06_Rassegna - Riccioni - Recenti Progressi in Medicina
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06_Rassegna - Riccioni - Recenti Progressi in Medicina
Rassegne 127 La limitazione dei trattamenti: una forma di eutanasia? Un approccio scientifico al dibattito sulle decisioni alla fine della vita luigi riccioni1,2, maria teresa busca3, lucia busatta4, luciano orsi5, giuseppe r. gristina2 UO Centro di Rianimazione 1, Ospedale San Camillo-Forlanini, Roma; 2Gruppo di Studio per la Bioetica, Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI); 3 Master in Bioetica e Consulenza in Etica Clinica, Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione, Università di Torino; 4Facoltà di Giurisprudenza, Università di Trento; 5SC Cure Palliative ASST Carlo Poma, Mantova. 1 Pervenuto il 28 gennaio 2016. Accettato senza richiesta di modifiche l’8 febbraio 2016. Forgoing treatments: a kind of euthanasia? A scientific approach to the debate about end of life decisions. SUMMARY. In the last decade an extensive debate on the topic of end of life decisions has developed in western countries, obtaining a worldwide media relevance. Philosophers, theologians, legal experts and doctors, focus their attention on the three thorny issues of the topic: forgoing treatments, euthanasia and assisted suicide. A thorough and respectful discussion on these issues should include all stakeholders – above all palliative care physicians – and should be encouraged in order to understand the views in favor or against the three practices, checking the different moral positions, and analyzing the cultural, social and legal aspects in the background on one hand, and, on the other, their impact on the health care systems. At present, in the fields of communications and politics, the debate related to the topic of these end of life practices is characterized by a confusion of terms and meanings. As an outcome, the term “euthanasia” is misused as a “container” including forgoing treatments, euthanasia and assisted suicide, while palliative sedation is wrongly considered as a procedure to cause death. This confusing approach does not permit to understand the real issues at the stake, keeping the debate at the tabloid level. Conversely, sharing the precise meaning of the words is the only way to provide tools to make rational, autonomous and responsible decisions, allowing individual informed choices in compliance with the principle of autonomy. This article is not aimed to take a moral stand in favor or against forgoing treatments, euthanasia and assisted suicide. Through an analysis based on scientific criteria, the authors firstly review the definitions of these three practices, examining the concepts enclosed in each term; secondly, they offer a glance on the legal approach to end of life issues in western countries; lastly, they investigate the relationship between these practices and palliative care culture in light of the medical societies official statements. The authors chosen to examine the topic of forgoing treatments, euthanasia and assisted suicide from a scientific point of view, because the clinical approach, tak- Recenti Prog Med 2016; 107: 127-139 ing into account the biological context of disease related to the human and social domains, seems to be able to better gather all the aspects of end of life practices, providing useful information to deal with them also in a philosophical or juridical perspective. Introduzione In Europa, e più in generale nel mondo occidentale, la transizione demografica ha determinato un prolungamento della vita media che è però coinciso con un aumento costante delle patologie cronicodegenerative1. D’altra parte, gli sviluppi scientifici e tecnologici hanno permesso all’uomo di agire non solo sulla natura che lo circonda, ma anche sulla sua natura, e la morte è stata trasformata da “evento” naturale in “processo” medicalizzato2. Questi fenomeni hanno contribuito a far emergere, nell’ultimo decennio, un esteso dibattito sul tema della fine della vita cui prendono parte filosofi, teologi delle principali religioni, giuristi e medici, con ampia risonanza offerta dai media3-7. L’attenzione di tutti è focalizzata sulle tre spinose questioni su cui il tema s’incentra: la limitazione delle cure (LdC), l’eutanasia e il suicidio assistito (E e SA) da medici o da altro personale. Peraltro, molti Stati hanno, nel tempo, legiferato in merito a queste pratiche8. Una discussione di tutte le parti interessate su questi temi, ampia, approfondita e rispettosa, dovrebbe essere incoraggiata al fine di comprendere le ragioni, verificare le diverse posizioni morali, le giustificazioni offerte a favore o contro, e analizzare gli aspetti culturali, sociali e giuridici che sono sullo sfondo assieme alle implicazioni che il tema della fine della vita ha per i sistemi sanitari. In Italia il dibattito sulle questioni attinenti alla fine della vita, oscilla tra una radicale ideologizzazione e il silenzio, mentre, in alcuni casi, un artificioso coinvolgimento emotivo, ottenuto attraverso la spettacolarizzazione mediatica della malattia e della morte, ha sostituito la necessaria profondità e complessità della riflessione. Questa situazione si accompagna a una confusione di termini, significati e contenuti, spesso rintracciabile sia nell’ambito dell’informazione sia in quello della politica, per cui espressioni quali LdC ed E e SA vengono tutte ricomprese nella parola-contenitore “eutanasia”. Al contrario, un approccio ragionato, basato cioè sulla condivisione del significato preciso che vogliamo dare alle parole che concordiamo di utilizzare, si dimostra l’unico davvero utile a compiere scelte individuali meditate e consapevoli alla luce del principio di autodeterminazione (autonomia)9. Infatti, quando in ambito scientifico o giuridico si parla di LdC ed E e SA s’intendono concetti del tutto diversi tra loro, che implicano scelte compiute da persone affette da malattie differenti per natura e gravità, cui corri- 128 Recenti Progressi in Medicina, 107 (3), marzo 2016 Per LdC s’intende «l’interruzione o il non avvio di trattamenti diagnostici o terapeutici che risultino eticamente sproporzionati e/o clinicamente inappropriati»10. Sono “eticamente sproporzionati” i trattamenti che per il malato comportano oneri superiori ai benefici attesi. Gli oneri s’intendono come oggettivi, cioè previsti dalla scienza medica – gli effetti collaterali dei trattamenti – o soggettivi, quelli percepiti come tali dal malato. Sono invece “clinicamente inappropriati” i trattamenti che non corrispondono più ai criteri di efficacia non essendo più in grado di modificare positivamente la prognosi (guarigione o stabilizzazione della malattia). In Italia, la LdC è prevista dall’articolo 16 del Codice di Deontologia Medica (CDM)a e può attuarsi in qualsiasi contesto assistenziale. Una LdC può avvenire a seguito della decisione del malato che esprime insindacabilmente il suo dissenso rispetto