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Il Grande Babero Aveva appena chiuso la porta dietro di sé, quando si rammentò degli appunti lasciati sul tavolino della camera. “Che sciocco – si disse, tra sé e sé – Figuriamoci se li scordo… chi le tiene altrimenti le piccole pesti?” pensò con un sorriso affettuoso, mentre raccoglieva i fogli e li riponeva nella sua piccola ventiquattrore. Quel mattino avrebbe dovuto affrontare un delicato argomento, lo sapeva bene, e in effetti gli ci era voluta tutta la notte per capire in quale modo procedere. “Eh, sì cari ragazzi - già si vedeva davanti alla cattedra e gli occhi puntati sul primo di banco, sempre così attento e ordinato - oggi vi parlerò dell’evoluzione dell’uomo. Di come l’uomo da piccola scimmia si sia trasformato nell’essere che siamo noi tutti: sissignori, io, voi, i vostri genitori, capaci di pensare, ragionare e anche di andare sulla Luna!” Gli pareva di scorgere le piccole mani alzate (in realtà quella che vedeva era solo la mano grassoccia di una vecchia signora che, appena salita in autobus, cercava di aggrapparsi per non scivolare...), lo stupore dipinto nei loro sguardi. Ricordava ancora quando, all’età di 12 anni, il suo insegnante aveva affrontato il delicato argomento: che cosa buffa pensare di esser stato così peloso e così diverso! Ma la scienza non aveva dubbi. “Signori, sono dolente, la strada è bloccata per colpa di un incidente – sentì a un tratto dire il conducente – I vigili mi hanno appena riferito che ci vorrà almeno un’ora, perché la circolazione riprenda. Forse vi conviene proseguire a piedi, il capolinea non è lontano”. Il professore strabuzzò gli occhi, stringendo forte a sé la borsa che gli stava scivolando dalle ginocchia e scosse il capo, borbottando: “Ai miei tempi queste cose non sarebbero successe...” Si guardò attorno poco convinto, ma quando vide che erano scesi quasi tutti, si alzò a sua volta. Gli altri passeggeri erano ormai spariti dalla sua vista, chi era rimasto indietro, chi aveva svoltato prima di lui e chi si era addirittura fermato a osservare il carico del camion che era scivolato sulla carreggiata e l’aveva bloccata. Allungò ancor più il passo ed entrò nel piccolo bosco ai margini della città, quel bosco dietro al quale si trovava la sua scuola. Non era un grandissimo esempio botanico, pensava calpestando le foglie secche e ascoltandone il crepitio, ma le sue chiome ombrose e i suoi solidi fusti testimoniavano la vecchia storia di quella città. In quel bosco - che assomigliava a tanti altri boschi cittadini - c’era però un meraviglioso leccio (“meglio detto quercus iles” soleva puntualizzare, mentre alzava le sopracciglia per pronunciare con chiarezza il nome latino), dalle grandissime e robuste braccia. Un esemplare così singolare che in molti erano giunti da ogni dove per vederlo. Era alto quasi 26 metri, con i rami a 1,20 metri dal suolo e un tronco largo ben 5,68 metri. Ma la caratteristica più prodigiosa era la chioma che raggiungeva il diametro di almeno 30 metri. Era così vasta, ma così vasta, da coprire completamente lo spazio fino a terra. Da lontano, sembrava infatti una grossa palla che si stagliava all’orizzonte. Avvicinandosi ed entrando poi tra le sue fronde ci si trovava di fronte a uno spettacolo fantastico: un enorme e mastodontico esemplare nodoso così vivo da sembrare un incredibile elefante frondoso. C’era chi diceva avesse almeno mille anni, ma il professore non gliene avrebbe dati più di 500. Ma anni a parte, la sua bellezza era così stupefacente che anche l’insegnante, nonostante la sua età e le tante cose apprese sui libri di scuola, riusciva sempre a stupirsi quando la vedeva. Ricordava benissimo quante volte, da bambino, aveva giocato a saltare da un ramo all’altro e, ancor oggi, quando si avvicinava, sentiva il cuore balzargli nel petto. Talvolta si prendeva anche bonariamente in giro, pensando a questa sua emozione: “Vecchio come sono... – meditava tamburellandosi la testa. E fu così che quella mattina, accorgendosi di aver fatto prima del