Colonialismo/postcolonialismo (stratto)

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Colonialismo/postcolonialismo (stratto)
Universale Meltemi
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studi coloniali e postcoloniali /scienze sociali
Edizione originale:
Colonialism/postcolonialism
© 1998 Ania Loomba
Prima edizione: Routledge, 1998
Edizione italiana realizzata grazie alla mediazione
dell’Agenzia Letteraria Eulama
Traduzione di Francesca Neri
Copyright © 2000 Meltemi editore srl, Roma
Nuova edizione: settembre 2006
È vietata la riproduzione, anche parziale,
con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia,
anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.
Meltemi editore
via Merulana, 38 - 00185 Roma
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Ania Loomba
Colonialismo/postcolonialismo
o
MELTEMI
Indice
p.
7
Prefazione all’edizione italiana
10
Introduzione
18
Capitolo primo
Introduzione agli studi coloniali e postcoloniali
18
Definire i termini: colonialismo, imperialismo,
neocolonialismo, postcolonialismo
Dal colonialismo al discorso coloniale
Il discorso coloniale
Colonialismo e conoscenza
Colonialismo e letteratura
Testo, discorso e processi materiali
35
57
69
80
103
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Capitolo secondo
Identità coloniali e postcoloniali
112
129
138
153
172
Costruire la differenza razziale e culturale
Razza, classe e colonialismo
Psicoanalisi e soggetti coloniali
Sesso, preferenze sessuali e discorso coloniale
L’ibridità
183
Capitolo terzo
Sfidare il colonialismo
183
210
Nazionalismo e pan-nazionalismo
Femminismo, nazionalismo e postcolonialismo
225
238
I subalterni possono parlare?
Postmodernismo e studi postcoloniali
246
Conclusioni
250
Bibliografia
Prefazione all’edizione italiana
Negli ultimi anni gli studi postcoloniali sono stati associati,
per molti studiosi e lettori di tutto il mondo, a quel tipo di approccio poststrutturalista alla letteratura e alla cultura che è
tipico del mondo accademico anglo-americano; anche per
questo il linguaggio della critica postcoloniale viene spesso
considerato eccessivamente specialistico e difficile da capire.
Allo stesso tempo, mentre la maggior parte dei critici postcoloniali si considerano scrittori e insegnanti impegnati, le loro
opere sembrano ad alcuni studiosi (specialmente se non vivono in Inghilterra o in America) far parte di un campo disciplinare così stranamente depoliticizzato da suscitare un approccio molto fragile alla cultura e alla letteratura. In un seminario
in Svezia ad aprile, ho scoperto che alcuni accademici – molto
preparati e con una profonda conoscenza delle letterature del
mondo ex-coloniale – condividevano gli stessi sospetti che nutrono verso gli “studi postcoloniali” i loro colleghi che vivono
in India, in Sudafrica, ecc. Sono certa che lo stesso atteggiamento è diffuso anche in Italia; ed è un punto di vista che, se
da un lato ha le sue ragioni, dall’altro è nettamente controproducente, perché abbiamo ancora bisogno di studiare i rapporti fra le forme che il colonialismo ha assunto in diverse parti
del mondo.
In Colonialismo/Postcolonialismo ho cercato di mostrare
in che modo la critica del colonialismo derivi e al tempo stesso influenzi un mondo intellettuale e politico. Non dobbiamo
dimenticare, del resto, che la critica al colonialismo è nata da
intellettuali e attivisti politici di tutto il mondo che non sempre avevano posizioni contrastanti. Anzi. Antonio Gramsci è
riuscito a fondere queste due aspirazioni e, in questo volume,
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ANIA LOOMBA
ho spiegato perché dovremmo seguire l’esempio di Stuart
Hall nel porre l’opera di Gramsci al centro delle nostre analisi
delle società e delle culture postcoloniali. Gli scritti di Gramsci ci permettono di approfondire i legami fra il capitalismo e
la classe, da un lato, e la razza, l’etnicità e il colonialismo dall’altro. Gramsci ha posto le basi che hanno consentito di costruire e sviluppare una riflessione sulle questioni nazionali e
regionali all’interno dello sviluppo capitalista. Grazie alla sua
opera, ci si è resi conto che anche le categorie marxiste, come
quella di proletariato, non sono monolitiche, ma frammentate
al loro interno dalla razza e dalla religione: un passo fondamentale per la comprensione del colonialismo. Gli scritti di
Gramsci sull’ideologia hanno rifiutato la distinzione semplicistica fra le strutture materiali esterne in cui e di cui gli esseri
umani vivono e le convinzioni e le idee che intimamente li animano. I legami complessi fra l’etnicità e il capitalismo, fra
struttura e credenze sono infatti essenziali per lo studio del
colonialismo e delle sue conseguenze. Il colonialismo è stato,
in fin dei conti, un sistema economico globale e, al tempo
stesso, un’ideologia. E il suo funzionamento si basava sulla capacità di persuadere alcuni della loro superiorità e altri della
loro inferiorità. Senza una comprensione della cultura del colonialismo non è possibile analizzare nemmeno le sue dinamiche economiche; viceversa, ignorare le sue dinamiche economiche significa proporre un’analisi superficiale del fenomeno
e della sua eredità attuale.
