N.1 ottobre-novembre 2015 - Liceo Classico "F. Petrarca"
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N.1 ottobre-novembre 2015 - Liceo Classico "F. Petrarca"
DEDALUS N°1 Ottobre-novembre 2015 Eppur si muove Sommario 3. Editoriale Alessandro Miro 4. A volte ritornano 17. Letteratura stand by me-Chiara Celeste Nardoianni/Eleonora Ducci Fantascienza o realtà?-Serena Convertino Renzo Nuti 6. Riflessioni “Qualche riflessione e divagazione non sistematica” -Martina Landini “In questi tempi così ostili e incerti...” -Sofia Casini “Cos’è veramente la bellezza” -Marta Nanni 9. Attualità Bosnia-Alessandro Miro 13. Linguistica “sull’evoluzione del sistema vocabolico in protoitalico” -Didier Natalizi Baldi 14. Minime Moralia Enrico Fedeli 2 2015 | Dedalus 19. Cinematografia I figli degli uomini-Marco Tenti Il cinema secondo Hitchcock-Alberto Ghezzi Breaking Bad e declino dell’uomo moderno-Christian Burroni 23. Musica Lucia di Lammermoor-Costantino Benini 25. Sport His Airness-Francesco Scrocca 27. Poesie Love-Tommaso Caperdoni Editoriale COME OGNI ANNO il nostro Dedalus torna tra i banchi scolastici. Voglio innanzitutto ringraziare i due redattori dell’anno scorso: Serena Citernesi e Dejan Uberti, i quali hanno svolto un ottimo lavoro per il giornalino. Ora il testimone è passato a me, a Sofia Casini e a Francesco Tenti. Questa non è l’unica novità, mi spiego: in primis collaboreremo con un quotidiano locale, il “Corriere d’Arezzo”, e con un altro giornalino scolastico, quello del liceo scientifico “Touschek” di Roma. Stiamo poi avviando un progetto con alcune classi delle scuole medie per portare i nostri lavori e le nostre idee anche al di fuori del classico. Come sempre il giornalino verrà stampato grazie all’aiuto della Provincia di Arezzo e venduto presso la “Feltrinelli” di via Cavour. Sfogliando le pagine di questo primo numero, troverete la pubblicità di diverse attività commerciali. Questi sono i nuovi sponsor che abbiamo trovato per riuscire a pagare la carta, perché purtroppo le casse del Dedalus sono eternamente vuote. Comunque, al di là dei progetti e degli sponsor, che indubbiamente migliorano la qualità del nostro Dedalus, non dobbiamo dimenticare la causa imprescindibile del giornalino: dare voce alle idee dei ragazzi del liceo classico. CHI VIENE E CHI VA’. Parto con i saluti. Un grande in bocca al lupo agli exstudenti di quinta per la loro nuova avventura universitaria. In fondo spero che siate un po’nostalgici di quella scuola che per cinque anni vi ha fatto divertire su quelle simpatiche versioni di greco e di latino, comunque non disperate, nel caso in cui siate veramente nostalgici, noi del Dedalus vi dedichiamo uno spazio apposito: la rubrica “A volte ritornano”. Non posso non salutare il nostro expreside, Maurizio Gatteschi, che è tornato a tempo pieno al liceo psicopedagogico. A ripensare al suo anno di presidenza, mi viene in mente la frequenza con la quale faceva il tragitto dal “Colonna” al “Petrarca” e la stanchezza con la quale affrontava la terza rampa di scale del nostro liceo. E’ stato indubbiamente un caparbio centometrista. Una volta entrato a scuola, saltava con scaltrezza segretari e professori come se fossero ostacoli e, infine, si barricava nel suo studio, nemmeno il tempo di esultare per la vittoria che subito lo aspettavano scartoffie burocratiche di ogni genere. Un giorno ha capito quanto sia difficile amministrare due scuole insieme e ha deciso di fare un passo indietro. Sicuramente un merito gli va riconosciuto:con tutte le sigarette che ci ha fatto spegnere a metà, ne trarremo grandi benefici per la salute. Gli auguro una buona annata al liceo psico-pedagogico. Dopo aver affrontato l’argomento “saluti” con sana ironia, è giunto il momento di passare ai nuovi arrivi. Un benvenuto agli studenti del primo anno, che aprono il Dedalus con tanta curiosità. Spero che, col tempo, imparerete ad apprezzare il giornalino e che possiate dare un grande contributo al nostro progetto. Insomma, aspetto con curiosità i vostri articoli! Un caloroso benvenuto anche alla nuova Preside, Mariella Ristori, appena arrivata dal liceo artistico “Piero della Francesca”. Una premessa va fatta: non ha sicuramente scelto la strada più semplice, e già di questo bisogna darle merito. Come tutti sappiamo il Classico oggi si è notevolmente ridimensionato , ma è pur sempre un’istituzione di grande prestigio. Lo sottolinea anche lei: “ Io ho scelto questa scuola perché mi piaceva. E’ vero che siamo in un momento di crisi, però dico ai genitori che, proprio ora, è necessario puntare ad un’ottima formazione. Il mio obiettivo è di creare una scuola di eccellenza”. ACQUA ALLA GOLA. E anche quest’anno il destino della nostra scuola è intrecciato a doppio filo con un numero . Bella contraddizione per noi classicisti che spesso lasciamo da parte la matematica … Senza i famosi seicento iscritti perdiamo l’indipendenza, e scusate tanto, ma il Petrarca inglobato al Colonna credo che nessuno lo voglia vedere. E’ arrivato il momento di rimboccarsi le maniche e pensare a nuovi progetti, perché la nostra scuola, vista da fuori, appare assolutamente immobile. “La sfida è di conciliare le materie del liceo con qualcosa di più innovativo.”-commenta la Preside a tal proposito-“ Gli ambiti sui quali possiamo intervenire sono di tre tipi: informatico, linguistico, matematico-scientifico. Il più fattibile è il terzo, dato che ha già portato buoni risultati lo scorso anno.” Non solo questo, per la prima volta al liceo classico verrà svolta l’alternanza scuola-lavoro:“ Inizieremo con le classi terze, poi negli anni a venire, l’alternanza verrà estesa a tutto il triennio. Abbiamo intenzione di contattare musei, biblioteche e altre associazioni culturali come Rondine (la cittadella della pace) o il FAI.” – spiega la Preside-“ Questa è già un’occasione per “spolverare” le attività del nostro liceo.” “MI PIACEREBBE CHE I RAGAZZI proponessero qualcosa di nuovo per migliorare la scuola. Entro gennaio”sottolinea -“dovremo presentare il POF (Piano dell’offerta formativa), il quale non sarà più annuale, ma avrà validità di tre anni. Spero che voi studenti, insieme anche ai genitori, possiate contribuire al miglioramento della didattica e dell’organizzazione scolastica.” Queste parole sono apprezzabili, dobbiamo essere in grado di coglierle, anche perché noi studenti possiamo offrire un punto di vista fondamentale sulla questione: abbiamo la capacità di guardare il problema da un’angolazione differente, e quindi interessante. A tal proposito, sarei molto contento di pubblicare sul Dedalus idee e progetti che riguardano la vostra idea di scuola. Sembrava impossibile, eppur si muove! Buon anno scolastico a tutti Alessandro Miro La mail: [email protected] Redazione: Sofia Casini Alessandro Miro Francesco Tenti Dedalus | 2015 3 Quanto ancora? A volte ritornano di Renzo Nuti “Quanto ancora? “ . Questa, a mio giudizio, la domanda definitiva del nostro tempo, il quesito che sottende silenziosamente alla quotidianità di ognuno di noi, vecchio o giovane, per poi coglierlo di sorpresa, al calare della notte, e ritirarsi nuovamente senza aver avuto risposta. Due parole che riassumono tutto lo spirito di questi tempi liquidi, che continuano a sgocciolare via mentre l’orizzonte si fa sempre più incombente e minaccioso. Forse è solo un’angoscia personale che sto inavvertitamente proiettando su scala globale, forse vi è chi non solo per ingenuità è francamente convinto che il mondo possa continuare ad andare avanti così come sta andando ora, magari con qualche piccola, dovuta correzione. Ma dubito che chiunque abbia un minimo di sensibilità nemmeno morale, anche solo logica o predittiva, e si tenga sufficientemente informato su ciò che il resto dell’umanità sta vivendo, possa intravedere intorno a sé le confortanti premesse di un futuro più felice, o perlomeno di un futuro in cui una felicità più “globale” sia compatibile con un perpetrarsi dell’attuale stato di cose. “ Beh allora? Si sa che il mondo va male, è da un pezzo che va male” – d’accordo, ma il problema è ricordarsi che non sempre è andato così male, e che il peggio non è inesauribile. Che per la prima volta nella storia dell’umanità il rischio che in lontananza (ma nemmeno troppo) si profila è il collasso del pianeta, dal punto di vista ecologico, demografico, politico, economico e chi più ne ha più ne metta. Dalla cerchia più ristretta dei propri interessi personali, approfondendo lo sguardo fino ai problemi più complessi di un mondo globalizzato, adesso tutto sembra precario, radicalmente compromesso alle fondamenta: la nostra vita (precisazione: “noi”, “nostro”, e via dicendo sono termini con cui, di qui in avanti, mi riferisco alla supposta totalità di coloro che, con tutte le sfumature e imprecisioni della categoria, si ritengono ancora oggi “occidentali”)si regola e prosegue sulla base di strutture sociali, economiche, politiche e culturali che da tempo sussistono per pura inerzia, che solo dall’essere state ricevono la propria giustificazione ad essere ancora. L’inerzia, e con essa l’ideologia, sono forse le altre due parole che più dolorosamente e significativamente colpiscono il cuore di questo torno di tempo: l’inerzia, come già detto, con la quale ostinatamente 4 2015 | Dedalus e con il paraocchi procediamo nel pantano di un mondo ultrasecolarizzato, e l’ideologia che proprio di quest’ultima si nutre accompagnandoci in questo miope incedere, l’incapacità di criticare gli schemi intrinseci a tale moto, il dare per scontata, in buona o in cattiva fede, la persistenza nel futuro dello stato di cose presente. “Crescita” è forse la parola più ideologica e inerziale di questi anni, o di questi decenni. “Siamo tornati a crescere, in barba ai gufi” esulta il nostro premier: che il dato sia vero o no, che ci siano davvero conseguenze positive sulla vita della popolazione o meno, nessuno mette in dubbio il valore della parola crescita. La colpa che si può attribuire al governo può essere di essere preda di facili entusiasmi o di edulcorare scenari in realtà decisamente critici, ma non certo di aspirare alla crescita. Nessuno osa mettere in dubbio che si debba continuare a crescere economicamente, è quasi una contraddizione logica affermare “noi non dobbiamo più crescere”: che altro può fare una società nel ventunesimo secolo? Ma è proprio l’apparente assenza o impraticabilità di una qualunque alternativa che testimonia un cortocircuito nel cuore del meccanismo, che il gioco non funziona più, che ci stiamo infilando in un vicolo cieco. E in questo scenario crepuscolare risuona sempre più diffusamente quella domanda, “per quanto ancora?”: quanto tempo ci rimane prima di essere arrivati in fondo al vicolo? Quanto ancora possiamo condurre le nostre vite al riparo dai conflitti che imperversano sul pianeta, delle crisi economiche improvvise e devastanti, dalle orde di uomini neri che si radunano nei deserti meditando atrocità, della fame, della sete, della povertà? Badate bene che non tutti coloro che si pongono tale quesito muovono dalle stesse premesse. Senz’altro tutti sono preoccupati, tuttavia il discrimine si pone tra coloro che lo sono perché vorrebbero disperatamente (di nuovo: sia in buona che in cattiva fede) che le cose potessero continuare ad essere così come sono e coloro che invece si chiedono se sia giusto che le cose siano così come sono, se lo sconvolgimento imminente possa essere in realtà una conseguenza naturale, che forse troppo tardi è stata presa in considerazione, di certe vicende storiche di cui siamo stati protagonisti, di certe pieghe che la storia ha preso. Qualcuno comincia ad avere la sensazione che credere che la storia fosse finita sia stato il più imperdonabile errore che potessimo avere l’arroganza di fare, e che forse si avvicina l’ora di pagarne le conseguenze. Proprio gettando lo sguardo nelle profondità della storia, in effetti, difficilmente si incontrerà un periodo in cui l’individuo medio ha avuto così poca fiducia nel futuro come ne ha ora, o ha sentito così ingombrante e pervasivo il peso delle vicende mondiali sulla sua vita: questo l’effetto più immediato dell’ingannevole convinzione di essere arrivati ad un trionfale capolinea. Certamente vi è chi riesce a restare spensierato e a condurre la propria esistenza esattamente come vorrebbe anche in un tale contesto, ma questo genere di persona o se la ride standosene al riparo di un qualche rassicurante e cospicuo capitale, oppure (e, guardandomi intorno, è purtroppo questo il caso più frequente anche tra i miei coetanei) desidera raggiungere tale stato di intangibilità e ha già liquidato il mondo come qualcosa che non lo riguarda e che lo distrarrebbe dal conseguimento del proprio obiettivo; in entrambi i casi, magari senza rendersene conto, è già approdato al “si salvi chi può”. E questa urgenza di mettersi al riparo non fa che evidenziare ancora più crudamente quanto diffuso sia il sentimento, per quanto sotterraneo, che il cielo stia per caderci sulla testa. In realtà tutti, ogni giorno, diamo un po’ per scontato il tranquillo perpetrarsi del mondo che ci circonda, nonostante le notizie che giungono da luoghi sempre meno distanti ci facciano tremare momentaneamente la terra sotto i piedi; ma adagiarsi un attimo è inevitabile e forse anche in parte lecito. La mattina mentre andiamo all’università o al lavoro, la sera quando torniamo a casa o usciamo con gli amici, mentre ci prepariamo un pranzo veloce, mentre scriviamo la tesi di laurea, mentre il dentista ci visita o siamo in giro a fare shopping, mentre ci sediamo al ristorante o facciamo la fila alle poste: la quiete della routine ci abbraccia e circoscrive premurosamente le nostre preoccupazioni, sino al raggio del più semplice ma al tempo stesso curiosamente pressante “oh, che si fa stasera?”. Tuttavia ben più che lecito, anzi decisamente prioritario, è non lasciarsi fagocitare dal proprio piccolo orizzonte: il che non significa necessariamente non andare più a lavorare, all’università, ritirarsi nella misantropia di fronte agli amici e sfasciare le vetrine dei negozi; non sto invitando all’anarchia. Significa piuttosto avere il coraggio di farsi scuotere fino alle viscere dal quel dirompente, angoscioso, insopportabile “quanto ancora?”