Fallimento 1

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Fallimento 1
Corso di Diritto Commerciale (A-L)
Prof.ssa F. Vessia
Anno Accademico 2013/2014
Lezione del 12 maggio 2014
L’INSOLVENZA DELLE IMPRESE E LE PROCEDURE CONCORSUALI:
CARATTERI GENERALI E PRESUPPOSTI
Constano nell’ordinamento italiano 6 diverse procedure giudiziali per far fronte alle crisi
d’impresa:
1. Il fallimento (r.d. 267/1942 c.d. legge fallimentare, novellata con i dd.lgs. 5/2006 e
169/2007);
2. Il concordato preventivo (artt. 160-186 l.fall.);
3. La liquidazione coatta amministrativa (194-213 l.fall. e ll. speciali: TUF per le società
d’intermediazione mobiliare, di gestione del risparmio, le Sicav, le società di gestione
accentrata, le società fiduciarie e di revisione contabile, TUB per le banche, CAP per le
assicurazioni);
4. L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi (l. 95/1979 riformata dal
d.Lgs. 270/1999);
5. L’amministrazione straordinaria accelerata per le imprese di maggiori dimensioni (d.l.
347/2003 conv. in L. 39/2004 c.d. legge Marzano);
6. Le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento dell’imprenditore non
fallibile e del debitore civile, recentemente introdotta dalla legge 27 gennaio 2012, n. 3, poi
modificata profondamente dal decreto legge n.179/2012, convertito nella legge
n.221/2012.
A queste si devono aggiungere due procedure concordatarie non giudiziali, previste dalla legge
fallimentare come forme di risoluzione concordataria stragiudiziale delle crisi, che sono gli
accordi di ristrutturazione dei debiti e i piani di risanamento.
Le sei procedure menzionate sono tutte accomunate dal fatto di essere, oltre che giudiziali, anche:
- Generali, poiché coinvolgono tutto il patrimonio dell’imprenditore;
- Collettive, perché sono improntate tendenzialmente alla par condicio creditorum e mirano
ad assicurare il soddisfacimento delle ragioni di tutti i creditori non solo di quelle
individuali.
IL FALLIMENTO
Il fallimento è una procedura giudiziaria con funzione liquidativa del patrimonio dell’imprenditore
insolvente, finalizzata a reintegrarne il patrimonio ed a ripartirne il ricavato fra i creditori. I
presupposti sono:
1. La qualità d’imprenditore commerciale
2. Lo stato d’insolvenza
3. Il superamento di almeno uno dei limiti dimensionali fissati dall’art. 1, 2° comma: attivo
patrimoniale nei 3 esercizi precedenti all’istanza di fall.> 300.000 euro; ricavi lordi
realizzati nei tre esercizi precedenti > 200.000 euro; debiti anche non scaduti > 500.000
euro;
4. Una soglia di inadempimenti superiore ad un certo importo fissato per legge, attualmente
in 30.000 euro (art. 15, 9° comma).
La qualità di imprenditore commerciale (c.d. presupposto soggettivo) soffre due diverse
limitazioni poiché non sono assoggettabili a fallimento alcune tipologie di imprese e di
imprenditori che ricadono nell’ambito di applicazione della liquidazione coatta amministrativa
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(es. le imprese bancarie e assicurative, le SIM, le SICAV, le SGR) e quelle che rientrano nella
sfera di applicazione delle due tipologie di amministrazione straordinaria.
Lo stato d’insolvenza (c.d. presupposto oggettivo) viene definito dalla legge (art. 5) come la
condizione in cui l’imprenditore «non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie
obbligazioni». Tale stato d’insolvenza si può manifestare con l’inadempimento di una o più
obbligazioni o attraverso altri indici esteriori rivelatori del dissesto, quali i pagamenti con
mezzi anormali –come prestiti usurari o vendite sottocosto-, la fuga o la latitanza
dell’imprenditore, la chiusura dei locali dell’impresa o il trafugamento dell’attivo patrimoniale
(art. 7, co. 1, n.1). Quindi può esserci insolvenza anche senza inadempimento e
inadempimento anche senza insolvenza. L’insolvenza, inoltre, è una situazione di impotenza
patrimoniale non transitoria ma definitiva, diversa dalla temporanea difficoltà di adempimento
che può dipendere da un semplice deficit di liquidità.
