accessibilità ai servizi; (4) la qualità delle cure erogate; (5) il livello di informazione e coinvolgimento della comunità rispetto all’esistenza e all’uso
delle cure palliative. Per costruire l’indice l’EIU ha utilizzato i dati ufficiali esistenti per ogni Paese e intervistato esperti di tutto il mondo.
■■
la presenza del team che lo ha in cura nella fase
avanzata e terminale, evitando l’abbandono.
L. Riccioni et al.: La limitazione dei trattamenti: una forma di eutanasia?
studio EURO-SENTIMELC del 2013 testimonia che
nel nostro Paese, negli ultimi 2 mesi di vita, il 90% di
questi malati è trasferita in ospedale mentre solo un
malato su dieci si sposta dal proprio domicilio all’hospice. Il contrario di quanto accade negli altri Stati
europei inclusi nello studio dove, a 60 giorni dalla
morte, più del 30% dei malati è già in hospice, dimostrando un approccio culturale che privilegia la qualità di vita degli ultimi giorni alla mera sopravvivenza30.
La sostanziale confusione tra LdC ed E fa sì che
i medici italiani, pur tenendo conto delle facilitazioni introdotte dalla legge 38/2010, siano al penultimo
posto in Europa nella prescrizione di oppiacei per
il trattamento del dolore terminale per timore degli
eventuali effetti collaterali31.
Al contrario, la somministrazione di analgesici e
sedativi alla fine della vita è ampiamente diffusa in
molti Paesi occidentali32 e non solo non determina la
morte dei malati, ma è addirittura in grado di prolungarne la sopravvivenza33.
L’EAPC definisce questa pratica come “sedazione
palliativa” (SP), ovvero «l’uso monitorizzato di farmaci avente lo scopo di ridurre o abolire la coscienza al
fine di offrire sollievo a una sofferenza intrattabile in
un modo che sia eticamente accettabile per il malato,
la famiglia, i caregiver, i professionisti sanitari»34.
Linee-guida nazionali35 e internazionali36 sono
state redatte al fine di mettere a punto l’uso di questi
farmaci in tale prospettiva terapeutica, e nel gennaio
2016 il Comitato Nazionale di Bioetica si è espresso
favorevolmente in merito alla SP legittimandone eticamente l’uso nella pratica clinica37.
La SP non ha pertanto nulla a che vedere con l’E
e SA, è da considerare di utilità scientificamente provata, affidabile in quanto sicura e, pertanto, universalmente riconosciuta come parte integrante delle
cosiddette “buone pratiche cliniche”38,39.
La tabella 1 mostra sinteticamente le differenze tra
SP ed E e SA.
Eutanasia e suicidio assistito
Secondo i documenti redatti nel 2003 e nel 2015 dalla
task force dell’EAPC40,41, l’E e SA vengono così definiti:
■■
eutanasia: «l’uccisione intenzionale di colui o colei che ne fa volontaria e consapevole richiesta, da
parte di un medico o altra persona competente,
tramite la somministrazione di farmaci».
■■
suicidio assistito: «l’aiuto intenzionale a terminare la propria vita fornito da una persona a un’altra che ne fa volontaria e consapevole richiesta».
Quando l’aiuto al suicidio è offerto da un medico
che fornisce i farmaci necessari si parla di “suicidio medicalmente assistito”.
L’uccisione medicalizzata di una persona senza il
suo consenso, sia essa “non volontaria” (uccisione
di una persona incapace a fornire il consenso e che
non lo ha precedentemente espresso) o “involontaria” (uccisione di una persona che non vuole essere
uccisa) non rientra nella definizione di E: è di fatto
un omicidio. Conseguentemente, l’eutanasia è solo
volontaria42.
Nel dibattito pubblico si suole anche distinguere
tra E “attiva” e “passiva”43-46. Questa distinzione appare ugualmente inappropriata poiché l’E è attiva per
definizione. Ne consegue che “eutanasia passiva” è
un ossimoro che serve solo a creare confusione tra
E e LdC40,41,47. Infatti, non è ammissibile definire “eutanasia” l’interruzione o il non avvio di cure se si è
scientificamente riconosciuto che il processo di morte è ormai irreversibile. In questo caso, infatti, né il
malato ha chiesto ai medici di interrompere la sua
vita né, nelle intenzioni dei medici, vi è la volontà di
determinare la morte del malato.