Ho cercato di rendere più evidente un fatto: sia l’opera di
pensatori che hanno svolto un ruolo fondamentale a sostegno
dei movimenti anti-coloniali, sia le diverse tradizioni intellettuali, possono essere meglio comprese all’interno di reti che
non devono più essere costrette nelle facili contrapposizioni
fra marxismo e post-strutturalismo o fra pensiero economico
e critica culturale. Si tratta di reti veramente internazionali,
perché frutto di una lunga storia di dialoghi intellettuali senza
i quali non sarebbero mai esistite. Questo è il motivo per cui
gli studi postcoloniali hanno bisogno di essere praticati in una
comunità internazionale, per essere un campo di studi vitale.
In questo libro, ho analizzato puntigliosamente le critiche rivolte a questo campo di studi. Alcune devono essere prese sul
serio, e lo si può fare solo facendo crescere il numero dei criti-
PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ITALIANA
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ci e dei lettori. Ma spesso le critiche agli studi postcoloniali
provengono da punti di vista conservatori e, come dire, parrocchiali. Questi vanno combattuti fermamente. È troppo facile lamentarsi che i critici postcoloniali si siano venduti alle
università occidentali, rannicchiandosi poi nella contemplazione compiaciuta di quella che si considera la “propria” cultura. Sono assolutamente convinta che gli studi postcoloniali,
nonostante i loro difetti, abbiano aperto un dibattito internazionale consentendo di esaminare i legami storici e anche le
differenze fra diversi luoghi e diverse culture. Specialmente
nel campo della letteratura, gli studi postcoloniali hanno fortemente rinnovato e riconfigurato la letteratura comparata e
anche l’insieme di discipline note col nome di “letterature del
Commonwealth”, “letteratura del mondo” o addirittura “letterature del terzo mondo”. Questi campi di studio o non si
occupavano degli squilibri del colonialismo, o li accettavano
adottandone le gerarchie. Gli studi postcoloniali contemporanei hanno rivitalizzato il lavoro comparativo, ma hanno anche
permesso che in quelle università, sino ad allora chiuse e conservatrici, potessero nascere spazi legittimi dedicati allo studio
di letterature non occidentali.
Spero che i critici riescano a dialogare, al di là delle differenze linguistiche, sulle vere difficoltà che derivano dalla natura interdisciplinare e interculturale di questo campo di studi, proprio perché si tratta di questioni di grande importanza.
Allo stesso tempo, spero che il libro sia utile ai lettori italiani
per approfondire le questioni con cui ci dobbiamo confrontare in quanto insegnanti e studenti di storia della letteratura di
tutto il mondo.
A. L., gennaio 2000
Introduzione
Il campo relativamente nuovo degli studi postcoloniali è
circondato da molto entusiasmo, ma anche da confusione e
scetticismo. Per molti non è chiaro che cosa ci sia di nuovo in
questi studi, perché dopo tutto ci sono testi sul colonialismo
vecchi quasi quanto il colonialismo stesso. Altri sono riusciti
a capire cosa ci sia di nuovo, ma non gli è piaciuto, forse perché i nuovi modi di studiare il colonialismo e le sue conseguenze sono oggi di moda nelle università di tutto il mondo.
Un recente saggio di Russell Jacoby lamenta che il termine
“postcoloniale” sia diventato “l’ultimo termine onnicomprensivo a titillare la mente degli accademici” (1995, p. 30). Così a
un’amica di Jacoby che voleva sapere la provenienza di un vaso è stata data la risposta: “Beh, è postcoloniale!”. Ci sono
stati diversi battibecchi sulla definizione di “colonialismo”, e
qualcuno anche sul significato di “post”; tutti hanno contribuito alla confusione sugli “studi postcoloniali”, tanto che
anche “chi ne è entusiasta non sa esattamente cosa siano”. Jacoby aggiunge che molta teoria è scritta in modo poco chiaro,
che il suo valore è minacciato dalle lotte fra i critici che si accusano a vicenda di complicità con le strutture di pensiero
coloniali e che – nonostante la sua intenzione dichiarata sia
far sì che le voci dei popoli un tempo colonizzati e dei loro
discendenti possano essere ascoltate – in realtà essa elimina
queste voci delegittimando la posizione dei critici.