I limiti dimensionali hanno sostituito quella che in passato era la condizione esonerativa dal
fallimento della piccolezza delle imprese commerciali e la presunzione di non piccolezza delle
società commerciali. Oggi non si fa più riferimento ai piccoli imprenditori commerciali, come
condizione esonerativa del fallimento, ma alla ricorrenza congiunta di tre soglie
dimensionali:
- attivo patrimoniale nei 3 esercizi precedenti al deposito dell’istanza di fallimento, o
dall’inizio dell’attività se di durata inferiore a 3 anni, di ammontare complessivo annuo
superiore a 300.000 euro;
- ricavi lordi realizzati nei 3 esercizi precedenti al deposito dell’istanza di fallimento, o
dall’inizio dell’attività se di durata inferiore a 3 anni, di ammontare complessivo annuo
inferiore a 200.000 euro;
- debiti anche non scaduti inferiori a 500.000 euro.
Il superamento anche di uno solo di questi limiti determina la fallibilità dell’impresa o della
società a prescindere dal possesso del requisito di piccolezza ai sensi dell’art. 2083 c.c. La
prova del possesso di tali condizioni grava sul debitore che voglia sottrarsi alla dichiarazione
di fallimento. Invece al creditore che faccia istanza di fallimento sarà sufficiente dimostrare il
superamento di una delle soglie (presumibilmente sarà più semplice fornire la prova dell’entità
dei debiti).
Tali limiti sono soggetti a revisione triennale da parte del Ministero della Giustizia in base alle
variazioni Istat dei prezzi al consumo.
L’entità degli inadempimenti → La vecchia disciplina fallimentare non prevedeva eccezioni
alla fallibilità o alla procedibilità per insolvenze di modesta entità: era previsto soltanto un rito
sommario e abbreviato per i fallimenti che non superassero lire 1.500.000 di passività.
Tuttavia si era diffusa nei tribunali, in ottemperanza ad un principio di economicità dell’azione
amministrativa e giudiziaria, la prassi di non dichiarare il fallimento per inadempimenti di
modesta entità.
La riforma del 2006 ha codificato tale prassi uniformandola, anche in ragione
dell’obsolescenza della precedente soglia che, col passaggio all’euro, aveva perso la sua
significatività.
Oggi esiste una soglia di 30.000 euro come condizione per la dichiarazione di fallimento ed è
suscettibile di aggiornamento triennale da parte del Ministero della Giustizia (così come
previsto per l’art. 1, comma 2).
CONCORDATO PREVENTIVO
Nella vecchia disciplina il concordato presupponeva l’insolvenza del debitore e il possesso di
requisiti di meritevolezza che attestassero l’affidabilità dell’imprenditore stesso (quali l’iscrizione
nel R.I. e la corretta tenuta della contabilità, non essere stato dichiarato fallito nel quinquennio
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precedente, non aver subito condanne penali per bancarotta, delitti contro il patrimonio, contro la
fede pubblica o l’economia, l’industria e il commercio), ed aveva una funzione squisitamente
liquidativa dell’impresa.
Invece al salvataggio dell’impresa, attraverso una moratoria dei pagamenti, era preposta
l’amministrazione controllata (oggi abrogata).
Pertanto il nuovo concordato preventivo assomma le due diverse finalità delle previgenti
procedure alternative (concordato e amministrazione controllata) potendo assolvere sia alla
funzione di risanamento economico e finanziario dell’impresa, ovvero alla liquidazione del suo
patrimonio con la cessazione dell’attività.