La tabella 2 riassume le definizioni di LdC ed E e SA.
Ai medici può essere richiesto di prestare la loro
assistenza in caso di E e SA per le loro competenze
cliniche, farmacologiche e per l’accertamento della
morte.
Questo aspetto può tuttavia rappresentare per loro
una sfida rilevante.
L’obiettivo primario del medico è quello di curare
le persone salvaguardando la loro vita, ma se procurare attivamente la morte di un malato che ne fa consapevole richiesta diventa un’altra possibile opzione,
questo potrebbe falsare il rapporto tra quel medico e
gli altri malati.
La medicalizzazione dell’E e SA è stata anche criticata come manifestazione di una trasformazione della medicina da una professione di cura in un business
progettato per garantire servizi in risposta a qualsiasi
domanda assistenziale, e modalità alternative di effettuazione delle due pratiche sono state descritte e
proposte48.
Le fondamentali differenze rilevate confrontando
il “modello non medicalizzato” svizzero con quello
“medicalizzato” dello Stato dell’Oregon consistono
Tabella 1. Differenze tra sedazione palliativa ed eutanasia.
Sedazione palliativa
Eutanasia/suicidio assistito
Obiettivo
Controllo della sofferenza
Morte della persona
Farmaci, dosi, vie di somministrazione
Finalizzati al migliore
controllo dei sintomi
Finalizzati a conseguire rapidamente l’obiettivo
Risultato
Eliminazione del sintomo
Coincide con l’obiettivo
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Recenti Progressi in Medicina, 107 (3), marzo 2016
Tabella 2. Definizioni di limitazione delle cure, eutanasia e suicidio assistito.
Limitazione delle cure
“Sospensione o non avvio di cure e/o supporti vitali che, non contrastando più validamente il
processo di malattia, non sono in grado di modificare una prognosi ormai certamente infausta. La limitazione delle cure può avvenire per decisione autonoma di un malato cosciente o
per decisione dei medici nel caso di un malato non più in grado di decidere per sé”.
Eutanasia
“Uccisione intenzionale di colui o colei che ne fa volontaria e consapevole richiesta, da parte
di un medico o altra persona competente, tramite la somministrazione di farmaci”.
Suicidio assistito
“Aiuto intenzionale a terminare la propria vita fornito da una persona a un’altra che ne fa
volontaria e consapevole richiesta – quando la persona che fornisce l’assistenza è un medico
si parla di suicidio medicalmente assistito”.
Cure palliative
“Insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata
sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di
base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde
più a trattamenti specifici”.
Sedazione palliativa
“Uso monitorizzato di farmaci avente lo scopo di ridurre o abolire la coscienza al fine di
offrire sollievo a una sofferenza intrattabile in un modo che sia eticamente accettabile per il
paziente, la famiglia, i caregiver, gli operatori sanitari”.
nell’abilità clinica dei professionisti sanitari di accertare correttamente lo stato di salute della persona che
opta per il suicidio e nella capacità tgecnica di fornire
l’assistenza49.
Anche se un attento esame condotto in merito in
Olanda e in Belgio, dove E e SA sono depenalizzate,
ha mostrato che le differenze tra i dui modelli sono
meno significative di quanto previsto, sembra che il
coinvolgimento dei medici sia imprescindibile per
accertare i requisiti di malattia che devono essere
soddisfatti per permettere alla persona malata di accedere alle procedure e garantire sia la loro idoneità
sia la correttezza della notifica della prassi50.
D’altra parte, l’E e SA, non sono inclusi negli standard assistenziali offerti dal sistema sanitario di quei
Paesi, quindi i medici non hanno l’obbligo di partecipare alle procedure e i professionisti sanitari che fanno
obiezione devono vedere rispettare le loro opinioni51.
Per quanto attiene ai malati, le richieste di E e SA
hanno origini articolate e composite che includono
fattori inerenti alla malattia, ma anche elementi psicologici, spirituali, sociali, culturali, economici e demografici.
L’E e SA possono non cogliere questa complessità, non riuscendo né a interpretare correttamente il
significato più profondo delle preferenze del malato,
né a intercettare le modifiche nel tempo delle loro
priorità.
Un’indagine riguardante 988 malati terminali
ha evidenziato che il 10,6% aveva seriamente preso
in considerazione l’E e SA, ma che dopo 6 mesi, al
follow-up, il 50,7% di questi malati aveva cambiato
idea, mentre, nello stesso momento, una percentuale
simile aveva invece iniziato a considerare le due opzioni. Tuttavia, solo il 5,6% dei malati deceduti aveva,
alla fine, realmente chiesto al medico l’E e SA52.