all’inizio delle cure o che, altrettanto insindacabilmente, ritira il suo consenso alla loro prosecuzione, come garantito dall’articolo 32 della Costituzioneb, dall’articolo 5 della Convenzione Europea sui Diritti Umani e la Biomedicina (Convenzione di Oviedo)c, dall’articolo 35 del CDMd; oppure per decisione dei medici nel caso di un malato non più in grado di decidere per sé, quando le cure e/o i supporti vitali, non contrastando più validamente il processo di malattia, non sono in grado di modificare una prognosi ormai certamente infausta11. In quest’ultima situazione i fatti salienti sono: la liceità morale di evitare inutili sofferenze; l’irreversibilità del processo del morire scientificamente provata; il limite sperimentato della cura; l’inutilità della sua prosecuzione. La causa della morte in questo caso è, dunque, la malattia; pertanto, la LdC non viene posta in essere per abbreviare la vita del malato (come nel caso dell’eutanasia), ma per lasciare che si concluda un processo di morte causato da una malattia non più guaribile né stabilizzabile12. Nel mondo occidentale questo approccio è ormai condiviso in molti settori dell’attività clinica13, e anche nell’ambito delle cure intensive è stato ormai raggiunto un ampio consenso circa il fatto che non tutti i malati possono essere salvati e molti devono essere accompagnati a morire14,15. In termini giuridici, pur non esistendo in Italia una legislazione specifica, la LdC trova un robusto corpo di argomentazioni riguardanti la sua liceità oltre che nei già citati riferimenti, anche nelle sentenze della Cassazione e del Consiglio di Stato nei casi Welby e Englaro16-18. In ultimo, una recente indagine19 ha evidenziato i fattori che influenzano le pratiche alla fine della vita in diversi Paesi (fattori giuridici, geografici, culturali, gli atteggiamenti di medici e infermieri, malati e famiglie) e ha confermato come le scelte alla fine della vita a Art. 16 CDM – Procedure diagnostiche e interventi terapeutici non proporzionati: Il medico, tenendo conto delle volontà espresse dal malato o dal suo rappresentante legale e dei principi di efficacia e di appropriatezza delle cure, non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita. Il controllo efficace del dolore si configura, in ogni condizione clinica, come trattamento appropriato e proporzionato. Il medico che si astiene da trattamenti non proporzionati non pone in essere in alcun caso un comportamento finalizzato a provocare la morte. b Costituzione Italiana – Parte I Diritti e doveri dei cittadini – Titolo II Rapporti etico-sociali – Art. 32: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. c CEDU – Capitolo II: CONSENSO – Art. 5: Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. La persona riceve un’informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso. d Art. 35 CDM – Consenso e dissenso informato: L’acquisizione del consenso o del dissenso è un atto di specifica ed esclusiva competenza del medico, non delegabile. Il medico non intraprende né prosegue in procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza di dissenso informato. Il medico acquisisce, in forma scritta e sottoscritta o con altre modalità di pari efficacia documentale, il consenso o il dissenso del malato, nei casi previsti dall’ordinamento e dal Codice e in quelli prevedibilmente gravati da elevato rischio di mortalità o da esiti che incidano in modo rilevante sull’integrità psico-fisica. Il medico tiene in adeguata considerazione le opinioni espresse dal minore in tutti i processi decisionali che lo riguardano. spondono altrettante scelte compiute con differenti responsabilità e implicazioni morali da professionisti sanitari e caregiver. Di conseguenza, se la riflessione bioetica ha come obiettivo primario quello di fornire strumenti per prendere decisioni in maniera razionale, autonoma e responsabile, è necessario prima di tutto fare chiarezza esaminando attentamente tali differenze, per avviare una discussione che non risenta di preclusioni e preconcetti. Scopo dell’articolo non è quello di prendere una posizione a favore o contro la LdC ed E e SA. Esso intende: 1) offrire un’analisi critica della terminologia e dei concetti sottesi da ciascun termine per permettere un dialogo fondato sul criterio scientifico della condivisione dei significati; 2) inquadrare, in una prospettiva comparativa, i diversi approcci giuridici alla LdC ed E e SA nel mondo occidentale; 3) verificare in quale relazione le tre pratiche si pongono rispetto alle cure palliative (CP) alla fine della vita. Per raggiungere questi obiettivi, la letteratura scientifica è stata assunta come riferimento primario perché l’approccio clinico al tema della fine della vita sembra essere quello maggiormente in grado di coglierne gli aspetti salienti grazie al più immediato e diretto riferimento alla malattia e al contesto umano e sociale in cui essa si manifesta. Limitazione delle cure L. Riccioni et al.: La limitazione dei trattamenti: una forma di eutanasia? siano spesso collegate all’appartenenza dei professionisti sanitari a un credo religioso20. Questi risultati sottolineano la necessità di un consenso tra credenti e non credenti, quando vengono considerate ipotesi di leggi riguardanti le decisioni alla fine della vita e la LdC. È interessante a questo proposito citare due documenti finalizzati a offrire alla politica una serie di riflessioni per affrontare la complessa questione di una legge sulla fine della vita nel nostro Paese: il più recente, condiviso da credenti e non credenti, redatto dal Comitato Scientifico del Cortile dei Gentili (fondazione del Pontificio Consiglio della Cultura) in collaborazione con la Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) e la Società Italiana di Cure Palliative (SICP)21,22, il secondo redatto nel 2012 da giuristi, medici e filosofi23. Inoltre, onde fugare perplessità correlate ad approcci etici alla LdC improntati alla religione cattolica, va sottolineato che il Catechismo della Chiesa Cattolicae la ritiene del tutto ammissibile. Infine, sempre in tema di LdC, è importante ricordare che il senso dell’agire clinico non deve mai essere tra “fare” o “non fare nulla” ma tra “fare” o “fare altro”, ossia tra la prosecuzione di trattamenti sproporzionati e l’inizio di trattamenti che garantiscano invece una presa in carico globale del malato, finalizzata a migliorare la qualità della parte finale della sua vita, riducendo la sofferenza psicologica e fisica, risparmiandogli la solitudine, considerandolo vivo fino alla fine e meritevole di solidarietà e rispetto come risulta dal contenuto dell’articolo 39 del CDMf. Così, il tema della LdC introduce quello delle CP. Le cure palliative In base alla definizione data dall’OMS24 «le CP consistono in un approccio atto a migliorare la qualità di vita dei malati affetti da una malattia inguaribile ed evolutiva e dei loro familiari, prevenendo e alleviando la sofferenza grazie alla precoce identificazione, alla valutazione accurata e al trattamento del dolore e dell’insieme dei problemi fisici, psicosociali e spirituali». e Catechismo della Chiesa Cattolica – Parte III la vita in Cristo – Sezione II i dieci comandamenti – Cap. II “amerai il prossimo tuo come te stesso” – Art. 5: il quinto comandamento: il rispetto della vita umana. Par. 2278: L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’“accanimento terapeutico”. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal malato, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del malato. Par. 2279: Anche se la morte è considerata imminente, le cure che d’ordinario sono dovute a una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte. L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere conforme alla dignità Gli obiettivi delle CP sono: ■■ ■■ ■■ ■■ ■■ ■■ ■■ ■■ alleviare il dolore e altri sintomi gravosi; affermare la vita e considerare la morte come un processo naturale; non accelerare né ritardare la morte; integrare gli aspetti psicologici e spirituali nella cura del malato; offrire un sistema di supporto ai malati per vivere nel modo più attivo possibile fino alla morte; offrire un sistema di supporto per aiutare la famiglia a far fronte alla malattia e al lutto; utilizzare un approccio interdisciplinare per rispondere ai bisogni dei malati e delle famiglie; migliorare la qualità di vita e avere un’influenza positiva sul decorso della malattia. Le CP si possono iniziare precocemente nel corso di una malattia grave, insieme alle terapie aventi uno scopo curativo e includono le indagini diagnostiche necessarie per migliorare l’individuazione e il trattamento di complicanze cliniche gravi. In Italia, la legge n. 38/2010 definisce a sua volta le CP come «l’insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei malati la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici»25. Nel 2013 l’European Association of Palliative Care (EAPC) ha ripreso la definizione di CP data dall’OMS26. Come stabilito in un documento redatto dalla SICP nel 201527, è auspicabile che le CP inizino precocemente nel corso della malattia simultaneamente ai trattamenti attivi, consentendo così l’integrazione dei due approcci nel continuum della cura del malato. Le finalità delle CP precoci e simultanee sono: ■■ ■■ ■■ ■■ la presa in carico globale del malato e della famiglia; il trattamento di tutti i sintomi somatici, compreso il dolore, correlati alla malattia; la valutazione dei bisogni psicologico-relazionali del malato e dei familiari; la valutazione del livello di consapevolezza della prognosi da parte del malato e dei familiari; umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come invitabile. Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate. f Art. 39 CDM – Assistenza al malato con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza: Il medico non abbandona il malato con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza, ma continua ad assisterlo e se in condizioni terminali impronta la propria opera alla sedazione del dolore e al sollievo dalle sofferenze tutelando la volontà, la dignità e la qualità della vita. Il medico, in caso di definitiva compromissione dello stato di coscienza del malato, prosegue nella terapia del dolore e nelle cure palliative, attuando trattamenti di sostegno delle funzioni vitali finché ritenuti proporzionati, tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento. 129 130 Recenti Progressi in Medicina, 107 (3), marzo 2016 93,9 Regno Unito 85,8 Irlanda 79,4 77,4 Norvegia 46,6 Australia 80,9 Olanda 52 Regno Unito 82 Francia 63,6 USA 84,5 Belgio Germania Austria 44,2 Olanda 42,8 Norvegia 42,6 Canada 40,8 76,1 Irlanda 40,2 Svezia 75,4 Germania 39,7 Austria 74,8 Belgio 39,3 Svizzera Danimarca 73,5 Nuova Zelanda Finlandia 73,3 Svezia 71,1 ITALIA Spagna 23 Polonia 58,7 Polonia 24,3 Svizzera 60,8 Portogallo 25,5 Lituania 63,4 Spagna 32,5 30,9 22,9 Lituania 54 Danimarca 17,5 Repubblica Ceca 51,8 Francia 16,8 ITALIA 12,5 38,2 Ungheria 12,3 37,2 Finlandia 42,7 Ungheria Turchia Russia 10,2 Bulgaria 34,8 Kazakistan 5,7 Slovacchia 33,2 Romania 4,4 Grecia 32,9 Slovacchia 4,3 Grecia 30,1 Bulgaria 0 20 3,1 Portogallo 25,5 Ucraina 4,2 Repubblica Ceca 28,3 Romania 40 60 80 100 Figura 1. Quality of Death Index Italia vs resto d’Europa. I Paesi leader hanno le seguenti caratteristiche: (1) una efficiente rete di CP nel contesto di una politica sanitaria in cui esse sono efficacemente implementate; (2) elevati livelli di spesa pubblica destinata ai servizi sanitari; (3) ampie risorse educative dedicate all’insegnamento delle CP sia nei corsi universitari sia in quelli di specializzazione; (4) ampi sussidi per i pazienti e per i loro familiari finalizzati a ridurre il loro impegno economico; (5) ampia disponibilità di analgesici oppioidi; (6) elevati livelli di consapevolezza nella popolazione in relazione all’importanza e al valore delle cure palliative a livello sia clinico sia psicologico e sociale. Modificato da www.economistinsights.com22 2,9 Russia 1,3 Ucraina 0,9 Kazakistan 0,7 Turchia 0,5 0 20 40 60 80 100 Figura 2. Proxy della capacità di uno Stato di erogare cure palliative sulla base dei servizi disponibili in rapporto al numero dei decessi/anno. Modificato da www.economistinsights.com22 In quest’ambito le CP precoci e simultanee garantiscono la continuità di cura attraverso una gestione flessibile del malato e dei suoi bisogni, sostenendolo e aiutandolo nelle scelte terapeutiche e nella programmazione del percorso di cura. I palliativisti collaborano con gli specialisti e i medici di medicina generale, li supportano nel percorso di comunicazione con il malato e la famiglia, anche al fine di evitare terapie inappropriate e approcci di ostinazione diagnostica e terapeutica negli ultimi mesi di vita, in ultimo, accompagnando il malato e la famiglia nell’accettazione della fase avanzata di malattia al fine di raggiungere la migliore qualità di vita possibile. Nonostante la legge n. 38/2010 abbia istituito nel nostro Paese la rete delle CP, l’edizione 2015 del Qua- lity of Death Index (QDI)28, ideato e costruito da un gruppo di ricerca di The Economist (Economist Intelligence Unit - EIU) per misurare la qualità delle CP in 80 Nazionig, informa che, in Europa, l’Italia è al quindicesimo posto su 27 Paesi con un QDI pari a 71,1 (range: Regno Unito 93,9, Ucraina 25,5), come illustrato nella figura 1, e che, utilizzando un indice che è un proxy della capacità di una nazione di erogare CP sulla base dei servizi disponibili rispetto al numero dei decessi in un anno, il nostro Paese risulta al diciannovesimo posto su 31 (Europa più USA, Canada, Australia e Nuova Zelanda) con un indice pari a 12,5, come mostra la figura 2. Il rapporto del Ministero della Salute al Parlamento sull’attuazione della legge per l’anno 201429 riporta che solo il 37% dei malati giunti alla fine della vita a seguito di una malattia cronico-degenerativa è stato seguito dalla