Abbigliamento

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Abbigliamento
ABBIGLIAMENTO
OVIESSE
SCHEDA ANALITICA
Marchio: OVIESSE
Società: GRUPPO COIN
Presentazione
Gruppo italiano specializzato nella distribuzione di abbigliamento che opera con le insegne Coin, Oviesse e UPIM
(marchio acquistato nel 2009). Il gruppo è controllato dal fondo di private equity BC Partners, che ha acquistato la
quota di maggioranza nel 2011dal fondo d’investimento PAI e dalla famiglia Coin (Il Sole 24 ore, Wikipedia)
Il gruppo impiega oltre 6.400 persone. Coin vende anche articoli a marchio proprio ma non possiede impianti
produttivi. Disponeva nel 2012 di oltre 1.100 punti di vendita (Il Sole 24 ore) e ha avviato un’espansione all’estero, in
particolare nell’Est Europeo e nel Medio Oriente. Nel 2007 ha realizzato vendite per 1.172 milioni di euro e profitti per
43,5 milioni di euro. Ha speso in pubblicità più di 18 milioni di euro nel 2004.
Comportamenti irresponsabili
DIRITTI DEI LAVORATORI
o
Coin ricava parte dei propri prodotti da terzisti localizzati in Cina (30%), paese che vieta ogni libertà sindacale.
Inoltre si rifornisce in Bangladesh, India e Turchia, paesi che ostacolano fortemente le libertà sindacali. Il codice di
condotta di cui Coin si è dotata è giudicato dalla Clean Clothes Campaign ampiamente insufficiente sia sul piano degli
standard prescritti sia sul piano dei meccanismi di verifica della conformità.
o
Nel settembre 2005 il sindacato bengalese ha denunciato un grave episodio di comportamento antisindacale da
parte di A-One, azienda sudcoreana che produceva per l’italiana Tessival, fornitrice di Oviesse. In risposta alle richieste
presentate dal neonato consiglio di fabbrica, sono stati licenziati 250 lavoratori, mentre 9 attivisti sono stati costretti a
dimettersi perché minacciati di morte. La vicenda, seguita dalla Campagna Abiti Puliti, si è conclusa due anni dopo con
un risarcimento, di portata limitata, versato da Tessival ai lavoratori licenziati, i quali non sono tuttavia riusciti a
ottenere il reintegro nel posto di lavoro.
o
Nel 2001, nella fabbrica indonesiana PT Istana Garmindo Jaya, che produceva per diverse imprese europee, fra cui
le italiane Diadora, Oviesse, Grotto, un sindacalista è stato licenziato. Secondo il sindacato ufficiale Gartek, il
licenziamento era illegale. Le proteste dei lavoratori si sono concluse con il licenziamento di 400 persone iscritte al
sindacato. Oviesse non ha risposto alla lettera della Campagna Abiti Puliti che le chiedeva di intervenire presso il suo
fornitore.
o
Nell’estate del 2005, quando Coin ha cambiato assetto proprietario, è stato attuato un piano di riorganizzazione che
prevedeva la chiusura di 3 grandi magazzini, il licenziamento di esuberi, nuovi orari di lavoro con lunghe pause non
retribuite e turni domenicali. La dirigenza ha scelto la via della chiusura per imporre la propria volontà, anche a fronte
delle proteste dei lavoratori.
DIRITTI DEI CONSUMATORI.
o
Nel 2007 il Comitato di Controllo dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP) ha disposto la cessazione del
messaggio pubblicitario “Yo-Vi Young Village per il negozio di abbigliamento per bambini di Coin, marchio Yo-Vi,
ravvisandovi la violazione dell’art. 10 del codice di autodisciplina in materia di convinzioni morali, civili, religiose e
dignità della persona.
RISPETTO DELL’AMBIENTE E DELLE COMUNITA’ LOCALI
o
Oviesse figurava al quarto posto per giro d’affari (con 2,5 milioni di euro di importazioni) nell’elenco, steso dal
sindacato CISL, delle 350 imprese italiane che fanno affari in Birmania in spregio alla risoluzione dell’OIL che dal
2000 chiede la sospensione degli investimenti in quel paese per non sostenere il regime oppressivo e il sistema del
lavoro forzato. Interpellata a tale proposito dalla Campagna Abiti Puliti, Coin ha dichiarato nel febbraio 2008 di avere
cessato i rapporti commerciali con il suo fornitore birmano.
PARADISI FISCALI
o
Coin ha filiali in Lussemburgo e a Hong Kong, considerati paradisi fiscali dalla legislazione italiana.
TRASPARENZA
o
Non ha risposto al questionario del Centro Nuovo Modello di Sviluppo per la stesura della Guida al Vestire Critico
e non pubblica dati sull’impatto sociale e ambientale delle proprie attività. Non rende pubblici gli stipendi dei vertici
aziendali.
o
Richiesta in proposito dalla Clean Clothes Campaign, Coin ha rifiutato di rendere pubblica la lista dei propri
fornitori adducendo a motivo la riservatezza delle informazioni reputate di natura strategica.
o
Coin figura tra le 9 aziende italiane cancellate nel luglio del 2008 dalle liste del Global Compact delle Nazioni
Unite, l’iniziativa volontaria per la responsabilità sociale delle imprese lanciata nel 2000 dall’allora segretario generale
dell’ONU Kofi Annan. Il provvedimento viene applicato quando le imprese aderenti non pubblicano i rapporti
informativi richiesti sui progressi compiuti nell’applicazione dei dieci principi alla base dell’accordo in materia di
ambiente, lavoro, diritti umani e corruzione.
Comportamenti responsabili
TRASPARENZA
o
Dopo la campagna internazionale sul caso A-One, Coin si mostra più disponibile al dialogo con le organizzazione
della società civile.