. Perché? “perché chi resterà ferito sarà colui che ha procrastinato; fuori c’è una battaglia che infuria, presto scuoterà le vostre finestre e farà tremare i vostri muri, perché i tempi stanno cambiando”. Proprio così, i tempi stanno cambiando, non hanno mai smesso di cambiare, anche se noi abbiamo girato lo sguardo e ci siamo adagiati sui nostri privilegi. Significa (per citare di nuovo Dylan, veramente grande e tuttora insuperato nel sintetizzare in poche parole tutta la tragicità del mutamento storico; se qualcuno non ha ancora scritto un saggio del tipo Dylan e la dialettica del mutamento storico state certi che ci proverò io) ammettere che l’acqua intorno a noi si è alzata e che faremo bene a cominciare a nuotare se non vogliamo affondare come pietre; significa avere la forza di disperare della vita che avevamo progettato e sognato, ed accogliere nel nuovo computo che di essa ci accingiamo a fare un numero imprecisato di variabili fino ad ora sconosciute ma tuttavia decisamente preponderanti. L’imperativo di questo nuovo millennio, la sua “idea regolativa”, dev’essere a tutti i livelli “smetti di condurre la tua esistenza a prescindere dal mondo, smetti di postulare la gratuita immutabilità della realtà che ti circonda”. Certo, è vertiginoso e terrificante dover convivere con l’idea che il mondo possa in ogni istante rovinarci addosso e toglierci tutto ciò che abbiamo sempre avuto a portata di mano, ma la gravità della situazione ci impone di non sottovalutare nemmeno lo scenario più apocalittico, perché troppo a lungo l’abbiamo relegato nelle periferie del tempo e del pensiero. A questo proposito Hans Jonas aveva parlato di un’euristica della paura, ovvero l’atteggiamento mentale che prescrive, di fronte ai grandi problemi contemporanei, di prospettare costantemente la situazione più disastrosa pur di scuotere le coscienze e stimolarle a trovare (in greco euriskein, appunto) una soluzione in anticipo, o perlomeno non in esiziale ritardo. Senza dubbio può essere una strategia efficace, ma resta il rischio che tale pratica degeneri in una paralizzante paranoia o psicosi collettiva; può darsi allora, che ciò di cui abbiamo bisogno sia piuttosto un’euristica del coraggio, perlomeno da affiancare alla prima. Come ho già detto, il coraggio e la forza titanici di mettere in questione tutto ciò che abbiamo sempre considerato dato e dovuto, e nonostante la vertigine abissale, lo smarrimento, il dolore e sì, la paura, riuscire comunque ad agire, a vivere, con questa nuova consapevolezza e tremenda responsabilità, in un orizzonte fattosi infinitamente più ampio. Il tramonto dell’occidente non è una novità, ormai se ne parla da più di un secolo. Ma possiamo fare in modo che al tramonto non segua il pesante sonno dell’ideologia e dell’inerzia, e a quest’ultimo un inevitabile brusco risveglio nel bel mezzo di una catastrofe irreparabile: la storia continua e ad un tramonto segue sempre un nuovo giorno. [piccolo corollario: per chi desidera ricavare considerazioni prettamente politiche a partire da queste riflessioni, basta fare due più due per capire che ogni ottuso e facile Salvinismo, Lepenismo, Orbanismo e via dicendo è rapidamente squalificato, almeno sul piano concettuale, da chi si colloca nell’ottica che ho descritto. Purtroppo però i suddetti leader non sono puri concetti, né è impugnando salde argomentazioni sul piano concettuale che costruiscono la loro fortuna politica: altrimenti non staremmo qui a parlarne.] Dedalus | 2015 5 Riflessioni Qualche riflessione e dichiarazione non sistematica di Martina Landini Tra la polemica degli ultimi anni circa l’utilità del percorso di studi che propone il Liceo Classico e il piano di riforme per la scuola emanato quest’anno, mi trovo a pensare spesso al tema dell’educazione, al significato che ha assunto nella nostra società e all’inevitabile riflesso che ha sulla nostra vita. Noi tutti la mattina ci alziamo, carichiamo sulla schiena il nostro pesante zaino e passiamo metà della giornata qui, nella nostra scuola. Leggiamo, prendiamo appunti, ascoltiamo, tutto essenzialmente molto tranquillo, come ci è richiesto, ed ogni cosa concorre a far sì che così sia, se non per inconvenienti che di tanto in tanto si presentano sul piano pratico, mancanza o mal funzionamento di attrezzature, problemi di organizzazione, strutture non idonee. Così, nel caso in cui una problematica di questo genere si faccia abbastanza ingente, spesso gli studenti se ne fanno carico e con i mezzi a loro disposizione mirano alla sua risoluzione. Ed anche fin qui tutto bene, tutto relativamente tranquillo, studenti che hanno a cuore qualcosa, studenti che si impegnano. Tuttavia, giunta al quinto anno, non mi sento di poter dire “sì, va tutto ed è tutto andato bene”. Non per le ore perse a memorizzare i verbi irregolari greci, o per il sei in matematica che puntualmente tarda ad arrivare, o per la classica settimana in cui si condensa ogni possibile e immaginabile tipo di verifica. C’è qualcosa di più fine, di molto più triste e disturbante, non relegato solamente alla mia personale esperienza o alla nostra scuola, una polvere grigia ed invisibile che ricopre, sporca ogni cosa e si posa anche su di noi, sui nostri libri, le nostre aule, contamina le nostre parole e spesso anche quelle che ci vengono dette. La mattina cammino per questi corridoi e sento una voce flebile, subdola e costante. Che non abbia bevuto abbastanza caffè e stia ancora sognando? Purtroppo penso di no. E questa voce mi dice che si deve leggere e ripetere una serie più o meno intricata di informazioni se si vuol essere i migliori, e si deve essere i migliori, il più brillante tra quei numeri stampati sulla prova INVALSI, perché sei un numero, vieni classificato con un numero e sei qui essenzialmente per farne crescere altri, di numeri. Quello del PIL del paese, dei guadagni di un’azienda, 6 2015 | Dedalus insomma, di qualunque cosa che rappresenti crescita economica, produzione, competizione. Ora, credo che nessuno gioisca di questo sistema, fortunatamente almeno tra le mura della nostra scuola, almeno per le parole che capita a me di sentire. Ma la voce continua con il suo vile discorso e mi dice, con toni rassicuranti, che non si deve necessariamente essere d’accordo con tutto questo, non è obbligatorio condividerlo e sostenerlo. Ci è concesso anche soltanto di assecondarlo con distacco e superficiale coinvolgimento, perché questo sistema non è fatto per essere invasivo e se uno si sforza di passare sopra a ciò che non gli piace non può che procurargli del bene, serenità e spensieratezza adesso, qualche sicurezza in più per il futuro, senza incidere significativamente e apparentemente sulla personale esistenza. E così ci ritroviamo bloccati. Scendiamo a compromessi, poiché è difficile e, come abbiamo sentito e risentito, sconveniente prendere posizione. Magari non ci sarebbe niente di così pericoloso ed eclatante da fare, o almeno a me non viene in mente niente di realmente efficace. Ecco però un’idea, che magari non concorrerà a cambiare qualcosa oggi stesso, ma che potrebbe gettare una differente base per un ipotetico domani: dobbiamo cominciare a produrre qualcosa noi. Proprio così, dovremmo fare esattamente una delle cose che ci chiede di fare e su cui è improntato il sistema che sino a questo punto è stato oggetto della mia critica. Produciamo idee, pensieri, scritti, arte, musica, che siano sciatti, giovani e frizzanti, liberi, che ci facciano a pieni polmoni respirare, che non servano a nulla, che ci facciano perdere tantissimo tempo, che siano veri, pulsanti, vivi e disordinati. Produciamo relazioni, che siano relazioni sincere, positive, altruistiche, disinteressate. E poi dobbiamo anche sporcarci le mani di terra e coltivare. Coltivare interessi, passioni, desideri, sogni, illusioni, ingenuità. Scacciare con tutta la forza possibile quella polvere grigia che inibisce e incatena i nostri pochi anni che abbiamo vissuto, che hanno tutto il diritto di essere colorati, idealisti, caparbi e rumorosi. Siamo dei germogli che devono ricevere sano nutrimento per crescere ed essere in grado di scegliere la via a loro più adatta per raggiungere il sole, oltre i rami delle vecchia foresta, per costituirne una nuova. Purtroppo l’impianto dell’educazione sembra indirizzarsi sempre più verso un qualcosa che preclude tutto questo, verso un’impostazione che non permette e fornisce gli strumenti per costruire qualcosa di differente e nuovo. Tra qualche anno con molta probabilità ci guarderanno con gli occhi sgranati quando diremo che abbiamo studiato il greco antico, perché sarà soppiantato da qualcosa di sicuramente più utile. Utile, utile, utile e ancora utile. Chissà perché se la nostra società è così costantemente volta verso l’utile alla fine nessuno ne trae un reale giovamento, se non per quanto riguarda un mero piano fisico e immediato! L’educazione è la chiave di volta per la costruzione di una comunità, buona parte di ciò che sarà è strettamente e inevitabilmente connessa alla sua struttura. La strada che negli ultimi anni è stata imboccata nei confronti di quest’ultima non pare portare a niente di buono, allontana sempre più dalla possibilità di un reale rinnovamento e va anzi a calcificare le gialle e decrepite ossa del nostro vecchio sistema, che così si sgretoleranno. Appare più terribile un radicale cambiamento che un’irreparabile frattura? Decisamente meglio è quella finta sicurezza e quella precarissima e falsa stabilità che ci viene costantemente sponsorizzata e proposta, nella speranza di non vivere così a lungo da assistere allo sgretolamento dello scheletro intero. E ci incupiamo, ci ingrigiamo, cresciamo nella competizione e nella diffidenza, ci chiediamo continuamente cosa c’è che non va. Questo è ciò che accade ad un fiore al quale, contro la sua natura, è stato impedito di sbocciare. Perché in un mondo arido e decadente per freschezza, petali e colore di posto non ce n’è. ...in questi tempi così ostili e incerti mi prende l’innocente e un po’ ambizioso proposito d’amarti di Sofia Casini Tutta la natura si basa sulla selezione. Gli esseri umani, che ne sono un risultato, operano a loro volta una selezione. Ma poiché, fatta eccezione per rari casi, la loro non è una selezione necessaria, il rischio è quello di dare a torto precedenze di significato, e che quindi certe cose acquistino a priori un’importanza maggiore rispetto a certe altre, senza che se ne consideri di volta in volta il valore specifico ed effettivo. È questo il motivo per cui, ad esempio, la commedia sembra avere sempre e comunque un significato e un rilievo intellettuale decisamente minori rispetto alla tragedia, tanto che è diverso il nostro modo di porci di fronte all’una o all’altra. Una simile sorte è toccata persino ad un tema quale l’amore, che, specialmente in tempi di crisi come questi, è costretto anch’esso ad inchinarsi, come gli intellettuali meno lungimiranti, alle problematiche sociali e ai temi di impegno politico. Un po’ come Machiavelli, che definì “poeti minori” autori del calibro di Dante, Petrarca, Ovidio, per il solo fatto che scrivevano d’amore, oggi releghiamo la tematica amorosa nei nostri ritagli di tempo sempre più rari dedicati allo svago, per poter così consacrare la parte più intellettuale e impegnata di noi stessi agli argomenti “seri” e alla discussione di quelli che Giorgio Gaber, nella canzone “Un uomo e una donna”, con amara ironia definisce “soprusi veri”. Ed ecco che, confuso con il mero sentimentalismo e romanticismo, l’Amore, che sta alla base della nostra esistenza, viene trattato banalmente e superficialmente: questo è il vero sopruso! Infatti, come lo esprime magnificamente -ma con la semplicità estrema e spiazzante tipica della verità- sempre il nostro Gaber (questa volta in “Proposito d’amare”, da cui è tratto anche il titolo di questo articolo), sperimentare l’Amore o anche solo comprendere quanto esso sia per noi decisivo “È la scoperta di una semplice realtà / che muove il mondo intero / perché senza due corpi e due pensieri differenti / non c’è futuro”. E non solo non c’è futuro: senza quest’incontroscontro di corpi e di pensieri differenti non ci sarebbe neppure il presente, neppure quella crisi e quelle guerre che ora sembrano meritarsi la nostra attenzione a tal punto da farci apparire trascurabile l’Amore stesso. La nostra morte, e la fine della razza umana ci spaventano tremendamente, più di ogni altra cosa, ma paradossalmente ci sembra scontato che ci sia la vita, a cui siamo così attaccati, e non sempre ci ricordiamo che se non fosse per l’Amore, già da qualche milione d’anni non avremmo né guerre né morte di cui preoccuparci. Ma a proposito di guerre e di morte, già da qualche mese il potente web ha accolto un’immagine che ha aperto uno spiraglio di luce nell’agghiacciante scenario dei profughi siriani. Il 30 agosto scorso il fotografo ungherese Zsíros István ha immortalato, in mezzo a molti altri profughi accampati nella stazione di Keleti, vicino a Budapest, una coppia che dentro la propria tenda si stava teneramente baciando. Purtroppo, però, la viralità di questo scatto ha riempito internet di parole, frasi e commenti come “speranza”, “l’amore trionferà”, “Mariti e mogli che si aggrappano ai sentimenti e si fanno forza a vicenda, sulla lunga e difficile strada che porta a una vita migliore” (tratto da repubblica.it). La dimensione futura che questi giudizi esprimono o implicano sottolinea come ancora si consideri la guerra, e quindi la morte, prevalente rispetto alla forza della vita, che, (incredibilmente) succube della violenza tipicamente umana, deve lottare per trionfare. E così l’Amore, contrariamente a quello che sembra, ha perso ancora una volta, non nella Natura, ma nella nostra mentalità. In questa fotografia, infatti, ciò che stona è proprio l’atto d’amore, e nonostante la speranza e il trionfo che i media proclamano a gran voce, nel contesto in cui è inevitabile collocarlo appare quasi come una sfrontatezza nei confronti del dolore e della sofferenza che in tanti oltre a questa coppia stanno vivendo. Ma nella Natura, la cui forza vivificatrice è assimilabile all’Amore, è la guerra l’intruso, e non viceversa. E come Dedalus | 2015 7 non citare i celeberrimi versi (31-37) dell’Inno a Venere che costituisce l’incipit del “De rerum natura” di Lucrezio? “Nam tu sola potest tranquilla pace iuvare mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se reicit aeterno devictus vulnere amoris, atque ita suspiciens tereti cervice reposta pascit amore avidos inhians in te, dea, visus eque tuo pendet resupini spiritus ore” Senza soffermarci sull’intera traduzione di questo splendido passo, diciamo solo che Lucrezio ha straordinariamente descritto la scena della seduzione di Marte, dio della guerra, da parte di Venere, emblema dell’Amore e della forza vivificatrice della Natura. “eque tuo pendet resupini spiritus ore”, e alla tua bocca è sospeso il respiro del dio supino: il grande poeta latino non avrebbe potuto esprimere meglio come anche la peggiore delle creazioni umane, la guerra, ceda necessariamente di fronte al fascino irresistibile e divino dell’Amore, che non è il turbamento romantico (peraltro violentemente condannato dalla filosofia epicurea che il “De rerum natura” lucreziano si propone di illustrare), bensì il principio stesso della vita. In questa prospettiva tutto assume un nuovo significato, e non solo lo scatto del bacio dei profughi, ma anche la concezione della missione dell’intellettuale, questa crisi generale dalla quale non riusciamo ad emergere, la maturità con cui affrontiamo una relazione sentimentale, la nascita di un bambino, la sopravvivenza della razza umana, la vita stessa. “E poi e poi e poi non saremmo più soli io e lei finalmente coinvolti davvero potremmo di nuovo guardare il futuro E riparlare del mondo non più come condanna ma cominciando da noi un uomo e una donna.” (G. Gaber, “Un uomo e una donna”) Cos’è veramente la bellezza di Marta Nanni “Le belle persone restano sempre belle, anche se passano gli anni. Anche se sono senza trucco, se sono stanche, se hanno le rughe. Perché la bellezza che è dentro di noi non invecchia mai. Diventa con gli anni più fragile e preziosa. Le belle persone non smettono mai di brillare” Agostino Degas La professoressa di italiano ha dato alla mia classe una traccia da sviluppare: “I valori della bellezza nella società contemporanea”. Inizialmente ero in crisi, perché non avevo idea di cosa scrivere senza andare fuori tem. La domanda che mi è subito balenata nella mente è stata: «Ma cos’è veramente la bellezza?». Viene da pensare: «Che domande. La bellezza è soggettiva, non si può descrivere». Appunto. Ma come lo spiegavo alla prof.? Ci siamo dovuti inventare qualcosa. Io vedo lo splendore quasi assoluto nelle canzoni che mi fanno commuovere, nei libri nei quali lascio un pezzetto di cuore, nel “mio” cavallo al maneggio, nell’amicizia che ho con diverse persone e potrei continuare ancora per molto. 