creAre VALore neL TerriTorio

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creAre VALore neL TerriTorio
coverstor y aziende virtuose
Creare valore
nel territorio
Secondo Enrico Loccioni, presidente e fondatore dell’omonimo
gruppo, il concetto di “fare impresa” si può riassumere
sostanzialmente in tre punti: internazionalizzazione, managerialità
diffusa e innovazione organizzativa
Enrico Loccioni
intervistato
al Congresso AIDP
di Firenze
da Maria Cristina
Origlia,
giornalista
de L’Impresa
Il Sole 24 Ore
I
l gruppo Loccioni si occupa di progettazione e sviluppo di sistemi di misurazione e controllo per migliorare prodotti e processi. Un’avventura,
iniziata oltre quarant’anni fa, che non è solo imprenditoriale, ma anche di
vita, di business, di passione e di filosofia ed è ricca di intensità, come racconta
il suo fondatore, Enrico Loccioni, in questa intervista.
So che ci sono tre parole “vietate” da voi
in azienda: industria, dipendenti e prodotti.
Perché dobbiamo parlare di impresa e non
di industria, a casa sua?
«Ho iniziato a lavorare nel momento in cui nelle
nostre campagne arrivava l’energia elettrica.
Avevo quindici anni e cercavo di sfruttare questa
grande innovazione per facilitare il lavoro dei
contadini: erano i primi progetti di integrazione
di tecnologie per la risoluzione dei problemi. A
diciassette anni ho lavorato per un breve periodo
per una fabbrica di scarpe, da quel momento ho
capito che il lavoro ripetitivo non faceva per
me. In seguito ho voluto applicare un principio
di buon senso: non far fare agli altri quello che
non piace a te.
Il concetto si è perfezionato nel tempo e il non
occuparsi di prodotti, è divenuto per noi un’occasione straordinaria. Enrico Mattei e Aristide
Merloni hanno portato nel nostro territorio molto
lavoro e crescita e anche noi abbiamo iniziato a offrire soluzioni per l’industria, iniziando
proprio con Merloni. Ma l’impresa così come
la intendiamo noi, non legata a un prodotto in
serie, si rinnova continuamente e offre infinite
possibilità».
Perché collaboratore e non dipendente?
«Collaborare significa sviluppare quella congiunzione tra persone diverse, ma con passioni da
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mettere insieme in un progetto, nell’ottica di
una sfida comune in cui la collaborazione stessa
diventa elemento fondamentale. Tutto ciò non
può essere fatto dipendendo: nessuno aspetta
istruzioni, perché c’è un obiettivo comune da
soddisfare. Tutti possono fare cose semplici,
mentre le cose complicate e complesse richiedono un aggiornamento continuo e ci pongono
sempre di fronte nuove sfide, ma sono anche
molto più divertenti!»
Cos’è l’impresa della conoscenza e cosa significa per il vostro gruppo?
«Un’impresa che non ha programmi e progetti di
crescita non ha nulla da offrire ai collaboratori.
L’impresa della conoscenza per noi significa puntare su tre fattori: l’internazionalizzazione, seguendo i grandi clienti; la managerialità diffusa,
con collaboratori che si assumono responsabilità
da intraprenditori con un continuo supporto formativo; l’innovazione organizzativa, aperta e
a matrice in cui ognuno può trovare la propria
strada. L’articolazione in tre fasi del percorso
lavorativo – prima, durante e dopo – è diventata
un modello di grande interesse.
Il prima è il rapporto con la scuola. Quando
ho iniziato questa attività, non avendo i soldi per
assumere professionisti, cercavo giovani nelle
scuole. Oggi collaboriamo con circa 60 scuole,
dalla materna ai percorsi post laurea cercando
di capire gli interessi e le curiosità dei ragazzi,
di seguirli durante il loro percorso di studio,
dandoci quindi reciprocamente l’occasione di
selezionarci prima. Una volta diplomati, laureati
o dottorati, alcuni di questi ragazzi tornano da
noi per lavorare.
Il durante prevede che i giovani entrati
nell’organizzazione, possano fare un percorso di
crescita, partendo dal basso (gli attuali dirigenti
sono tutti ex studenti) e passando attraverso
un’esperienza di lavoro dove c’è un intero gruppo che li valuta. Chi vuole interrompere questo
percorso per mettersi in proprio, basta che alzi
la mano e lo dica. Più di 80 persone in 40 anni
hanno avviato un’attività in proprio, ed è una
cosa bellissima perché è come se ci fosse un altro
gruppo Loccioni invisibile sul nostro territorio.