DIRITTI DEGLI ANIMALI
o
I gruppi animalisti sono riusciti a ottenere l’impegno del Gruppo Coin a cessare, seppur gradualmente fra il 2008 e
il 2011, la commercializzazione di capi con pelo animale.
(Fonti: Guida al vestire critico, EMI, 2006; Clean Clothes Campaign; Campagna Abiti Puliti; RSI News, IAP, sito
Gruppo Coin, Il Sole 24 Ore)
BENETTON
SCHEDA ANALITICA
Marchio: UNITED COLORS OF BENETTON
Società: BENETTON GROUP
Presentazione
Multinazionale italiana che opera nel settore dell’abbigliamento casual e dei tessuti con i marchi United Colors of
Benetton, Sisley, Playlife, Killer Loop, Undercolors. Ha contratti di licenza con aziende che producono per suo conto
gioielli, profumi, occhiali, profilattici e cartoleria.
La capogruppo è Benetton Group, posseduta per il 67% dalla famiglia Benetton attraverso la società finanziaria di
famiglia, Edizione Srl (nata nel 2009 dalla riorganizzazione del gruppo), cui fanno capo attività diversificate nei settori
dell’abbigliamento, ristorazione, immobiliare, agricoltura e altro (Benetton Group, Autogrill, Maccarese, Cia de Tierras
Sud Argentino; partecipazioni in Pirelli, Assicurazioni Generali, RCS Mediagroup, Il Gazzettino, Il Sole 24 ore,
Caltagirone Editore) e la subholding Sintonia S.A. cui fanno capo attività nei settori delle infrastrutture, servizi,
comunicazione (Atlantia/Autostrade Spa, Grandi Stazioni Spa, Gemina-Aeroporti di Roma). Edizione Srl è anche nel
patto di sindacato di Mediobanca avendo acquistato i Benetton nel 2007 il 2,17% di azioni dalla quota messi in vendita
da Unicredit.
Nel settore della tessitura e della filatura, Benetton Group possiede vari stabilimenti nell’Italia Settentrionale e nei
dintorni di Firenze e Salerno. Nel settore della tintura e delle confezioni, ha i suoi poli produttivi, oltre che in Italia, in
Tunisia, Ungheria e Croazia cui fanno capo reti locali di alcune centinaia di aziende terziste. Benetton ha fondato una
società con partner locali per creare un polo produttivo anche in India, e ha aperto una sede a Hong Kong per coordinare
le attività produttive e commerciali nell’area asiatica, inclusa la Cina.
I dipendenti diretti di Benetton Group erano circa 8.900 a fine 2007. I lavoratori occupati dai terzisti nel 2004 erano
27.000, di cui 7.400 in Italia, 14.500 in Europa dell'Est e 5.000 in Tunisia. La quota di produzione estera nel 2004
rappresentava il 70% della produzione totale.
Benetton Group è presente in 120 paesi del mondo, ha una produzione totale di circa 150 milioni di capi l’anno e un
rete commerciale di 6.000 negozi, che nel 2007 hanno generato un fatturato di oltre 2 miliardi di euro, dei quali l'87%
realizzati in Europa, il 10% in Asia, il 2% in America, l’1% nel resto del mondo. Nello stesso periodo l’azienda ha
realizzato utili per 145 milioni di euro. Nel 2004 Benetton ha speso 52 milioni di euro in pubblicità.
Nella classifica 2005 compilata dalla rivista Forbes i Benetton figurano fra i 14 miliardari italiani.
Comportamenti irresponsabili
DIRITTI DEI LAVORATORI
o
Benetton ricava parte dei suoi prodotti di abbigliamento da terzisti localizzati in Cina, paese che vieta ogni libertà
sindacale. Inoltre ha collegamenti produttivi con Argentina, India, Lituania, Turchia, Ucraina, Ungheria, paesi che
ostacolano fortemente le libertà sindacali.
o
Benetton è coinvolta come committente nel crollo il 24 aprile 2013 del Rana Plaza (l’edificio che a Dacca, in
Bangladesh, ospitava alcune imprese di confezione di abbigliamento) nel quale sono morte 1.138 persone e circa 2mila
sono rimaste ferite. Oppone da allora un netto rifiuto a ottemperare alla richiesta di risarcimento formulata da un tavolo
negoziale internazionale, limitandosi a sostenere economicamente interventi di ortopedia e microcredito tramite l’ong
locale BRAC. (Campagna Abiti Puliti)
o
Nel 2013 Autogrill promette la conservazione del posto di lavoro a 140 dipendenti in via di licenziamento purché
siano disposti a farsi trasferire entro 50 km di distanza, a essere demansionati e a passare a tempo parziale (Il Manifesto,
31/1/2013). Nel 2014 i dipendenti Autogrill in Baviera e Turingia scendono in sciopero per ottenere il loro primo
contratto collettivo di lavoro, per migliori condizioni di lavoro, e per portare la paga ad almeno 8,50 euro/ora in linea
con il minimo salariale in via di introduzione in Germania (IUF, giugno/settembre 2014)
o
Nel 2009 i 32 dipendenti della Tov srl (franchisee di Benetton) occupano il megastore di Corso Vercelli a Milano
contro la chiusura del punto vendita e il conseguente licenziamento, incatenandosi ed esponendo in vetrina cartelli di
protesta. Benetton aveva dato lo sfratto e da alcuni mesi non consegnava più la merce. La protesta si conclude con un
accordo fra Benetton e le organizzazioni sindacali: il negozio riapre affidato a un altro franchisee (Milano Report
partecipato al 50% da Benetton) e i lavoratori vengono riassunti.
o
Nel 2009 chiude lo stabilimento Olimpias (gruppo Benetton) di Piobesi Torinese e la produzione viene trasferita a
Vicenza (e in parte in Tunisia). I 150 dipendenti sono messi in mobilità. Nello stabilimento si effettuavano operazioni
di tintura per la maglieria Benetton. Motivazioni addotte: forte calo delle vendite e riduzione di fatturato dello
stabilimento.
