Scheda biobibliografica estesa

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Scheda biobibliografica estesa
Il 19 giugno ci ha lasciato Mario Manno, una figura fondamentale della pedagogia e della
filosofia italiana; e d’altronde per Manno ogni vera filosofia non poteva non configurarsi come una
teoria generale dell’educazione, possedendo, ogni discorso filosofico, una struttura paidetica.
In 60 anni e oltre di attività scientifica, Manno ha forgiato generazioni di studiosi ed introdotto
novità essenziali nel panorama filosofico e pedagogico del nostro Paese. Partito dalle teorie dei suoi
maestri (La Via, Della Volpe, Carabellese, il cui ontologismo critico fu la sua «prima esperienza
filosofica», che ne determinò le «prime scelte semantiche e grammaticali»), Manno ha condotto
ricerche su John Dewey che restano uno dei capitoli più significativi della ricezione italiana del
pragmatista statunitense, ha esplicitato ed arricchito sempre di più i contenuti di un originalissimo
personalismo, è stato, durante il suo insegnamento accademico e non, un maestro coinvolgente ed
un autentico pensatore. Il suo Personalismo critico ha costituito, per molti, un’esperienza
entusiasmante, che ha dischiuso la possibilità di progettare tragitti di emancipazione reale
dell’essere umano senza, tuttavia, alcuna garanzia intorno agli esiti di questa impresa, anzi avendo
ben presente le difficoltà sociali, culturali, naturali connesse ad un’istanza di liberazione
(individuale e collettiva) vincolata al pieno dispiegamento della ragione, alla fedeltà procedurale
alla ragione. Del resto, per Manno, come per Tommaso, totius libertatis radix in ratione constituta.
L’educazione della persona ed alla persona era, cioè, dal suo punto di vista, una educazione alla
ragione. La persona come metafora, come modo di dire e come struttura aperta non poteva che darsi
nei termini di una tensione verso un’ulteriorità caratterizzata nel senso di un’immanente
trascendenza dell’immanenza. Il Personalismo critico si è, così, distinto come una metafisica della
libertà perennemente impegnata nello sforzo di mettere a fuoco le possibilità, da parte del soggettopersona, di trascendere i limiti oggettivi, di eccedere le condizioni storicamente e socialmente date,
di essere, insomma, un di più rispetto ai condizionamenti mondani.
Agli inizi del nuovo secolo, Manno era (ri-)approdato a Marx, un Marx non dogmatico, bensì
filtrato dall’interpretazione dellavolpiana. Il Marx della critica dell’economia politica, certo, ma
anche (e soprattutto) quello giovanile, antropologico, filosofico. Non s’è trattato di una rottura
paradigmatica ed epistemologica all’interno della sua traiettoria teoretica, ma di un coerente
approfondimento del progetto universale-universalizzante da sempre a fondamento del
Personalismo critico. Secondo Manno, era logicamente naturale che un marxista critico riscoprisse
la persona come valore, cosi come che un personalista critico utilizzasse gli strumenti
epistemologici offerti dal materialismo storico, ciò in ragione di una specie di «complementarietà»
tra questi due universi discorsivi. Il marxismo, oltre che come dispositivo demistificante, è, poi,
servito a Manno per riflettere sui processi di accumulazione originaria, dunque per rintracciare le
cause di un arcaico male da togliere per emancipare il soggetto umano. Un percorso, questo, che lo
ha condotto a ri-studiare il mondo antico e ad interrogarsi sulla natura umana in una chiave
progettuale de-naturante, nonché sulle fonti del fatto dell’alienazione. Era come se per porre fine
alla storia dello sfruttamento e della violenza dell’uomo sull’uomo fosse, per lui, necessario andare
indietro, giungere alla radice del male per estirparlo – o almeno per definire le condizioni del suo
sradicamento.
Negli ultimissimi tempi, quantunque indebolito nel corpo, era tornato sulla questione ebraica,
sugli ebrei come popolazione la cui arché riposa «nel futuro, nel possibile esito, nel sempre da ritentare […] punto di arrivo», e nella sua aggiornatissima biblioteca erano apparsi volumi aventi per
oggetto il controverso tema dei Quaderni neri di Heidegger. Non che il filosofo tedesco fosse una
novità per Manno, giacché nel 1962 questi aveva pubblicato una monografia su Heidegger e la
filosofia. A distanza di decenni, le tesi dell’autore di Sein und Zeit erano di nuovo al centro dei suoi
interessi, in una veste, però, forse diversa, essendo ora avvertite quali cifre di una etno-teologia
politica dai contorni foschi. Prima di lasciarci, avrebbe probabilmente voluto licenziare un testo sul
rapporto tra Heidegger e gli ebrei e sull’adesione del pensatore dell’essere al nazismo. Tali
meditazioni tragicamente interrotte si concentravano, tra le altre cose, sul carattere strutturalmente
esodante e meta-territoriale del popolo ebraico e della sua cultura, e suggerivano suggestivi percorsi
di ricerca. Le questioni sul tappeto riguardavano l’auspicio di una polis abitata con l’attitudine
(ebraica) dello «straniero-residente», interrogando, ancora una volta, le ragioni dell’insorgenza della
violenza e le condizioni della sua estirpazione. Come sempre, se ne avesse avuto il tempo, avrebbe
scritto pagine sulle quali avremmo avuto molto da riflettere.