Altri studi hanno sottolineato che i fattori più importanti in grado di indirizzare i malati terminali verso l’E e SA sono certamente il dolore e la dispnea ma,
soprattutto, lo stress psicologico (depressione, man-
cata considerazione, timore di raggiungere un grado
di dipendenza dai propri cari tale da diventare un
peso per la famiglia), esprimendo così un profondo
bisogno di un approccio olistico alle cure53-59.
Al contrario, il dolore, anche per minime manovre,
sembra giocare un ruolo rilevante nell’approvazione
della scelta eutanasica o suicidaria dei malati da parte dei caregiver e dei professionisti sanitari. È quindi
evidente un divario tra le ragioni che spingono questi
ultimi a ritenere accettabili l’E e SA per il malato – il
dolore – e quelle che spingono i malati a farne richiesta – la sofferenza psicologica.
Peraltro, nello studio sopra citato, meno del 20%
dei caregiver che hanno ritenuto eticamente corretti
l’E e SA per il malato si è poi dimostrato disposto ad
aiutarlo personalmente a porre fine alla sua vita51.
Questo può riflettere sia il timore di una eventuale
rilevanza penale dell’azione del medico, sia l’incertezza circa la reale possibilità di compiere queste
azioni in maniera affidabile ed efficace. Ma può anche rispecchiare l’incapacità di sopportare il carico
emotivo che l’effettuazione materiale dell’E e SA
comporta60,61.
I sintomi depressivi sono stati poi associati all’instabilità e all’ambivalenza che i malati mostrano nel
tempo riguardo alla scelta di porre fine alla loro vita62,63.
Questa instabilità dovrebbe spingere i medici a
un approccio molto cauto nel valutare le richieste dei
malati, cercando di comprendere se e con quale grado di efficacia la depressione e gli altri sintomi correlabili alla richiesta di E e SA siano trattati. Allo stesso
tempo, proprio questa instabilità delle decisioni del
malato giustifica il periodo di attesa che la legge dello Stato dell’Oregon prevede debba intercorrere tra
la richiesta del malato e la sua accettazione da parte degli organismi deputati ad accoglierla e renderla
operativa. Tale intervallo rappresenta un’importante
garanzia proprio per il malato e per questa ragione in
numerose proposte di legge viene considerato come
irrinunciabile.
L. Riccioni et al.: La limitazione dei trattamenti: una forma di eutanasia?
In ultimo, se da un lato l’auspicabilità di un intervento legislativo per permettere l’E e SA potrebbe
rassicurare alcune persone circa il fatto che non dovranno sopportare sofferenze intollerabili64,65, dall’altro, in altri soggetti potrebbe aggravare la paura di una
eutanasia “non volontaria” o “involontaria”66.
Nel considerare i pro e i contro di una legalizzazione, la rassicurazione dei malati e l’apprensione dei
familiari dovrebbero essere massimamente considerate67.
I malati che richiedono l’E e SA e i loro familiari
dovrebbero essere ascoltati dai curanti (palliativisti,
medici di famiglia, specialisti) con rispetto e attenzione, in un dialogo improntato a una comunicazione aperta ed empatica, mirata a esplorare in maniera
approfondita le esperienze più gravose che hanno
causato la richiesta68.
In Germania, uno studio ha mostrato che i malati
che chiedevano di accelerare la morte erano efficacemente rassicurati dal ricevere approfondite informazioni circa l’abilità e l’esperienza del team dei palliativisti nel controllo del dolore e della sofferenza58.
In questo senso, la SP offre un’opzione rilevante per
numerose condizioni nelle quali i malati possono richiedere E e SA (delirio, dolore, convulsioni, dispnea,
emorragie, ansia, disagio esistenziale).
La prospettiva giuridica
nel mondo occidentale
Per quanto attiene agli interventi legislativi che, in
prospettiva comparata, riguardano la LdC, l’E e SA,
bisogna sottolineare l’esistenza di un rilevante numero di fonti espressamente dedicate alle questioni
relative alla fine della vita in molti Paesi appartenenti
alla tradizione giuridica occidentale, come riportato
sinteticamente e a scopo del tutto orientativo nella
tabella 3.