o
Il periodico della Cisl Brianza, Tabula, riferisce nel novembre 2008 del licenziamento su due piedi di 20 commesse
dipendenti di una catena di negozi, situati all’interno dei centri Carrefour della Brianza, che vendeva in franchising capi
a marchio Benetton e Sisley. Il proprietario cessando l’attività non ha rispettato la legge sui licenziamenti collettivi.
o
Nel 2006 la Wear Company, che confeziona capi a marchio Benetton in Romania, a corto di manodopera
specializzata, comincia ad attingere personale dalla Cina attraverso canali sui quali le autorità rumene hanno avviato
indagini. Le operaie cinesi, circa 400, scendono presto in sciopero: guadagnano 350 dollari al mese, ma necessitano del
doppio per poter vivere e mandare soldi a casa, senza contare il debito da restituire agli intermediari in patria.
Protestano anche per la scarsità e la cattiva qualità del cibo. Al termine dello sciopero, sospeso per paura di ritorsioni,
alcune operaie decidono di tornare in Cina.
o
Nel 2003 Benetton adotta un codice etico e di condotta, che però non prevede il rispetto dei diritti dei lavoratori
come criterio di selezione dei fornitori. In esso si afferma che “la selezione dei fornitori (...) è dettata da valori e
parametri di concorrenza, obiettività, concorrenza, imparzialità, equità nel prezzo". Agli impegni diretti, Benetton ha
sempre preferito formulazioni generiche, come quella assunta nell'accordo sindacale del 1994 attraverso il quale
riconosce che il lavoro presso i terzisti deve svolgersi nel rispetto dei diritti fondamentali. Il documento cita tutti i temi
più rilevanti, ma sotto forma di elenco senza alcuna specificazione. Non c'è riferimento alle convenzioni dell'OIL, non
si cita il salario vivibile, non si parla di forme stabili di assunzione. Per quanto riguarda il sistema di controllo, in un
successivo accordo sindacale dei 1999 è espressa l'intenzione di dotarsi di un sistema di monitoraggio interno rafforzato
da valutatori esterni. A tutt'oggi non è chiaro cosa abbia messo in atto, benché nel 2004 Benetton abbia firmato un
nuovo accordo sindacale in cui accetta di comporre una commissione che verifichi lo stato di attuazione dell'accordo del
1994 e il sistema di monitoraggio.
o
In una conferenza sulle società multinazionali, tenuta al World Social Forum di Porto Alegre nel 2002, il
rappresentante dell’International Confederation of Free Trade Unions segnala lo sciopero dei lavoratori Benetton in
Mozambico e il sostegno ricevuto attraverso le reti sindacali internazionali, in particolare dai lavoratori sudafricani
o
Dall’indagine “Wearing thin: the state of pay in the fashion industry 2000-2001” dell’organizzazione inglese
Labour Behind the Label (Clean Clothes Campaign UK), Benetton risulta essere una delle aziende meno attente al
problema dei livelli retributivi nei paesi di delocalizzazione. Riferirsi costantemente ai minimi salariali significa
mantenere consapevolmente intere comunità al di sotto della soglia di povertà. Benetton non risponde alla richiesta di
chiarimenti inviata da Labour Behind the Label.
o
Il settimanale Carta riferisce nel 2001 di proteste dei lavoratori dello stabilimento di Pignataro Maggiore, in
provincia di Caserta, per l’introduzione del ciclo continuo e per l’accordo, accettato dal sindacato, che prevede per i
nuovi assunti meno salario, nove giorni di ferie non pagati, un buono mensa di 650 lire al mese, lavoro domenicale
pagato come un giorno feriale. L’articolo denuncia anche comportamenti antisindacali nella filiera di Benetton in
Francia, Spagna e USA.
o
Fa scalpore nel 1999 l’incredibile vicenda delle lavoratrici della Riesi Maglieria, all’epoca terzista di Benetton e
Stefanel nella provincia di Caltanissetta, che si adattano a programmare matrimoni e gravidanze pur di non creare
intralci alla produzione. Al Sole 24 Ore, il titolare, ritrapiantato in Sicilia dopo anni di lavoro in Veneto, rilascia questa
dichiarazione: “E’ un fatto etico: non si può lasciare il posto di lavoro per un matrimonio. Anche dalle mie parti si fa
così: nozze solo il fine settimana. A quale regione mi riferisco? Al Veneto, naturalmente: quando parlo di lavoro, sono
quelle del Nord-Est le regole che i miei dipendenti devono rispettare”
o
Un terzista italiano di Benetton, intervistato nel 1999 da un ricercatore dell’Osservatorio sulla Benetton, nato da un
coordinamento di gruppi di base, dichiara di lavorare in esclusiva per Benetton da 15 anni senza un contratto scritto, di
ricevere un compenso inadeguato, di dover ritirare le materie prime a sue spese presso il committente, di ricevere
controlli periodici per verificare che non lavori per altri. Nel caso di inadempienze non sono previste penali ma la
perdita degli ordini. Un altro artigiano in conto terzi nel Veneto racconta di cinesi che si offrono per lavorare in
ulteriore subfornitura alla metà delle tariffe pagate da Benetton.
o
In un’intervista rilasciata alla Clean Clothes Campaign nel corso di un’indagine realizzata nel 1998 nelle fabbriche
di abbigliamento in Romania, l’operaia di un fornitore di Benetton dichiara di lavorare 10-11 ore al giorno compreso il
sabato per raggiungere una quota di produzione individuale fissata arbitrariamente dal datore di lavoro che le dà diritto
a ricevere il salario minimo legale, per altro totalmente insufficiente a garantire un tenore di vita dignitoso. Il titolare
dichiara che i suoi committenti effettuano ispezioni in fabbrica solo per il controllo di qualità.
