del 28 Giugno

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del 28 Giugno
Del 15 Gennaio 2015
Estratto da pag. 10/11
I due mandati di Napolitano Il difficile rapporto con Berlusconi e la durezza della crisi, poi le scelte contestate
dei governi Monti, Letta e Renzi, la sofferta rielezione e l’inchiesta di Palermo. Una parabola tutta in salita,
percorsa con l’austera dignità di altri tempi
I nove anni di Re Giorgio nel segno della sobrietà tra attacchi, commozione e appelli caduti nel vuoto
FILIPPO CECCARELLI ADAR retta a certe teorie, a certi calcoli, a certe suggestioni del pensiero laterale
Nove è il numero sacro della soddisfazione spirituale, il compimento dell’obiettivo, principio e fine, intelletto
puro, verità che si riproduce nel multiplo di se stessa.
Nove volte i cinesi si inchinavano dinanzi all’imperatore, nove volte dovevano toccare il suolo con la fronte i
dignitari ammessi al cospetto di antichi re africani; e se il Buddha è la nona reincarnazione di Vishnu, beh, la
faccenda numerologica sta certo andando un po’ in là, ma nove anni, mese in più mese in meno, è durato il
prolungatissimo settennato di Giorgio Napolitano.
Non si dirà qui il regno per non contraddire l’ormai ex sovrano, che nell’udienza con i giudici di Palermo, due
mesi orsono, tenne a dire con risolutezza: «Qui al Quirinale non c’è una monarchia. E nemmeno - aggiunse una Repubblica presidenziale», argomento già più discutibile.
La corona gliela aveva apposta sul capo il New York Times battezzandolo «Re Giorgio» nell’autunno del
2011, dopo lo scambio Berlusconi- Monti a Palazzo Chigi.
In realtà più che un «capolavoro», fu quella una disperata via d’uscita, per giunta tutt’altro che risolutiva,
sebbene rapida e assai «presidenziale ». Oltretutto proprio da quel momento Napolitano divenne bersaglio dei
peggiori dardi. E insomma davvero in cuor suo Napolitano riteneva di aver chiuso con gli onori e gli oneri del
comando. Sognava Capri, magari Stromboli, il dolce tran tran del rione Monti dove tutti gli volevano tutti bene
e lo festeggiavano - perfino la neve artificiale! - anche quando non abitava più lì - e la famiglia, gli studi, forse
le poesie in dialetto napoletano, invero tutt’altro che disprezzabili, che comunque appena eletto smentì di aver
mai composto.
Questo per guardare al roseo futuro. Ma sul finire del primo mandato, nel pieno dell’ingorgo istituzionale,
appariva triste, lento, la voce non più tonante. Mai assente e anzi ben sveglio nei pensieri, nell’eloquio e nella
scrittura, aveva preso a commuoversi con preoccupante frequenza. Per anni impassibile, molto «inglese» come
si scriveva per definirlo freddo, a volte perfino un po’ altezzoso, gli anni al Quirinale l’avevano ammorbidito,
in qualche modo anche addolcito, comunque «popolarizzato», come usa oggigiorno per far sentire i politici più
vicini alla gente.
Pettorine sgargianti, quindi, curiosi berretti, torte di svariate fogge affettate in pubblico, cerimonie con
sportivi, divi e dive, personaggi della moda; e colpiva in questo nobile e contegnoso esponente di un ceto
politico ormai quasi estinto lo sforzo di assecondare la vogue pop pur vietandosi, per quanto possibile, lo
slittamento nel trash. Solo a Napoli si lasciava un po’ andare, ma lì il calore è congenito e quindi con gioiosa
naturalezza il presidente espose la t-hirt con la scritta «Mi chiamo Giorgio e sono nato a Napoli», si lasciò
intitolare un cocktail del Gambrinus. Solo una volta, quando al termine del musical “Scugnizzi” alcuni
Pulcinelli scesero in platea per abbracciarlo e si divertirono a impiastricciare di nerofumo il volto dell’illustre
spettatore, Napolitano parve un po’ seccato.
Per il resto sono stati nove anni di interventi assai seri che brillanti, impeccabili note costituzionali, rare
interviste, precisazioni assidue nella loro pignoleria, messaggi tv tendenzialmente soporiferi. Anche le parodie
e le imitazioni, d’altra parte, al massimo della professionalità del ramo (Fiorello e Crozza), si può dire che
cogliessero lo spirito di questa sua antiquata e ormai così insolita rispettabilità.
I sondaggi, mai compulsati con la smaniosa libidine degli altri potenti, confermavano che in una remota zona
dell’immaginario gli italiani seguitavano a coltivare un qualche rispetto per chi rappresentava le istituzioni con
indiscutibile dignità. O forse era proprio lo stile austero di Napolitano che spiccava tra le battute, le smorfie, le
barzellette, le variazioni calcistiche e le scemenze che andavano per la maggiore in un’Italia sempre più
ignorante, sempre più corrotta e cialtrona.