Presupposto unico è quindi lo stato di crisi (art. 160 l.fall.), che ricomprende sia una difficoltà
economico-finanziaria temporanea e reversibile sia lo stato d’insolvenza vero e proprio ossia una
impossibilità definitiva e irreversibile di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni. In
quest’ultimo caso il concordato serve ad evitare il fallimento e deve essere attuato prima che sia
dichiarato lo stesso.
Non è più necessario come in passato il soddisfacimento per intero dei creditori privilegiati ed
il 40% (minimo) dei chirografari. Oggi l’art. 160 prevede che “i creditori muniti di privilegio,
pegno o ipoteca siano soddisfatti in misura non inferiore a quella realizzabile sul ricavato in caso
di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni sui quali sussiste la causa
di prelazione”. Tale valore dovrà essere indicato nella relazione giurata di un esperto designato dal
tribunale. Il legislatore ha così inteso disciplinare l’ipotesi in cui il ricavato della vendita di un
bene gravato da privilegio sia inferiore al valore del privilegio stesso.
In relazione al contenuto del concordato non si distingue più, come in passato, tra concordato
mediante cessione dei beni e quello con dazione di garanzie, ma si ammette che la proposta di
concordato formulata dal debitore, e accompagnata dalla relazione di un professionista che ne
attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, possa prevedere:
a) la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei creditori attraverso qualsiasi forma
(cessione dei beni, accollo, operazioni straordinarie, assegnazioni di azioni, quote, strumenti
finanziari ecc.);
b) la dilazione dei termini di pagamento o il soddisfacimento parziale dei creditori;
c) l’attribuzione ad un assuntore delle attività delle imprese interessate dalla proposta;
d) la suddivisione in classi dei creditori secondo posizione giuridica ed interessi economici
omogenei, con trattamenti differenziati per le varie classi. Tuttavia l’attribuzione di trattamenti
differenziati per classe non può avere l’effetto di alterare l’ordine delle cause legittime di
prelazione.
Il concordato preventivo è un accordo assunto tra imprenditore e creditori, giudiziale, di
massa e solutorio.
Accordo giudiziale perché non è sufficiente che l’accordo venga raggiunto tra le parti ed
approvato da una maggioranza qualificata di creditori, ossia la maggioranza dei crediti ammessi al
voto (art. 177) e la maggioranza delle classi, se previste; è necessario che venga omologato dal
tribunale, previo controllo di legalità e di merito della proposta.
Accordo di massa perché, una volta approvato, produce effetti per tutti i creditori anteriori.
Accordo solutorio perché, come il concordato fallimentare, libera definitivamente
l’imprenditore dai suoi debiti anche per la parte eccedente la percentuale concordataria,
estinguendo tutti i suoi debiti pregressi. Tale effetto deriva dall’omologazione del concordato da
parte del Tribunale.
Il concordato preventivo può essere è vantaggioso sia per il debitore sia per i creditori.
E’vantaggioso per il debitore perché gli evita le conseguenze patrimoniali, personali e penali del
fallimento: non subisce lo spossessamento dei suoi beni e conserva l’amministrazione dei suoi
beni e la gestione dell’impresa, anche se risulterà necessaria l’autorizzazione del giudice delegato
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per gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione. Ma il concordato può essere vantaggioso
anche per i creditori perché ricavano dall’accordo più di quanto riuscirebbero ad ottenere dal
fallimento ed in tempi certamente più rapidi, mettendo al sicuro gli atti esecutivi del concordato
dall’azione revocatoria fallimentare (art. 67, 3° co.). Ovviamente i creditori non potranno
compiere azioni esecutive individuali, dovendo essere pagati sempre concorsualmente e nel
rispetto della par condicio creditorum, anche se nel concordato preventivo viene omessa la fase
dell’accertamento dello stato passivo. Ma in caso di risoluzione del concordato per
inadempimento o annullamento dello stesso (per le stesse cause previste dalla legge per
l’annullamento del concordato fallimentare) sarà possibile l’apertura del fallimento con la
consecuzione delle due procedure.
LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA
La liquidazione coatta è una procedura amministrativa (non giudiziale) cui sono assoggettate
determinate categorie di imprese non necessariamente commerciali (come per es. le società
cooperative e i loro consorzi) per lo più quando si tratti di imprese pubbliche (enti pubblici
economici) o imprese private soggette ad una vigilanza pubblica (imprese bancarie, assicurative,
Sgr, Sim, Sicav, società di revisione e società fiduciarie).
Lo scopo di questa procedura è l’eliminazione dal mercato dell’impresa colpita dal relativo
provvedimento, assicurando anche il soddisfacimento concorsuale dei creditori.
Presupposti della procedura possono essere sia lo stato d’insolvenza, sia gravi irregolarità di
gestione, integranti la violazione di norme di legge o regolamentari, sia ragioni di pubblico
interesse che giustificano la soppressione dell’ente.
Di regola vi è una riserva di liquidazione coatta per le imprese indicate, ma in alcuni casi
(come per le società cooperative) c’è la possibilità anche della sottoposizione a fallimento in caso
d’insolvenza, nel qual caso il possibile conflitto tra le due procedure è risolto col criterio della
prevenzione: la procedura che viene avviata per prima sarà portata avanti a scapito dell’altra.
La liquidazione coatta amministrativa è disposta dall’Autorità di vigilanza di settore con
decreto e prevede la nomina di un commissario liquidatore e di un comitato di sorveglianza.
Si dovranno sempre applicare le norme inderogabili previste dalla legge fallimentare che
regolano la procedura secondo i principi del concorso, nonché quelle che prevedono l’intervento
dell’autorità giudiziaria a tutela dei diritti soggettivi dei creditori e dei terzi coinvolti.
Ma resta di competenza esclusiva dell’autorità giudiziaria l’accertamento dell’eventuale stato
d’insolvenza, per le sole imprese private, che può essere anteriore o successivo al provvedimento
amministrativo di apertura della liquidazione coatta. Solo gli enti pubblici economici (non anche
le società di capitali a partecipazione pubblica) sono sottratti all’accertamento preventivo dello
stato d’insolvenza.
AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA DELLE GRANDI IMPRESE IN CRISI
L’amministrazione straordinaria fu introdotta in Italia alla fine degli anni ‘70 allo scopo di
evitare l’effetto dissolutivo delle imprese commerciali connaturato al fallimento e alla
liquidazione coatta, realizzando il salvataggio del complesso produttivo in crisi e la conservazione
dei posti di lavoro per le grandi imprese commerciali insolventi.
E’ stata poi abrogata e riscritta con il D.Lgs. 270/1999 (c.d. legge Prodi) per scongiurare gli
effetti distorsivi della concorrenza cui aveva portato la legge precedente, volta a favorire la
permanenza in vita di imprese anche prive di prospettive di ripresa e sulle spalle della collettività,
incentivando la prassi anticoncorrenziale degli aiuti di Stato.
I presupposti della procedura sono:
1. la natura commerciale dell’impresa;
2. lo stato d’insolvenza;
3. un numero di dipendenti non inferiore a 200, impiegati da almeno 1 anno;
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4. debiti complessivi non inferiori a 2/3 del totale dell’attivo dello stato patrimoniale e dei
ricavi dell’ultimo esercizio;
5. la presenza di “concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico” (requisito che
viene accertato dopo l’apertura della procedura).
Si svolge in due fasi, una di natura giudiziaria e l’altra amministrativa: l’accertamento
dell’insolvenza e l’apertura dell’amministrazione straordinaria avviene dinanzi all’autorità
giudiziaria (fase giudiziaria); successivamente la gestione della procedura con la continuazione
automatica dell’attività d’impresa avviene da parte di un commissario straordinario nominato dal
Ministro dello sviluppo economico e sotto la vigilanza del suo ministero (fase amministrativa).