o
Nel 1998 un’inchiesta del Corriere della Sera denuncia la presenza di bambini fra gli 11 e i 13 anni in due fabbriche
di Istanbul che lavorano per conto del licenziatario turco di Benetton, Bogazici. Un sindacalista turco in incognito era
riuscito a farsi assumere alcuni mesi prima e a raccogliere così le prove del lavoro minorile. Per difendere la propria
immagine, Benetton querela il giornalista del Corriere della Sera, Riccardo Orizio, per diffamazione. In base alla
documentazione presentata dal "Corriere della Sera" e a dichiarazioni rese dai testimoni, il Tribunale ha sentenziato nel
2003 che: “L’utilizzo, nelle aziende subfornitrici del licenziatario turco di Benetton, di lavoratori-bambíni" è
"circostanza risultata sostanzialmente provata". Tuttavia ha condannato Orizio a 800 euro di multa, perché ha sbagliato
nell’ ”affermare in modo perentorio che in una di queste aziende venissero prodotti capi con il marchio made in Italy
per conto dell'azienda italiana".
o
In un articolo apparso nel bollettino “Trade Union World” (Dec. 1998/Jan. 1999) dell’International Confederation
of Free Trade Unions si dice che “le testimonianze raccolte concordano nell’affermare che c’è lavoro minorile presso
altre fabbriche, oltre a quelle turche, della filiera Benetton, più precisamente in Egitto”.
o
In Madagascar, nel 1997, i ricercatori della Clean Clothes Campaign rilevano in una fabbrica che produce per
Benetton orari di lavoro eccessivi con turni ininterrotti per più giorni consecutivi nei periodi di punta, straordinari non
retribuiti, ambienti malsani, assenze dal lavoro per malattia superiori a un giorno punite col licenziamento, molestie
sessuali.
o
A fine 1997, nel distretto del jeans di Bronte e Randazzo (Catania), vengono alla luce una serie di casi di lavoro
nero e minorile fra le aziende terziste di grandi marchi. L’intervista a un’operaia della Bronte Jeans, fornitore di
Benetton, fa luce sulle condizioni di lavoro: buste paga regolari ma retribuzioni dimezzate pagate in contanti,
licenziamenti in caso di maternità, repressione dell’attività sindacale. Nello stesso periodo i terzisti veneti di Benetton e
di altri committenti della zona inscenano una protesta davanti agli uffici di Benetton a Ponzano Veneto: protestano per i
pagamenti effettuati in ritardo (fino a 180 giorni), ordini per telefono senza vincoli contrattuali, consegne con scadenze
troppo brevi.
DIRITTI DEI CONSUMATORI
o
Nel 2003 Benetton rinuncia al progetto di adottare microchip per la tracciabilità commerciale dei capi venduti negli
Stati Uniti in seguito alle proteste dei consumatori che avevano lanciato una campagna di boicottaggio.
o
Fra il novembre 2002 e il marzo 2004, Benetton viene censurata a più riprese dall’Istituto dell’Autodisciplina
Pubblicitaria (IAP) per messaggi che violano il codice di autodisciplina. In particolare i messaggi di Sisley sono stati
ritenuti contrari agli articoli 1 (lealtà pubblicitaria), 9 (violenza, volgarità, indecenza) e 10 (convinzioni morali, civili,
religiose e dignità della persona). Il Giurì non ha mai potuto pronunciarsi direttamente nei confronti di Benetton, ma
solo nei confronti dei gruppi editoriali ospitanti, poiché l’azienda non ha mai sottoscritto il codice IAP. In un caso in
particolare, Benetton ha preteso dal gruppo editoriale L’Espresso la cancellazione della clausola di accettazione del
codice nel contratto di inserzione sottoscritto con l’editore.
o
Almeno fino al 2004 (ma servirebbe una nuova verifica nei negozi), Benetton non ha fornito informazioni corrette
ai consumatori sul luogo di produzione. La metà dei capi venduti, ispezionati in un megastore Benetton di Milano dal
Coordinamento Nord/Sud del Mondo, era etichettata “made in Italy”; la restante parte, quella confezionata in altri paesi,
non riportava etichette di origine. In questo modo il cliente meno accorto è indotto a credere che tutta la produzione
Benetton sia realizzata in Italia.
DIRITTI DEGLI ANIMALI
o
Nel 2004 l'associazione animalista PETA lancia una campagna nei confronti di Benetton per convincerla a non
comprare più lana dall'Australia. In questo paese, infatti, viene adottata una pratica, chiamata mulesing, che oltre ad
asportare la lana, taglia via pezzi di pelle dal corpo degli animali. Quando non sono più utili per la lana, le pecore sono
inviate in Medio Oriente per essere macellate secondo il rito islamico. Il viaggio avviene su imbarcazioni scoperte, in
condizioni indecenti.