Ora, nonostante questo attacco nasconda a stento il conservatorismo politico e disciplinare dell’autore, molte delle
sue critiche sono condivise anche da chi ha un’opinione migliore degli studi postcoloniali oltre che da molti studenti che
per la prima volta si avvicinano a questa disciplina, soprattutto se si trovano in università non occidentali. Trovo sempre
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irritante che gli oggetti, il cibo o gli abiti (e forse le idee) che
provengono dalla mia parte del mondo diventino “etnici” in
Europa o in Nord America: in India, “etnico” si usa per le
culture e gli oggetti delle popolazioni tribali o rurali, specialmente quando vengono messi in vendita in mercati alla moda. Ci si deve perciò chiedere: termini come “etnico” e “postcoloniale” stanno forse diventando un modo per indicare
qualcosa di marginale (e alla moda)?
Gli studi accademici sul postcolonialismo sono stati influenzati da un ampio spettro di pratiche sociali e culturali
esterne all’università, sulle quali hanno a loro volta avuto un
impatto, nonostante alcuni dei più importanti saggi degli studi postcoloniali siano notoriamente difficili da leggere e da
utilizzare in aula. Quanti non si occupano direttamente di letteratura inglese tendono ad accentuare particolarmente questa difficoltà, perché il “campo” ha elementi in comune con
quello generale della teoria della letteratura che è, a sua volta,
piena di termini gergali, confusa e lontana dalla vita di tutti i
giorni. Può darsi che “la teoria occidentale” sia stata trasformata in seguito ai suoi incontri con “le culture non occidentali” (Lloyd 1994), ma molti accademici “del terzo mondo”
sono critici anche nei confronti di questa teoria trasformata, e
di tutta la teoria postcoloniale, perché sembra distante dalle
realtà del mondo “non occidentale” e perché si suppone
coincida con il “post-modernismo”. Il post-modernismo, per
alcuni, è una malattia tipicamente occidentale che causa ansia
e disperazione invece di contribuire all’attivismo politico e alla resistenza. Ci sono state, però, critiche molto simili a queste anche da parte di accademici di università occidentali.
Questo campo di studi, quindi, è almeno tanto discusso
quanto alla moda, dal momento che, come dice Stuart Hall
(1996a, p. 242), “su di esso si è riversato un investimento inconscio potentissimo, che per alcuni è un segno del desiderio
e per altri un segnale di pericolo”.
Il termine “postcolonialismo”, perciò, è diventato così vago e diffuso che è impossibile descrivere in maniera soddisfacente cosa possa rientrare nel suo ambito. Questa difficoltà è
in parte dovuta alla natura interdisciplinare degli studi postcoloniali, che spaziano dall’analisi letteraria alla ricerca di testi medici fino alla teoria economica, e di solito associano
queste ad altre aree. Ma è pur vero che i nuovi linguaggi criti-
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ANIA LOOMBA
ci non sono soltanto “gerghi”, anche se a volte può sembrare
che l’immediatezza comunicativa non sia una priorità per chi
li utilizza. La cautela con cui molti studiosi intervengono nel
dibattito può manifestarsi sotto forma di riluttanza a espandere o a cambiare il proprio vocabolario politico e concettuale.
Questi linguaggi sono emersi dai recenti sviluppi delle scienze
sociali e dagli studi letterari e linguistici; di conseguenza non
possono essere semplicemente sostituiti con termini tratti dal
linguaggio quotidiano. È importante, tuttavia, tentare di presentare le questioni centrali anche in un linguaggio più accessibile. I curatori di un’antologia recente sugli studi postcoloniali hanno affermato che la teoria postcoloniale non deve necessariamente essere “difficile in modo deprimente” (Williams, Chrisman 1994, p. IX); questo libro è scritto con la stessa ottica, nella speranza di aiutare i lettori a pensare alle potenzialità intellettuali e politiche di questi sviluppi recenti della ricerca accademica.