I PRESUPPOSTI DELL’AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA SPECIALE EX DECRETO MARZANO
(D.L. 347/’03)
Questa seconda amministrazione straordinaria speciale si differenzia dalla prima sotto tre
diversi aspetti: è rivolta a disciplinare la ristrutturazione delle imprese di dimensioni maggiori
rispetto a quelle cui si rivolge la prima tipologia di amministrazione straordinaria; privilegia il
programma di risanamento rispetto alla cessione dei complessi aziendali; consente un avvio più
spedito della procedura con risparmio notevole dei tempi iniziali di start up.
I presupposti dell’amministrazione straordinaria delle grandissime imprese in crisi sono:
1. la natura commerciale dell’impresa (assoggettabilità a fallimento);
2. lo stato d’insolvenza;
3. un numero di dipendenti non inferiore a 500, impiegati da almeno 1 anno;
4. debiti, inclusi quelli derivanti da garanzie rilasciate da terzi, non inferiori a 300 milioni di
euro;
5. la realizzazione di un programma di ristrutturazione dell’impresa (e non di cessione della
stessa).
In presenza di tali requisiti l’ammissione all’amministrazione straordinaria viene disposta
direttamente dal Ministero dello sviluppo economico, sulla base di una semplice richiesta
dell’impresa in crisi. Il decreto di apertura dispone lo spossessamento dell’imprenditore e la
gestione dell’impresa viene assunta da un commissario straordinario che interdice le azioni
esecutive individuali.
COMPOSIZIONE DELLE CRISI DA SOVRA INDEBITAMENTO DEI DEBITORI CIVILI
E DELLE IMPRESE NON FALLIBILI
La legge 27 gennaio 2012, n.3 Disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di
composizione delle crisi da sovraindebitamento (in vigore dal 29.02.2012), ha introdotto un
accordo di composizione della crisi, di tipo giudiziale perché soggetto ad omologazione da parte
del Tribunale, per i debitori civili e per gli imprenditori non fallibili (in mancanza dei requisiti di
cui all’art. 1 l.fall.). Il successivo decreto di modifica della legge 3/2012 (d.L. 179/2012) ha
aggiunto due ulteriori procedure: un piano del consumatore (art. 12-bis), ossia un accordo di
composizione della crisi sempre di tipo giudiziale e di poco differente rispetto al primo, che
presenta la variante peculiare di essere utilizzabile solo da soggetti qualificabili come consumatori
(non da imprenditori né da professionisti); ed una procedura di liquidazione del patrimonio (art.
14-ter) che può essere alternativa o successiva alle prime due procedure.
Presupposti comuni a questi tre procedimenti concorsuali sono quello soggettivo, di non essere
imprenditori soggetti al fallimento ovvero di essere consumatori, ossia debitori civili che hanno
contratto debiti al di fuori della propria attività professionale; e quello oggettivo del
“sovraindebitamento”, con cui si intende la situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni
assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, ovvero la definitiva incapacità del
debitore di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni.
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Ulteriore tratto comune a questi tre procedimenti è la previsione di organismi di composizione
delle crisi deputati ad assistere i debitori nella predisposizione dell’accordo e nella liquidazione.
Tali organismi (chiamati anche con l’acronimo OCC) possono essere costituiti o dagli enti
pubblici ed iscritti in un apposito registro tenuto presso il Ministero della Giustizia; oppure sono
iscritti di diritto, a semplice domanda, nel medesimo registro gli organismi di conciliazione
costituiti presso le camere di commercio, gli ordini professionali degli avvocati, dei
commercialisti ed esperti contabili e dei notai.