RISPETTO DELL’AMBIENTE E DELLE COMUNITA’ LOCALI
o
Dal 1991 la famiglia Benetton è proprietaria di 900 mila ettari di terreno in Patagonia (Argentina), attraverso la
società Compañia de Tierra Sud Argentino, per allevarne pecore da lana (e, con la compagnia mineraria Minera Sud
Argentina per esplorare i terreni della Cordigliera di Iglesias alla ricerca di oro, attività iniziata ufficialmente a fine
2008), ed è il maggiore latifondista del paese. La proprietà è contestata dalla popolazione indigena mapuche oggi
confinata in territori sempre più ristretti, isolati, e privati dalle recinzioni dell’accesso all’acqua. Nel 2002 la famiglia
mapuche Curiñanco, ridotta alla fame, torna nel suo luogo di origine, stabilendosi, con il benestare dell'autorità
pubblica, in un'area che fa parte dei possedimenti Benetton, ma viene fatta subito sgomberare dall’azienda con la forza,
ha la casa distrutta, ed è citata in giudizio per usurpazione. Il caso si chiude nel 2004 con una sentenza sfavorevole alla
famiglia occupante che viene però assolta dall’accusa di usurpazione. Il caso ha una grande eco pubblica, e nel luglio
2004 Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace, scrive a Luciano Benetton per chiedere la restituzione di alcune
terre. La risposta è la promessa di un “dono” di 7.500 ettari di terreno in località molto distante dal podere, poco
produttivo, già rivendicato da altre comunità mapuche. Al nulla di fatto segue nel 2007 una nuova occupazione da parte
dei Curiñanco. Questa volta la richiesta di sgombero presentata dai Benetton è respinta dalla Corte di appello del
Chubut.
o
Nel 2003 il Coordinamento italiano a sostegno di Rawa (associazione per l’emancipazione delle donne afghane)
invita al boicottaggio dei prodotti Benetton dopo aver chiesto inutilmente all’azienda il ritiro delle immagini di donne
afghane dalla campagna pubblicitaria “Food for life” lanciata per il Programma alimentare mondiale. Denuncia come
foto e didascalie veicolino informazioni false sull’emancipazione femminile sotto il nuovo governo afghano sostenuto
dagli Stati Uniti, per esempio riguardo alla libertà di studiare, lavorare e non indossare il burqa.
o
Nel 2002 chiama al boicottaggio il Coordinamento Valdostano Contro il Ritorno dei TIR che accusa Benetton,
azionista di riferimento della Società Italiana Traforo Monte Bianco attraverso Edizione Holding, di aver esercitato
pressioni nei confronti dei governi italiano e francese con l’obiettivo di raddoppiare il passaggio di mezzi pesanti
attraverso il tunnel dopo la riapertura del traforo, chiuso l’anno prima in seguito a un grave incidente causato da un
camion.
o
Nel 2000 Benetton fa demolire la Casa della Luna Rossa, unica testimonianza superstite a Monza di una tipologia
costruttiva tipica della zona in epoca medievale. L’unica colpa dell’edificio, acquistato poco prima dall’azienda insieme
ad altre costruzioni contigue, è quella di essere di ostacolo al cantiere che deve realizzare in quell’area un megastore
Benetton. Due anni dopo Benetton si vanterà di avere ricostruito l’edificio, e di averlo fatto secondo criteri “filologici”.
PARADISI FISCALI
o
Benetton ha filiali in Corea del Sud, Hong Kong, Lussemburgo, Svizzera, considerati paradisi fiscali dalla
legislazione italiana.
o
La commissione tributaria di Treviso dispone nel 2009 che il gruppo Benetton versi all’erario 3milioni di euro per
aver dedotto nel 2003 dei costi sostenuti a favore di due società con sede nell’isola di Man (La Tribuna di Treviso,
1/10/2009)
TRASPARENZA
o
Non ha risposto al questionario per la stesura della Guida al vestire critico. Non ha risposto nel 2014 alla Clean
Clothes Campaign che nell’ambito di un’indagine sul salario dignitoso (“Tailored wages”) chiedeva a Benetton
precisazioni in tema di retribuzioni.
o
Pur fornendo alle organizzazioni sindacali l’elenco dei propri fornitori e siti produttivi esteri, Benetton ha vincolato
le informazioni alla riservatezza impedendone di fatto l’uso pubblico.
o
La Burma Campaign segnala Benetton fra le imprese che nel dicembre 2003 hanno ignorato ripetutamente la
richiesta di dichiarare l’eventuale esistenza di attività commerciali con la Birmania.
VARIE
o
La partecipazione nel 2008 della famiglia Benetton, attraverso Atlantia, nella cordata CAI per rilevare Alitalia
configura un conflitto d’interessi in piena regola. Ad Atlantia fa capo infatti la gestione di tre aeroporti italiani (Roma,
Firenze, Torino) e la società è creditrice di Alitalia per una cifra che, se venisse immediatamente pagata come i
Benetton pretendono, metterebbe in seria difficoltà Alitalia.
o
La Commissione giudicante della Federbasket infligge 12 punti di penalizzazione da scontare nel campionato 2007
alla Benetton di Treviso ritenendo la società colpevole per responsabilità oggettiva in frode sportiva per irregolarità nei
tesseramenti.
o
L’azione legale promossa da SCF-Società Consortile Fonografici nei confronti di Benetton Retail, citato “per non
aver corrisposto” i compensi derivanti dalla trasmissione di musica registrata nei propri punti vendita, si è conclusa nel
2005 a favore di SCF con una sentenza del tribunale di Treviso.
o
Benetton Group viene esclusa nel 2004 dagli indici per l’investimento responsabile FTSE4Good, che misurano le
performance finanziarie delle società che hanno dimostrato una particolare attenzione alla responsabilità sociale.