Il moderno colonialismo europeo ha avuto dei tratti peculiari ed è stato più esteso dei diversi tipi di contatto colonialeche si sono verificati spesso nella storia dell’uomo. Nel 1930,
l’84,5 per cento della superficie emersa del globo era costituita da colonie o ex colonie. Solo alcune parti dell’Arabia, l’Iran, l’Afghanistan, la Mongolia, il Tibet, la Cina, la Thailandia
e il Giappone non erano mai stati formalmente sotto un governo europeo (Fieldhouse 1989, p. 373). Una tale ampiezza
geografica e storica rende impossibile fare delle sintesi. E rende anche difficile “teorizzare” il colonialismo, perché esisterà
sempre qualche istanza particolare che potrà negare qualunque generalizzazione possiamo fare sulla natura del colonialismo o della resistenza. C’è sempre un certo grado di semplificazione in qualunque tentativo di ridurre, schematizzare o
riassumere dibattiti e storie complesse; lo studio del colonialismo è particolarmente vulnerabile rispetto a questi problemi a
causa delle pratiche eterogenee del colonialismo e del suo impatto nel corso degli ultimi quattro secoli. Qualunque studioso del colonialismo, a seconda della sua specializzazione disciplinare, sceglierà esempi particolari, sottolineerà alcuni aspetti
e assumerà una prospettiva personale pur occupandosi degli
stessi oggetti di altre ricerche.
In questo volume non ho cercato di fornire definizioni
perfette o di proporre resoconti completi delle storie e delle
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ideologie coloniali. Mi sono piuttosto sforzata di presentare i
temi, gli eventi e le questioni più importanti, concentrandomi
sui dibattiti principali e sulle ricerche che aiuteranno i lettori
a farsi un’idea della loro complessità e delle relazioni che li
collegano.
Solo perché gli studi coloniali comprendono un’area tanto
vasta, questo non significa che ci dovremmo limitare a studiare solo casi particolari, senza nessun tentativo di pensare alle
strutture più ampie del dominio e del pensiero coloniale. Ma
come possiamo leggere insieme il generale e il particolare? A
volte si parte dal presupposto che i resoconti più antichi del
colonialismo non siano soddisfacenti dal punto di vista teorico perché si basano su uno studio empirico di eventi specifici,
a differenza degli studi recenti che sono teorici perché non si
limitano ai soli eventi. Si tratta di un fraintendimento: gli studi convenzionali del colonialismo sono teorici nel senso che
anche questi si fondano su presupposti più ampi sulla natura
del contatto coloniale o si scontrano su alcuni temi, ad esempio se il dominio coloniale sia economicamente vantaggioso
per la “madre” patria. Qual è allora la differenza fra le due
prospettive? A volte i critici degli studi postcoloniali sostengono che queste prospettive non sono niente di nuovo e a volte sembrano invece temere che le innovazioni non siano sempre utili per capire questo ambito ampio e complesso della
storia dell’uomo. I suoi sostenitori, invece, credono che le
nuove prospettive non solo offrano diversi punti di vista sul
passato, ma ci aiutino a capire i continui cambiamenti del
mondo.
Si corrono certamente alcuni rischi se queste prospettive
diventano istituzionalizzate, specialmente nel dipartimento di
letteratura inglese. Ella Shohat sottolinea le implicazioni negative dell’accettare il termine “postcoloniale” nelle università
occidentali, perché attraverso questa categoria si riescono a
evitare termini più apertamente politici come “imperialismo”
o “geopolitica” (Shoha 1993, p. 99). Terry Eagleton (1994) ha
mosso un’accusa simile sostenendo che all’interno del “pensiero postcoloniale” è “possibile parlare di differenza culturale, ma non – o non molto – di sfruttamento economico”. “Postcolonialismo” è stato allora adottato dalle università perché
funziona come un compromesso e come una scappatoia? L’uso fatto da Eagleton di “pensiero postcoloniale” per indicare
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ANIA LOOMBA
una tendenza critica non è però soddisfacente: molti scrittori
e studiosi postcoloniali scrivono anche dello sfruttamento
economico, ma i loro lavori non sono compresi nel campo che
si sta istituzionalizzando con il nome “studi postcoloniali”.