I contenuti specifici di tali leggi mutano da ordinamento a ordinamento, quanto ai potenziali destinatari (solo residenti nello Stato o anche persone
provenienti dall’estero); quanto alle condizioni cliniche che legittimano l’attivazione delle procedure
previste per legge (malattie terminali con un’aspettativa di vita inferiore a una certa soglia, patologie
croniche gravemente invalidanti, senza prospettiva
di miglioramento o di guarigione, ecc.); quanto, infine, alle modalità di intervento e coinvolgimento del
personale sanitario.
In termini generali, è possibile proporre una classificazione di massima delle leggi sulla fine della vita
che prenda in considerazione la tipologia d’intervento (LdC o E e SA) e le condizioni che lo legittimano
(sostanziali e/o di procedura).
Un primo modello legislativo disciplina il suicidio
medicalmente assistito, realizzato attraverso l’autosomministrazione del farmaco prescritto dal medico:
è prevista la possibilità, per un malato terminale, di
chiedere a un medico la prescrizione di un farmaco
letale al fine di porre termine alla propria esistenza.
Pertanto, il malato terminale è il principale attore della procedura prevista dalla legge e l’utilizzatore finale
del farmaco che può essere assunto anche al di fuori
delle strutture sanitarie.
Questo modello è rappresentato dalle legislazioni
di Stati quali l’Oregon69, lo Stato di Washington70 o la
California71.
Gli atti normativi previsti includono specifici requisiti che il malato deve soddisfare al fine di poter
presentare la richiesta: deve essere adulto, residente
nello Stato, capace di intendere e volere, affetto da
una malattia allo stadio terminale, con un’aspettativa
di vita inferiore a 6 mesi.
Le modalità di presentazione della domanda sono stabilite in modo dettagliato dalla legge: 2 medici
devono certificare la capacità della persona, che deve
essere informata delle alternative terapeutiche disponibili quali le CP. Anche la procedura per la presentazione della richiesta è articolata: la legge californiana
prevede due domande verbali, a distanza di almeno
15 giorni l’una dall’altra e una richiesta scritta al medico curante. La richiesta può essere ritirata in ogni
momento, oppure il malato può decidere di non assumere il farmaco ricevuto.
In un secondo modello d’interventi normativi la
caratteristica principale è rappresentata dalla previsione della non punibilità del professionista che abbia agito nel pieno rispetto delle condizioni e delle
procedure previste, a fronte della richiesta del malato
di porre termine alla propria vita. Questo modello è
previsto dalle legislazioni di Belgio72, Olanda73 e Lussemburgo74. Anche in questo caso, le procedure previste possono essere attivate nel caso in cui il malato
Tabella 3. Stati in cui la limitazione delle cure, l’eutanasia e il suicidio assistito sono regolamentati tramite specifiche leggi.
Limitazione delle cure
Regno Unito, Norvegia, Danimarca, Francia, Spagna, Germania, Repubblica Ceca, Slovacchia,
Ungheria, Austria, Slovenia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Cina, Colombia, USA, Canada, Australia, Nuova Zelanda
Eutanasia
Belgio, Olanda, Lussemburgo, Cina, Colombia
Suicidio assistito
Svezia, Svizzera, Colombia, Oregon, Vermont, Washington, California, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Germania
Stati in cui E e SA sono vietati
e sanzionati penalmente
Italia, Irlanda, Danimarca, Islanda, Croazia, Bosnia, Serbia, Romania, Grecia, Turchia, Israele
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sia mentalmente capace, abbia manifestato in modo
chiaro, consapevole e ripetuto la propria volontà e abbia ricevuto tutte le informazioni mediche e cliniche
sulle alternative disponibili.
Le previsioni di queste leggi non impongono un
requisito tanto stringente quanto quello degli atti
normativi statunitensi: le disposizioni olandese e
belga utilizzano un criterio più ampio, la cui valutazione spetta al medico. È infatti sufficiente che il
malato sia in una condizione clinica di sofferenza fisica o mentale costante e insostenibile che non può
essere lenita.
Ai fini dell’esclusione della responsabilità penale
del medico curante, sono previste rigide procedure
di controllo; per esempio nei Paesi Bassi da parte di
una commissione composta da un numero dispari di
membri fra cui un giurista, un medico e un esperto di
etica e filosofia.
