MENZIONE D`ONORE SEZIONE NARRATIVA NEL CUORE

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MENZIONE D`ONORE SEZIONE NARRATIVA NEL CUORE
XV edizione
I Colloqui Fiorentini – Nihil Alienum
Giuseppe Ungaretti. “Quel nulla d’inesauribile segreto”
Firenze, Palazzo dei Congressi
25 - 27 febbraio 2016
MENZIONE D’ONORE
SEZIONE NARRATIVA
NEL CUORE DURAVA IL LIMIO DELLE CICALE
Studente: Tommaso Petroni
Classe III A
Scuola Liceo Scientifico annesso al Convitto nazionale "Paolo Diacono" Cividale del Friuli (UD)
Docente Referente Prof.ssa Paola Parpinel
Giovedì, 30 Agosto, 1967
So di essere stato adottato; questa non è una di quelle storie col colpo di scena dove il protagonista capisce
che quelli che ha davanti non sono i suoi veri genitori. So di non essere figlio delle persone con cui vivo. Ma
non è questo il problema, quella è una fase passata.
Il problema è che sono sempre passato da una famiglia affidataria all’altra. In orfanotrofio la gente veniva a
valutarmi come una merce di scambio, cercando di capire se sarei stato il figlio perfetto per loro; solo che
nessuno mi chiedeva mai chi sarebbero dovuti essere i genitori perfetti per me. Perciò, come volevasi
dimostrare, si creavano dei problemi; incomprensioni, idee diverse, a volte coppie semplicemente pazze.
Quindi ogni volta tornavo in orfanotrofio, e mi sembrava di vivere sempre come il protagonista del romanzo di
Dickens. Solo che la mia vita non è un libro, e se lo fosse, non sarebbe uno di quelli che ricorderesti. Come si
potrebbe? La mia vita è sempre stata un andirivieni da una casa all’altra. Quando venivo riportato, pian piano
che gli anni passavano, i genitori affidatari si lamentavano dei miei problemi, di quel che facevo, a seconda
dell’età che avevo. Non ero mai come gli altri volevano che fossi. E, ovviamente, più crescevo, meno le coppie
mi volevano. Certo, tutti preferiscono iniziare da quelli piccoli. E’ un cliché di qualsiasi film con protagonista un
orfano troppo cresciuto, ma è la verità, è così che il più delle volte succede.
Finché non arrivarono due persone e parlarono con me: non feci niente di che, se non parlare di quel che più
mi interessava. Gli dissi che mi piaceva leggere, romanzi o poesie, e che mi piaceva anche scrivere, alle volte,
“quando la mia autostima è abbastanza alta da credere che possa uscire qualcosa di buono” specificai, con
una alzata di spalle.
Eppure, non molto tempo dopo, venni a sapere dalla mia istitutrice che effettivamente ero piaciuto a quella
coppia, e che dovevo ritenermi molto fortunato.
All’inizio credetti che sarebbe andata a finire come con tutti gli altri; prima tanta gentilezza, poi sempre più un
crescendo di liti, fino a che non si sarebbero anche loro accorti del tremendo ragazzo che a quanto pare sono.
Però dovetti subito rendermi conto che le cose sarebbero state diverse. Lo percepii quando mi venne fatto
sapere, appena arrivato, che avrei avuto dei nuovi fratelli e sorelle (non che non ne avessi mai avuti nelle altre
case) e anche loro come me erano stati tutti adottati. E vedendoli, così contenti, felici, ben inseriti, mi venne
subito un senso d’invidia, sapendo che mai mi sarei trovato a mio agio come loro; sapendo che io ero sempre
io, e che non mi sarei mai smentito, e che mi avrebbero cacciato. Ma non appena facevo qualcosa di sbagliato,
loro invece che arrabbiarsi mi parlavano, dialogavano, mi aprivano come un guscio d’uovo e mi svuotavano
dei miei perché. Con loro stavo imparando a diventare educato, cosa che mai nessuno, in realtà, aveva avuto
modo di insegnarmi. Credevano tutti che sarei uscito perfetto dall’istituto, che essendo già stato lì non avrei
avuto bisogno dei concetti basilari dell’educazione familiare: si sbagliavano, e me ne resi conto solo in questa
famiglia. Con Franco, il papà di casa, tanto dolce quanto comprensivo. Lui aveva sposato una delle donne più
fantastiche che avessi mai potuto conoscere nella mia vita, Luisa. Così severa, così capace di insegnare e con
un cuore d’oro. Poi c’erano i loro quattro figli (ed effettivamente lo erano, perché loro erano stati adottati,
mentre io ero solo in “prova”): i due gemelli Umberto e Anna, di dodici anni; Gregorio, di quindici; e infine
Sara, diciassette, come me.
Ecco il problema, Sara. Quei capelli profumati, mossi e morbidi. A quest’età non si può fare niente, non potevo
contenere i miei sentimenti verso di lei. E credevo che fosse solo una cosa di passaggio, e che non fossi
corrisposto; mi sbagliavo su entrambe queste due constatazioni.
Verso la fine del mio primo mese in quella casa, una volta che mi ero già ambientato più che bene, è successo.