a) La prima procedura è definita dalla legge come un accordo di ristrutturazione dei debiti che
può avere il più ampio contenuto, come gli accordi di ristrutturazione dei debiti dell’imprenditore
fallibile, e viene proposta dal debitore ai suoi creditori con l’ausilio degli organismi di
composizione della crisi. L’accordo però deve inderogabilmente contenere le previsioni relative a:
- le modalità per l’integrale pagamento dei titolari di crediti impignorabili ai sensi dell’art. 545
c.p.c. e dei debiti tributari;
- il pagamento anche non integrale dei creditori privilegiati purché ne sia assicurato il
pagamento in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale
sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai
diritti sui quali insiste la causa di prelazione, come attestato dagli organismi di composizione della
crisi;
- il consenso dei creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti, con esclusione dei
privilegiati se la proposta prevede il loro integrale soddisfacimento e salvo che non rinuncino in
tutto o in parte alla prelazione.
Invece non è più previsto il regolare pagamento dei creditori estranei all’accordo, poiché
l’accordo produce effetti generali e vincolanti, perciò è obbligatorio, per tutti i creditori anteriori,
ancorché dissenzienti, sin dal momento in cui viene data pubblicità al decreto di omologazione
dell’accordo stesso. Mentre i creditori con causa o titolo posteriore al decreto di omologazione
non possono procedere esecutivamente sui beni oggetto del piano.
E’ stato anche risolto con le ultime modifiche il problema, che nella prima stesura della legge
era rimasto aperto, dell’applicabilità dell’azione revocatoria agli atti esecutivi di un accordo di
composizione della crisi, nell’ipotesi in cui a questa procedura consegua la dichiarazione di
fallimento del debitore–imprenditore. Oggi l’art. 12, 5° comma, prevede espressamente che “gli
atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione dell'accordo omologato non sono
soggetti all'azione revocatoria di cui all'articolo 67 l.fall.”.
E’ rimasta invece la previsione dell’art. 12, 5° comma, che prevede che “la sentenza di
fallimento pronunciata a carico del debitore risolve l’accordo”. Appare evidente che la previsione
debba riferirsi, come la precedente, non al consumatore ma ad un debitore-imprenditore, il quale,
pur non essendo assoggettabile a fallimento nel momento di avvio della procedura, lo diventi in un
momento successivo (per superamento di una delle soglie di cui all’art. 1 l.fall.).
b) La seconda procedura di composizione della crisi del debitore civile è il piano del
consumatore che si presenta in tutto simile all’accordo di composizione della crisi suddetto ma
con alcune varianti:
- la riduzione di tutti i termini di definizione dell’accordo e di omologazione dello stesso;
- gli accertamenti svolti dal Tribunale al fine di decidere sull’omologazione sono incentrati
sulla condotta del consumatore, sulla sua capacità di assumere responsabilmente obbligazioni
ovvero di contrarre debiti superiori alle proprie capacità di reddito, sulla verifica circa la fattibilità
del piano e l'idoneità dello stesso ad assicurare il pagamento dei crediti impignorabili, nonché dei
crediti fiscali e privilegiati;
- non è richiesta dalla legge l’approvazione del piano da parte della maggioranza dei creditori.
Probabilmente perché la maggiore ampiezza dei poteri di accertamento nel merito del piano da
parte del giudice omologante e la prevedibile minore entità e numerosità dei creditori rispetto a
quelli di un imprenditore hanno indotto il legislatore a ritenere superflua l’approvazione.
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c) La terza procedura è quella di liquidazione del patrimonio del debitore civile, c.d.