Vi è, infine, un terzo modello: pur in assenza di
una legge specifica in materia, vi sono ordinamenti
nei quali il giudice supremo o costituzionale è intervenuto sull’interpretazione della norma del codice
penale che punisce l’assistenza al suicidio.
In un caso deciso dalla Corte costituzionale colombiana75, i giudici hanno affermato, con riguardo
alla punibilità dell’assistenza al suicidio e dell’omicidio del consenziente che «il diritto fondamentale
a vivere in modo degno implica il diritto a morire
degnamente» e che, per tale ragione, in presenza
di determinate condizioni, è possibile escludere la
responsabilità penale del medico o di un terzo che
aiuta un malato a porre termine alla propria esistenza, conformemente al desiderio da questi espresso.
Più recentemente, la Corte Suprema del Canada
ha sancito l’illegittimità costituzionale delle norme del codice penale che puniscono l’assistenza al
suicidio quando vi sia la richiesta di una persona
adulta, capace, in una situazione di grave e irrimediabile sofferenza76. Tali norme, secondo i giudici
canadesi si porrebbero in contrasto con la disposizione costituzionale che tutela il diritto alla vita,
alla libertà e alla sicurezza della persona, poiché
impedire a un malato di decidere autonomamente sulla fine della propria esistenza imporrebbe un
“duty to live”, in contrasto con il diritto alla vita protetto dalla Costituzione.
In altri casi, come in Inghilterra, il giudice adito
ha invece ritenuto di non rilevare l’illegittimità della
norma che punisce il suicidio assistito, evidenziando
però la necessità di un intervento legislativo del Parlamento77.
Diverso è, invece, l’approccio giuridico ai temi riguardanti il diritto a rifiutare i trattamenti sanitari o a
interrompere le cure già iniziate.
Nella maggior parte degli ordinamenti appartenenti alla tradizione giuridica occidentale, pur in
assenza di una legge specifica in materia, trovano
applicazione le norme che regolano il consenso informato ai trattamenti sanitari e, come nel caso italiano, le disposizioni costituzionali che ricomprendono
entro la tutela del diritto alla salute anche il diritto a
non essere sottoposti a trattamenti sanitari contro la
propria volontà.
In alcuni casi, poi, i principi riguardanti il consenso informato e il diritto al rifiuto sono stati integrati
nel formante legislativo, al fine di fornire un quadro
certo relativamente alla possibilità di interrompere o
rifiutare un trattamento, anche nell’eventualità che
da tale decisione dipenda la vita della persona.
In Francia, il principio della proporzionalità delle
cure anche nelle fasi finali dell’esistenza è espressamente disciplinato dal Code de la Santé Publique,
come modificato dalla “Loi Leonetti” del 2005, che
pone al centro della relazione tra medico e malato
l’autonomia di quest’ultimo78,79. Tale principio ha trovato conferma anche nelle modifiche recentemente
introdotte dalla legge sulla sedazione profonda e sui
diritti dei malati alla fine della vita (legge n. 2016-87).
In altri casi, la necessità di conciliare le istanze
culturali e religiose della società con i progressi della
medicina ha condizionato il processo legislativo: così,
in Israele nel 2005 è stato approvato il “Dying Patient
Act”, mirato a disciplinare il consenso e la possibilità
di interrompere o rifiutare i trattamenti nelle fasi finali della vita.
Scopo primario di questa legge è quello di svolgere
un bilanciamento tra il valore della vita (anche in base al particolare livello di integrazione della religione
nel diritto dello Stato) e il principio di autodeterminazione (autonomia), e di offrire al personale sanitario
un quadro giuridico certo delle possibilità e dei limiti
nelle fasi finali della vita80. Così, la legge israeliana,
pur non consentendo l’interruzione dei supporti vitali già intrapresi, ne permette la sospensione qualora
questi siano ritenuti causa di sofferenze negli ultimi
momenti di vita81.
Limitazione delle cure, eutanasia,
suicidio assistito: quale relazione
con le cure palliative?
Vi è ormai una consolidata evidenza riguardo al livello d’integrazione che deve essere raggiunto tra approccio curativo e palliativo82-88. La figura 3 mostra come, durante la progressione di malattia, l’attenzione
dei malati, dei caregiver e dei professionisti sanitari si
sposti progressivamente dai trattamenti mirati a migliorare la prognosi, alle cure che aiutano a migliorare
il comfort dell’ultima fase della vita, fino a raggiungere il punto in cui i primi si interrompono, per lasciare
pieno campo alle seconde89,90.