Un altro problema, strettamente collegato, è che (nonostante il lavoro sofisticato fatto in quest’area), in campo didattico, il “postcoloniale” finisce per essere una categoria riduttiva, una formuletta senza alcun rapporto con situazioni concrete; spesso viene visto come qualcosa da aggiungere alla fine
dei programmi già esistenti. Questo significa fare sintesi impossibili: in una settimana si “fa” la “razza” in un corso su
Shakespeare o sulla teoria della letteratura, oppure si utilizza
un unico corso per affrontare l’intero campo della teoria, e
spesso spetta a un unico membro della facoltà di rappresentare l’intero spettro della produzione letteraria o intellettuale
non anglo-americana. In uno scenario di questo tipo, sembra
troppo faticoso cercare di occuparsi delle differenze che esistono nel “resto del mondo” o interessarsi di dettagli di situazioni specifiche. La teoria metropolitana postcoloniale autorizza queste generalizzazioni, perché si pone come un’elaborazione a partire da una situazione “coloniale” o “postcoloniale” invece di richiedere ricerche specifiche e dettagliate sulla
realtà di luoghi remoti. Peter Hulme sostiene che questo avviene perché i testi non-europei sono di solito insegnati solo
in contrapposizione alle letterature europee (1994, p. 72). I
dettagli locali specifici, ironicamente, fanno tradizionalmente
parte dell’ambito di ricerca degli specialisti della varie aree
geografiche, i quali, però, raramente utilizzano il colonialismo
come una cornice teorica.
Un terzo risultato dell’esplosione degli studi postcoloniali
è stato che i saggi di un numero molto ridotto di critici di fama sono diventati più importanti del campo stesso, così che
gli studenti sentono di dover “fare” Edward Said, Gayatri
Spivak o Homi Bhabha o per lo meno i loro ultimissimi articoli. Quella che Barbara Christian (1990) ha battezzato “la gara per la teoria” nuoce al campo di studi nel suo complesso. Il
sistema accademico, centrato sui personaggi famosi, che esiste
in Occidente e in particolare negli Stati Uniti ha una parte
della responsabilità per questo stato di cose, un’altra parte va
alla natura del lavoro teorico, che tende a intimorire i lettori e
a essere autoreferenziale. Per questo, anche se molti studenti
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si sentono obbligati a includere gli studi postcoloniali fra le
materie dei loro corsi, non tutti hanno un atteggiamento creativo, forse perché spesso sono privi delle nozioni necessarie
sulle storie e sulle culture coloniali e postcoloniali.
Questo libro vorrebbe affrontare qualcuno di questi problemi. Ho cercato di porre la genesi e i parametri delle teorie
contemporanee sul postcolonialismo e le questioni che devono affrontare in relazione con altri dibattiti, come quelli sull’ideologia o sulla rappresentazione, sul sesso e sulla soggettività, invece di cercare di riassumere la storia complessa del
colonialismo e della resistenza. L’opera di singoli autori è presentata all’interno di dibattiti specifici e ritorna nei vari capitoli. Per esempio, l’opera di Frantz Fanon è analizzata nei diversi contesti delle discussioni sulla differenza sessuale, del
nazionalismo e dell’ibridità. La divisione in capitoli non rappresenta compartimenti stagni e il rapporto fra le donne e il
colonialismo, ad esempio, o la questione dell’alterità ritornano
in tutto il volume. Ho cercato di sottolineare la necessità che i
nostri tentativi di teorizzare sappiano tenere conto delle differenze storiche e geografiche. È chiaro che la specializzazione e
l’identità del ricercatore contribuiranno al suo approccio a
questo campo: io tendo a cercare i miei esempi nell’Europa
agli inizi della modernità o nell’India moderna. Il punto, però,
non è che dobbiamo conoscere tutti i dettagli storici o geografici delle vicende coloniali per poterci occupare di teoria, ma
piuttosto che dobbiamo costruire le nostre teorie con la consapevolezza che queste differenze esistono, ed evitare di
espandere il locale fino a crederlo universale. Ma, allo stesso
tempo, non dobbiamo guardare al locale con un atteggiamento romantico. Bruce Robbins (1992, pp. 174-176) scrive:
“Pensare ‘piccolo’ non basta” e anche se dobbiamo evitare le
“facili generalizzazioni”, dobbiamo conservare il diritto di
proporre “generalizzazioni difficili”.