Dovevamo semplicemente buttare la spazzatura nella pattumiera, dall’altra parte della strada. Eravamo molto
concitati in quel periodo, e non nego che non ci fossimo già avvicinati prima; solo che quel giorno, immersi
nell’oscurità, nell’intimo silenzio che precede il sonno, ci siamo sentiti come protetti, come se due fratelli
affidatari si potessero baciare. Ci siamo subito resi conto di quel che avevamo combinato, e ci siamo promessi
che non sarebbe accaduto di nuovo. Purtroppo però non è andata così. Sono venuti altri baci, e qualche
giorno fa, a distanza di qualche settimana dalla sentenza del giudice che mi ha affidato a questa nuova
famiglia, stavamo per andare oltre i baci, le carezze. Per fortuna non l’abbiamo passato, ma ci mancava
pochissimo, e non posso credere che non riaccadrà nuovamente. E’ quello che io e Sara ci siamo sempre
promessi, e che abbiamo sempre infranto: il non starci più vicino.
Questo è uno dei motivi per cui credo che quel che sto per fare abbia senso. Devo andarmene, devo fuggire,
se si scoprisse quel che ho fatto non basterebbe una chiacchierata sincera per risolvere tutto. Non voglio
tradire la fiducia di Franco e Luisa, non così. Preferisco che pensino che io sia un vigliacco, piuttosto che io sia
bugiardo. Che è però quel che sono davvero.
Poi c’è questo morso, questo blocco che provo al petto ogni volta che penso di far parte, per davvero, di
questa famiglia. Il fatto è che fra poco compirò diciotto anni, e volendo potrei aspettare pochi mesi per essere
libero di non avere genitori, libero di non avere una famiglia. Il che certo potrebbe sembrare triste, e non lo
escludo, ma il tutto potrebbe avere anche dei vantaggi. Innanzitutto, non dovrei avere qualcuno da deludere,
in caso combinassi qualche guaio, o fallissi qualche compito; vero è anche che non avrei qualcuno su cui
contare, ma per quello ci sono sempre gli amici. In secondo luogo, passando di casa in casa, di famiglia in
famiglia, è come se fossi diventato un recipiente vuoto, senza emozioni, senza un senso di appartenenza. Ed è
proprio questo che stona nella casa di Franco e Luisa. Ho sempre questo senso dolciastro, agrodolce, come se
tutto fosse fantastico, ma ci mancasse qualcosa. Forse questo perché mi chiudo in me stesso, perché
volutamente non faccio entrare le emozioni, ma le faccio solo lambire la superficie del mio cuore. E’ una cosa
che mi viene naturale, purtroppo. Se non ti affezioni, non dovrai soffrire quando te ne andrai, quando verrai
cacciato. Negli anni questo trucco mi è servito molto, e sento che qui, con Sara, Gregorio, Luisa e tutti gli altri,
sto cedendo. E non posso permettermelo, non voglio soffrire cento volte di più di adesso, quando mi
manderanno via perché avranno scoperto di me e Sara. E non voglio neanche restare e mentire. Sono troppo
combattuto, e vedo una soluzione nella fuga. Ovvio, sono un codardo, prima creo il danno, poi non sapendolo
affrontare gli volto le spalle e corro via dalla parte opposta. Ma sono cresciuto così, mi sono educato da solo, e
questo è il risultato. Volendo, potrei vivere autonomamente, quando avrò raggiunto la maggiore età, e
considerare questa come una famiglia uguale alle altre. Perciò ho pianificato la mia fuga, in assenza di altre
prospettive, e stasera è il grande giorno.
Ho preparato la borsa, ho preso un po’ di cibo, ed in estremo silenzio sono uscito dal retro, ho scavalcato la
siepe, ed ho proseguito per la collina, verso l’istituto, fortunatamente non troppo lontano. Poi, quando se ne
accorgeranno, e verranno a cercarmi, gli dirò che è stato un gesto d’impulso, che mi dispiace, ma che
comunque lì non mi trovavo bene. Buffo, credevo di essere alla ricerca di qualcuno con cui vivere, qualcuno
che facesse parte di me, qualcosa che assomigli ad una famiglia, e non appena ce l’ho davanti, preferisco
rinnegarla piuttosto che complicare i rapporti.
In ogni caso ora sono qui, in un prato verde; da quassù vedo la città che dorme, sento le cicale frinire nell’aria.
Ammetto di aver sorriso quando mi sono accorto di essere nella stessa situazione della poesia Silenzio di
Ungaretti. Anche lui stava abbandonando un pezzo della sua storia, solo che la mia è durata molto di meno.
Non so perché mi sono fermato e mi sono messo a scrivere su questo quaderno nuovo … forse l’ho fatto solo
perché non ho il coraggio di andare avanti, né quello di tornare indietro. Mi trovo a metà di due strade, di due
futuri: che sarà della mia vita se tornerò a casa? Saprò resistere alla tentazione del sentimento più bello che
esista? E’ giusto reprimerlo? E se tornassi in istituto? Perderei l’unica famiglia che ho mai avuto, e non avrei
nessuno su cui contare, semmai un giorno le cose andassero tutte male. Chi può vivere senza una famiglia? E
chi può farlo mentendo così spudoratamente? Sento le cicale frinire e mi riecheggiano nella mente le parole
del poeta: "Me ne sono andato una sera/ Nel cuore durava il limio/ delle cicale/ Dal bastimento/ verniciato di
bianco/ ho visto/ la mia città sparire/ lasciando/ un poco/ un abbraccio di lumi nell'aria torbida/sospesi.1”
1
G. Ungaretti, Silenzio in Vita di un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2003.