rete delle CP fino alla morte. Infine, lo g Il nuovo QDI (2015) rispetto a quello utilizzato per l’edizione 2010, valuta la qualità delle cure palliative erogate in 80 Paesi. Per costruire il QDI sono stati usati 20 indicatori quantitativi e qualitativi compresi in cinque categorie finalizzati a esplorare il livello qualitativo delle cure palliative erogate: (1) la qualità del comfort ambientale e dell’assistenza sanitaria; (2) le risorse umane dedicate; (3) l’accessibilità ai servizi; (4) la qualità delle cure erogate; (5) il livello di informazione e coinvolgimento della comunità rispetto all’esistenza e all’uso delle cure palliative. Per costruire l’indice l’EIU ha utilizzato i dati ufficiali esistenti per ogni Paese e intervistato esperti di tutto il mondo. ■■ la presenza del team che lo ha in cura nella fase avanzata e terminale, evitando l’abbandono. L. Riccioni et al.: La limitazione dei trattamenti: una forma di eutanasia? studio EURO-SENTIMELC del 2013 testimonia che nel nostro Paese, negli ultimi 2 mesi di vita, il 90% di questi malati è trasferita in ospedale mentre solo un malato su dieci si sposta dal proprio domicilio all’hospice. Il contrario di quanto accade negli altri Stati europei inclusi nello studio dove, a 60 giorni dalla morte, più del 30% dei malati è già in hospice, dimostrando un approccio culturale che privilegia la qualità di vita degli ultimi giorni alla mera sopravvivenza30. La sostanziale confusione tra LdC ed E fa sì che i medici italiani, pur tenendo conto delle facilitazioni introdotte dalla legge 38/2010, siano al penultimo posto in Europa nella prescrizione di oppiacei per il trattamento del dolore terminale per timore degli eventuali effetti collaterali31. Al contrario, la somministrazione di analgesici e sedativi alla fine della vita è ampiamente diffusa in molti Paesi occidentali32 e non solo non determina la morte dei malati, ma è addirittura in grado di prolungarne la sopravvivenza33. L’EAPC definisce questa pratica come “sedazione palliativa” (SP), ovvero «l’uso monitorizzato di farmaci avente lo scopo di ridurre o abolire la coscienza al fine di offrire sollievo a una sofferenza intrattabile in un modo che sia eticamente accettabile per il malato, la famiglia, i caregiver, i professionisti sanitari»34. Linee-guida nazionali35 e internazionali36 sono state redatte al fine di mettere a punto l’uso di questi farmaci in tale prospettiva terapeutica, e nel gennaio 2016 il Comitato Nazionale di Bioetica si è espresso favorevolmente in merito alla SP legittimandone eticamente l’uso nella pratica clinica37. La SP non ha pertanto nulla a che vedere con l’E e SA, è da considerare di utilità scientificamente provata, affidabile in quanto sicura e, pertanto, universalmente riconosciuta come parte integrante delle cosiddette “buone pratiche cliniche”38,39. La tabella 1 mostra sinteticamente le differenze tra SP ed E e SA. Eutanasia e suicidio assistito Secondo i documenti redatti nel 2003 e nel 2015 dalla task force dell’EAPC40,41, l’E e SA vengono così definiti: ■■ eutanasia: «l’uccisione intenzionale di colui o colei che ne fa volontaria e consapevole richiesta, da parte di un medico o altra persona competente, tramite la somministrazione di farmaci». ■■ suicidio assistito: «l’aiuto intenzionale a terminare la propria vita fornito da una persona a un’altra che ne fa volontaria e consapevole richiesta». Quando l’aiuto al suicidio è offerto da un medico che fornisce i farmaci necessari si parla di “suicidio medicalmente assistito”. L’uccisione medicalizzata di una persona senza il suo consenso, sia essa “non volontaria” (uccisione di una persona incapace a fornire il consenso e che non lo ha precedentemente espresso) o “involontaria” (uccisione di una persona che non vuole essere uccisa) non rientra nella definizione di E: è di fatto un omicidio. Conseguentemente, l’eutanasia è solo volontaria42. Nel dibattito pubblico si suole anche distinguere tra E “attiva” e “passiva”43-46. Questa distinzione appare ugualmente inappropriata poiché l’E è attiva per definizione. Ne consegue che “eutanasia passiva” è un ossimoro che serve solo a creare confusione tra E e LdC40,41,47. Infatti, non è ammissibile definire “eutanasia” l’interruzione o il non avvio di cure se si è scientificamente riconosciuto che il processo di morte è ormai irreversibile. In questo caso, infatti, né il malato ha chiesto ai medici di interrompere la sua vita né, nelle intenzioni dei medici, vi è la volontà di determinare la morte del malato. La tabella 2 riassume le definizioni di LdC ed E e SA. Ai medici può essere richiesto di prestare la loro assistenza in caso di E e SA per le loro competenze cliniche, farmacologiche e per l’accertamento della morte. Questo aspetto può tuttavia rappresentare per loro una sfida rilevante. L’obiettivo primario del medico è quello di curare le persone salvaguardando la loro vita, ma se procurare attivamente la morte di un malato che ne fa consapevole richiesta diventa un’altra possibile opzione, questo potrebbe falsare il rapporto tra quel medico e gli altri malati. La medicalizzazione dell’E e SA è stata anche criticata come manifestazione di una trasformazione della medicina da una professione di cura in un business progettato per garantire servizi in risposta a qualsiasi domanda assistenziale, e modalità alternative di effettuazione delle due pratiche sono state descritte e proposte48. Le fondamentali differenze rilevate confrontando il “modello non medicalizzato” svizzero con quello “medicalizzato” dello Stato dell’Oregon consistono Tabella 1. Differenze tra sedazione palliativa ed eutanasia. Sedazione palliativa Eutanasia/suicidio assistito Obiettivo Controllo della sofferenza Morte della persona Farmaci, dosi, vie di somministrazione Finalizzati al migliore controllo dei sintomi Finalizzati a conseguire rapidamente l’obiettivo Risultato Eliminazione del sintomo Coincide con l’obiettivo 131 132 Recenti Progressi in Medicina, 107 (3), marzo 2016 Tabella 2. Definizioni di limitazione delle cure, eutanasia e suicidio assistito. Limitazione delle cure “Sospensione o non avvio di cure e/o supporti vitali che, non contrastando più validamente il processo di malattia, non sono in grado di modificare una prognosi ormai certamente infausta. La limitazione delle cure può avvenire per decisione autonoma di un malato cosciente o per decisione dei medici nel caso di un malato non più in grado di decidere per sé”. Eutanasia “Uccisione intenzionale di colui o colei che ne fa volontaria e consapevole richiesta, da parte di un medico o altra persona competente, tramite la somministrazione di farmaci”. Suicidio assistito “Aiuto intenzionale a terminare la propria vita fornito da una persona a un’altra che ne fa volontaria e consapevole richiesta – quando la persona che fornisce l’assistenza è un medico si parla di suicidio medicalmente assistito”. Cure palliative “Insieme degli interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata sia al suo nucleo familiare, finalizzati alla cura attiva e totale dei pazienti la cui malattia di base, caratterizzata da un’inarrestabile evoluzione e da una prognosi infausta, non risponde più a trattamenti specifici”. Sedazione palliativa “Uso monitorizzato di farmaci avente lo scopo di ridurre o abolire la coscienza al fine di offrire sollievo a una sofferenza intrattabile in un modo che sia eticamente accettabile per il paziente, la famiglia, i caregiver, gli operatori sanitari”. nell’abilità clinica dei professionisti sanitari di accertare correttamente lo stato di salute della persona che opta per il suicidio e nella capacità tgecnica di fornire l’assistenza49. Anche se un attento esame condotto in merito in Olanda e in Belgio, dove E e SA sono depenalizzate, ha mostrato che le differenze tra i dui modelli sono meno significative di quanto previsto, sembra che il coinvolgimento dei medici sia imprescindibile per accertare i requisiti di malattia che devono essere soddisfatti per permettere alla persona malata di accedere alle procedure e garantire sia la loro idoneità sia la correttezza della notifica della prassi50. D’altra parte, l’E e SA, non sono inclusi negli standard assistenziali offerti dal sistema sanitario di quei Paesi, quindi i medici non hanno l’obbligo di partecipare alle procedure e i professionisti sanitari che fanno obiezione devono vedere rispettare le loro opinioni51. Per quanto attiene ai malati, le richieste di E e SA hanno origini articolate e composite che includono fattori inerenti alla malattia, ma anche elementi psicologici, spirituali, sociali, culturali, economici e demografici. L’E e SA possono non cogliere questa complessità, non riuscendo né a interpretare correttamente il significato più profondo delle preferenze del malato, né a intercettare le modifiche nel tempo delle loro priorità. Un’indagine riguardante 988 malati terminali ha evidenziato che il 10,6% aveva seriamente preso in considerazione l’E e SA, ma che dopo 6 mesi, al follow-up, il 50,7% di questi malati aveva cambiato idea, mentre, nello stesso momento, una percentuale simile aveva invece iniziato a considerare le due opzioni. Tuttavia, solo il 5,6% dei malati deceduti aveva, alla fine, realmente chiesto al medico l’E e SA52. Altri studi hanno sottolineato che i fattori più importanti in grado di indirizzare i malati terminali verso l’E e SA sono certamente il dolore e la dispnea ma, soprattutto, lo stress psicologico (depressione, man- cata considerazione, timore di raggiungere un grado di dipendenza dai propri cari tale da diventare un peso per la famiglia), esprimendo così un profondo bisogno di un approccio olistico alle cure53-59. Al contrario, il dolore, anche per minime manovre, sembra giocare un ruolo rilevante nell’approvazione della scelta eutanasica o suicidaria dei malati da parte dei caregiver e dei professionisti sanitari. È quindi evidente un divario tra le ragioni che spingono questi ultimi a ritenere accettabili l’E e SA per il malato – il dolore – e quelle che spingono i malati a farne richiesta – la sofferenza psicologica. Peraltro, nello studio sopra citato, meno del 20% dei caregiver che hanno ritenuto eticamente corretti l’E e SA per il malato si è poi dimostrato disposto ad aiutarlo personalmente a porre fine alla sua vita51. Questo può riflettere sia il timore di una eventuale rilevanza penale dell’azione del medico, sia l’incertezza circa la reale possibilità di compiere queste azioni in maniera affidabile ed efficace. Ma può anche rispecchiare l’incapacità di sopportare il carico emotivo che l’effettuazione materiale dell’E e SA comporta60,61. I sintomi depressivi sono stati poi associati all’instabilità e all’ambivalenza che i malati mostrano nel tempo riguardo alla scelta di porre fine alla loro vita62,63. Questa instabilità dovrebbe spingere i medici a un approccio molto cauto nel valutare le richieste dei malati, cercando di comprendere se e con quale grado di efficacia la depressione e gli altri sintomi correlabili alla richiesta di E e SA siano trattati. Allo stesso tempo, proprio questa instabilità delle decisioni del malato giustifica il periodo di attesa che la legge dello Stato dell’Oregon prevede debba intercorrere tra la richiesta del malato e la sua accettazione da parte degli organismi deputati ad accoglierla e renderla operativa. Tale intervallo rappresenta un’importante garanzia proprio per il malato e per questa ragione in numerose proposte di legge viene considerato come irrinunciabile. L. Riccioni et al.: La limitazione dei trattamenti: una forma di eutanasia? In ultimo, se da un lato l’auspicabilità di un intervento legislativo per permettere l’E e SA potrebbe rassicurare alcune persone circa il fatto che non dovranno sopportare sofferenze intollerabili64,65, dall’altro, in altri soggetti potrebbe aggravare la paura di una eutanasia “non volontaria” o “involontaria”66. Nel considerare i pro e i contro di una legalizzazione, la rassicurazione dei malati e l’apprensione dei familiari dovrebbero essere massimamente considerate67. I malati che richiedono l’E e SA e i loro familiari dovrebbero essere ascoltati dai curanti (palliativisti, medici di famiglia, specialisti) con rispetto e attenzione, in un dialogo improntato a una comunicazione aperta ed empatica, mirata a esplorare in maniera approfondita le esperienze più gravose che hanno causato la richiesta68. In Germania, uno studio ha mostrato che i malati che chiedevano di accelerare la morte erano efficacemente rassicurati dal ricevere approfondite informazioni circa l’abilità e l’esperienza del team dei palliativisti nel controllo del dolore e della sofferenza58. In questo senso, la SP offre un’opzione rilevante per numerose condizioni nelle quali i malati possono richiedere E e SA (delirio, dolore, convulsioni, dispnea, emorragie, ansia, disagio esistenziale). La prospettiva giuridica nel mondo occidentale Per quanto attiene agli interventi legislativi che, in prospettiva comparata, riguardano la LdC, l’E e SA, bisogna sottolineare l’esistenza di un rilevante numero di fonti espressamente dedicate alle questioni relative alla fine della vita in molti Paesi appartenenti alla tradizione giuridica occidentale, come riportato sinteticamente e a scopo del tutto orientativo nella tabella 3. I contenuti specifici di tali leggi mutano da ordinamento a ordinamento, quanto ai potenziali destinatari (solo residenti nello Stato o anche persone provenienti dall’estero); quanto alle condizioni cliniche che legittimano l’attivazione delle procedure previste per legge (malattie terminali con un’aspettativa di vita inferiore a una certa soglia, patologie croniche gravemente invalidanti, senza prospettiva di miglioramento o di guarigione, ecc.); quanto, infine, alle modalità di intervento e coinvolgimento del personale sanitario. In termini generali, è possibile proporre una classificazione di massima delle leggi sulla fine della vita che prenda in