Il dopo significa continuare a collaborare con
persone che sono già andate in pensione. Di norma, quando un lavoratore va in pensione, i primi
due mesi scompare, ma dopo un po’ ritorna. Ma
l’aspetto più interessante è che selezioniamo i
silver anche tra le persone che incontriamo nel
corso del lavoro, tra i nostri clienti o fornitori,
che si distinguono per esperienza, apertura e
passione. L’inserimento di persone dal basso abbatte le barriere e fa sì che da un lato i giovani
in crescita (portatori di conoscenza ma non di
esperienza) non vedano nei senior dei concorrenti,
e dall’altro che i senior non vivano il giovane
come una minaccia, ma al contrario l’integrazione
sia per entrambi opportunità di condivisione e
scambio, di libertà e dialogo continuo».
Ho letto che molta della formazione che attivate è finalizzata all’interiorizzazione dei
valori dell’azienda.
«Cosa se ne fa un imprenditore ricco di un’impresa povera? Cosa se ne fa dei soldi? Il principio
Cultura
dell’innovazione
Enrico Loccioni (Serra
S. Quirico, Ancona,
1949) condivide con la
moglie Graziella e i figli
Maria Cristina e Claudio
l’avventura imprenditoriale
iniziata nel 1968 con
una piccola attività di
impiantistica elettrica.
Oggi guida un gruppo
leader a livello mondiale
nel settore hi-tech
che, come una sartoria
tecnologica, sviluppa
sistemi su misura per
grandi clienti industriali.
L’attenzione alle persone,
alla cultura d’impresa
e all’innovazione hanno
portato Enrico Loccioni
e il suo Gruppo a essere
per sei anni consecutivi
tra i 35 migliori
ambienti di lavoro in
Italia con il Great Place
to Work Institute e a
vincere tra gli altri il
Premio Ernst&Young
L’Imprenditore dell’Anno
2007 e il Premio Imprese
per l’Innovazione 2010.
del profitto è sacrosanto perché deve essere la
garanzia della continuità dell’impresa. Ma se è
anteposto ai valori porta a una logica di breve
e quindi alla distruzione. Se avessimo ragionato sulla base del “cosa ci guadagniamo” molte
decisioni non le avremmo prese.
Ispirati dalla mezzadria (funzionale perché
prevede la collaborazione tra un soggetto proprietario di un fondo ma incapace di gestirlo e un
soggetto disponibile a lavorare ma a cui manca
il terreno, allo scopo di condividere i risultati)
pensiamo al collaboratore come azionista di
lavoro: ospitiamo il neo-laureato, che ha investito anni di studio e impegno, in un ambiente
di lavoro in cui può mettere a disposizione la
conoscenza acquisita e gli offriamo la sfida del
lavoro, inteso come condizione di crescita della
persona. È veramente emozionante vedere quante
cose incredibili riesca a fare una persona inserita nell’ambiente adatto, accolta in un clima di
fiducia e messa di fronte a una sfida».
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“Collaborare
significa sviluppare
una congiunzione
tra persone
diverse, ma con
passioni da
mettere insieme
in un progetto,
nell’ottica di una
sfida comune”
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“Se l’impresa è sopraffatta dalla
finanza e dalla politica, le decisioni
sono altre e le persone diventano
un mezzo e non più una risorsa.
L’impresa deve reinvestire i profitti
in ottica di sviluppo”
Anche questo è risultato di una strategia:
fare una continua ricerca di personale, non
solo nel momento in cui c’è una posizione
da coprire.
«Bisogna dedicare tempo alle persone. Nei colloqui siamo sempre alla scoperta di passioni e
di interessi: se tu fai qualcosa di buono per una
persona, è molto probabile che quella persona
farà qualcosa di buono per te. Combinando la
passione con il lavoro, la persona si mette direttamente in connessione. Ad esempio un ragazzo
di 29 anni che era tornato da poco da uno stage
negli Stati Uniti, si è rivolto a noi perché sapeva
che cercavamo giovani collaboratori per la sede
americana e nel rispondere alla domanda “perché
vuoi tornare negli Usa?” ha lasciato intendere che
là aveva la fidanzata. Questo ragazzo è partito
a spron battuto, è là da quattro anni e grazie a
lui abbiamo clienti importanti».
