A spasso per Torino

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A spasso per Torino
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A spasso per Torino
a ottanta metri da terra
Hanno detto che: «Il cinema è un'invenzione senza futuro»; ma i fratelli
Lumière non ci azzeccavano quasi mai.
A Torino è nata l'arte che ci fa sognare, il cinema appunto.
Pastrone nel 1914 diresse il colosso del muto ‘Cabiria’, girato negli stabilimenti sulla Dora Riparia e nelle Valli di Lanzo; due anni dopo Eleonora Duse interpretava ‘Cenere’, girato negli Stabilimenti Cinematografici Ambrosio in via
Modena 38; per aderenza storica si poteva collocare il Museo nelle zone cittadine dove il cinema era nato, ma l'avremmo perso e dimenticato in periferia.
L'idea di contenere il Museo Nazionale del Cinema nella Mole Antonelliana ha
anche il significato di scegliere la posizione più adatta per garantirne visibilità
e successo.
Dal piano strada si entra nella Mole, si procede verso il Bookshop ed il Cabiria
Café, poi si sale al primo piano. Un percorso un po' labirintico ci introduce
nell'ingegneria cinematografica: dal caleidoscopio alla stereoscopia, macchine ottiche pre cinematografiche, lanterne magiche e foto in movimento, le
prime raccolte di immagini erotiche che tanto scandalo crearono; un insieme
che precorre il cinema come lo vediamo oggi.
Saliamo al piano superiore ed entriamo nell'Aula del Tempio, il cuore del
Museo, un grande salone a pianta quadrata dove troneggia il Dio Moloch di
Cabiria; circondano la sala 13 cappelle in cui è possibile assistere a videoproiezioni ispirate ai temi delle cappelle stesse.
Ci si siede sui wc di Bunuel, sistemati in doppia fila a mo' di poltrone, per
assistere alla proiezione de ‘Il fantasma della libertà’, dove maschi e femmine,
attorno a un tavolo, seduti a loro volta sui wc, lasciano liberi i loro intestini e
discettano di quanti quintali di feci l'umanità produce in un giorno.
Ci si sdraia sul letto rosso di ‘Amore e morte’, si ammirano immagini in 3D,
si entra tra luci soffuse nel Caffè Torino e, tra sparatorie nel Saloon, scorriamo
la grande raccolta di ‘manifesti’ con Rita Hayworth, indimenticabile mentre si
sfila il guanto nero in ‘Gilda’.
Poi ti abbandoni sulle chaise longue, accosti l'orecchio all'audio già predisposto, isolato dai rumori di fondo, e assisti alla cavalcata di immagini che passano proiettate in 35 mm sui due grandi schermi: la Mangano di ‘Anna’ che
balla il bajon, camicetta scollata e capelli raccolti sulla nuca, o che invita
Gassman con un sorriso malizioso a ballare il boogie-woogie in ‘Riso amaro’,
mentre Totò in una bettola della mala strapazza la ballerina nella danza Apache.
Salendo con l'ascensore al tempietto, posto a 85 metri, sembra di fare una
ripresa cinematografica e, sfumando verso l'alto, si vedono le rampe elicoidali
dove l'architetto François Confino ha allestito parte dell'area espositiva in verticale; l'unico spazio che non manca.
È vero, le pareti enormi della Mole sono completamente ricoperte da drappi e
immagini, l'interno nudo della Mole non si vede più; ma se sdraiati in quei
comodi divani guardiamo in alto, ci appare la grande cupola, l'immenso ci
avvolge: è sempre lei, la Mole, con la sua smisurata e disumana grandezza.
Uscendo dal Museo alla sera, durante il periodo natalizio in cui il cielo di Torino
si colora delle Luci d'Artista, si possono vedere sul dorso della cupola una serie
di cifre luminose: ‘Il volo dei numeri’, da un’idea dell'artista Mario Merz.
Cosa rappresentano? Rappresentano la successione numerica di Fibonacci,
matematico fiorentino del '300, per il quale ciascun numero (a partire dal terzo)
è uguale alla somma dei due che lo precedono, mentre il loro rapporto si avvicina al numero ⌽ (1,618033...), con i decimali che si rincorrono verso il ‘rapporto aureo’ o della ‘divina proporzione’.
Questa è la magia del numero ⌽ che con ⌸ (pi greco) rappresenta i numeri magici del creato. Veri buchi neri che si mangiano i numeri dopo la virgola, infiniti come infinito è l'universo.
‘Il fantasma della libertà’
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sandrocenni&landomoglia