8 2015 | Dedalus Per qualcuno il calcio è bello, per qualcun altro il cibo. Poi c’è chi vede la bellezza nei vestiti, nelle modelle. Qui dobbiamo soffermarci. Va bene ammirare le veline o le persone che sfilano sulle passerelle, ma molte volte le loro fan commettono grossi errori: diventano anoressiche o bulimiche per poter somigliare ai loro idoli. Si lasciano influenzare e compromettono la propria vita, il tutto coronato da un abbassamento sotto zero dell’autostima. Ragazze, siate voi stesse, perché è lì la vera bellezza. Il mio pensiero è che è bello ciò che è unico. Un esempio: in una stanza ci sono tante persone belle, di una bellezza “oggettiva”. Il problema sta nel fatto che sono tutte uguali; perciò è come se perdessero valore. Credo che qualcuno, oltre ad essere attraente, debba anche essere interessante sotto altri punti di vista. Altro esempio: sicuramente è più allettante intrattenere una conversazione con un individuo all’apparenza poco gradevole ma molto intelligente piuttosto che con qualcuno esteticamente attraente ma che sbaglia i congiuntivi. Come già detto prima, la bellezza deve essere unica. Dobbiamo essere noi stessi, ognuno con le proprie qualità ed i propri difetti. Non dobbiamo diventare dei cloni, tutti uguali, con gli stessi vestiti e lo stesso modo di parlare. In un modo o nell’altro, siamo tutti belli, perché siamo diversi. Quando l’aspetto esteriore non è a nostro favore, possiamo creare un equilibrio con la bontà, l’altruismo, la serietà, l’intelligenza. Per quanto riguarda “i valori della società contemporanea”, oggi la televisione influisce molto, oserei dire troppo, sul nostro stile di vita. Ci sono dei concetti e dei canoni già fissati e ciò che non ci rientra viene classificato come brutto e di conseguenza deve essere bandito. In questo modo si creano dei pregiudizi e non siamo più in grado di esprimerci come vogliamo. I media e la pubblicità hanno un grande potere: portano le persone a soffermarsi sull’apparenza. Per concludere (e lasciarvi leggere gli altri articoli), vi chiedo di valorizzare voi stessi e gli altri per ciò che avete e hanno dentro e di non seguire le mode come se foste in un branco. Il fatto che le persone non agiscano di volontà propria vuol dire che non hanno una propria personalità. A mio parere, è meglio essere più particolari, nel bene e nel male, piuttosto che essere bellissimi ma tutti uguali. Attualità Vent’anni dopo il genocidio a Srebrenica nulla è cambiato? Nel luogo in cui si è consumato il più grande massacro degli ultimi anni la cooperazione internazionale e la politica locale hanno fallito su più fronti. Storia di uno Stato fantoccio che ancora non ha conosciuto la pace. Sullo sfondo però un barlume di speranza. di Alessandro Miro e Nico Loreti L’11 luglio a Potocari si celebra per il ventesimo anno consecutivo la commemorazione delle vittime di Srebrenica. Ultimo grande genocidio del ventesimo secolo. Avvicinandosi al cimitero, lungo un’affollata via, si mescolano sapori e persone che richiamano a un giorno di festa. Il fiume di folla a tratti si apre per permettere il passaggio di automobili scortate dalla polizia, dentro alle quali alte cariche istituzionali avanzano con finestrini oscurati. Impossibile non notare la distanza tra loro e i passanti. Questa piena trascina direttamente all’entrata del cimitero, dove il profano lascia posto al sacro. Il luogo è presieduto dalla Polizia della Repubblica Srpska, una delle due Entità etniche che costituisce la Bosnia Erzegovina. Passati i cancelli cambiano le uniformi, poiché qui la competenza passa alla Polizia di Stato. Dall’ ingresso è possibile scorgere l’immensa distesa di più di 9000 lapidi bianche che si inerpicano sulla collina in lunghi filari ordinati ove i parenti si accalcano intorno ai propri defunti. L’ambiente percepibile è quello di una famiglia che si riunisce a tavola, per ricordare la memoria del proprio caro. Sulla destra , invece, sfilano le lapidi verdi degli ultimi morti ricomposti durante l’anno. Questa volta 136 persone sono entrate a far parte della memoria del luogo. Mentre, di sottofondo, una preghiera musulmana accompagna la cerimonia religiosa. Due sono i colori della giornata: il verde delle nuove bare e il bianco, simbolo del lutto. Infatti sui vestiti di molte persone è possibile notare un fiore ricamato con gli stessi colori; i petali rappresentano i parenti che cercano di congiungersi con il defunto, la parte centrale richiama lo stesso. Dall’altro lato della strada si staglia un imponente e trasandato edificio nel quale sono radunati politici e ambasciatori dei diversi Paesi. L’unico ponte a collegare i due mondi è un maxischermo installato all’esterno, di fronte al cimitero. Da qui si alternano nell’arco della mattinata dichiarazioni e interventi dei vari personaggi. Fra i tanti, a rappresentare le donne musulmane , che hanno perso i loro figli durante il genocidio, le due presidentesse dell’Ong ˝Madri di Srebrenica˝, Munira Subasic e Hatida Mehmedvic. Per la parte italiana parla la Presidentessa della Camera Laura Boldrini che nel suo discorso ribadisce la colpevolezza dell’Unione Europea per il mancato intervento determinante ai tempi della guerra civile. Prosegue prospettando un maggior impegno economico al fine di risanare la situazione bosniaca. Infine le parole di Bill Clinton, ospite di maggior spicco, il quale si impegnò personalmente nella costruzione del memoriale. L’ex presidente degli Stati Uniti ringrazia per lo sforzo collettivo che ha permesso il mantenimento di questa pace ventennale e pone l’accento sull’importanza della partecipazione del Primo Ministro serbo Vukić all’evento. Infine chiude l’intervento ribadendo il suo attaccamento al paese bosniaco. A dispetto dei toni altisonanti e speranzosi, la distanza tra i discorsi di conciliazione e i fatti è ancora marcata: dopo essere usciti dall’edificio della conferenza Vukić viene salutato con sassi e bottiglie. Ennesima dimostrazione di quanto la tensione nei Balcani sia ancora Dedalus | 2015 9 Figura 1 Famiglia in lutto davanti alla bara del proprio caro ricomposto quest’anno (foto Vanessa Maccherini) alta. Ma, paradossalmente, proprio Munira aiuta il serbo facendogli da scudo con il proprio corpo, per dare un forte esempio: non gettare al vento quanto di buono è stato ottenuto in questa giornata. Nonostante l’importanza di questo evento, non è possibile sanare a parole un’inadempienza ventennale. Dall’Unione europea che non è stata in grado di mettere in campo un progetto di cooperazione valido a causa delle divergenze tra i vari Stati; all’Unprofor ( una forza di mantenimento della pace creata dall’Onu) che non possedeva mezzi logistici e finanziari adeguati; fino agli accordi di Dayton che, in poche pagine, hanno rinforzato la divisione etnica già presente sul territorio: dopo il 95’ la Bosnia viene configurata come unione di due Entità etniche, Repubblica Srpska (a maggioranza serbobosniaca) e Federazione di Bosnia i Erzegovina (a maggioranza croatomusulmana). E’ possibile quindi affermare che Dayton è stato solamente Figura 2 Vecchio compound dei caschi blu(foto Vanessa Maccherini). 10 2015 | Dedalus un armistizio non in grado di assicurare la pace. La chiave di volta che mantiene questo equilibrio precario è l’Alto Rappresentante delle Nazioni Unite, il quale ha potere di veto sui due Parlamenti. Questa figura istituzionale può essere intesa come espediente per mantenere in piedi il trattato di Dayton, tantoché il suo incarico, che era scaduto nel 2005, è stato rinnovato ad oltranza: senza la sua presenza il Paese ritornerebbe nuovamente nel caos. Infatti ciclicamente il Parlamento della Repubblica Srpska approva all’unanimità l’annessione del suo territorio alla Serbia. E ogni gennaio l’Alto Rappresentante pone il veto sulla suddetta proposta di legge. L’intervento degli altri Stati non ha giovato a che le due entità si riconciliassero davvero, ma solo a salvaguardare gli equilibri internazionali. Due giorni dopo la commemorazione di Potocari avviene un altro incontro volto a non dimenticare ciò che è successo in questo Paese: le madri di Srebrenica ripercorrono i luoghi del genocidio insieme ai ragazzi europei e bosniaci presenti al campo di lavoro ˝Franco Bettoli˝. La partenza è di mattina presto, come luogo di ritrovo il piazzale davanti al vecchio edificio dei caschi blu olandesi, oramai dismesso da tempo, ma pur sempre presente nella memoria della guerra civile. A completare il team anche antropologi, scrittori e giornalisti interessati alla vicenda. Immancabile poi la presenza della Polizia Srpska: quella che potrebbe apparire come una normalissima giornata di ricordo invece viene ancora vissuta con grande tensione. I posti da visitare sono dislocati sul territorio serbobosniaco, e la popolazione del posto guarda con molta diffidenza le madri musulmane. La prima tappa si trova a pochi metri dal punto di partenza. Si tratta di una piccola casa con giardino dove l’esercito di Mladić divideva gli uomini dai bambini: i primi venivano fucilati, i secondi imprigionati. Ci spostiamo poi a Ora Ovic, precisamente in una scuola utilizzata come luogo di fucilazione. Uno di loro prende la parola, non si può non notare la commozione nei suoi occhi. ˝Scesi dall’autobus li hanno portati dietro gli alberi e lì- spiega- hanno fucilato i miei connazionali˝. Questo luogo dell’orrore era destinato a scomparire dalla memoria collettiva, come tutto ciò che in questo Paese può rimandare alla guerra, ma è stato ritrovato grazie all’aiuto di un bambino di 7 anni, il quale dopo esser scappato dai militari serbi, è stato in grado di riconoscerlo. Passiamo da una scuola a un’altra. Questa volta però quella di Petkovci. Una delle madri racconta a un giornalista come qui abbia ritrovato suo figlio, fatto a pezzi, senza testa. Lei ha deciso comunque di seppellirlo. ˝Non è giusto che in questo edificio venga ancora fatta lezione ai bambini, senza che essi sappiano niente di quanto è successo in questo luogo. Nella scuola- prosegue- ci sono due insegnanti che hanno partecipato al genocidio. Essi sono stati condannati dal tribunale dell’Aia, però sono, nonostante tutto, a piede libero. ˝Noi, in qualità di associazione delle madri di Srebrenica, abbiamo chiesto allo Stato bosniaco di imprigionarli˝. Parole forti da parte di questa donna, che mostra grande orgoglio in una giornata così difficile. Per loro è impossibile perdonare i soldati serbi, troppo forte il dolore per la morte di un marito o di un figlio, però vogliono superare la drammatica situazione in cui versa la Bosnia. Solo così trovano la forza per riunirsi e parlare della loro triste vicenda davanti alle telecamere, con la speranza che questo sforzo possa servire alle nuove generazioni. Non possono permettere che queste crescano in un Paese che non sa ricordare, perché in un posto dove non c’è memoria può accadere quanto già successo. Come terza tappa la diga situata dietro una collina di sassi. Negli anni, in mezzo alle sterpaglie, sono stati ritrovati molti fucili che appartenevano ai militari serbi. Oggi non ci sono più, però sono rimasti ancora i bossoli delle armi, probabilmente AK47. Le donne musulmane, dopo il solito momento di preghiera, iniziano a spostare le pietre. Al di sotto un grande numero di proiettili. Poi si alzano e mettono in tasca quanto trovato, come se anche questi dovessero entrare a far parte del ricordo. Sì, perché forse uno di quelli ha ucciso i loro mariti. Tornate nell’autobus, le madri si avviano, nel caldo soffocante del primo pomeriggio, verso una piccola cittadina, Branjevo. Ad aspettarle pattuglie della polizia che serrano le strade secondarie, per impedire il contatto e lo scontro con le madri serbe. L’atmosfera è irrealistica: tutti gli abitanti di Branjevo stanno immobili a osservare le donne, al ciglio della strada, sull’uscio della porta, in un silenzio interminabile. Al termine della visita, sulla via del ritorno, alcuni bambini che giocano in un parco vicino all’autobus mostrano il tre con le dita, simbolo della vittoria serba. Esempio di come le giovane generazioni siano indottrinate secondo i dettami del nazionalismo. In un paese dove non esiste una cultura unica, dove le persone vengono educate secondo tre tradizioni differenti(croata, musulmana, serba), dove è più forte l’odio rispetto all’integrazione, in un paese del genere la guerra è più vicina della pa c e . Gli attori di Dayton hanno intrapreso il sentiero più semplice: sulle orme di Tito hanno tenuto le etnie fra loro separate, i musulmani insieme ai croati nella Federazione bosniaca, i serbi nella Repubblica Srpska. I politici credono di mantenere questo equilibrio in Bosnia utilizzando come strumento cardine la distanza. Questo elemento ha rinforzato l’odio, ciascun popolo si è arroccato nelle sue credenze, Figura 3 Fabbrica di Kravica: 1100 morti, soprattutto bambini. Oggi una comune rimessa di attrezzi. Dedalus | 2015 11 Figura 4 Intervista alle madri davanti alla scuola. ciascun popolo ha pianto i suoi morti dopo la guerra, celebrandoli con la sua religione. L’11 luglio a Srebrenica i musulmani piangono le vittime del genocidio, il 12 luglio a Bratunaz, a cinque chilometri di distanza, i serbi ricordano le loro migliaia di morti della guerra. Come non è presente un lutto nazionale, così non si è formato un potere centrale capace di governare. L’autorità è decentralizzata a livello federale e ancor più a livello locale. Lo stile di vita tra le due repubbliche è nettamente diverso: polizie autonome, scuole con programmi discordanti, dove la storia stessa è di parte, alleanze differenti. Musulmani con i turchi, serbi con i russi: infatti mentre alla commemorazione dell’11 il rappresentante della Turchia ha dichiarato con orgoglio che il suo paese ha stanziato molti milioni per la Federazione; invece, da quando, a inizio luglio, Putin ha posto il veto sulla proposta internazionale di definire il massacro di Srebrenica come genocidio, la Repubblica Srpska è tappezzata da manifesti in cui un primo piano del capo di stato russo è accompagnato da parole di ringraziamento. E come potrebbero esserci in Bosnia risoluzioni uniche per tutti quando a Sarajevo vi sono tre capi di stato (Presidente della presidenza, presidente del parlamento, primo ministro) ognuno rappresentante di ciascun popolo e un numero esorbitante di ministri i quali devono avere viceministri di etnia differente? Lo Stato centrale bosniaco è un fantoccio creato dagli attori internazionale per mantenere l’equilibrio geopolitico nei Balcani. 