previsto, decise di deviare di qualche passo per fare una visitina al suo vecchio amico leccio. Entrò dentro l’enorme palla di foglie e, appoggiata la valigetta sopra un piccolo tavolo in pietra costruito tanti anni prima dal Comune, si sedette su una delle due panche. ********* “Ah, che meraviglia” si disse, ravviandosi i capelli un po’ arruffati e guardandosi intorno. Non pareva esser cambiato proprio nulla: il silenzio, e solo qualche uccellino intento al volo tra le fronde. Respirò a pieni polmoni la buona aria del bosco e cominciò a pensare alla lezione che avrebbe tenuto, da lì a poco, alla sua classe. E fu proprio mentre era immerso nei suoi pensieri che si accorse di avere le scarpe tutte imbrattate, per colpa della rugiada mattutina. Così, si chinò per ripulirle velocemente con un piccolo straccio che portava sempre con sé, proprio per evitare questi fastidiosi inconvenienti. Era ancora intento in quell’opera quando udì, chiaro e distinto, un “ciao!” argentino. Oh bella, oh bella, si disse guardandosi attorno. C’era qualcun altro lì sotto e non lo aveva visto? E dove si nascondeva? A parte lui e qualche uccello che pigolava tra un ramo e l’altro, non c’era nessun altro. Almeno così gli pareva. “Forse sono un po’ stranito anch’io”, borbottò, riprendendo a lucidarsi le scarpe. Ogni giorno parlava di ordine e pulizia ai suoi allievi, non poteva certo presentarsi in quello stato. “Ciao”, riudì di nuovo e, questa volta, un brivido gli corse lungo la schiena. “Chi sei?” chiese quasi con voce tremante, guardandosi in giro, ansiosamente. “Guarda in su, sciocchino” squillò un’altra voce. Il professore inforcò gli occhiali e cercò tra le fronde qualche monello che, insieme agli amici, aveva voluto spaventarlo... Ah ma se li avesse presi... Tra i rami nodosi e poderosi, però, non scorse nulla. “Se vi trovo, monellacci…”, borbottò, con il cuore che andava ancora a mille. Vi fu un lungo silenzio e poi un’altra voce ancora: “Non ci vedi perché non senti...” Il professore rimase perplesso: “Certo che vi sento! Ma non vi vedo...” “No, ci senti con le orecchie ma non ci senti col cuore. Eppure tanti anni fa parlavi con noi, ogni giorno...” L’uomo impietrì, mentre la vista gli si annebbiava. Ma chi? Come? E quando? Poi finalmente comprese e si girò lentamente verso l’albero. Gli ci vollero lunghi secondi per riuscire a comporre una frase, poi puntò il dito sul leccio. “Tu!” esclamò, ammutolendo subito dopo. Le foglie si agitarono leggermente - eppure avrebbe giurato che non ci fosse vento -, poi si fermarono. Ed egli parlò. “Ti sorprende? Eppure, da bambino, quante volte mi hai confidato i tuoi segreti, giocando tra i miei rami… Ricordo ancora la sera in cui mi insegnasti tutti i nomi delle stelle che avevi imparato nel tuo libro. Come puoi aver dimenticato...?” “E come puoi anche aver dimenticato Codino, Bamby e Mister Uccellillo?” aggiunse un’altra voce, un po’ risentita. Quasi subito sbucarono dai rami, in ordine: uno scoiattolo, un tasso e un picchio rosso. Il professore respirò a fondo, cercando di fare ordine nella sua mente, di trovare una soluzione razionale e logica a tutta questa faccenda. “Un conto è parlare agli alberi e agli animali quando nessuno ti vede – esclamò d’un tratto – un conto è che essi ci rispondano, diamine!” Gli parve di udire quella che qualcuno avrebbe potuto definire una risata divertita e rimase in ascolto. Tanto, se era diventato pazzo, pazzo sarebbe rimasto. Meglio vedere dove si poteva arrivare con questa storia. “Ti ho parlato tante volte, quando eri bambino: strofinavo le mie foglie sul tuo volto, ondeggiavo al tuo passaggio sui miei rami, ti sussurravo i tanti segreti dell’universo. E’ un peccato che tu abbia dimenticato” sussurrò il leccio. I tre piccoli animali intanto balzarono giù dai nodosi rami e, quasi squittendo in coro (in realtà il picchio si appoggiò al tronco e tamburellò delicatamente il suo amico leccio), gli dissero: “Siamo i tuoi amici, non ti ricordi?” L’uomo non rispose: una parte di lui lottava contro quelle che gli sembravano