Il libro è formato da tre capitoli, ognuno suddiviso in paragrafi più brevi. Il primo capitolo analizza i diversi significati di termini come colonialismo, imperialismo e postcolonialismo, e le controversie che li circondano. In questo capitolo gli studi sul discorso coloniale sono messi in rapporto
con i dibattiti più importanti sull’ideologia, la soggettività e
il linguaggio, mostrando perché una nuova terminologia e
un approccio interdisciplinare sono diventati entrambi indi-
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ANIA LOOMBA
spensabili allo studio del colonialismo. Approfondirò in particolare il rapporto fra il colonialismo e gli studi letterari: gli
esordi e i toni letterari degli studi sul discorso coloniale, infatti, hanno introdotto entusiasmanti novità nel modo di pensare
alla rappresentazione e alla soggettività, ma hanno anche creato alcuni problemi che vengono analizzati nell’ultima parte
del capitolo. Questo primo capitolo vuole anche presentare ai
lettori alcuni aspetti del post-strutturalismo, del marxismo,
del femminismo e del pensiero postmoderno, diventati importanti o controversi in relazione agli studi postcoloniali.
Il secondo capitolo si occupa della complessità dei soggetti
e delle identità coloniali e postcoloniali. In che modo l’incontro coloniale ha ristrutturato le ideologie della differenza razziale, culturale, sessuale e di classe? In che modo l’oppressione patriarcale e la dominazione coloniale sono in relazione fra
di loro? Che rapporto c’è fra il capitalismo e il colonialismo?
Quale quadro concettuale ci consente di affrontare nel modo
più esaustivo le trasformazioni dei soggetti individuali durante il colonialismo? La psicanalisi è utile per capire le soggettività coloniali? Come possiamo capire il concetto di ibridità,
oggi tanto alla moda, alla luce di tali questioni? Queste sono
alcune delle domande di cui si occupa questo capitolo, con
l’intenzione di tenere d’occhio i dibattiti più generali sulla relazione fra i processi materiali ed economici e la soggettività.
Nel terzo capitolo vengono esaminati i processi di decolonizzazione e i problemi relativi al recupero del punto di vista del soggetto colonizzato da una “prospettiva postcoloniale”; si presentano inoltre varie teorie sulla resistenza, non
in maniera descrittiva, ma considerando i dibattiti cruciali
che hanno generato a riguardo dell’autenticità e dell’ibridità,
della nazione, dell’etnicità e delle identità coloniali. In seguito vengono affrontate le teorie sul nazionalismo e sul pannazionalismo, la complessità delle situazioni dei paesi colonizzati e come il nazionalismo sia diviso dalla separazione fra
i sessi, le classi e dalle fratture ideologiche. Questo capitolo
analizza alcune opere recenti e affronta la relazione fra la
produzione letteraria e il pensiero nazionalista. Una delle
questioni su cui il confronto è più acceso negli studi postcoloniali è se il soggetto-agente colonizzato, o “subalterno”,
possa essere recuperato e rappresentato dagli studi postcoloniali; un altro punto molto discusso è la relazione fra il post-
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modernismo e gli studi postcoloniali: le ultime due sezioni
analizzano questi dibattiti e li mettono in relazione con le
posizioni precedentemente analizzate a proposito della soggettività e della rappresentazione.
Nonostante il volume non pretenda di svolgere l’impossibile compito di “coprire” tutti gli autori, gli eventi e le controversie principali, spero che la selezione proposta dei principali
dibattiti e delle principali questioni stimoli i lettori e li renda
capaci di esplorare questa nuova disciplina e di assumere nei
suoi confronti una posizione critica.
Ringraziamenti
È un piacere ringraziare le varie persone il cui sostegno intellettuale e
emotivo ha reso possibile che questo libro sopravvivesse alle oscillazioni intercontinentali, e addirittura ne traesse beneficio: John Drakakis, per il suo
incoraggiamento e i suoi commenti; Suvir Kaul, Neeladhri Bhattacharya e
Priyamvada Gopal per la lettura attenta delle bozze; Ranita Lochan, che è
sempre stata pronta ad aiutarmi, Vilashini Cooppan e Isabel Hofmeyr per
aver condiviso con me il loro lavoro. Ho imparato molto dalle conversazioni
con Shalini Advani, Nivedita Menon, Martin Orkin e Tanika Sarkat. Bindia
Thapar mi ha sempre offerto una casa quando non ero a casa, e lo stesso fanno oggi Kaushalya e Bhavanesh Kaul. All’inizio di questo progetto Primla
Loomba mi ha chiesto: “ma che cos’è tutta questa storia del postcolonialismo?”; il suo impegno e il suo lavoro mi hanno sempre ricordato che cosa è
in gioco in questi studi. Lo scetticismo di Tariq Thachil sul “postcolonialismo” è stato importante, amabile e di compagnia. Ringrazio Suvir Kaul per
aver analizzato con me tante delle idee e per aver cercato di trasformare sia la
mia prosa che il mondo, così che potessimo vivere insieme.