12 2015| Dedalus Ma l’analisi e i giochi di potere dei vari Stati non tengono in alcun conto del dolore provato e ancor vivo, dopo vent’anni, nelle persone. In particolar modo questo sentimento è forte a Srebrenica, dove l’associazione delle madri è alla ricerca della verità su quanto accaduto in quel famoso giorno di metà luglio. Col passare del tempo, i pezzi del puzzle si ricompongono : alcuni soldati olandesi che nel ‘95 presidiavano Potocari incontrano le madri nel campo di riconciliazione internazionale intitolato a Franco Bettoli, alla presenza di giovani volontari provenienti da tutta l’Europa. Il 25 luglio è l’ultimo atto della vicenda, dopo 20 anni di silenzio, eccoli tutti seduti intorno ad un tavolo a parlare. L’incontro si protrae per ben quattro ore, tutto ciò che fino ad ora era stato taciuto emerge con prepotenza. La presidentessa delle madri non risparmia gli ex soldati, con tono aggressivo dice : ‘’ Voi non potevate non sapere dove li stavano portando’’. Ed è questa la triste realtà: i caschi blu in mancanza di direttive avevano lasciato che i serbi di Mladic entrassero nell’enclave protetta di Srebrenica e uccidessero più di 8000 uomini. I soldati rispondono che in quel momento non avevano idea di quello che sarebbe successo, pensavano che le persone sarebbero state catturate e poi rilasciate. Uno di loro afferma addirittura di aver appreso del genocidio solamente dopo esser rientrato in Olanda. Lo scontro tra le due parti è duro: le madri non si tirano indietro e in diversi frangenti gli ex soldati scoppiano in lacrime mentre raccontano la loro storia. Sarebbe stato sbagliato immaginarsi un incontro rilassato e pacifico, avrebbe perso di sincerità. Molto più veritiero quantosuccesso. I volti finalmente si distendono quando uno dei soldati viene raggiunto dal figlio di otto anni. Le madri sorridono e tutta la tensione che si era accumulata fino a quel momento svanisce. E a fine incontro i caschi blu regalano alle madri un fiore simbolo della sofferenza e del dispiacere per ciò che è accaduto. In queste tre giornate è apparso chiaramente che la guerra in Bosnia non è affatto finita, non ci saranno più le armi ma l’odio tra serbi e musulmani è rimasto quello degli anni ‘90. Il Paese non ha superato il conflitto: lo Stato centrale è una scatola vuota che si regge in piedi solamente grazie al potere di veto dell’Alto rappresentante, mentre le vere autorità sono le due Entità etniche che agiscono in modo contrastante tra di loro. Fiumi di denaro investiti dalla cooperazione internazionale non sono stati in grado né di riconciliare i popoli né di ricostruire materialmente la BosniaErzegovina ( metà degli edifici sono ancora crivellati dai proiettili), soldi mangiati da una classe politica inefficiente. In questo quadro estremamente conflittuale in cui il passato non passa , l’unico vero elemento di novità è la presenza dei giovani europei che da dieci anni vengono a Srebrenica, città simbolo della divisione, per portare conforto e aiuto a quelle persone che da troppo tempo sono vittime dei giochi di potere internazionali, abbandonate a loro stesse. Linguistica Sull’evoluzione del sistema vocalico in Protoitalico di Didier Natalizi Baldi Nell’articolo di questo mese intendiamo riflettere sulle numerose variazioni occorse al sistema vocalico nel passaggio da Protoindoeuropeo (che come di consuetudine abbrevieremo PIE) al Protoitalico (che abbrevieremo PIt) e poi, infine, a tutti i vari dialetti italici. Prima di tutto però occorre avere una piccola ma essenziale panoramica di quali fossero i dialetti italici prima che il Latino, con l’espansione di Roma, prendesse il sopravvento nello Stivale. Ebbene i due dialetti principali, ovviamente fatta esclusione del Latino, sono l’Osco (dialetto parlato a sud del Sannio, in Lucania e nell’Abruzzo) e l’Umbro (parlato invece a nord del Sannio, in parte dell’odierna Umbria e Toscana). Tra questi due maggiori dialetti “glottologicamente come geograficamente”, per usare le parole del Nazari, illustre linguista alla cui opera (“I Dialetti Italici”) ci riferiremo spesso, vi sono i dialetti Sabellici, come Marso, Peligno, Marruccino, Vestino, Sabino, Piceno, più simili all’Osco, e il Volsco, più simile all’Umbro. Piacerebbe dilungarsi sulle caratteristiche proprie di questi vari dialetti, ma occorre non divagare dal tema prefissatoci, basti dire che ne conosciamo integralmente l’alfabeto e la fonetica e, quasi completamente, la grammatica e la sintassi. Partiamo con la prima vocale, il PIE *h2 oppure *h2e ha dato esito in PIt *ă, che, a sua volta, ha dato in Latino generalmente esito ă, in Osco ă, in Umbro sempre ă, così come nei dialetti Sabellici. Possono essere addotti come esempi l’esito del termine indoeuropeo *h2eg-ō che ha dato in Latino ago, in Osco acum, in Marruccino agine. Oppure il termine *ph2tēr che ha dato in Latino pater e in Umbro patre (benché non sia di immediato interesse ai fini del nostro ragionamento notiamo che qui è avvenuta una metatesi consonantica). Il volsco poi ha statom che funge da esempio, essendo da ricondursi al Latino statum. Passiamo dunque all’esito del PIE *eh2 in PIt ovvero *ā, donde in Latino ā, l’Osco ā e l’Umbro ā. Questa volta possono fungere da esempi sostantivi come PIE *meh2tēr, Latino māter, Osco maatreis (la cosiddetta scriptio plena garantisce la lunghezza della vocale), Umbro mātrer (ancora con metatesi consonantica). Non sono però, per questo fonema, da tralasciare le innegabili differenze tra le lingue, o, più precisamente, tra il Latino e gli altri dialetti italici: l’Osco trasforma la ā in fine di parola in u, ovvero ù (per chi conoscesse l’alfabeto Osco rispettivamente in ), infatti il Latino via, corrisponde all’Osco vìù oppure vìu. In Umbro si applica la stessa regola, non solo in fine di parola, ma anche in fine di sillaba; nonostante nel complesso si rilevino più eccezioni che in Osco: mutu vale il Latino multa, ma in salva rimane ā. Il Peligno in generale conserva la ā, mentre il Volsco sembra mutarla in u, come in uinu, neutro plurale che ritiensi collegato al Latino vinum. Il PIE *e muta naturalmente nel PIt *ĕ, che dà in Latino ĕ, in Osco ĕ, in Umbro ĕ, in Sabino e in Peligno ĕ. Esempi ne sono la forma ĕst del Latino, identica a quella Osca ed a quella Umbra. Questa apparente unità di esiti si rompe invero, ben presto: il Latino, per esempio, muta la ĕ in ŏ in vicinanza di suono w; esempi sono ne l’aggettivo novus, da ricondursi alla radice indoeuropea *newos che ha dato, tra gli altri, il Greco νέFος; oppure l’altro aggettivo, bonus, proveniente dalla forma Latinoarcaica duenos, dalla radice PIE *dew-/dow-/dw. In Latino ĕ passò in ŏ anche davanti al suono velare [ł] come in solvo, da *se-luo (cfr. Greco λύω). Numerose eccezioni sono presenti anche nella lingua Osca; infatti, sebbene ĕ si mantenga nei futuri sigmatici come ferest, diviene ĭ davanti al gruppo – re – radicale, per esempio amiricatur (corrispondente al Latino inericato). Permane invece di fronte al gruppo –rk-; vario è, invece, l’esito in vicinanza del gruppo –st-, come in ìst, corrispondente alla forma Latina est. In Umbro vi sono analoghe eccezioni, per esempio uasirslom da *uakerkelom, oppure di fronte a nasale velarizzata, come in erinqatro. Simili mutamenti si trovano anche in Sabino, per esempio hivetum (corrispondente al Latino decretum), o in Peligno inim (corrispondente al Latino enim). Il PIE *eh1 passa in PIt *ē, donde in Latino ē, in Osco ī (rappresentato da ìì oppure ì), in Umbro da ei, i, e, in Peligno poi, invero, gli esiti sono vari. Può essere, dunque, da esempio l’aggettivo latino plenus (dalla radice indoeuropea *pleh1-/ pelh1-/plh1) che ha un suo naturale corrispondente nell’Umbro plēner, o il sostantivo femina della stessa radice di filius (quella indoeuropea di *dhe-, cfr. Greco θηλή) che deriva dal PIt *fēlios, che in Umbro ritroviamo con felifu e filiu sottolineando così la variabilità degli esiti. Quanto all’Osco possiamo citare lìgatùis, corrispondente al Latino lēgatus, oppure aìdilis, che va con il Latino aediles, anche se, in realtà, si rilevano eccezioni, benché in numero limitato. Il Peligno ha, come già accennato, vari esiti; infatti al Latino lēx corrisponde sia la forma lexe, che quella lix. La vocale PIE *ĭ passa al PIt *ĭ, e, quindi, al Latino ĭ, in Osco sempre a ĭ (rappresentata da ì in grafia nazionale, ad ει in grafia greca ed i in scrittura latina), in Umbro a ī oppure e, nei dialetti Sabellici ad i, oppure, raramente, ad e. Per esempio il Latino video (dal PIE *widē-, cfr. ssr. vidmà, oppure Greco Fιδεῖν), simile all’Umbro revistu, che, a rigore, si collegherebbe con il Latino revisto. In Latino, poi, i passa ad e di fronte ad r frutto di rotacismo (per esempio sero da *si-so oppure cineris, Dedalus | 2015 13 genitivo di cinis, ovviamente da *cinis-is). Quanto all’Osco potremmo considerare il termine dadìca corrispondente al Latino dedicavit. Si rileva una piccola eccezione, non però trascurabile, nella parola esìdum corrispondente del Latino idem, ove, evidentemente, abbiamo e per i. In Umbro abbiamo termini come ife, che si ricollega con il Latino ibi, oppure uitlu da ricondursi al Latino vitulum. Questa vocale, in lingua Umbra, è importante anche per la declinazione nominale, se infatti l’accusativo singolare dei temi in –io esce in –im, quello dei temi in sola –i esce in –em; come Fisim (da Fisio) e sakrem (da sakri). In Peligno, poi, possiamo citare dida, corrispondente del Latino det. In Marso, infine, abbiamo esito i, come testimonia il termine medis, corrispondente al Latino meddix. Il PIE *ih1 passa direttamente al Pit *ī da cui in Latino ī, in Osco ī (rappresentato da iì, ma si trova anche, seppur raramente, i, ìì, ii, e), in Umbro i, raramente ei, e; nei dialetti Sabellici i, e. Per esempio il Latino līmitum (genitivo plurale di limes) ha il suo esatto corrispondente nell’Osco liìmitum, mentre il sostantivo vīr ha la sua controparte nell’Umbro uiro, ueiro (accusativo plurale). Ancora il Latino pius è da ricollegarsi all’Osco piìhiùi (dativo singolare). Il Peligno ha, poi, fertlìd simile al Latino fertiti, il Marrucino ha esito e oppure i come dimostra il termine regenai diretto corrispondente del Latino reginae (genitivo singolare). Il Volsco da infine esito i, per esempio, in uinu, probabilmente da ricondursi al Latino vinum. Continueremo l’articolo nel prossimo numero del giornalino procedendo all’analisi anche delle altre vocali. MINIME MORALIA Riflessioni a prima vista niente affatto filosofiche - ma sulle quali si può meditare Vi presento questa rubrica che spero di riproporre mensilmente su Dedalus: l’idea mi è sorta dopo l’occasione che ho avuto di assistere ad alcune lezioni universitarie durante un corso di orientamento; e queste erano così belle che mi sembrava un peccato non ricordare la loro vita interiore, ovvero le conseguenze implicite che lasciavano solo intuire tra le righe – o che almeno io avevo compreso, forse tradendo lo scopo stesso di quelle lezioni. Subito mi è venuto in mente un rammarico, ovvero che queste conseguenze non sono che appunti, spunti, piccole riflessioni, che non meritano forse di essere pubblicate; ma poi, pensandoci bene, ho visto che avevo il vizio di trarre da molti piccoli avvenimenti e situazioni, pensieri di questo genere. Questi “ghiribizzi” mi parevano – e paiono tuttora – degni di un minimo di attenzione: sono il loro presupposto teorico o la loro conseguenza, ripeto, implicita e a volte sconsolante. Consapevole della loro pochezza e 14 2015| Dedalus vis polemica però mi son ripromesso di considerarle e presentarle come cose da niente, appunto, minime – minimamente, per nulla – riguardanti la morale, la filosofia e qualsivoglia ambito scientifico. Questo mese avevo ricavato un po’ di riflessioni da varie parti, ma un evento che ci ha come al solito sconfitti culturalmente, lo scandalo delle emissioni Volkswagen, ha provocato una serie infinita di spunti – di cui presento una summa – che ha reso insignificante ogni altro ambito di cui parlare. Spero però che si possa trovare in questi brevi appunti, lasciati a metà come domande aperte, qualcosa di significativo da ricordare o su cui riflettere ulteriormente. In breve: I motori a scoppio delle automobili hanno una combustione imperfetta: la proporzione della miscela aria/ combustibile non sempre è ottimale, e si formano, soprattutto nelle vetture alimentate a gasolio, delle pericolose sostanze nocive – ossidi di azoto, monossidi di carbonio, polveri sottili, idrocarburi incombusti… - che, insieme ai già nocivi scarti di combustione, vengono espulsi nell’ambiente con i gas di scarico. Per fortuna esistono delle legislazioni che obbligano le aziende a dotare le vetture di accorgimenti vari – marmitte catalitiche, filtri antiparticolato… - per ridurre la quantità di queste