pazze sciocchezze (“un albero che parla? Animali che protestano? Ma dove si è mai sentita una simile corbelleria? Diventerò lo zimbello di tutta la città!”), un’altra pian piano sentiva i ricordi affiorare mentre si vedeva bambino abbracciare l’albero, circondato da tre piccoli grandi amici. “Ti sembra una cosa così impossibile comunicare con gli animali, con i sassi e con gli alberi?” riprese il leccio “Eppure non dovrebbe esserlo: voi uomini siete nostri figli”. Le parole della bella quercia lo colpirono dritto al cuore. Era come se qualcosa, da tanto tempo nascosto in un angolo del suo essere, ora riuscisse finalmente a farsi sentire e a dire: “Sì, sì! E’ proprio così! Ascolta!” E così il professore, messe finalmente da parte la paura e la diffidenza, si ritrovò a chiedere con stupore, a un albero che pareva immobile e senza espressione: “Figli vostri? Cosa intendi per figli vostri?” Ma il leccio non rispose. Si fece avanti, invece, Mister Uccellillo che, con un fare da professorone serio serio, principiò la sua lezione: “Tanti millenni fa gli alberi popolavano la Terra distribuiti in numerosissime nazioni – prese a raccontare, inforcando piccoli occhialini di creta – Erano distribuiti ovunque e furono il primo popolo del pianeta. Noi giungemmo dopo di loro, quando ormai potevano accoglierci tra i loro rami, proteggerci e nutrirci. Ti pare strano vero? Eppure è così: quelli che per voi oggi sono per lo più oggetti di ornamento, utili per ombreggiare e arredare case - in una parola privi di anima - erano il popolo più numeroso della Terra. E come voi oggi, seppur più lentamente, emigravano, si spostavano nello spazio e nel tempo, si organizzavano in tribù e avevano continui scambi con noi animali e con gli altri abitanti della Terra: le acque, le terre, i mari, il cielo, le stelle. L’uomo non c’era, l’uomo è venuto dopo. L’uomo è un sogno degli alberi”. Oh! Tutto ciò era davvero stupefacente e rivoluzionario! Darwin e le teorie evoluzionistiche non avevano mai parlato di sogni d’alberi ma, per quel che lo riguardava, la cosa non gli dispiaceva per niente: non gli era mai piaciuta l’idea di discendere da qualche piccolo essere peloso. L’uomo allora accarezzò con una mano il tronco tanto familiare, poi si sedette su di un ramo più basso mentre Mister Uccellillo, Bamby e Codino si accoccolavano tra le sue braccia, come quando era bambino. “Racconta...” disse solo. E la pianta riprese: “Da milioni di anni vivevamo tranquilli, nelle nostre tribù, in armonia con la natura, apprendendo da questa nostra vita. Avevamo tutto quello che ci serviva e che desideravamo. Ma un giorno alcuni di noi che si chiamavano ‘Baberi’ dissero agli altri: ‘Gli uccelli volano, i serpenti strisciano, gli animali corrono ed emettono suoni. Noi non possiamo fare nulla di tutto ciò, noi siamo prigionieri di questa Terra. Le nostre radici sono avvinte al terreno e i nostri spostamenti sono così lenti, così lunghi che è impossibile misurarli. Ma possiamo sognare e con i nostri sogni, tutti insieme, creare una nuova realtà. Perché non diamo vita a un albero che corra, cammini, strisci, urli e giochi intorno a noi? Un essere con la chioma, i rami e le radici come noi, ma che si muova e viva ovunque? Un essere che ci onori, che ci accarezzi, che ci parli e che ci stringa... Un essere che ci chiami col nostro nome e che viva quanto è possibile vivere su questo pianeta, accanto a noi?’ Ci vollero millenni prima che questo progetto giungesse agli alberi di tutta la Terra. Ma quando tutti lo seppero, il sogno ebbe inizio. Gli alberi di tutto il mondo sognarono, sognarono per lunghe notti e lunghi giorni immaginando di saltare i torrenti, di volare in cielo, di cogliere un fiore e annusarne il profumo. E un giorno, proprio ai piedi di un mio antenato, nacquero in una nuvola d’oro l’uomo e la donna, mano nella mano”. Il Grande Babero tacque, lasciando nel più completo stupore il professore. Mille pensieri gli passarono per la mente: gli alberi sono i nostri padri? Questi esseri di cui a malapena ci accorgiamo