considerazione la tipologia d’intervento (LdC o E e SA) e le condizioni che lo legittimano (sostanziali e/o di procedura). Un primo modello legislativo disciplina il suicidio medicalmente assistito, realizzato attraverso l’autosomministrazione del farmaco prescritto dal medico: è prevista la possibilità, per un malato terminale, di chiedere a un medico la prescrizione di un farmaco letale al fine di porre termine alla propria esistenza. Pertanto, il malato terminale è il principale attore della procedura prevista dalla legge e l’utilizzatore finale del farmaco che può essere assunto anche al di fuori delle strutture sanitarie. Questo modello è rappresentato dalle legislazioni di Stati quali l’Oregon69, lo Stato di Washington70 o la California71. Gli atti normativi previsti includono specifici requisiti che il malato deve soddisfare al fine di poter presentare la richiesta: deve essere adulto, residente nello Stato, capace di intendere e volere, affetto da una malattia allo stadio terminale, con un’aspettativa di vita inferiore a 6 mesi. Le modalità di presentazione della domanda sono stabilite in modo dettagliato dalla legge: 2 medici devono certificare la capacità della persona, che deve essere informata delle alternative terapeutiche disponibili quali le CP. Anche la procedura per la presentazione della richiesta è articolata: la legge californiana prevede due domande verbali, a distanza di almeno 15 giorni l’una dall’altra e una richiesta scritta al medico curante. La richiesta può essere ritirata in ogni momento, oppure il malato può decidere di non assumere il farmaco ricevuto. In un secondo modello d’interventi normativi la caratteristica principale è rappresentata dalla previsione della non punibilità del professionista che abbia agito nel pieno rispetto delle condizioni e delle procedure previste, a fronte della richiesta del malato di porre termine alla propria vita. Questo modello è previsto dalle legislazioni di Belgio72, Olanda73 e Lussemburgo74. Anche in questo caso, le procedure previste possono essere attivate nel caso in cui il malato Tabella 3. Stati in cui la limitazione delle cure, l’eutanasia e il suicidio assistito sono regolamentati tramite specifiche leggi. Limitazione delle cure Regno Unito, Norvegia, Danimarca, Francia, Spagna, Germania, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Austria, Slovenia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Cina, Colombia, USA, Canada, Australia, Nuova Zelanda Eutanasia Belgio, Olanda, Lussemburgo, Cina, Colombia Suicidio assistito Svezia, Svizzera, Colombia, Oregon, Vermont, Washington, California, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Germania Stati in cui E e SA sono vietati e sanzionati penalmente Italia, Irlanda, Danimarca, Islanda, Croazia, Bosnia, Serbia, Romania, Grecia, Turchia, Israele 133 134 Recenti Progressi in Medicina, 107 (3), marzo 2016 sia mentalmente capace, abbia manifestato in modo chiaro, consapevole e ripetuto la propria volontà e abbia ricevuto tutte le informazioni mediche e cliniche sulle alternative disponibili. Le previsioni di queste leggi non impongono un requisito tanto stringente quanto quello degli atti normativi statunitensi: le disposizioni olandese e belga utilizzano un criterio più ampio, la cui valutazione spetta al medico. È infatti sufficiente che il malato sia in una condizione clinica di sofferenza fisica o mentale costante e insostenibile che non può essere lenita. Ai fini dell’esclusione della responsabilità penale del medico curante, sono previste rigide procedure di controllo; per esempio nei Paesi Bassi da parte di una commissione composta da un numero dispari di membri fra cui un giurista, un medico e un esperto di etica e filosofia. Vi è, infine, un terzo modello: pur in assenza di una legge specifica in materia, vi sono ordinamenti nei quali il giudice supremo o costituzionale è intervenuto sull’interpretazione della norma del codice penale che punisce l’assistenza al suicidio. In un caso deciso dalla Corte costituzionale colombiana75, i giudici hanno affermato, con riguardo alla punibilità dell’assistenza al suicidio e dell’omicidio del consenziente che «il diritto fondamentale a vivere in modo degno implica il diritto a morire degnamente» e che, per tale ragione, in presenza di determinate condizioni, è possibile escludere la responsabilità penale del medico o di un terzo che aiuta un malato a porre termine alla propria esistenza, conformemente al desiderio da questi espresso. Più recentemente, la Corte Suprema del Canada ha sancito l’illegittimità costituzionale delle norme del codice penale che puniscono l’assistenza al suicidio quando vi sia la richiesta di una persona adulta, capace, in una situazione di grave e irrimediabile sofferenza76. Tali norme, secondo i giudici canadesi si porrebbero in contrasto con la disposizione costituzionale che tutela il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della persona, poiché impedire a un malato di decidere autonomamente sulla fine della propria esistenza imporrebbe un “duty to live”, in contrasto con il diritto alla vita protetto dalla Costituzione. In altri casi, come in Inghilterra, il giudice adito ha invece ritenuto di non rilevare l’illegittimità della norma che punisce il suicidio assistito, evidenziando però la necessità di un intervento legislativo del Parlamento77. Diverso è, invece, l’approccio giuridico ai temi riguardanti il diritto a rifiutare i trattamenti sanitari o a interrompere le cure già iniziate. Nella maggior parte degli ordinamenti appartenenti alla tradizione giuridica occidentale, pur in assenza di una legge specifica in materia, trovano applicazione le norme che regolano il consenso informato ai trattamenti sanitari e, come nel caso italiano, le disposizioni costituzionali che ricomprendono entro la tutela del diritto alla salute anche il diritto a non essere sottoposti a trattamenti sanitari contro la propria volontà. In alcuni casi, poi, i principi riguardanti il consenso informato e il diritto al rifiuto sono stati integrati nel formante legislativo, al fine di fornire un quadro certo relativamente alla possibilità di interrompere o rifiutare un trattamento, anche nell’eventualità che da tale decisione dipenda la vita della persona. In Francia, il principio della proporzionalità delle cure anche nelle fasi finali dell’esistenza è espressamente disciplinato dal Code de la Santé Publique, come modificato dalla “Loi Leonetti” del 2005, che pone al centro della relazione tra medico e malato l’autonomia di quest’ultimo78,79. Tale principio ha trovato conferma anche nelle modifiche recentemente introdotte dalla legge sulla sedazione profonda e sui diritti dei malati alla fine della vita (legge n. 2016-87). In altri casi, la necessità di conciliare le istanze culturali e religiose della società con i progressi della medicina ha condizionato il processo legislativo: così, in Israele nel 2005 è stato approvato il “Dying Patient Act”, mirato