consumatore, o del debitore-imprenditore non fallibile, che può avvenire sia alternativamente e
prima che sia proposto un accordo di composizione della crisi sia dopo, ove il primo fosse risolto
per inadempimento o annullato. In quest’ultimo caso si parla di conversione dell’accordo di
composizione della crisi in liquidazione del patrimonio. La tecnica seguita è quella di una
procedura liquidativa molto snella ma pur sempre modellata sul tipo della liquidazione
fallimentare:
 vi è la nomina di un liquidatore, il quale procede a fare innanzitutto l’inventario dei beni
del debitore;
 successivamente fissa un termine per la presentazione delle domande di ammissione alla
liquidazione e lo comunica ai creditori;
 all’esito della ricognizione di tutte le domande di ammissione alla liquidazione, il
liquidatore forma lo stato passivo e redige un programma di liquidazione per la dismissione del
patrimonio del debitore;
 la liquidazione può concludersi con l’esdebitazione come nel fallimento, al ricorrere di
certi requisiti di meritevolezza (art. 14-terdecies);
 la liquidazione viene chiusa con decreto del Tribunale dopo che siano decorsi almeno 4
anni dalla domanda del debitore (14-quinquies, comma 4). Durante i quattro anni della procedura
tutti i beni sopravvenuti nel patrimonio del debitore vengono assorbiti e destinati alla liquidazione
(art. 14-undecies).
ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI
Si tratta di strumenti di risoluzione delle crisi d’impresa alternativi al fallimento che
presuppongono un accordo tra debitore e creditori ma, a differenza del concordato preventivo, non
sono concordati giudiziali né di massa: vengono stipulati in sede stragiudiziale (il tribunale
interviene solo dopo la stipulazione in funzione di controllo) e non hanno efficacia verso tutti i
creditori ma solo nei confronti dei creditori aderenti al piano (i creditori estranei dovranno essere
pagati regolarmente e per intero).
Il presupposto previsto dalla legge (art. 182-bis) è che l’imprenditore si trovi in stato di crisi
(come per il concordato preventivo) cioè si trovi in condizioni di difficoltà economico-finanziaria
ed abbia il timore di un’istanza di fallimento da parte dei creditori.
La finalità di tali accordi è il superamento della crisi, assicurando ai creditori il regolare
pagamento dei loro crediti secondo le modalità più opportune (rateizzazione o dilazione dei
pagamenti, conversione dei crediti in partecipazioni sociali, erogazione di nuovi finanziamenti
all’impresa, assunzione di nuove garanzie o cessione dei beni) e la protezione da un’eventuale
successiva azione revocatoria in caso di fallimento (art. 67, 3° comma).
All’accordo devono aderire almeno il 60% dei creditori e dopo la stipula il debitore ne deve
chiedere l’omologazione al tribunale corredando il ricorso della stessa documentazione necessaria
per l’ammissione al concordato preventivo, tra cui in particolare l’attestazione di fattibilità
dell’accordo da parte di un esperto.
A differenza del concordato preventivo questi accordi di ristrutturazione possono intervenire
anche a fallimento già dichiarato, provocando così la chiusura del fallimento e la mancata
presentazione delle domande di ammissione al passivo (art. 118, n.1).
PIANI DI RISANAMENTO
I piani di risanamento non sono compiutamente disciplinati dalla legge fallimentare, ma
soltanto menzionati dall’art. 67, 3° comma, lett. d), l.fall. Sono anch’essi delle forme di
risoluzione stragiudiziale delle crisi d’impresa e presentano il vantaggio di proteggere dall’azione
revocatoria gli atti esecutivi dei piani medesimi, in caso di successivo fallimento.
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Si presentano, però, più semplici da stipulare rispetto agli accordi di ristrutturazione ed al
concordato preventivo perché non è prevista una percentuale minima di creditori aderenti né
l’omologazione da parte del tribunale.
La legge si limita a prevedere che il piano debba apparire “idoneo a consentire il risanamento
della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione
finanziaria”. Inoltre la “ragionevolezza del piano deve essere attestata da un professionista iscritto
all’albo dei revisori contabili”.
I piani di risanamento, però, presentano un evidente svantaggio rispetto alle altre forme
concordatarie di risoluzione delle crisi: il rischio che vengano ritenuti a posteriori (dal curatore
fallimentare e dal giudice delegato dopo la dichiarazione di fallimento) inidonei al superamento
della crisi e perciò non venga riconosciuta l’esenzione da revocatoria agli atti esecutivi degli
stessi.
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