Cos’ha fatto veramente la differenza in questi
anni di successi?
«Se prendiamo modelli di imprese famigliari,
come la nostra, che in uno specifico contesto e
momento hanno realizzato un’idea, impariamo
che fare impresa significa creare lavoro sul territorio. Se l’impresa è sopraffatta dalla finanza
e dalla politica, le decisioni sono altre e le persone diventano un mezzo e non più una risorsa.
L’impresa deve reinvestire i profitti in ottica di
sviluppo. Nel nostro gruppo, la differenza l’ha
fatta reinvestire continuamente in nuovi progetti
che possano sviluppare conoscenza e crescita».
La sua testimonianza dimostra che nonostante le difficoltà che attraversa il nostro Paese,
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le carenze infrastrutturali, una riforma del
lavoro forse “insufficiente”, è possibile cavarsela e anche molto bene. Cosa dobbiamo
consigliare alle imprese?
«Innanzitutto fare impresa richiede ottimismo.
C’è un pessimismo diffuso che porta a non vedere le belle realtà che già esistono. Poi l’orientamento al cliente: ai nostri ragazzi ripetiamo
continuamente, come un mantra, che dobbiamo
avere più commesse di quelle previste, perché
nel momento in cui ne abbiamo di meno, è già
tardi per occuparsene. Allo stesso modo dobbiamo sempre avere una persona in più di quelle
che pensiamo possano servirci e sempre più in
gamba di noi.
E poi l’internazionalizzazione, quella vera, che
fa crescere, che rivaluta l’immagine italiana nel
mondo: ho chiesto a un nostro cliente tedesco
come mai sceglie noi. La risposta è stata che i
tedeschi pur essendo molto organizzati, sono un
po’ rigidi nell’andare incontro alle esigenze del
cliente. A noi riconoscono maggiore flessibilità
e rispetto dei tempi. Inoltre, la presenza di tanti
giovani ci ha fatto apparire ai loro occhi come
un’impresa che invecchia meno delle altre. Altra caratteristica vincente è quella dell’impresa
aperta: anche l’anno scorso tra studenti e clienti
abbiamo ospitato nel nostro gruppo oltre 8mila
persone. È un modo per farci conoscere, non
solo per “vendere” ma per condividere. Chi passa
lascia qualcosa e le opportunità che si creano
nell’apertura sono infinite».
Qual è la prossima frontiera?
«L’adozione di un fiume! Un laboratorio progettuale tra pubblico e privato per mettere in
sicurezza il fiume Esino, che scorre accanto alla
nostra impresa. Essendo cresciuto in questo territorio, avevo in mente il fiume come risorsa
utilizzata in passato dalla comunità per la legna,
per l’acqua con i mulini, per la ghiaia per rifare
le strade. Abbiamo quindi iniziato lavorando
insieme, impresa privata ed enti pubblici, con
geologi e progettisti, per recuperare esperienze
passate e così innovare il rapporto con il fiume.
L’investimento che abbiamo fatto come impresa
si ripagherà nel tempo attraverso la produzione di energia idroelettrica e termica che verrà
usata per gli stabilimenti del gruppo e servirà
a ripagare anche le spese di manutenzione del
fiume nel futuro. Un esempio d’impresa che va
oltre l’imprenditore. A coronamento del progetto,
siamo lieti di aver fatto lavorare imprese locali,
scelta che ha portato anche a un ritorno della
passione del territorio e di antichi lavori». n
Azienda giovane
Nato nel 1968,
il Gruppo Loccioni
si è specializzato sempre
di più nella progettazione
e sviluppo di sistemi
di misura e controllo
per migliorare le qualità,
le performance
e la sostenibilità
di prodotti, processi
e anche nell’edilizia.
Sono 354 i collaboratori:
il 55% di loro ha
il diploma, il 45%
è laureato, di cui il 3,4%
con PhD; l’età media
è di 33 anni. Il fatturato
consolidato di Gruppo
Loccioni è di 60 milioni,
esporta in 43 paesi,
ha tre stabilimenti
in Italia tutti in provincia
di Ancona e tre sedi
all’estero (Washington,
Stoccarda e Shangai).
Il 4% del fatturato viene
investito in ricerca.
“Il nostro investimento
si ripagherà nel tempo
con la produzione di
energia idroelettrica e
termica usata per gli
stabilimenti del gruppo e
utile a ripagare le future
spese di manutenzione
del fiume”
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