a disciplinare il consenso e la possibilità di interrompere o rifiutare i trattamenti nelle fasi finali della vita. Scopo primario di questa legge è quello di svolgere un bilanciamento tra il valore della vita (anche in base al particolare livello di integrazione della religione nel diritto dello Stato) e il principio di autodeterminazione (autonomia), e di offrire al personale sanitario un quadro giuridico certo delle possibilità e dei limiti nelle fasi finali della vita80. Così, la legge israeliana, pur non consentendo l’interruzione dei supporti vitali già intrapresi, ne permette la sospensione qualora questi siano ritenuti causa di sofferenze negli ultimi momenti di vita81. Limitazione delle cure, eutanasia, suicidio assistito: quale relazione con le cure palliative? Vi è ormai una consolidata evidenza riguardo al livello d’integrazione che deve essere raggiunto tra approccio curativo e palliativo82-88. La figura 3 mostra come, durante la progressione di malattia, l’attenzione dei malati, dei caregiver e dei professionisti sanitari si sposti progressivamente dai trattamenti mirati a migliorare la prognosi, alle cure che aiutano a migliorare il comfort dell’ultima fase della vita, fino a raggiungere il punto in cui i primi si interrompono, per lasciare pieno campo alle seconde89,90. Pertanto la LdC può essere considerata come una tappa di rimodulazione dei trattamenti nel processo d’integrazione tra approccio curativo e palliativo. Nella pratica clinica occidentale l’attuale approccio alla fine della vita si basa su 3 principi fondamentali: ■■ la decisione deve essere condivisa dal medico e dal malato, se possibile, o dai suoi familiari in una relazione di cura centrata sul malato e la famiglia91; L. Riccioni et al.: La limitazione dei trattamenti: una forma di eutanasia? Figura 3. Modello di integrazione tra approccio curativo e palliativo nella progressione di malattia. Modificato da Guo Q et al.57. ■■ ■■ il processo di morte non deve essere caratterizzato da sofferenza o da trattamenti sproporzionati36; la LdC ricompresa nella rimodulazione dei trattamenti e la SP sono le procedure ufficialmente ammesse per lenire le sofferenze alla fine della vita e non devono essere confuse con l’E40,41. Molto più controverso è il rapporto tra CP ed E e SA. Giustificare il coinvolgimento dei medici nell’E e SA è difficile poiché mentre essi sono tutti d’accordo nel ritenere fondamentale il dovere di proteggere la vita dei malati, molto più dibattuta appare l’ipotesi di considerare un obbligo deontologico alleviare le loro sofferenze concedendogli la morte, ancorché richiesta41. In Olanda, l’etica e la legge ammettono che i medici possano decidere che il loro dovere di onorare la richiesta di un malato a concludere con l’E e SA le sofferenze di un lungo percorso di malattia prevalga sul dovere di preservare la sua vita, ed è stato suggerito che queste pratiche possano essere considerate come la tappa finale delle CP in un modello definito “cure palliative integrali”92,93. Al contrario, la Società Belga di Cure Palliative (Federation of Palliative Care Flanders), confrontandosi con la legge sull’E e SA, ha affermato che, con riferimento al tema della continuità delle cure, i medici palliativisti garantiranno fino all’ultimo ai malati tutto il necessario supporto, e che le CP e l’E e SA devono rimanere ben distinte94. Vi sono due fondamentali ragioni a supporto di quest’ultima posizione. La prima risiede nel fatto che le CP escludono per definizione l’accelerazione della morte24, la seconda si rifà alla concezione secondo la quale le CP, essendo erogate fino alla morte del ma- lato, non possono essere considerate mai futili, come invece l’ammissione dell’E e SA indurrebbe implicitamente a ritenere. Tuttavia, anche se le CP sono garantite con un elevatissimo standard di qualità, questo non impedisce a singoli malati di optare per l’E e SA95-97. Il compito dei curanti alla fine della vita – prima di tutto dei palliativisti – sarà duplice: da un lato ascoltare ed esaminare con attenzione le richieste dei malati per affrontare nel modo più efficace le sofferenze che le giustificano aiutandoli a escludere la scelta eutanasica, ma, dall’altro, migliorare costantemente la qualità delle cure erogate contribuendo ad accrescere la cultura delle CP nelle comunità dei malati e delle loro famiglie e della società nel suo complesso. In questo senso la figura 4 permette di constatare che nel 2015 il Regno Unito, in cui E e SA non sono ammessi, ha conseguito il QDI più elevato (93,9) sulla base di un costante incremento di tutti gli indicatori che formano le 5 categorie di valutazione (l’Ucraina è stata inclusa nel grafico per riportare l’altro estremo del range europeo), mentre Olanda e Belgio, che pure hanno conseguito QDI di rilievo (80,9 e 84,5), e in cui E e SA sono ammessi, hanno ancora un margine di miglioramento almeno in qualcuna delle 5 categorie. L’Italia (QDI=71,7), in cui E e SA non sono ammessi ma che si accinge a iniziare nel marzo di quest’anno la discussione parlamentare di una proposta di legge sull’eutanasia98, mostra ancora carenze significative che richiederebbero una seria valorizzazione e implementazione della cultura delle CP nell’ambito della politica sanitaria con supporti culturali, scientifici e finanziari. La figura 4 mostra quindi come la qualità delle CP risulti del tutto indipendente dalla legittimità o meno dell’E e SA. 135 136 Recenti Progressi in Medicina, 107 (3), marzo 2016 Qualità degli ambienti di cura 100 80 60 40 Sensibilizzazione della società Risorse umane dedicate 20 0 Qualità delle cure Accessibilità Regno Unito Olanda ITALIA Belgio Ucraina Figura 4. QDI 2015 basato su 5 categorie di valutazione delle CP. Sono confrontati i risultati conseguiti da Regno Unito, Italia e Ucraina in cui E e SA non sono ammessi, e Olanda e Belgio in cui invece lo sono. È interessante constatare che un elevato livello qualitativo delle cure alla fine della vita può essere raggiunto indipendentemente dalla legittimità o meno delle due pratiche. Modificato da www.economistinsights.com22 Il dibattito europeo L’EAPC ha affrontato il tema dell’E e SA in un “white paper” redatto nel 2015, definendo una serie di punti rilevanti ai fini della comprensione delle questioni in gioco41. In Europa si stanno delineando differenti approcci all’E e SA e un dibattito aperto e rispettoso dovrebbe essere incoraggiato per offrire un contributo alla definizione delle aree di consenso e dissenso sulla base delle implicazioni sociali, spirituali, etiche e giuridiche tra i malati, i caregiver, i professionisti sanitari, la società. Studi mirati a inquadrare le diverse prospettive attraverso le quali malati e professionisti affrontano il tema dell’E e SA e le esperienze già in atto, dovrebbero essere avviati al fine di contribuire al dibattito con il maggior grado di evidenza possibile. I risultati degli studi disponibili non sembrano né garantire la necessaria qualità