sostanze. Il 20 settembre 2015, dopo una tenzone tra l’EPA, l’Ente Nazionale per la Protezione Ambientale degli Stati Uniti, e il gruppo Volkswagen – che comprende anche Audi, Seat, Skoda… - si scopre che l’azienda - costretta dai fatti ad un pubblico annuncio - ha installato nei propri modelli un software che consentiva, a fronte di emissioni nocive reali ben più elevate, di poter ingannare i controlli sulle emissioni per far omologare i propri modelli nonostante in condizioni normali non avrebbero MAI potuto sorpassare questi esami. Questo consentiva all’azienda di non montare costosissime apparecchiature sui veicoli – basti pensare, per esempio, che i reticoli interni delle marmitte catalitiche sono fatti di metalli preziosissimi come platino e iridio - e di mantenere dei costi concorrenziali. Lo scandalo si allarga a macchia d’olio in tutto il mondo – passando da mezzo milione a 11 milioni di auto coinvolte - e si iniziano a contare i danni… I. Maiorum nugae negotia vocantur (Confessiones, I, 9) – Sant’Agostino, nelle sue Confessioni, ci ricorda che “i giochi degli adulti sono chiamati affari”: ma, prosegue, a differenza degli innocenti giochi dei bambini, che nuocciono solo al ragazzo che invece di studiare si diverte, i giochi degli adulti hanno un virulento potere nocivo. Il gioco – evito di chiamarlo con altri nomi - intentato dalla Volkswagen ha danneggiato ben più di quanto si possa pensare: effetti finanziari, economici, politici, sociali, valoriali, morali. Voi mi direte, anche ambientali; ma a veder tutte le conseguenze… II. Al futuro acquirente Volkswagen – Scoppiato lo scandalo, l’amministratore delegato Martin Winterkorn ha rassegnato le dimissioni e annunciato che sarebbe stata effettuata un’indagine interna. Se io fossi in cerca di Golf o di Polo (né gli sport né i capi di abbigliamento) mi asterrei dal mio proposito non tanto per le bugie sulle emissioni, ma per il chaos interno dell’azienda tedesca: se – molto dubitabile - l’ad e l’intero gruppo dirigente erano ignari di una modifica illegale delle vetture prodotte dal gruppo, chissà di quali altre modifiche legalissime siano all’oscuro: e comprare una vettura della quale neanche chi la produce conosce le vere caratteristiche è un po’, ecco, avventato. III. Economia e pseudo-economia – I danni saranno – e sono! - calcolati in miliardi: si stima che solo per ogni vettura invalidata venduta negli Stati Uniti possa esser richiesta una multa da 37.500$; le vetture son circa 482mila; fanno circa 18 miliardi di dollari. Ma le auto incriminate in tutto il mondo sono 11 milioni; e non si contano le azioni legali private che stanno fioccando a migliaia, con le ben più temibili class action dei consumatori americani. Peraltro il primo giorno dopo la scoperta di questa truffa il titolo Volkswagen ha perso il 20% in borsa e due giorni dopo il 17%. L’azienda è stata declassata nella valutazione di solidità economica da un’influente agenzia di rating come Standard&Poor’s. Si inizia a parlare di esuberi e crisi di liquidità. L’azienda dovrebbe farcela. È too big to fail, troppo grande per fallire, come le aziende automobilistiche americane salvate dal presidente Obama durante la loro crisi di pochi anni fa; ma per una volta economia e soprattutto pseudo-economia, ovvero la finanza, puniscono chi di dovere e all’unisono; ma meglio non inizino a punire le multinazionali per i loro errori sistematicamente: poi, per salvarle dal fallimento, il fardello viene posto spesso su altri. C’è da dire inoltre che, davvero, alla Volkswagen le maiorum nugae vengon fatte davvero bene: se solo al posto dei capitali economici giocassero con la palla… IV. Puerorum, non maiorum – Come un bambino colto in flagrante, il gruppo dirigente VW ha accusato anche altre aziende di procedere alle stesse contraffazioni illegali. Sempre che sia vero, discolparsi in questo modo fa davvero dubitare della reale età dei dirigenti. Tanto per esser sicuri che abbiano almeno superato la scuola materna. V. Il Giornalismo, ovvero “a pensar bene si fa peccato”– Un grave scandalo accompagna questo misfatto: lo scandalo dei consumi dichiarati, molto più bassi di quelli effettivi, anche del 50%. Che sia scorretto, è vero; che questo sia dovuto agli inefficaci controlli europei, pure; che sia una novità, meno! Da anni riviste specializzate del settore, come Quattroruote, denunciano le fuorvianti dichiarazioni dei consumi, legalissime perché validate da prove alquanto irreali che tentano, senza riuscirci, di simulare l’uso su strada. Prove standard a cui pure le aziende si sono abituate e che hanno imparato a sfruttare: ogni anno la forbice tra i consumi reali delle automobili e quelli dichiarati aumenta, grazie a modelli che sanno sempre meglio adattarsi a questo tipo di prove (con accorgimenti non troppo dissimili da quello delle emissioni nocive VW, ma che risultano legali). Questo fenomeno è diffuso tra tutte le aziende produttrici, anche perché in parte automatico. Invece che dare risonanza a questo fenomeno da tempo però, le testate editoriali più famose del paese ne hanno iniziato a parlare solo da ora con toni complottistici e scandalistici. Pensar bene: cercano di sfruttare lo scandalo emissioni della VW per mettere in evidenza una problematica che altrimenti non avrebbe avuto una risonanza sufficiente. Pensar male: solo ora la cosa può esser redditizia per vender più copie con “esclusive inchieste scandalo”; prima non aveva senso – economicamente – parlarne. P.S. Qui sono stato affatto polemico, ma tenterò di chiarir meglio la mia posizione su (una parte del) giornalismo italiano nei prossimi numeri. VI. Carro del popolo – Questa è la traduzione letterale della parola Volkswagen. In effetti il “carro” del popolo deve essere ingannevole e truffaldino, oppure, di che popolo parliamo? VII. L’Europa manzoniana – Abbiamo già notato come la legislazione europea sia inadeguata in queste situazioni. Va notato inoltre che se non fosse stato per l’EPA, che è un ente americano, non ci sarebbe stata nessuna denuncia della grave violazione. L’idea che ne vien fuori, come al solito, è pessima: l’Europa ci fa la sua solita brutta figura, come Dedalus | 2015 15 di un organismo che malgrado i propositi fa prevalere i furbi e i disonesti ed è inefficace nei controlli. Mi sembra che i suoi provvedimenti siano come le gride dei Promessi Sposi: magari l’intenzione buona c’era, ma il risultato è che anche le migliori leggi possono essere piegate al sevizio degli oppressori. Dovremmo davvero interrogarci su cosa sia l’Unione Europea, se perde anche la capacità di essere uno strumento per la concorrenza e lo sviluppo economico, l’unica capacità che ormai le è rimasta - forse. VIII. Il sistema tedesco – Solo una domanda, spero con risposta negativa: è su questo che la Germania basa il suo sviluppo e predominio economico? Sulla slealtà invece che sulla correttezza che tanto sbandiera? Sull’imposizione di regole rigide solo se possono essere rispettate con facilità dalle aziende di stato? La VW, in quanto la più grande azienda tedesca, intrattiene stretti rapporti col governo federale. Allora è necessario un processo morale; anche un piccolo esame di coscienza mi va bene; ma bisogna chiedersi come sia stato possibile che tale gruppo dirigente abbia potuto tradire così senza pensarci due volte la cultura europea (e se ne è valsa la pena). IX. Il tracollo della Grande Germania – Per lo stesso motivo di cui sopra, per il coinvolgimento di politica – governo federale e Stato della Bassa Sassonia, che poverino possiede il 12% delle azioni –, per il danno d’immagine per questa grande azienda e di conseguenza per la sua nazione, che le fornisce il modello, oserei dire che potrebbe esser possibile ora, per gli altri Stati europei, esprimere un dissenso nei confronti dell’equilibro “tedescocentrico” dell’Unione. È di sicuro un 16 2015 | Dedalus motivo pretestuoso, ma tanto è: se la questione non viene affrontata per salvare quel poco di Europa che è rimasta, la saprà molto meglio sfruttare chi l’Europa la vuole morta. Certo, se l’obiettivo finale è questo… X. Slealtà alla tedesca – Quando parlo di “slealtà” non mi riferisco solo al misfatto del software: in fondo questo sarebbe “solo” una terribile azione riprovevole. Quello che è ancora peggio è che la VW faceva delle basse emissioni delle proprie vetture un cavallo di battaglia potentissimo. I motori a gasolio dell’azienda erano pubblicizzati come i più efficienti del mercato. In realtà inquinavano 40 volte oltre il limite, ma tanto che avevano deciso di barare, lo avevano fatto per bene! Già Greenpeace dal 2011 aveva intrapreso una campagna “VW, il lato oscuro della forza”, con cui accusava il colosso di opporsi a regole più restrittive sui consumi e sulle emissioni, e aveva creato una pagina informativa che ridimensionava gli annunci miracolosi mostrando come fossero esagerati anche per i dati ufficiali - figuriamoci ora che son saltati fuori quelli reali! Nel 2009 un modello vinse pure il premio come “Green car of the year”; inutile dire che il premio è stato revocato. XI. Sullo scopo di un’automobile – “Veicolo a quattro ruote, mosso da un motore, adibito al trasporto su strada di un numero limitato di persone” (dal Vocabolario DevotoOli, voce “Automobile”). Ora, il trasporto può esser fatto in tanti modi: è meglio, spero non ci sia da discutere, che questo non abbia effetti collaterali per l’ambiente e la salute umana. Non la pensano così le aziende di auto di lusso tedesche, che da anni bloccherebbero, con le loro pressioni, l’inasprimento delle regole sui consumi, che sono ben lontani da esser indifferenti per l’ambiente e per l’uomo. Va ricordato come il trasporto su gomma sia un fattore di inquinamento significativo. Il motivo di queste pressioni è logico: BMW, Mercedes-Benz e Audi producono auto troppo potenti, grosse e pesanti, perché possano, a costi ragionevoli, consumare poco ed essere ecologiche. Anche loro però fanno automobili adibite al trasporto: e se il limite di velocità è 130 km/h, è indifferente se il motore arrivi a 150 km/h o a 200 km/h. Per la legge, la velocità massima è sempre 130 km/h. A Milano ci si arriva anche con una macchina medio-piccola, una Golf diciamo (tanto che siamo in tema…), non è necessario un macchinone da 5 m di lunghezza. Soprattutto, se quelle sono auto di lusso, possono costare anche di più: l’importante secondo me è che la priorità sia un trasporto efficiente e la conservazione del nostro pianeta, non le esigenze economiche di aziende peraltro ben pasciute. Le cronache mi fan pensare che il mondo che conta guardi da un’altra parte. XII. Sul trasporto pubblico – Ecologico, comodo, veloce: avrebbe queste caratteristiche se non fosse ostacolato (magari c’è di nuovo lo zampino del settore automobilistico?). Lo stato italiano investe pochissimo in trasporti pubblici: ma nei pochi casi in cui funziona (vedi Frecciarossa) si nota la sua superiorità all’automobile. Roma Termini-Milano Centrale in 2h è il prossimo obiettivo delle Ferrovie dello Stato; in auto ce ne vogliono almeno 5 e mezza; l’inquinamento è risibile al confronto e si viene trasportati nel centro della città. È solo un consiglio… Letteratura Stand by me di Chiara Celeste Nardoianni e Eleonora Ducci ‘Ricordo di un’estate’ altrimenti noto come ‘Stand by me’, film tratto da questo racconto,è una delle quattro storie del libro ‘Stagioni Diverse’ di Stephen King. Questo parla di un viaggio di quattro amici ( Chris,Gordon,Teddy e Vern ) che li farà maturare e che segnerà la vita di alcuni di loro per sempre. Nell’estate del 1960 i ragazzi si incamminano lungo una ferrovia alla ricerca del cadavere di un coetaneo, spinti dal desiderio di successo e dal sogno di diventare eroi. Arrivati all’obiettivo, l’esperienza vissuta li avrà però cambiati a tal punto da indurli a fare una scelta totalmente diversa da quella iniziale … ‘E’ come se Dio ti avesse dato un dono. Dio ha detto: ‘Questa è roba tua, vedi di non sprecarla.’ Ma i ragazzi sprecano tutto se non c’è qualcuno a tenerli d’occhio. […]’ King evoca riflessioni che non ci giungono nuove, fino a farci scontrare con la metafora molto efficace,se pur esasperata, sorta a definire l’adolescenza come periodo che per la sua insicurezza,ingenuità e perdizione confluisce nell’inquieto tanto da affondare nell’ horror. Il cadavere rappresenta le paure dei personaggi: paura del futuro, paura di crescere, di cambiare. Alla fine del percorso saranno a tal punto maturati da saperle affrontare e da riuscire a guardare il corpo inerme negli occhi. Tale incrocio di sguardi incarna la fase adolescenziale conclusa e risulta essere emblema dell’approccio con l’età adulta. Per antitesi l’autore racconta un’adolescenza prossima alla morte invece che alla vita. Una spensieratezza avventurosa rubata dalla vista di un corpo inerte che sarebbe potuto appartenere ai protagonisti. Il vuoto provato in quell’istante si espliciterà nel tempo in una lacuna che graverà per sempre nei ricordi di un’adolescenza nefanda di due dei ragazzi; gli unici dei quattro audaci che resteranno segnati, per qualità pregresse e innate, come sensibilità e intelligenza, dalla pavida constatazione. ‘Basta Taddy non fare il ragazzino!’ ‘Lo sono. Sono nel pieno della mia giovinezza e si è giovani una volta sola.’ ‘Si però si rimane stupidi per sempre.’ Desideri mai morire per un solo instante così da apprendere cosa si provi? Dedalus | 2015 17 Fantascienza o realtà? di Serena Convertino A volte è necessario volgere lo sguardo alla letteratura del passato, per poter comprendere a fondo il presente, per capirne le contraddizioni e i limiti, le ipocrisie e quel che di profondamente mutato c’è. Prendo in esame due grandi romanzi del secolo scorso, “1984”, capolavoro Orwelliano, e “L’uomo in fuga”, di Richard Bachman, alias, Stephen King. Autori, stili e opere diverse ma convergenti, che vanno ad indagare su un mondo futuristico, oggi più che mai vicino e reale, il mondo di Winston e di Ben, nomi come numeri in una società di macchine umane, di baratri sociali e di una realtà a dir poco surreale e contorta che hanno il potere di affascinare, stupire ed inevitabilmente indignare il lettore, pur lasciandolo con un velo di amarezza in bocca, l’amarezza per quella vaga familiarità che un autore è riuscito a suscitare a 40 anni di distanza, quasi a premonire tutto. Terrificante, ossessionante è la realtà che ci viene posta dinanzi agli occhi con spietata semplicità e chiarezza: l’uomo, non è tale, se per uomo intendiamo una creatura con la capacità del pensiero, della ratio, della padronanza di sé. L’uomo è una pedina del sistema, una bestia da sfruttare e plasmare a proprio favore. È tutto guidato da mani invisibili, inarrivabili. Gli occhi delle persone sono vuoti e ciechi, nessuno può vedere se non attraverso gli occhi del Grande Fratello, del potere puro, per cui ogni cosa è ottenebrata e celata dietro una sorta di disciplina mentale, di illusione calcolata, di menzogna e dubbio, da cui è impossibile emergere, in cui è impossibile essere. Tutto è calcolato con folle precisione, ogni virgola, ogni informazione è volutamente distorta e giocata a favore del sistema, che inganna e tradisce 18 2015 | Dedalus perfino sé stesso, ma pur sempre con perfetta discrezione. Ma la forza più grande di questa totalizzante società sta in quello che di meno reale e concreto c’è, quell’abisso profondo che è la mente umana. Sì, il Grande Fratello incide soprattutto sulle menti oltre che sulle vite degli individui, plasmandoli e annullandoli completamente a corpi animati, senza scampo, senza rimedio. L’esistenza stessa delle cose viene messa in dubbio, così come la storia, il tempo, la realtà delle cose. È tutto dubbio, ma viene mascherato come fosse certezza. Come si arriva a questo? Come è possibile in un mondo in cui siamo costantemente certi delle cose che ci circondano, convinti di avere a portata di mano tutto ciò che da capire c’è? È anche questa pura illusione, dettata dalla presunzione che abbiamo di poter sapere e capire tutto, come se fosse alla luce del sole. Ma non è affatto così, perché guardando attentamente ci accorgeremo che tutto intorno a noi è un punto interrogativo, è una questione che non si sbriga discutendone su un gruppo “what’s app”, al bar con gli amici, persino a scuola. Ci accorgeremo che il mondo sta andando a rotoli e che noi siamo ancora convinti che tutto vada come deve andare. Ci accorgeremo che il Grande Fratello della situazione esiste veramente, che siamo burattini, semplici ingranaggi di un sistema e che capire le cose non è poi così facile e sicuro come sembra. Ci accorgeremo che la cultura viene sempre più denigrata dagli apparati politico-statali, come se facesse loro paura, come se fosse davvero scomoda. Ci accorgeremo che i mass media, internet, il mondo multimediale, ci ottenebrano la mente, ci piegano e ci negano di capire veramente con cosa abbiamo a che fare. Ci accorgeremo che oltre il nostro mondo a cinque stelle ce n’è uno che di stelle non ne ha proprio, in cui non resisteremmo neppure per un minuto, che guardiamo solo da lontano, magari in una pubblicità che passa per 30 secondi in televisione e che sparisce come niente, tra una réclame di intimo e una di profumi. Ci accorgeremmo che il nostro pianeta sta collassando sotto il peso del nostro tanto bramato benessere, del nostro consumismo, dello sfruttamento, dello schiavismo della terra come delle persone. Ci accorgeremmo che siamo governati più dalle mafie che da cittadini, i quali ci dovrebbero rappresentare, non truffarci nei parlamenti e nelle corti di giustizia. Ci accorgeremmo che in tutto il mondo le cose cambiano e si evolvono, ma che ancora muoiono 26 mila bambini ogni giorno, per fame, per guerre, per cose che sì, ci riguardano, ci toccano e che ci spetta ascoltare con attenzione, che ci spetta cambiare. Ci accorgeremmo che ognuno di noi è fermo nella propria realtà, a braccia conserte e che il mondo è intorno a noi ma che noi non ci siamo, che siamo capaci di vedere le cose solo attraverso uno schermo che ci spara informazioni e dati e numeri ma che alla fine non dice niente di niente. Noi, siamo uomini. E che crediamo o meno in un dio, che il mondo ce lo sentiamo gravare addosso o meno, dobbiamo perlomeno cercare di capire e cambiare, non di vivere la nostra vita guardando sempre avanti, perché scopriremmo che dietro e intorno a noi tante cose succedono e si evolvono. Perché sta solo a noi capire e cambiare le cose; forse era anche questo ciò che Orwell e Bachman ci volevano dire, che siamo ancora in tempo. Che anche le parole hanno un valore e che noi possiamo darglielo e tramutarlo in fatti. Cambiamo. Cinematografia I figli degli uomini di Marco Tenti Non ci sono più figli. 2027, negli ultimi 18 anni non è nato nessun bambino; Theo (Clive Owen), un ex attivista politico, oramai rassegnato, dalla vita non si aspetta più nulla, porta in sé un dolore immenso di una tragedia passata e trova gli unici sprazzi di sollievo in compagnia di Jusper ( Michael Caine), un vecchio fumettista, e di sua moglie, affetta da catatonia, che vivono in una piccola casetta in un bosco vicino Londra. Tutto cambia il giorno in cui viene rapito dai Pesci, un gruppo terroristico che sostiene di battersi a favore degli immigrati e dei deboli che cercano rifugio in Inghilterra, di cui uno dei capi è Julian (Julianne Moore), la sua ex moglie. A loro serve il suo aiuto: devono riuscire a far arrivare Kee, un’immigrata clandestina, a Bexhill, dove salirà sulla nave Domani, la base operativa che ospita il Progetto Umano. Kee è incinta. È quasi una parabola biblica quella de “ I figli degli uomini”, se non in senso strettamente religioso, sicuramente come stile e struttura della narrazione. Alfonso Cuaròn (Gravity, Y tu mamá también), uno dei grandi talenti del recente cinema di lingua spagnola, dipinge un’umanità barbara, violenta e corrotta da ogni punto di vista: la stessa cessazione delle nascite rimane un totale mistero, tante sono le cause che potrebbero averla causata; le difficoltà e le intemperie non sono un motore unificante, che spinge i singoli a collaborare e ad aiutarsi, ma una riaffermazione del principio della Natura, ovvero la sopravvivenza del più forte sulle ossa del più debole. Ad essere coinvolti sono tanto i fascisti governatori inglesi quanto le persone come Theo, personaggio specchio di un infinito numero di individui, che, sebbene portatori di ideali giusti e di valori, abbassano la testa e vanno avanti, indifferenti alle sorti del mondo poiché disillusi di poterlo cambiare, e spesso strumento di chi, fingendo di dare seguito alle stesse idee, in realtà cerca solo di ottenere il potere degli uomini che dice di disprezzare. Nella neutralità generale è un evento incomprensibile (o un miracolo, o il destino forse?) a risvegliare gli animi: dove la discordia regna ormai tra gli uomini ottusi è solo l’innocenza a poter cambiare il corso degli eventi, e in un mondo corrotto l’innocenza si trova solo in un bambino nel ventre materno, talmente puro e potente da risvegliare i giusti assopiti come Theo e come, nel contesto estremamente corale del film, l’umanità stessa dal barbaro torpore (auto)inflitto in cui giace. Ma neanche questo basta per tutti, e la lieta annunciazione del bambino diviene nella mente di alcuni un possibile nuovo strumento di controllo e propaganda, e quindi ancora un’ultima esplosione di estrema violenza, un’ultima battaglia per giungere alla tanto desiderata soluzione, forse. Tutto questo è ciò che Cuaròn, ancora salvo da deliri narrativi spaziali, mette in mostra nel suo “I figli degli uomini”, tutto il bene e tutto il male dell’uomo, la falsità, l’odio, la paura del diverso e l’amore, la compassione e la speranza. La struttura ripercorre quella dei miti biblici, in chiave meno estrema e cruenta: un’umanità corrotta che sta per essere distrutta, una sorta di messia, o meglio una nuova Maria, nera e profuga, che porta in grembo la salvezza dell’uomo, ancora in grado di commuoversi e di avere speranza di fronte ad essa, al fine di condurla all’arca-Domani. Nella rettitudine troviamo solo Julianne Moore, Michael Caine con la moglie, ex giornalista catatonica per le torture subite per mano del regime, parola che ricorre quasi come simbiotica di crisi, come se l’essere umano sentisse il pressante obbligo di risolvere ogni problema con la soluzione più semplice, veloce, e meno impegnativa, e quindi più violenta e sbagliata, presa da un potere assoluto ma alla fine condivisa da tutti, una sorta di rifiuto del libero arbitrio ma con la certezza che la nostra volontà sia esaudita, volontà che sappiamo essere sbagliata ed ingiusta, eppure molto semplice e facile da raggiungere: “Diamo risposte molto semplici, dirette a problemi enormi. Ci sono i senzatetto? Che se ne vadano. C’è un aumento di criminali? Ripristiniamo la pena di morte. Soluzioni che naturalmente non tentano di capire il perché dei fenomeni a cui vengono applicate. Al momento possono sembrare efficaci, ma fra vent’anni sarà peggio e ne faranno le spese le generazioni del futuro che di nuovo si troveranno di fronte problemi gravissimi.”. A tutta la sostanza Cuaròn non dimentica di aggiungere forma, aiutato da un cast di attori e collaboratori di prim’ordine: al cast eccellente si affianca lo splendido e decadente grigiore della fotografia di Lubetzki, incredibile nel ricreare il degrado dell’Inghilterra scossa dai disordini e dai conflitti, mentre Cuaròn delizia anche i palati più fini con sequenze visivamente notevoli ( il piano-sequenza in macchina su tutte) e con la crudezza e lo squallore generali con cui mette in scena la violenza della città nella sequenza finale; sceglie anche di dare poco spazio alla coralità dell’azione, ma tallona maggiormente i personaggi, proprio per la loro natura di specchio e di metafora dell’umanità. Dedalus | 2015 19 Il cinema secondo hitchcock di Alberto Ghezzi Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, Alfred Hitchcock, in seguito alla creazione di opere dal valore tecnico e creativo indiscutibile, quali ad esempio La finestra sul cortile o Intrigo Internazionale, era indubbiamente all’apice della sua altalenante carriera, contraddistinta non solo da momenti di estremo splendore, ma anche da periodi piuttosto negativi e di livello mediocre. Eppure, sebbene l’arco di tempo sopracitato presentasse thriller o spy stories spesso accolti in maniera calorosa ed entusiastica dal pubblico, quest’ultimi furono giudicati dalla critica americana con pochezza e sufficienza. Si discostò da tale immeritata tendenza una straordinaria corrente cinematografica francese, la Nouvelle Vague, di cui erano partecipi inizialmente irriverenti e provocatori critici della rivista Cahiers du Cinema. Pertanto, il clima di rinnovamento d’oltreoceano si concretizzò in un movimento affiatato, seppur non compatto e unitario, che attaccò l’impersonalità dell’offerta cinematografica coeva, dominata dal cinema industriale, mise a punto un trasgressivo linguaggio filmico e trattò tematiche contemporanee, al cui centro vertevano umori, ambienti e personaggi della generazione parigina del dopoguerra; tra gli esponenti di maggior rilievo spiccarono Jacques Rivette, Claude Chabrol, Eric Rohmer, Jean-Luc Godard e Francois Truffaut. In particolare, quest’ultimo fu un assoluto estimatore di Hitchcock, e, dal momento che lo considerava un regista rivoluzionario, assai consapevole degli strumenti della propria arte, decise di proporgli un’accurata intervista, affinché si modificasse l’opinione dei critici diffidenti nei suoi confronti. Dunque, la celebre conversazione venne 20 2015 | Dedalus registrata da Truffaut nel 1962, nel periodo in cui “il maestro del brivido” era dedito al montaggio del suo quarantottesimo film, Gli uccelli; successivamente, in seguito alla trascrizione dei nastri e all’assemblaggio del materiale fotografico, fu pubblicata nel 1967 la prima edizione, alla quale, nelle successive ristampe, fu aggiunto un capitolo supplementare con varie osservazioni su Topaz, Frenzy e Complotto di famiglia. Nacque così, da un’idea tanto elementare quanto geniale Il cinema secondo Hitchcock, un libro sconvolgente, di un’importanza radicale per la storia della settima arte, basato sul confronto tra due menti brillanti e uniche nel loro ambito. Infatti, sarebbe riduttivo e ingenuo considerarla semplicemente un’intervista, poiché le domande non vengono poste da un comune giornalista interessato all’argomento, bensì da uno dei migliori registi della cinematografia francese. Costui si dimostra un profondo conoscitore delle opere hitchcockiane e, non essendo mai soddisfatto da risposte superficiali, tenta costantemente di cogliere l’aspetto intrinseco delle abilità comunicative e tecniche di Hitchcock. Ne scaturisce di conseguenza un colloquio appassionante, coinvolgente, in grado di approfondire dal punto di vista umano una personalità lunatica e sensibile. Le questioni di Truffaut inizialmente toccano i numerosi punti cardine della vita di Hitchcock, cominciando dalle sue esperienze lavorative in Inghilterra come disegnatore e assistente alla regia, sino alla creazione dei suoi primi film muti, passando inoltre dall’incontro con Alma Reville, con cui instaurerà un sodalizio sentimentale e professionale; dopo il suo trasferimento negli Stati Uniti a Hollywood, la sua carriera raggiungerà picchi di estro artistico e successo economico davvero notevoli, dai quali scenderà durante gli ultimi anni della sua vita a causa di condizioni di salute precarie. La biografia costituisce il perno attorno a cui si snoda l’esposizione in ordine cronologico dell’intera filmografia del regista britannico, sempre minuzioso e aperto nella descrizione di particolari e procedimenti richiesti dall’insaziabile parigino. Questo, benché spazi da un argomento all’altro con una facilità disarmante, è solito orientarsi attraverso un filo conduttore rivelativo per l’epoca, ossia il cambiamento di concezione della figura del regista, adesso posta in una posizione di estrema centralità: difatti personaggi come lo stesso Hitchcock, pur essendo stati al momento della lavorazione il fulcro creativo delle loro opere, precedentemente talvolta assumevano agli occhi del pubblico un valore diverso, ossia quello di pedine dei produttori. I suddetti continuano tuttora a esercitare un influente potere sul lavoro e sui ritmi della troupe cinematografica, ma ciononostante, dopo un’ostinata lotta contro le convenzioni dell’industria, il regista ora è perlomeno stimato come colui che esprime una sua personale visione del mondo mediante i suoi lungometraggi. Tale tematica, arduamente sostenuta dagli esponenti della Nouvelle Vague, è appoggiata anche dal cineasta inglese, fonte inesauribile di dettagliate descrizioni riguardo ai meccanismi delle industrie hollywoodiane, che rappresentano un macrocosmo per certi aspetti differente dalle compagnie cinematografiche anglosassoni, anch’esse ben familiari ad Hitchcock. Il dialogo non prosegue soltanto tra riflessioni prosaiche e domande impegnative, ma anche tra considerazioni sarcastiche e spiegazioni umoristiche. Ne è un esempio il tentativo di chiarimento, per mezzo di bizzarre storie, del termine MacGuffin, vocabolo coniato da Hitchcock in riferimento a un espediente narrativo