E possibile che il pubblico giovanile l’abbia apprezzato più di quanto s’immagini per questa sua autentica
«diversità». L’altro giorno, a “Gazebo”, un valente disegnatore di ultima generazione, Makkox, ha voluto
salutare le imminenti dimissione con le lacrime di un corazziere. Certo con Napolitano la satira è stata più
leggera degli attacchi politici. Oh quanti! SEGUE
SEGUE Le minacce di Berlusconi, le corna di Bossi (che non gli risparmiò anche « terùn »), gli spilloni di Di
Pietro, le fiaccolate dei giustizialisti; per non dire Grillo che già da anni l’aveva preso di mira: vecchio furbo,
Morfeo, fai vedere la cartella clinica...
Ma il suo vero dramma stava nell’essere percepito come voce che gridava nel deserto: abbassate i toni, fate le
riforme, e quelli gli dicevano sì-sì come a un nonno rimbambito continuando i loro giochi e le loro risse
mentre tutto davvero seguitava a crollare.
Sette anni sono già tanti. Per cui nove, in vecchiaia, ne valgono il doppio. Quando gli prese un mezzo
coccolone, a Bolzano, un caldo pazzesco, una toga pesantissima nella quale l’avevano involtolato per una
laurea honoris causa, donna Clio, che pure aveva avuto i suoi guai (investita fuori dal palazzo da un’auto
guidata da un ex senatore del Pci!), disse che il Quirinale non era «una passeggiata di salute».
Ma oltre alla fatica e ai malanni, erano l’umore e l’animo, se è consentito, ad essere neri: «Dopo 7 anni sto
finendo in modo surreale il mio mandato trovandomi oggetto di assurde reazioni di sospetto e dietrologie
incomprensibili... ». Dietro la formula s’indovinava il più inconfessabile scoramento: l’impossibilità pratica e
teorica di governare questo pae- se nel momento peggiore.
Non solo per questo la rielezione fu «evento abnorme» (il giurista Franco Cordero), un «riflesso pavloviano»
(lo scrittore Vincenzo Cerami). «Massimo leader morale rimasto in piedi tra le rovine fumanti» (lo storico
Salvatore Lupo) accettò per senso di responsabilità. «Ma questo - ha scritto Adriano Sofri - è il farmaco fatale
del potere: medicina e veleno, guai a mancarne, guai a restarne prigionieri».
Comunque si tolse il gusto di flagellare chi l’aveva richiamato al suo posto. Vero è che appena rieletto parve
arrestare il declino e nei tg lo si vide perfino ringalluzzito. Ma sugli spalti, nemmeno troppo per scherzo, quel
giorno Berlusconi esortò le sue deputate a intonare «Meno male che Giorgio c’è». Era un altro segno della
miseria, della spudoratezza e dell’imbuffonimento della politica.
Il Berlusconi trionfante del 2008 desiderava così evidentemente il Quirinale che quando si trovava in quel
Palazzo aveva l’aria di prendere le misure con l’aria di pensa: «Un giorno tutto questo sarà mio». Ma nel
frattempo molto altro gli stava a cuore. Così il maggior sforzo di Napolitano fu contenere il Cavaliere
concedendogli quel poco che gli consentiva di negargli quanto valutava più importante: giustizia,
informazione, federalismo fiscale, provvedimenti a favore di Mediaset, leggi ad personam.
Fu un gioco duro, sottile, non sempre visibile e anche rischioso. Il punto più alto dello scontro il decreto legge
su Eluana. Napolitano non l’avrebbe mai firmato, il Cavaliere disse che questo l’avrebbe portata alla morte.
Intanto scoppiava la crisi economica. A volte il presidente dette l’impressione di voler prendere tempo, altre di
salvare il salvabile.
È brutto da dirsi così, ma gli scandali sessuali berlusconiani (Noemi, D’Addario, Ruby) consentirono al
Quirinale di guadagnare un po’ d’ossigeno imponendo il rispetto della Costituzione e anche della
ragionevolezza a un premier indebolito. Tra un colpo di sonno e una minaccia, andò avanti così per tutto il
2010 e quasi tutto l’interminabile 2011. Un giorno Berlusconi alzò la voce. Gelido Napolitano gli rispose: «Si
calmi».
Quando, prima sulla Libia e poi sulla tempesta monetaria, leader mondiali presero a rivolgersi direttamente al
presidente della Repubblica, il berlusconismo era ormai finito. Ma per Napolitano cominciò il peggio. Monti,
Letta, le grandi intese, l’inchiesta di Palermo, il governo Renzi, tutto sempre più difficile, insomma nove anni
davvero possono bastare.
Ci può essere un po’ di poesia anche in questo: «Ora, solo ora ho infranto i miei incantesimi - dice Prospero ne
“ La Tempesta ” - Ora gioca la mia sola forza, e poca. Rompete voi il vostro incantamento con le vostre mani
magiche e spingete le mie vele con i vostri fiati, amici. Non ho più a darmi manforte i miei spettri alleati e alla
fine ubbidienti. Né artifici, né incantamenti! E se a voi, cari signori, piace d’essere perdonati dei peccati, date
adesso a me licenza di partire e di accomiatarmi libero». L’archetipo del Nove, guarda guarda, è «il
Liberatore».