Pertanto la LdC può essere considerata come una
tappa di rimodulazione dei trattamenti nel processo
d’integrazione tra approccio curativo e palliativo.
Nella pratica clinica occidentale l’attuale approccio
alla fine della vita si basa su 3 principi fondamentali:
■■
la decisione deve essere condivisa dal medico
e dal malato, se possibile, o dai suoi familiari in
una relazione di cura centrata sul malato e la famiglia91;
L. Riccioni et al.: La limitazione dei trattamenti: una forma di eutanasia?
Figura 3. Modello di integrazione tra
approccio curativo e palliativo nella
progressione di malattia.
Modificato da Guo Q et al.57.
■■
■■
il processo di morte non deve essere caratterizzato
da sofferenza o da trattamenti sproporzionati36;
la LdC ricompresa nella rimodulazione dei trattamenti e la SP sono le procedure ufficialmente ammesse per lenire le sofferenze alla fine della vita e
non devono essere confuse con l’E40,41.
Molto più controverso è il rapporto tra CP ed E e SA.
Giustificare il coinvolgimento dei medici nell’E e
SA è difficile poiché mentre essi sono tutti d’accordo
nel ritenere fondamentale il dovere di proteggere la
vita dei malati, molto più dibattuta appare l’ipotesi di
considerare un obbligo deontologico alleviare le loro
sofferenze concedendogli la morte, ancorché richiesta41. In Olanda, l’etica e la legge ammettono che i medici possano decidere che il loro dovere di onorare la
richiesta di un malato a concludere con l’E e SA le sofferenze di un lungo percorso di malattia prevalga sul
dovere di preservare la sua vita, ed è stato suggerito
che queste pratiche possano essere considerate come
la tappa finale delle CP in un modello definito “cure
palliative integrali”92,93.
Al contrario, la Società Belga di Cure Palliative (Federation of Palliative Care Flanders), confrontandosi
con la legge sull’E e SA, ha affermato che, con riferimento al tema della continuità delle cure, i medici
palliativisti garantiranno fino all’ultimo ai malati tutto
il necessario supporto, e che le CP e l’E e SA devono
rimanere ben distinte94.
Vi sono due fondamentali ragioni a supporto di
quest’ultima posizione. La prima risiede nel fatto che
le CP escludono per definizione l’accelerazione della
morte24, la seconda si rifà alla concezione secondo la
quale le CP, essendo erogate fino alla morte del ma-
lato, non possono essere considerate mai futili, come
invece l’ammissione dell’E e SA indurrebbe implicitamente a ritenere.
Tuttavia, anche se le CP sono garantite con un elevatissimo standard di qualità, questo non impedisce a
singoli malati di optare per l’E e SA95-97.
Il compito dei curanti alla fine della vita – prima di
tutto dei palliativisti – sarà duplice: da un lato ascoltare ed esaminare con attenzione le richieste dei malati
per affrontare nel modo più efficace le sofferenze che
le giustificano aiutandoli a escludere la scelta eutanasica, ma, dall’altro, migliorare costantemente la qualità delle cure erogate contribuendo ad accrescere la
cultura delle CP nelle comunità dei malati e delle loro
famiglie e della società nel suo complesso.
In questo senso la figura 4 permette di constatare
che nel 2015 il Regno Unito, in cui E e SA non sono ammessi, ha conseguito il QDI più elevato (93,9) sulla base di un costante incremento di tutti gli indicatori che
formano le 5 categorie di valutazione (l’Ucraina è stata
inclusa nel grafico per riportare l’altro estremo del range europeo), mentre Olanda e Belgio, che pure hanno
conseguito QDI di rilievo (80,9 e 84,5), e in cui E e SA
sono ammessi, hanno ancora un margine di miglioramento almeno in qualcuna delle 5 categorie. L’Italia
(QDI=71,7), in cui E e SA non sono ammessi ma che
si accinge a iniziare nel marzo di quest’anno la discussione parlamentare di una proposta di legge sull’eutanasia98, mostra ancora carenze significative che richiederebbero una seria valorizzazione e implementazione
della cultura delle CP nell’ambito della politica sanitaria
con supporti culturali, scientifici e finanziari. La figura 4
mostra quindi come la qualità delle CP risulti del tutto
indipendente dalla legittimità o meno dell’E e SA.