insignificante per il suo valore in sé, ma fondamentale per lo sviluppo della trama. Il più famoso di questi stratagemmi è presente in Psyco, nel quale il MacGuffin è il denaro sottratto da Marion al suo datore di lavoro, pretesto essenziale per condurre la donna al motel di Norman Bates, dove sarà assassinata senza che l’omicida sapesse dell’esistenza dei soldi, poiché altro non erano che un fine escamotage perfetto per azionare i meccanismi del racconto. Tuttavia, le risate suscitate assumono anche connotati amari in seguito alla lettura di pungenti opinioni da parte del regista britannico riguardo alle idee paradossali e discordanti dei critici, figure inopportunamente puntigliose e inclini a biasimare ogni minima presunta perdita di credibilità di una pellicola sul piano della narrazione. I due sapienti maestri concordano nell’affermare che nessuna sceneggiatura basata sulla finzione resisterebbe a una scrupolosa analisi in termini di plausibilità, giacché l’unico prodotto audiovisivo in grado di sostenere simili giudizi è il documentario, in cui colui che ha creato il materiale di base è Dio. Perciò i cosiddetti “fautori della verosimiglianza” sono scherniti per la loro totale mancanza d’immaginazione, sostituita da un’eccessiva e odiosa obiettività. Gli aneddoti ironici, pur essendo riflessivi e al contempo dilettevoli, non catturano mai l’interesse del lettore tanto quanto avviene durante l’approfondimento tecnico della filmografia di Hitchcock, uomo al centro di un lavoro di cooperazione enorme orchestrato in modo autorevole. Egli espone a Truffaut i processi di realizzazione delle singole scene, motivando le scelte delle inquadrature e delle scenografie e ragionando su quali messaggi potessero trasmettere determinate angolazioni e cambi di prospettiva; la sua competenza in materia è sconfinata, ragion per cui in ogni manipolazione dell’immagine, del suo ritmo e dell’emozione spettatoriale, attesta una raffinatezza e una padronanza senza eguali. Oltre a ciò, i suoi lungometraggi sono celebri per l’effetto di incredibile tensione drammatica e d’angoscia che si respira al momento della visione, nel corso della quale il pubblico possiede un sapere maggiore rispetto a quello dei protagonisti circa la vicenda in via di svolgimento, e ciò fa sì che di conseguenza la suspense, anche grazie a una gestione magistrale dei tempi narrativi, imponga la sua supremazia sulla banale sorpresa. Da tale resoconto, si può facilmente dedurre che il dialogo discorra di innumerevoli altri temi e questioni meritevoli di essere citati e approfonditi, ma nel suddetto caso è obbligatoria la lettura dell’intero volume, degno di essere annoverato tra i libri più incisivi ed educativi in ambito cinematografico per la passione e la conoscenza espresse dalle sincere parole di due grandi cinefili, prima ancora che cineasti. “Breaking Bad” Declino dell’uomo moderno di Christian Burroni Un’essenza che percorre le gallerie più buie della nostra interiorità. Sguscia, striscia, serpeggia attraverso i meandri dell’inconscio. Tesse una tela attorno ai filamenti nervosi, trasformandoci nel suo burattino. La sabbia della clessidra comincia a precipitare. Piccoli rigagnoli di invidia, rabbia, depravazione ed odio cominciano a sgorgare nelle vene. Il cuore si gonfia fino a scoppiare, inondando qualsiasi spiraglio di razionalità incontri sul proprio cammino. Il male non conosce sosta. Corre per le praterie, s’immerge nei fondali marini, sfida le vette più scomode e tortuose in cerca di nettare vitale. Il pasto più prelibato da concedergli sono la noia e l’insoddisfazione. scintilla? Esiste un limite? Sebbene sconosciuta, quella soglia segna il varco di un inesorabile declino, da cui non si può più tornare indietro. Quanto può subire un uomo, in quella che più che vita appare come una mera sopravvivenza al quotidiano, prima che scatti QUELLA Albuquerque, New Mexico. Walter White è il classico uomo debole, una carcassa di carne putrefatta bersagliata da avvoltoi Un giorno questo essere demoniaco bussò alla porta di un cinquantenne americano. Dedalus | 2015 21 con la bava alla bocca. Chiunque potrebbe mettergli i piedi in testa. indicare “l’aver abbandonato la retta via, imboccando quella sbagliata”. Egli ha però un dono che gli scorre nel sangue: la chimica. Una mente così ricca, geniale, esplosiva, che sembra non conoscere limiti. Il problema è che Walt ha il potere di scaraventare nella pattumiera persino un potenziale così elevato. A causa di una concatenazione di scelte sbagliate, adesso ogni mattina deve confrontarsi con spocchiosi studenti assonnati, disegnando atomi su una lavagna. Insegna in un liceo. Cerchiamo però di non perdere il filo, riprendendo il racconto dal punto in cui lo avevamo interrotto. Conscio del male interiore che lo sta dilaniando, Walter White sembra precipitare in un abisso. Presto la moglie darà alla luce un neonato che probabilmente muoverà i primi passi in un cimitero, per ornare la tomba del padre con qualche fiore. E come può un uomo che, da vivo, riesce a malapena ad assicurare un pasto alla famiglia, garantirgli un adeguato mantenimento da morto? Il mancato scienziato ha bisogno di soldi. Molti, e subito. Più di quelli che potrebbe sperar di guadagnare in una vita. Pressato dalle spese elevate, nel pomeriggio lo “scienziato” è costretto ad arrotondare in un autolavaggio, dilettandosi nell’insaponatura di cerchioni e parabrezza. L’uomo è sposato con Skyler, disoccupata ed incinta di un bambino che i due non volevano. Il figlio adolescente, Walter Jr, soffre di una particolare forma di paresi cerebrale che lo costringe alle stampelle. Tutto qui? Non ancora. Un bel giorno Walter White scopre di avere un cancro ai polmoni in stato avanzato, che gli permetterà di vivere al massimo per altri due anni. La rappresentazione umana dell’inerme, un moscerino immobilizzato da quell’aracnide che è la vita. Persino i tragediografi greci inorridirebbero di fronte a tutto ciò. Quella appena narrata è la trama di una serie televisiva statunitense, composta da cinque stagioni ed andata in onda dal 2008 al 2013: “BREAKING BAD”. Questo termine non è altro che un colloquialismo adottato nel Sud degli USA, atto ad 22 2015 | Dedalus in grado di sorreggere le future spese della famiglia. Progetto nobile, all’apparenza. Ma se c’è una cosa in cui l’essere umano di ogni tempo si è dimostrato fenomenale, è il lasciare spazio alla bramosia, alla cupidigia, alla tracotanza. Il declino fisico e morale del protagonista è ormai inevitabile. Un’enorme valanga che va inglobando ogni cosa. L’impatto risulta mortale. Walter White si trasforma quindi in Heisenberg (in onore di Werner Heisenberg, fisico tedesco del novecento), pseudonimo che incarna alla perfezione il suo volto più marcio e spietato. È nato un mostro pronto a schiacciare chiunque si metta tra lui e il suo obiettivo. La sua coscienza si dimena, sembra volergli comunicare qualcosa. Walter non può andarsene così, non senza aver marcato la storia dell’umanità con un’impronta indelebile. Ne nasceranno le difficoltà scaturite dal dover nascondere la doppia identità alla famiglia, e nell’affrontare gli innumerevoli pericoli immersi nell’oscurità della malavita. Un giorno, l’incontro con un suo ex studente, tale Jesse Pinkman, simboleggerà quella piccola scintilla in grado di appiccare il fuoco nell’animo appassito del cinquantenne. Jesse si è dato infatti alla malavita, e da anni cerca di racimolare qualche soldo“cucinando” (in gergo dicono così) droga. Gli avvenimenti in Breaking Bad assumono il cosiddetto “effetto domino”: una singola tessera, all’apparenza gracile ed innocua, può scatenare una reazione devastante. Per questo una serie di scelte sbagliate fungeranno da remi per quel traghetto che guiderà i personaggi dentro la gola dell’inferno. Walter è come folgorato, la soluzione a tutti i problemi è proprio lì, davanti ai suoi occhi. Un prodotto televisivo di tale livello non ha certamente bisogno di un articolo per essere lanciato. L’intento era solo quello di incuriosire chi non avesse ancora avuto l’opportunità di immergersi nel mondo di Albuquerque. Una realtà disumana tremendamente vicina a quella che viviamo ogni giorno. Walter White sono io. Sei tu. Walter White siamo tutti. “Io conosco la chimica, tu hai i giusti agganci. Ti andrebbe di cucinare cristalli di metanfetamina con me?”. Lo scopo del chimico è chiaro: creare il proprio impero della droga, raggiungendo una somma Musica Lucia di Lammermoor di Costantino Benini Mercoledì 30 settembre 2015 al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino va in scena l’ultima rappresentazione di “Lucia di Lammermoor” di Gaetano Donizetti per la stagione 2015-2016. L’opera, rappresentata per la prima volta il 26 settembre 1835 al Teatro San Carlo di Napoli , portò al successo definitivo l’allora trentottene compositore, che aveva al suo attivo già quarantatré opere, e fu l’unica opera donizettiana a rimanere sempre in repertorio. Rimane ancora oggi l’opera romantica di maggior successo. Rulli di timpani in lontananza, seguiti da una fanfara di corni allo stesso tempo regale e tetra: è con questo lugubre attacco orchestrale che il sipario si leva, nell’atrio del Castello dei Ravenswood, usurpato da Lord Enrico Ashton, che ha sterminato tutti i membri della famiglia ad eccezione del giovane Edgardo, “l’ultimo avanzo di una stirpe infelice”, come si definirà nell’ultima scena dell’opera. Normanno, capo degli Armigeri, ordina agli stessi di esaminare i dintorni per scoprire l’identità della figura che si aggira intorno al Castello (Percorrete le spiagge vicine). Gli Armigeri partono. Arrivano Enrico e Raimondo, confidente e consigliere spirituale dello stesso e della sorella Lucia. Enrico è furioso:Lucia ha rifiutato per l’ennesima volta la mano dell’uomo con cui intende farla sposare. Raimondo cerca di placarlo: la fanciulla è ancora sconvolta dalla morte della madre. Normanno allora spiega che la giovane si è innamorata di un uomo che ha salvato lei e la confidente Alisa da un toro inferocito. Ad Enrico viene il terribile sospetto che quell’uomo sia Edgardo (Cruda, funesta smania). Gli Armigeri ritornano per confermare i suoi sospetti: quell’uomo è proprio Edgardo. La rabbia di Enrico esplode e, accompagnato dagli ottoni, che espongono il tema militaresco da lui ripreso, giura di vendicarsi, nonostante Raimondo implori pietà (La pietade in suo favore). La scena si sposta nel parco del Castello. Lucia è preoccupata: Edgardo le ha dato appuntamento, ma ancora non è arrivato. Alisa la rimprovera perché l’ha coinvolta in una situazione pericolosa. Poi nota che l’amica è terrorizzata e le chiede il motivo. La fanciulla le spiega che molti anni prima, un Ravenswood aveva ucciso la donna amata, che era caduta nella fonte lì vicina. Il suo fantasma le era apparso, chiamandola a sé per poi dileguarsi nelle acque, che erano diventate rosso sangue (Regnava nel silenzio). Alisa vede nel racconto oscuri presagi e la implora di desistere da questo amore, ma lei rifiuta, spiegandole la sua immensa felicità quando le dichiara il suo amore (Quando rapito in estasi). In quel momento arriva Edgardo e Alisa si ritira per fare in modo che nessuno si avvicini. Il giovane chiede perdono a Lucia per averla fatta venire ad un’ora così tarda, ma le spiega che deve partire immediatamente per la Francia per unirsi agli alleati cattolici e che prima vuole fare pace con Enrico. Lei risponde che è meglio se la loro relazione rimane segreta. Lui allora le rinfaccia che Enrico non è ancora contento e che vuole porre fine alla sua dinastia, uccidendo anche lui. Lucia è terrorizzata. Edgardo le racconta che aveva giurato eterna guerra agli Ashton sulla tomba del tradito padre e che i suoi propositi si sono infranti quando l’ha vista e se n’è innamorato. Aggiunge minaccioso che tuttavia il giuramento non è compiuto e che è ancora in tempo a portarlo a termine. Lucia implora di mettere via i suoi propositi. (Sulla tomba che rinserra) . Edgardo cede e i due si scambiano gli anelli giurandosi eterna fedeltà, in un vero e proprio matrimonio laico. (Qui di sposa eterna fede e Verranno a te sull’aure). Ha così termine la prima parte dell’opera, intitolata “La partenza”. La seconda parte, “Il contratto nuziale”, si apre negli appartamenti di Enrico. Quest’ultimo è preoccupato: teme che la sorella rifiuti un’altra volta il matrimonio. Normanno lo rassicura: ha intercettato tutte le lettere di Edgardo, producendone una falsa in cui si dice che il giovane avrebbe trovato una nuova amante. In quel momento entra Lucia, pallida, sofferente. Enrico le dice che avrebbe sperato di trovarla più lieta. Lei allora gli ribadisce che a ridurla così è stato il suo eccesso di rigore e che sta aggravando la sua malattia, avvicinandola alla morte. Lui le risponde di non preoccuparsi, che non è più arrabbiato con lei, ma che in cambio dovrà rinunciare al suo amore (Il pallor funesto, orrendo). Lei rifiuta. Allora lui le risponde che è promessa in sposa, ma lei lo avverte che è già sposata. Lui si adira e le mostra la falsa lettera. Lei si abbandona disperata, ma è ancora riluttante. Si ode un suono festoso giungere dall’esterno. Lei chiede cosa sia. Lui le spiega che è arrivato il cattolico Lord Arturo Bucklaw. Il partito cattolico ha vinto, i protestanti sono stati sconfitti e Guglielmo ucciso. Adesso è Maria Stuart a regnare sulla Scozia, e l’unico modo per salvare gli Ashton, che sono del partito protestante, è che lei lo sposi. Lei non è convinta. Enrico, furibondo la maledice e se ne va (Se tradirmi tu potrai). Sopraggiunge Raimondo che, complice degli altri due, le fa notare che Edgardo non ha mai risposto alle sue lettere, segno di infedeltà. La madre può raggiungere il paradiso solamente sposando Arturo. Lei allora, convinta, accetta. Dedalus | 2015 23 Nel salone del castello hanno inizio i festeggiamenti. Arturo promette ad Enrico che risolleverà l’onore della famiglia. Arriva Lucia, che viene costretta dal fratello a firmare il contratto nuziale. In quel momento si ode un gran rumore. E’ Edgardo, che è appena tornato dalla Francia. Enrico, Arturo e Normanno gli impongono di andare via, se non vuole morire. Lui risponde fieramente che se verrà ucciso, trascinerà molti uomini con sé (Chi mi frena in tal momento). Enrico gli mostra il contratto nuziale. Edgardo allora si riprende l’anello che aveva dato a Lucia e la maledice. I Lord tornano a minacciarlo, ma lui si offre a loro. Saranno Raimondo ed Alisa a convincerlo ad andarsene (T’allontana o sciagurato). Il secondo atto della seconda parte inizia nella Torre di Wolferag. Edgardo è disperato, convinto