L’esclusione è motivata con il fatto che la società non corrisponde più ai criteri di FTSE4Good riguardanti politiche
ambientali, sociali, di rapporto con gli stakeholder, di rispetto dei diritti umani.
o
La trasmissione televisiva Report, nella puntata “Vivere di rendita”, andata in onda nell’ottobre 2004, rileva che la
società Autostrade, di proprietà di Edizione Holding, ha maturato extraprofitti grazie a pedaggi autostradali
ingiustificatamente elevati. L’esperto del Nars, nucleo di valutazione tecnica presso il Ministero dell’economia, dichiara
di essere stato costretto a dare le dimissioni dopo avere denunciato il fatto. Anche il ministro dell’economia dell’epoca
si rifiutò di firmare al Cipe l’aumento richiesto. Ma il suo rifiuto, così come i pareri dell’autorità di vigilanza furono
scavalcati dall’approvazione di un decreto conforme agli interessi della famiglia Benetton, con l’atteggiamento
compiacente dell’Anas e della Corte dei conti. Inoltre la società Autostrade si era impegnata ad eseguire una serie di
lavori tra il 1997 e il 2003, ma alla fine del 2004 sono aperti solo alcuni cantieri.
o
Il governo calcola nel 2006 in 2 miliardi di euro la mancata realizzazione di investimenti da parte di Autostrade in
sette anni di attività, a fronte di 3 miliardi di plusvalenze ottenute dall’azienda nello stesso periodo di tempo. Malgrado
questo, nel 2008 è approvata la nuova convenzione fra Anas e Autostrade che consente un aumento annuo dei pedaggi
non inferiore al 70% dell’inflazione reale, scompare la verifica periodica sull’allineamento degli aumenti tariffari ai
costi effettivamente sostenuti, il tutto garantito per i prossimi 30 anni quando la convenzione andrà in scadenza. Il testo
prevede tuttavia un sistema di sanzioni e penali per inadempienze, gare pubbliche anche per manutenzione e forniture.
o
Nel febbraio 2003, a un mese dall’occupazione militare dell’Iraq, la nave italiana "Strada Gigante", posseduta da
una società di trasporti facente capo a un fondo di private equity controllato dalla famiglia Benetton, trasporta in Iraq
materiale logistico per conto dell'esercito britannico.
o
Nel 2002 l'Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato ha multato Edizione Holding per 15,8 milioni di euro
per irregolarità nell’esecuzione delle gare per l’affidamento della ristorazione nelle aree autostradali di sosta. Al
momento dell’acquisto di Autostrade, l’Antitrust aveva imposto la gara pubblica in quanto Autostrade insieme ad
Autogrill, già di proprietà di Edizione Holding, configuravano una vera e propria concentrazione in capo all’azienda.
Nel 2004 Edizione Holding viene di nuovo multata per 6,79 milioni di euro per lo stesso motivo, aver di fatto favorito
Autogrill nelle gare d’appalto.
Comportamenti responsabili
TRASPARENZA
o
Gli accordi stipulati nel 1978, 1999 e 2004 vincolano l'azienda a fornire al sindacato l'elenco delle imprese
partecipate, dei terzisti italiani e dei siti produttivi esteri collegati al gruppo.
DIRITTI DEI LAVORATORI
o
E’ una delle prime aziende italiane della moda ad aver adottato un codice di condotta.
o
Nel 2010 aderisce alla campagna internazionale che chiede alle imprese di abbigliamento di cessare la sabbiatura
dei jeans, una tecnica di scoloritura che conduce alla morte per silicosi degli addetti.
(Fonte: Coord. Nord/Sud del Mondo / Campagna Abiti Puliti, Clean Clothes Campaign, Guida al vestire critico 2006,
sito Oppidum, RSI News, sito Benetton Group, sito World Social Forum, Tabula, Filcams CGIL, La Repubblica.it, La
Stampa.it, Il Manifesto, IUF)
NIKE
SCHEDA ANALITICA
Marchio: NIKE
Società: NIKE
Presentazione
Multinazionale statunitense che progetta e commercializza calzature, abbigliamento, accessori e attrezzature per lo sport
e il tempo libero. Il marchio principale è Nike, ma possiede anche Converse e Hurley (dal sito Nike al 2015).
Nell’anno fiscale 2014 Nike ha avuto un fatturato di 27,8 miliardi di dollari, con un incremento di 2,5 miliardi di
dollari rispetto all’anno precedente (dal sito Nike 2015). Ha speso nel 2014 in pubblicità e sponsorizzazioni 3 miliardi
di dollari (dal sito Nike 2015).
Nel 2004 occupava il primo posto nel mercato delle calzature sportive con una quota del 33,2%. Controlla insieme ad
Adidas il 18% del mercato dell’abbigliamento sportivo e il 60% di quello delle scarpe sportive.
Nike, che è stata fondata nel 1968 da Phil Knight, è una multinazionale composta da 41 società, di cui 7 domiciliate
negli Stati Uniti e le rimanenti 34 in paesi diversi. Fra esse c’è anche Nike Italia, con sede a Casalecchio di Reno, in
provincia di Bologna.
I prodotti commercializzati da Nike provengono da 709 fabbriche situate in 44 paesi che impiegano circa 988 mila
persone (dal sito Nike 2015). I dipendenti diretti di Nike in tutto il mondo sono 56.500 (sal sito Nike 2015). L’88%
degli occupati si trova in Asia, dove Nike produce le sue scarpe in Vietnam (43%), Cina (28%), Indonesia (25%) (dal
sito Nike 2015). Nel 2004 la quota era: Cina (36%), Vietnam (26%), Indonesia (22%) e Thailandia (15%). Anche
l’abbigliamento proviene in gran parte da paesi asiatici come Cina, Vietnam, Thailandia, Indonesia, Sri Lanka,
Pakistan, Malaysia (dal sito Nike 2015) ma anche da Turchia, Honduras, Messico e paesi di altri continenti.
Fra i grandi campioni dello sport sponsorizzati da Nike, spicca il campione del golf Tiger Woods che ha avuto con
Nike un contratto nell’ordine dei 20 milioni di dollari l’anno.