135
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Qualità degli ambienti
di cura
100
80
60
40
Sensibilizzazione
della società
Risorse umane
dedicate
20
0
Qualità
delle cure
Accessibilità
Regno Unito
Olanda
ITALIA
Belgio
Ucraina
Figura 4. QDI 2015 basato su 5 categorie di valutazione delle CP.
Sono confrontati i risultati conseguiti da Regno Unito, Italia e Ucraina
in cui E e SA non sono ammessi, e Olanda e Belgio in cui invece lo
sono. È interessante constatare che un elevato livello qualitativo delle
cure alla fine della vita può essere raggiunto indipendentemente dalla
legittimità o meno delle due pratiche.
Modificato da www.economistinsights.com22
Il dibattito europeo
L’EAPC ha affrontato il tema dell’E e SA in un “white paper” redatto nel 2015, definendo una serie di punti rilevanti ai fini della comprensione delle questioni in gioco41.
In Europa si stanno delineando differenti approcci
all’E e SA e un dibattito aperto e rispettoso dovrebbe
essere incoraggiato per offrire un contributo alla definizione delle aree di consenso e dissenso sulla base delle
implicazioni sociali, spirituali, etiche e giuridiche tra i
malati, i caregiver, i professionisti sanitari, la società.
Studi mirati a inquadrare le diverse prospettive
attraverso le quali malati e professionisti affrontano
il tema dell’E e SA e le esperienze già in atto, dovrebbero essere avviati al fine di contribuire al dibattito
con il maggior grado di evidenza possibile. I risultati
degli studi disponibili non sembrano né garantire la
necessaria qualità dell’informazione né l’imprescindibile livello di generalizzazione dei risultati99.
Il ricorso all’E e SA viene spesso giustificato dai
malati con il timore di perdere la propria autonomia
alla fine della vita e di essere sottoposti a trattamenti
atti a prolungarla, con le implicite, immotivate sofferenze. Questo timore può essere ridotto con l’uso delle
direttive anticipate di trattamento (DAT) nel contesto
di una pianificazione anticipata delle cure (PAC), contribuendo a migliorare la comunicazione con i malati
e le famiglie. Purtroppo, non tutti gli Stati europei si
sono dotati di una legislazione che inquadri DAT e
PAC nel contesto degli strumenti necessari per concretizzare l’istituto del consenso/dissenso alle cure.
In qualsiasi Stato l’E e SA fossero legalizzati, una
particolare attenzione dovrebbe essere posta a impedire sia che il valore intrinseco e il pieno sviluppo delle CP
ne possano risentire, sia che possano sorgere conflitti
tra le richieste della legge e i valori morali dei medici.
Di fatto sono molto poche le informazioni disponibili su quanto spesso l’opzione delle CP è offerta ai
malati che richiedono E e SA. In Belgio e in Olanda,
per esempio, il coinvolgimento in un percorso di CP
non è un prerequisito per l’E e SA, sebbene la legislazione belga stabilisca che l’informazione su questa
possibilità debba essere garantita.
In caso di legalizzazione dell’E e SA, speciale attenzione dovrebbe essere posta sulla necessità di non allargare i criteri clinici per includere nuovi gruppi di malati, di garantire che nessuna pressione sia effettuata su
persone vulnerabili, di fare in modo che l’uccisione di
una persona non diventi un fatto passivamente accettato dalla società. Mentre uno studio basato sui tassi di SA
in Oregon e in Olanda non ha mostrato un aumento di
rischio per gruppi vulnerabili di popolazione100, il primo studio effettuato a questo proposito in Svizzera ha
descritto che il SA era associato in modo statisticamente significativo con il sesso femminile, il vivere soli, un
elevato livello culturale e socio-economico101.
Nell’ambito della discussione sull’E e SA si è sottolineato il rischio della “china scivolosa”102. Dati relativi a studi condotti in Olanda e Belgio non sembrano
giustificare questo timore103; ciononostante in Olanda
lo 0,4% di tutte le morti tramite E e SA è avvenuto senza un’esplicita richiesta del malato104; un certo numero di medici ha ammesso di aver iniziato impropriamente una SP con l’intenzione di abbreviare la vita
del malato105; nel 2013 l’eutanasia è stata effettuata su
97 malati con demenza e su 43 con malattia psichiatrica106; in Belgio 25 progetti di legge sono stati presentati per un ampliamento delle categorie di malati
che possono accedere all’E e SA107.