di essere stato tradito. Sopraggiunge Enrico e i due si sfidano a duello, dandosi appuntamento all’alba nel cimitero dei Ravenswood. Nel Castello continuano i festeggiamenti, che vengono interrotti da Raimondo. Egli narra che, insospettito dai rantoli che venivano dalla camera dove si erano appartati Arturo e Lucia, vi si era recato e aveva trovato Arturo morto e Lucia con la spada del defunto in pugno, che, sorridente, gli aveva chiesto dove fosse il suo sposo. In quel momento arriva Lucia, completamente impazzita, che, accompagnata dalla glassharmonica (spesso sostituita dal flauto), nel suo registro acuto e facendo ampi vocalizzi, ricorda sconclusionatamente i momenti passati con Edgardo, pensando che egli sia lì presente, fino a descrivere il loro matrimonio, convinta che la cerimonia si stia verificando lì, in quel momento (Il dolce suono mi colpì di sua voce e Ardon gl’incensi). Sopraggiunge Enrico che, informato dell’evento, si scaglia contro Lucia, ma viene trattenuto dai presenti, che gli fanno notare in che stato essa si trovi. La fanciulla, convinta di essere alla scena poco prima passata, tenta di giustificarsi con Edgardo, poi cade fra le braccia di Alisa, che la 24 2015 | Dedalus porta via (Spargi d’amaro pianto). Enrico si allontana, preso dai rimorsi, mentre Raimondo si scaglia contro Normanno, accusandolo di essere il vero responsabile della tragedia. Nel cimitero dei Ravenswood, l’addolorato Edgardo, che ormai è convinto di aver perso tutto, anela a rimanere vittima nell’imminente duello (Tombe degli avi miei e Fra poco a me ricovero darà negletto avello). Sopraggiungono gli abitanti di Lammermoor, intonando un canto funebre per una donna che non vedrà tramontare il sole che sta per sorgere. Edgardo chiede loro per chi stanno cantando. Loro gli rispondono che è per Lucia. Lui allora, fa per avviarsi verso il Castello e rivederla un’ultima volta, ma viene fermato da Raimondo, che gli comunica la morte della fanciulla. Accompagnato da un andamento per terzine costituito da accordi ribattuti degli archi e il controcanto del flauto, Edgardo esprime il desiderio di poter realizzare ciò che “l’ira de’mortali” non gli ha permesso, ovvero essere unito all’amata Lucia, estrae un pugnale e se lo immerge nel cuore, fra l’orrore dei presenti (Tu che a Dio spiegasti l’ali). Il cast della rappresentazione era eccezionale. Il tutto si svolgeva fra le scene di Paul Brown, molto semplici ma bellissime: un paesaggio notturno costituito da due alberi scheletrici e un’immensa luna sulla quale scorrevano pannelli neri marmorizzati, rappresentanti gli interni. Per la scena in cui Enrico ed Edgardo si sfidano a duello, era inoltre presente una pioggia a scroscio, con tuoni e lampi. Su questa suggestiva scenografia si muovevano interpreti fantastici. La Lucia di Burcu Uyar era sofferente, ma eroica, fragile, ma determinata. Ha reso la Scena della Follia intensa, impressionante, eterea, diafana, adornandola con acuti meravigliosi. L’Edgardo di Yjisie Shi era commovente, meraviglioso. Ha reso il finale eccellente, straziante, ma al tempo stesso eroico. Christian Senn è riuscito a rendere il personaggio di Enrico odioso come pochi sono capaci di fare. Un Enrico rabbioso, ostile, perfetto. Ha reso il finale carico di tensione, esplosa nell’ emozionante e rabbiosa cabaletta “La pietade in suo favore). Conclusasi con un acuto strepitoso. Accanto al terzetto romantico, si muovevano il Normanno di Saverio Bambi, crudele, ostile, ma allo stesso tempo incerto, dando al personaggio tutte le sue sfumature. Il Raimondo di Gabriele Sagona era fantastico, solenne, neutrale, compassionevole e preoccupato. Alisa, interpretata da Simona di Capua è stata eccellente, tuttavia il personaggio ha uno spazio troppo ristretto per permettere alla cantante di esibire le sue qualità. Il tutto diretto da Fabrizio Maria Cammarati, che ha dato alla partitura un tocco tragico e sofferente, ma allo stesso tempo eroico, quasi epico. Inoltre, è stato apprezzabile l’inserimento del bellissimo duetto fra Edgardo ed Enrico all’inizio del secondo atto della seconda parte in cui si sfidano a duello, e del recitativo fra Raimondo e Normanno alla fine della Scena della Follia, che di solito vengono tagliati ingiustamente. La rappresentazione ha avuto tuttavia dei difetti. I costumi di Paul Brown rendevano l’ambientazione storica indeterminata. Enrico e Normanno, infatti, vestivano abiti ottocenteschi, mutati in settecenteschi per il matrimonio, mentre Edgardo ha tenuto i panni ottocenteschi per tutta la durata dell’opera. Arturo era abbigliato invece in maniera settecentesca, mentre gli abiti di Lucia erano novecenteschi. Tuttavia l’effetto d’insieme non era male. Altro difetto, Normanno all’inizio è apparso insicuro, anche se poi è migliorato in seguito. Ma, a parte questo, è stata una bellissima rappresentazione, da rivedere appena si ripresenta l’occasione. Sport His airness di Francesco Scrocca “Questa sera il numero 23 non era Jordan... ...era dio travestito da Michael Jordan” Larry Bird, Boston 20.04.1986 Michael Jeffry Jordan nasce il 17 febbraio 1963 a Brooklyn, New York. Michael è il quarto dei cinque figli di Deloris e James R. Jordan Senior. Poco dopo la sua nascita, la famiglia si trasferisce a Wilmington, North Carolina. Durante la scuola media il piccolo Michael vorrebbe dedicarsi a quello che era lo sport di famiglia, il baseball. Ma avendo un fisico troppo gracile pian piano viene relegato in panchina. Allora decide di dedicarsi al basket, lo sport che praticava il fratello Larry. Michael in quegli anni è un ragazzo pieno di insicurezze, soprattutto perché pensa che i suoi genitori preferiscano il fratello maggiore. Decide di frequentare la Laney High School, la scuola nella quale studia pure dal fratello e sceglie di indossare il 23, perché Larry usava il 45 e secondo lui valeva la metà. Alla Laney ci sono due squadre: la Junior Varsity, per le “matricole” del primo e secondo anno, e la Varsity, per gli studenti del terzo e quarto anno. Michael, il primo anno, accetta di giocare nella squadra junior, ma il secondo anno, quando va a guardare i nomi di chi andrà a comporre la Varsity, vede che il suo nome non c’è. Non è contento di questa decisione, perché al suo posto viene scelto Leroy Smith,un ragazzo che a 15 anni era alto 202 cm, mentre Michael era solo 1 metro e 78 (ma era decisamente più forte) e la squadra aveva bisogno di un giocatore di grandi dimensioni. Coach Harring(l’allenatore della Laney) dirà che aveva bisogno di giocatori alti sopra la media e che per Jordan sarebbe stato più produttivo giocare molti minuti nella squadra junior, dove avrebbe potuto allenare la mano sinistra e l’arresto e tiro. L’estate successiva Michael è alto 191cm e a quel punto non ci sono ostacoli per il suo ingresso in prima squadra: Jordan diventa uno dei migliori giocatori a livello di High School in America, ma non riuscirà mai a vincere un titolo nazionale. Durante il reclutamento per il college decide di accettare la borsa di studio per UNC(University of North Carolina). Sotto la guida di Dean Smith, Michael gioca quasi sempre da titolare, trattamento che Dean non era solito adoperare per un ragazzo al primo anno. Jordan tiene una media di 15 punti a partita, ma non è la stella della squadra, infatti quel ruolo viene ricoperto da James Worthy. I Tar Heels(il soprannome di UNC) arrivano alla finale nazionale e Jordan segna il canestro della vittoria a 15 secondi dalla fine(l’MVP lo vinse però Worthy). Quel momento cambiò drasticamente la carriera di MJ, che fino ad allora era ritenuto un buon giocatore, uno come tanti altri. Da lì in poi diventò un vero e proprio personaggio e tutta l’attenzione mediatica si spostò su di lui. Negli anni successivi con l’addio di Worthy(che si era accasato in NBA ai Los Angeles Lakers) Michael è la stella della squadra. Migliora ancora ma nei successivi due anni non riesce a bissare il titolo Ncaa vinto nel 1982. L’estate del 1984 è il momento del grande salto: Jordan è pronto per l’Nba. Si rende eleggibile per il Draft(la “pesca” dei giocatori dalle università) e viene scelto con la “pic” numero 3. La prima scelta fatta da Huston fu Hakeem “the Dream” Olajuwon, un centro nigeriano capace di incantare il mondo del basket per diversi anni. I Chicago Bulls alla 3 non se lo fanno scappare. Jordan è ritenuto un potenziale meteorite, si sbagliano. Il primo anno Jordan porta letteralmente i Bulls ai playoff, ma la squadra non è un granché, e la corsa per il titolo si ferma anzitempo. La seconda stagione inizia nel peggiore dei modi: Michael si infortuna alla caviglia nella pre-season e salta gran parte della stagione, tornando a giocare solamente a 18 partite dal termine. La squadra grazie a lui si qualifica ai playoff ma viene eliminata dai Boston Celtics di Larry Bird(durante quella serie in gara 2 pronunciò quel l’elogio a Jordan che segnò 63 punti). Nelle stagioni successive Michael Jordan diventa il padrone della lega, non c’è nessuno capace di tenergli testa, le squadra avversarie sono costrette ad applicare le “JordanRules”, in parole povere ogni volta che entra in aria gli avversari hanno il compito di dargli una mazzata e stenderlo: è l’unico modo per fermarlo. Ma c’è un problema: non riesce a vincere il titolo e ogni volta che, dopo una sconfitta, torna a casa in aereo o in pullman, Michael piange e si interroga sul perché i suoi compagni non abbiano la stessa voglia di vincere che ha lui. Nel 1990 Chicago cambia allenatore, passando sotto l’ala dell’eccentrico Phil Jackson, e aggiungono alla rosa Scottie Pippen e Horace Grant. Michael, per la prima volta dal suo approdo in NBA, può giocare in un contesto in cui coinvolge i compagni. I Bulls arrivano in finale di Conference, perdendo a gara 7 contro Detroit. Ormai ci siamo, tutti si aspettano che l’anno seguente Jordan vincerà il suo primo titolo. Per i successivi tre anni i Bulls domineranno la Lega e vinceranno tre titoli NBA consecutivi. Dedalus | 2015 25 Nel luglio del 1993 suo padre si trova a Wilmington per il funerale di un amico. Mentre sta tornando al volante della sua Lexus si ferma sul bordo della strada per riposarsi un po’, due criminali si avvicinano, lo uccidono e gli rubano la macchina. Il giorno del funerale Michael non regala uno sguardo a nessuno e pochi mesi dopo annuncia il suo ritiro, vuole che l’ultima partita di basket che ha giocato l’abbia vista suo padre. Da quel momento si dedicherà al baseball. Non c’è mai stato momento più difficile per la pallacanestro americana. Jordan era più grande della Lega, il suo brand vendeva più dell’intera Nba. La sensazione era che prima o poi sarebbe tornato. Infatti, dopo una parentesi di un anno e mezzo nel baseball con mediocri risultati riappare nel mondo del basket. A Jordan manca troppo la pallacanestro e alla pallacanestro manca troppo Jordan. Il 18 marzo 1995 l’Espn annuncia il suo 26 2015 | Dedalus ritorno e il giorno dopo, in conferenza stampa, Michael dirà: “I’m back”. I fan sono in delirio. Jordan torna, ma con una differenza, da quel momento indosserà il 45 (il numero del fratello) perché vorrebbe che suo padre avesse visto la sua ultima partita col 23. Però non è lo stesso giocatore che aveva abbandonato la lega: è un tempo di gioco indietro rispetto al suo tradizionale dominio. Riesce a sintetizzarlo meglio di tutti Nick Anderson, giocatore degli Orlando Magic, che dirà “Il 23 era Superman, il 45 è solo forte”. Jordan gioca col 23 e Chicago paga 100mila dollari di multa per ogni partita che giocherà con quel numero, poiché non si può cambiare numero durante la stagione. Quell’anno i Bulls non vincono e i rivali di Jordan diranno che non è più quello di una volta. L’anno successivo Michael è una macchina, non ce ne è per nessuno. I Bulls conquistano nuovamente il titolo. La stagione successiva, in finale, si trovano di fronte gli Utah Jazz di Stockton(miglior assist man di sempre) e Malone(MVP della stagione) che avevano un intesa celestiale. La serie va sul 2-2 e la mattina di gara 5, Jordan è vittima di una intossicazione alimentare(in seguito dirà”mi sentivo morire”). Si fa portare al palazzetto e durante la fase di riscaldamento è una statua, è seduto in panchina immobile con un asciugamano sulla testa. Nessuno si aspetta che possa giocare. Jordan entra in campo e domina la partita segnando 38 punti. Chicago vince la serie. Secondo titolo consecutivo dal suo ritorno in NBA. L’anno successivo, stagione 97-98, in finale trovano di nuovo gli Utah Jazz. Utah vince gara 1, poi nelle successive tre gare è una supremazia Bulls. La serie è sul 3-1, Utah vince inaspettatamente gara 5 e si va a gara 6. Salt Lake City sembra Time Square la sera di capodanno, probabilmente quella sarebbe stata l’ultima partita di Michael Jordan. A 37” dal termine Utah è avanti di 3, Jordan si esibisce in un coast-to-coast e porta i Bulls sotto di 1. Nell’azione difensiva seguente, Michael, come uno squalo che sente l’odore del sangue, porta via la palla dalla mani di Malone. Tutta Salt Lake City è con le mani nei capelli. Non c’è nessun essere capace di intendere e di volere che non sa che Jordan quella partita la vincerà. A 5” dal termine segnerà il canestro della vittoria, quello che lui pensa sia l’ultimo della sua carriera. Dopo quella partita Jordan si ritira e torna nel 2001, all’eta di 38 anni, nei Washington Wizards, riuscendo comunque a tenere una media di 20 punti a partita e segnando anche 43 punti in una singola gara. Nel 2003 si ritira per la sua terza ed ultima volta. Nel 2009 durante la celebrazione per il suo ingresso nell’Hall of Fame del basket dirà -”Un giorno potreste vedermi in campo a 50 anni”-risata generale del pubblico-”non ridete, i limiti,come le paure, spesso sono soltanto illusioni”- Poesia Love di Tommaso Caperdoni I could see all the universe and beyond See the stars and feel the immensity through my heart I could discover brand new worlds and unknown galaxies would be my home I could learn everything about life Live a century in one single night Play the climbing song with my fingers or just sing along my future I could do this, or you could just give me a kiss Now I want pain, lotta love and no more chains And if you’ll kiss me, one day, I’ll do all these things anyway I could die without any wounds I could die without any life Neither saying “why” or “I’ll try” But in an useless platitude there’s no chase, I’m seeking love to find my faith So just kiss me and we’ll find our way. Annunci : 8 novembre teatro della Pergola, “ vita di galileo di Bertol Brecht partecipa un gruppo di alunni e professori del liceo classico Dedalus | 2015 27 28 2015 | Dedalus