Comportamenti irresponsabili
DIRITTI DEI LAVORATORI
o
Nel 2004 quattro sindacati, che rappresentano più di 3 milioni di lavoratori negli Stati Uniti e in Canada, invitano le
Nazioni Unite a cancellare la Nike dalle liste delle imprese aderenti al Global Compact - l’iniziativa volontaria per la
responsabilità sociale delle imprese lanciata nel 2000 dall’allora segretario generale dell’ONU Kofi Annan -, con la
motivazione che la sua pratica quotidiana non è in coerenza con i principi sottoscritti. A titolo di esempio citano la
decisione della multinazionale di chiudere due stabilimenti canadesi sindacalizzati per trasferire la produzione in altri
che impiegano personale non sindacalizzato.
o
Nike aderisce alla Fair Labor Association (FLA), un’organizzazione statunitense per la responsabilità sociale di
impresa, criticata per il suo scarso rigore, che effettua verifiche della conformità delle imprese aderenti al codice di
condotta adottato. Il codice della FLA non fa riferimento alle norme dell’OIL e non prescrive l’obbligo di corrispondere
un salario congruo. Le indagini a campione condotte dalla FLA fra il 2003 e il 2004 su 40 siti produttivi utilizzati da
Nike hanno messo in evidenza varie violazioni riferite per il 54% alle norme sulla salute e la sicurezza, il 12% al
salario, il 7% all’orario di lavoro, il 4% a intimidazioni e violenze, il 2% al lavoro minorile e l’1% al lavoro forzato.
DIRITTI DEI LAVORATORI – CASI DENUNCIATI E INDAGINI
Nike è la multinazionale simbolo del volto feroce della globalizzazione ed è quella che ha ricevuto più critiche per le
condizioni di lavoro. In oltre dieci anni di indagini a carico dei suoi fornitori, sono state riscontrate violazioni di ogni
genere, compreso il ricorso al lavoro minorile (nella cucitura dei palloni in Pakistan).
Fra i tanti casi denunciati segnaliamo quelli più significativi o di cui ci siamo occupati direttamente attraverso il servizio
delle Azioni Urgenti della Clean Clothes Campaign:
o
Nel rapporto “Stitched up: salari da povertà per i lavoratori dell’abbigliamento nell’Europa Orientale e in Turchia”
pubblicato nel giugno 2014 dalla Clean Clothes Campaign, Nike figura fra i marchi committenti in paesi dove i minimi
salariali legali coprono non più del 30% di un salario minimo dignitoso.
o
Nell’aprile 2014 scendono in sciopero in Cina per migliori condizioni di lavoro 70 mila operai della Yue Yuen, il
più grande produttore al mondo di scarpe per marchi come Nike, Adidas, Puma, ecc. Oltre a forme di assunzione più
stabili, i lavoratori chiedono il pagamento dei contributi sociali utili a poter ottenere una pensione, l’assicurazione
antinfortunistica, l’assistenza sanitaria. I lavoratori contestano anni di mancato versamento che ha permesso all’azienda
di intascare 117 milioni di euro (sito Campagna Abiti Puliti)
o
Nel gennaio 2012 PT Nikomas, importante fornitore indonesiano di Nike, dopo una trattativa di 11 mesi con il
sindacato indonesiano SPN, si accorda per un risarcimento pari a circa 700 mila euro a favore di 4.500 lavoratori che
negli ultimi due anni avevano effettuato quasi 600 mila ore straordinarie non pagate. Il risarcimento è poco più che
simbolico dal momento che, come afferma il sindacato, la pratica di costringere i lavoratori a fare straordinari non
retribuiti esiste da almeno 18 anni alla Nikomas (tanti quanti il codice di condotta Nike) ma la legge indonesiana
permette di valutare solo gli ultimi 2 anni (sito Campagna Abiti Puliti, Clean Clothes Campaign)
o
Nel luglio 2008 un servizio della televisione australiana Channel 7 denuncia condizioni di lavoro ai limiti della
schiavitù presso la fabbrica malese Hytex Group, fornitore di Nike da 14 anni. Una successiva indagine di Nike
conferma le accuse: ai lavoratori, immigrati da Bangladesh, Vietnam e Birmania, viene regolarmente imposto un
balzello, pari a un anno di salario, per il loro reclutamento e il passaporto viene confiscato fino all’estinzione del debito,
cosa praticamente impossibile. Le condizioni abitative sono disumane. Nike dichiara di voler prendere provvedimenti
per alloggi più decorosi e per la restituzione dei documenti e delle trattenute illegali.
o
Nell’aprile 2008, il rapporto “Vincere gli ostacoli”, frutto delle indagini della coalizione Playfair 2008 in vista delle
Olimpiadi di Pechino, segnala che i grandi marchi dello sport, fra questi Nike, hanno meno reticenze del passato nel
collaborare fra loro in attività di controllo dei propri fornitori e nell’elaborazione di azioni correttive. Ma gli abusi
continuano, per esempio, in Cina, alla Joyful Long, che produce palloni da calcio anche per Nike, lo straordinario può
arrivare a 232 ore al mese mentre i salari medi sono quasi la metà del minimo legale, e gli operai sono addestrati a
rilasciare dichiarazioni false agli ispettori inviati dai marchi.
o
In Vietnam 20 mila lavoratori della fabbrica Ching Lu, che produce scarpe sportive per Nike, sono scesi in sciopero
nel 2008 contro i bassi salari. La loro paga non raggiunge i 40 euro mensili, insufficienti per vivere. Nike fa
confezionare in Vietnam 75 milioni di scarpe all’anno. La Ching Lu è la fabbrica più grossa tra i dieci centri di
produzione situati nel paese.
o
Nel 2007 Nike perde una causa collettiva per discriminazione razziale subito dopo aver pubblicato il terzo rapporto
sulla responsabilità sociale. Ai 400 dipendenti di colore che hanno lavorato al Niketown store di Chicago dal 1999 in
poi spetterà un risarcimento di 7,6 milioni di dollari per aver subito ingiurie, controlli, accuse di furto e la preclusione di
mansioni qualificate a causa della loro razza. Nike dovrà inoltre rivedere le sue politiche del personale, assumere un
garante delle pari opportunità e condurre programmi di formazione per i dirigenti dei suoi negozi.