dell’informazione né l’imprescindibile livello di generalizzazione dei risultati99. Il ricorso all’E e SA viene spesso giustificato dai malati con il timore di perdere la propria autonomia alla fine della vita e di essere sottoposti a trattamenti atti a prolungarla, con le implicite, immotivate sofferenze. Questo timore può essere ridotto con l’uso delle direttive anticipate di trattamento (DAT) nel contesto di una pianificazione anticipata delle cure (PAC), contribuendo a migliorare la comunicazione con i malati e le famiglie. Purtroppo, non tutti gli Stati europei si sono dotati di una legislazione che inquadri DAT e PAC nel contesto degli strumenti necessari per concretizzare l’istituto del consenso/dissenso alle cure. In qualsiasi Stato l’E e SA fossero legalizzati, una particolare attenzione dovrebbe essere posta a impedire sia che il valore intrinseco e il pieno sviluppo delle CP ne possano risentire, sia che possano sorgere conflitti tra le richieste della legge e i valori morali dei medici. Di fatto sono molto poche le informazioni disponibili su quanto spesso l’opzione delle CP è offerta ai malati che richiedono E e SA. In Belgio e in Olanda, per esempio, il coinvolgimento in un percorso di CP non è un prerequisito per l’E e SA, sebbene la legislazione belga stabilisca che l’informazione su questa possibilità debba essere garantita. In caso di legalizzazione dell’E e SA, speciale attenzione dovrebbe essere posta sulla necessità di non allargare i criteri clinici per includere nuovi gruppi di malati, di garantire che nessuna pressione sia effettuata su persone vulnerabili, di fare in modo che l’uccisione di una persona non diventi un fatto passivamente accettato dalla società. Mentre uno studio basato sui tassi di SA in Oregon e in Olanda non ha mostrato un aumento di rischio per gruppi vulnerabili di popolazione100, il primo studio effettuato a questo proposito in Svizzera ha descritto che il SA era associato in modo statisticamente significativo con il sesso femminile, il vivere soli, un elevato livello culturale e socio-economico101. Nell’ambito della discussione sull’E e SA si è sottolineato il rischio della “china scivolosa”102. Dati relativi a studi condotti in Olanda e Belgio non sembrano giustificare questo timore103; ciononostante in Olanda lo 0,4% di tutte le morti tramite E e SA è avvenuto senza un’esplicita richiesta del malato104; un certo numero di medici ha ammesso di aver iniziato impropriamente una SP con l’intenzione di abbreviare la vita del malato105; nel 2013 l’eutanasia è stata effettuata su 97 malati con demenza e su 43 con malattia psichiatrica106; in Belgio 25 progetti di legge sono stati presentati per un ampliamento delle categorie di malati che possono accedere all’E e SA107. Una recente revisione di 66 casi di SA in pazienti psichiatrici olandesi ha evidenziato ancora che solo in 49 di essi la diagnosi era di depressione refrattaria al trattamento – unica diagnosi psichiatrica ammessa; in 6 casi, infatti, la depressione era accompagnata o determinata dall’abuso di sostanze stupefacenti, in 4 il quadro prevalente era quello di un decadimento cognitivo, mentre in 2 casi erano presenti disturbi inscrivibili nello spettro della malattia autistica. La stessa revisione sottolinea poi che nel 52% dei casi erano presenti disturbi della personalità spesso associati a forte reattività agli stress ambientali, sollevando serie perplessità circa l’affidabilità della decisione di queste persone di richiedere il SA. Rilevanti appaiono ancora la netta prevalenza femminile tra i 66 pazienti (2,3:1); l’isolamento sociale e la solitudine di questi pazienti rilevato nel 56% dei casi; la messa in atto del SA nonostante il parere negativo dello psichiatra era verificata nel 12% dei casi. Infine, il 27% dei pazienti è ricorso alle prestazioni di un’istituzione il cui compito è quello di facilitare il SA e in cui non lavorano psichiatri108,109. Nell’editoriale di accompagnamento a questa rassegna di casi ci si chiede se una istituzione L. Riccioni et al.: La limitazione dei trattamenti: una forma di eutanasia? che ha tale mandato non usi griglie di valutazione più permissive con soglie più basse e come un medico che non è psichiatra possa valutare in modo attendibile casi così complessi. Conclusioni L’approccio al tema della fine della vita, e in particolare alle questioni relative alla LdC e all’E e SA, non può essere affrontato solo sulla base di una prospettiva filosofica, teologica, giuridica o, peggio, del semplice senso comune. Per un orientamento corretto, è opportuno invece partire, con un approccio scientifico, dalla conoscenza del significato dei termini che vengono utilizzati al fine di rendere ben chiari i concetti che racchiudono, per poi esplorare le molteplici sfaccettate realtà che costituiscono il mosaico del tema della fine della vita. Mentre la LdC ha una relazione stretta con le CP, l’E e SA non trovano tra i medici palliativisti europei un approccio univoco, poiché il dovere deontologico di salvaguardare la vita dei malati e quello di alleviargli la sofferenza aiutandoli a morire sono sentiti in modo contraddittorio. Peraltro, i professionisti considerano le CP come una presa in carico che si protrae fino al momento della morte, quindi, per definizione mai futili e, pertanto, in contrasto con l’approccio al tema della fine della vita che caratterizza l’E e SA. A supporto di quest’ultima considerazione vi sono evidenze solide che dimostrano come la qualità delle CP, erogate fino alla fine della vita, si correli a variabili sociali, culturali ed economiche indipendenti dalla possibilità o meno di ricorrere a E e SA. L’EAPC rispetta le scelte di E e SA dei malati, ma sottolinea la necessità che i governi e la società focalizzino l’attenzione sulla tipologia e sulla qualità delle cure da erogare a una popolazione che, invecchiando sempre più, è anche sempre più soggetta a malattie degenerative. Per conseguire questo obiettivo non solo è necessario che ogni Stato introduca le CP nell’ambito dei sistemi sanitari, ma che le supporti concretamente da un punto di vista culturale con l’appropriata educazione, da un punto di vista scientifico con la necessaria ricerca e sul piano economico con gli adeguati finanziamenti. Poter offrire uno standard di CP di qualità elevata è fondamentale per evitare che le persone malate chiedano l’E e SA per porre fine alla sofferenza causata da un insufficiente controllo del dolore o di qualsiasi altro sintomo. La persona che chiede al medico di porre fine alla propria vita non fa una richiesta, pone una domanda. La risposta non può essere lasciata alla sola sensibilità personale, deve trovare le sue radici in una consolidata cultura che sia in grado di vincere ogni tipo di emarginazione, anche quella generata dalla malattia. I palliativisti possiedono questa cultura e la devono diffondere in tutti i settori delle professioni sanitarie. 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