se non quando le loro foglie riempiono i vialetti dei nostri giardini o le loro radici sradicano i nostri marciapiedi...? Quegli alberi che ogni giorno in tutte le parti del mondo vengono distrutti in massa per lasciar posto a coltivazioni che arrivano nelle case dei popoli cosiddetti civilizzati? Tagliati, fatti a pezzi, sminuzzati e disintegrati? Noi viviamo accanto a loro, si disse con profondo dolore, ma è come se essi fossero morti. O siamo noi a essere morti? “Ma perché non ci avete mai parlato? Noi vi stiamo distruggendo…” trovò finalmente il coraggio di chiedere. “Faceva parte del sogno, piccolo – rispose Bamby che lo chiamò come quando era bambino - Vivere tutto quello che il pianeta offre, così gli alberi, così gli animali, così gli uomini”. Il Grande Babero parve allungare un ramo nodoso per accarezzare il piccolo tasso: “All’inizio non era così: giocavate intorno a noi, danzavate chiamandoci ognuno col nostro nome e ci amavate. Oh, sì, ci amavate davvero tanto! L’Amore che gli Uomini e le Donne posseggono nel loro cuore è meraviglioso, irradia luce e calore ed è un incanto, per il quale vale la pena di vivere anche solo un istante di tutta un’eternità. Vale la pena, anche se poi le cose cambiano. Alcuni millenni fa, infatti, gli Uomini e le Donne hanno cominciato ad allontanarsi dalle nostre fronde: invece di lasciarsi abbracciare dai nostri rami, si sono radunati tra di loro escludendoci e, pian piano, hanno dimenticato il nostro linguaggio e perso il loro potere. Un tempo vi bastava solo pensarlo, il fuoco, per essere da lui serviti. Poi, avete dovuto farci a pezzi per ritrovare il suo calore. E da allora i Baberi e gli Uomini hanno preso due vie differenti”. Codino squittì, scorgendo due lacrime scendere lungo le gote del professore e, mostrando la sua coda multicolore, lo consolò con dolcezza: “Non essere triste, piccolo, tutto si aggiusta per ognuno di noi, quando comprende perché è qui sulla Terra. Allora comincia ad aprire gli occhi e a vedere il pianeta con una luce nuova dove tutto è vita e parla la stessa lingua. Il mondo così gli appare finalmente nella sua meravigliosa bellezza ed egli vive per dirlo agli altri. Ma prima deve conoscere e sperimentare, anche se ciò può far male”. L’uomo si asciugò gli occhi che si erano ormai riempiti di lacrime. E all’improvviso comprese: comprese che, fino a quel momento, aveva vissuto come in un lungo sonno. Aveva sempre lottato per il suo futuro, per le cose da fare, da dire, da insegnare. Passava vicino agli alberi leggendo un libro, correva in bicicletta sotto un viale alberato pensando alle sue lezioni, accarezzava la corteccia degli arbusti, cercando di ricordarne i nomi in latino. Ma lui non era mai lì, c’era solo il suo corpo perché il suo pensiero vagava altrove, allontanandolo dalla vita che stava vivendo in quello spazio e in quel tempo. Dai profumi dei fiori, dal tramonto di un sole dorato, da una stella cadente, da una calda mano che cerca proprio te… Che buffo: fin da bambino aveva sempre cercato l’origine dell’Uomo tra le nuvole, tra i libri, nelle pieghe della Storia, nel nulla. Senza mai immaginare che... tutto era così semplice, così facile. “Insegnalo ai tuoi ragazzi e presto nascerà un Uomo nuovo – gli disse un’ultima volta il Grande Babero, arrivando dritto al suo cuore – Insegna loro a essere presenti dove sono, ad accarezzare un albero, un animale, una pietra o un essere come loro con mani che accarezzano e cuori che sentono. Siate saldi nelle vostre radici e tutt’uno con la vostra Terra”. Raccontano le cronache di quella città che, in una mattina di tante primavere fa, un professore molto stimato, con le scarpe piene di fango e un ramo tra le mani, sia entrato in classe, si sia seduto sopra la scrivania e abbia raccontato la vera storia dei Baberi e del loro amore per l’Uomo. Da allora gli Alberi di tutto il Mondo hanno ritrovato la pace e il rispetto che godevano milioni di anni fa, quando erano i Signori del Pianeta e governavano su di esso. L’Uomo invece ha ritrovato se stesso… Paola Fantin