Una recente revisione di 66 casi di SA in pazienti
psichiatrici olandesi ha evidenziato ancora che solo
in 49 di essi la diagnosi era di depressione refrattaria
al trattamento – unica diagnosi psichiatrica ammessa; in 6 casi, infatti, la depressione era accompagnata
o determinata dall’abuso di sostanze stupefacenti, in
4 il quadro prevalente era quello di un decadimento
cognitivo, mentre in 2 casi erano presenti disturbi inscrivibili nello spettro della malattia autistica. La stessa revisione sottolinea poi che nel 52% dei casi erano
presenti disturbi della personalità spesso associati a
forte reattività agli stress ambientali, sollevando serie
perplessità circa l’affidabilità della decisione di queste persone di richiedere il SA. Rilevanti appaiono
ancora la netta prevalenza femminile tra i 66 pazienti
(2,3:1); l’isolamento sociale e la solitudine di questi
pazienti rilevato nel 56% dei casi; la messa in atto del
SA nonostante il parere negativo dello psichiatra era
verificata nel 12% dei casi. Infine, il 27% dei pazienti
è ricorso alle prestazioni di un’istituzione il cui compito è quello di facilitare il SA e in cui non lavorano
psichiatri108,109. Nell’editoriale di accompagnamento a
questa rassegna di casi ci si chiede se una istituzione
L. Riccioni et al.: La limitazione dei trattamenti: una forma di eutanasia?
che ha tale mandato non usi griglie di valutazione più
permissive con soglie più basse e come un medico
che non è psichiatra possa valutare in modo attendibile casi così complessi.
Conclusioni
L’approccio al tema della fine della vita, e in particolare alle questioni relative alla LdC e all’E e SA, non può
essere affrontato solo sulla base di una prospettiva filosofica, teologica, giuridica o, peggio, del semplice senso comune. Per un orientamento corretto, è opportuno
invece partire, con un approccio scientifico, dalla conoscenza del significato dei termini che vengono utilizzati
al fine di rendere ben chiari i concetti che racchiudono,
per poi esplorare le molteplici sfaccettate realtà che costituiscono il mosaico del tema della fine della vita.
Mentre la LdC ha una relazione stretta con le CP,
l’E e SA non trovano tra i medici palliativisti europei
un approccio univoco, poiché il dovere deontologico
di salvaguardare la vita dei malati e quello di alleviargli la sofferenza aiutandoli a morire sono sentiti in
modo contraddittorio. Peraltro, i professionisti considerano le CP come una presa in carico che si protrae
fino al momento della morte, quindi, per definizione
mai futili e, pertanto, in contrasto con l’approccio al
tema della fine della vita che caratterizza l’E e SA. A
supporto di quest’ultima considerazione vi sono evidenze solide che dimostrano come la qualità delle
CP, erogate fino alla fine della vita, si correli a variabili sociali, culturali ed economiche indipendenti dalla
possibilità o meno di ricorrere a E e SA.
L’EAPC rispetta le scelte di E e SA dei malati, ma
sottolinea la necessità che i governi e la società focalizzino l’attenzione sulla tipologia e sulla qualità
delle cure da erogare a una popolazione che, invecchiando sempre più, è anche sempre più soggetta a
malattie degenerative. Per conseguire questo obiettivo non solo è necessario che ogni Stato introduca
le CP nell’ambito dei sistemi sanitari, ma che le supporti concretamente da un punto di vista culturale
con l’appropriata educazione, da un punto di vista
scientifico con la necessaria ricerca e sul piano economico con gli adeguati finanziamenti.
Poter offrire uno standard di CP di qualità elevata è fondamentale per evitare che le persone malate chiedano l’E e SA per porre fine alla sofferenza
causata da un insufficiente controllo del dolore o di
qualsiasi altro sintomo.
La persona che chiede al medico di porre fine alla
propria vita non fa una richiesta, pone una domanda.
La risposta non può essere lasciata alla sola sensibilità personale, deve trovare le sue radici in una consolidata cultura che sia in grado di vincere ogni tipo di
emarginazione, anche quella generata dalla malattia.
I palliativisti possiedono questa cultura e la devono
diffondere in tutti i settori delle professioni sanitarie.
Conflitto di interessi: gli autori dichiarano l’assenza di conflitto di
interessi.
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Indirizzo per la corrispondenza:
Dott. Giuseppe R. Gristina
Gruppo di Studio Bioetica SIAARTI
E-mail: [email protected]
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