o
Nike interrompe nel 2006 i rapporti commerciali con il suo fornitore pachistano di palloni da calcio cuciti a mano,
Saga Sports, a seguito di un’indagine durata sei mesi che avrebbe evidenziato il ricorso non autorizzato al lavoro a
domicilio, con probabile impiego di bambini, e una serie di altre violazioni delle leggi del lavoro. La decisione ha
comportato la perdita di 3 mila posti di lavoro.
o
L’indagine sulla produzione di abbigliamento sportivo in Asia, pubblicata nel 2006 da Oxfam International nel
rapporto “Fuorigioco!”, evidenzia che Nike è intervenuta negli ultimi anni in maniera costruttiva in due casi, Jaqualanka
in Sri Lanka e MSP in Thailandia, ma solo a fronte di ripetuti appelli ad applicare il suo codice di condotta, mentre non
ha esitato a cancellare gli ordini alla PT Doson in Indonesia provocandone la chiusura. Nike si dimostra restia a far leva
sul suo potere di condizionamento nei confronti dei fornitori.
o
La BJ&B, che nella Repubblica Dominicana produceva berretti sportivi a marchio Nike per conto del colosso
coreano Yupoong, chiude nel 2005 per mancanza di ordini. Un anno prima il sindacato di fabbrica, sostenuto da una
campagna internazionale, era riuscito a spuntare un contratto collettivo senza precedenti per il settore tessile del paese:
aumenti del 10% dei salari, iniziative di scolarizzazione per i lavoratori e le loro famiglie, fine delle violazioni dei
codici di condotta. Ma l’accordo è di breve durata: Yupoong comincia a trasferire gli impianti migliori nei suoi
stabilimenti asiatici e si libera progressivamente di personale, mentre Nike e Adidas, i maggiori committenti di BJ&B,
trovano più conveniente dirottare gli ordini verso le fabbriche non sindacalizzate della Yupoong in Vietnam e
Bangladesh. Di qui la chiusura di BJ&B. In seguito a una campagna internazionale, i lavoratori hanno ricevuto le
spettanze di legge, una buonuscita pari a 3 mesi di lavoro e una donazione in denaro è stata elargita al sindacato per
sostenere le attività di scolarizzazione dei lavoratori.
o
Chiude nel 2005 la fabbrica Hermosa in El Salvador dopo anni di traversie e sofferenze per i lavoratori, soprattutto
donne, obbligate a fare test di gravidanza, straordinari forzati, a bere acqua fortemente contaminata, e pagate salari
miseri. Al momento della chiusura, l’amara sorpresa che le trattenute assicurative e pensionistiche non sono mai state
versate, alcune famiglie perdono la casa, i militanti sindacali finiscono su una lista nera che preclude loro il lavoro
presso altre imprese. La Fair Labora Association, in rappresentanza dei suoi associati fra i quali Nike, versa ai titolo
“umanitario” il 4% del totale delle somme dovute ai lavoratori, cifra giudicata un’inezia. La difficoltà degli ex
dipendenti di Hermosa a trovare un altro lavoro è attribuita all’esistenza di una lista nera fra i datori di lavoro delle zone
franche.
o
Nel 2004 in due fabbriche cinesi di proprietà del gruppo taiwanese Stella International, che producono anche per
Nike, scoppiano delle rivolte che coinvolgono migliaia di lavoratori, con danneggiamenti di macchinari e attrezzature.
All’origine della protesta i bassi salari pagati in ritardo, le eccessive ore di lavoro, la cattiva qualità del cibo distribuito
nella mensa. Dieci lavoratori vengono incarcerati per danni alla proprietà, due di essi sono ragazzi minori di 16 anni
assunti illegalmente. In seguito a una campagna internazionale, i lavoratori vengono scarcerati.
o
La Clean Clothes Campaign ha giudicato negativamente il comportamento tenuto da Nike nel caso MSP
Sportswear in Thailandia nel 2004, ovvero il licenziamento per ritorsione delle tre leader del neo-sindacato di fabbrica
subito dopo il suo riconoscimento legale. Nike interviene tardivamente, non rende noti i risultati delle sue indagini e
dichiara di affidarsi alle decisioni della magistratura del lavoro alla quale le lavoratrici licenziate si sono nel frattempo
rivolte. Solo dopo la sentenza che dà ragione alle lavoratrici e le reintegra, Nike accetta nel 2005 un accordo per
favorire soluzioni che evitino il ripetersi di controversie di lavoro presso il suo fornitore.
o
Il rapporto “Gioca pulito alle Olimpiadi”, pubblicato dalla Clean Clothes Campaign, insieme ad Oxfam e ai
sindacati internazionali, in vista delle Olimpiadi di Atene 2004, evidenzia che nelle filiere produttive di multinazionali
dello sport come Nike i bassi salari, gli straordinari obbligatori e non pagati, la precarietà, i rischi per la salute e la
repressione sindacale continuano ad essere la regola. Ne individua una delle cause nelle pratiche commerciali scorrette:
fornitori pagati al massimo ribasso, senza certezza di continuità negli ordini, ma costretti a produrre in tempi record e
soggetti a multe in caso di errore. Un fornitore di Nike in Sri Lanka riferiva che mentre i costi di produzione erano
aumentati di circa il 20% negli ultimi 5 anni, il prezzo unitario pagato da Nike era diminuito del 35%. Tutto questo ha
evidenti ripercussioni sulle condizioni di lavoro.
o
Nel 2003 Nike rifiuta di costituire un fondo per il risarcimento dei dipendenti della Bed & Bath Prestige, suo
fornitore in Thailandia, dopo la chiusura improvvisa della fabbrica che li ha privati del lavoro e dei salari arretrati. I
lavoratori erano obbligati ad assumere anfetamine per non cedere al sonno durante i turni di lavoro interminabili nei
periodi di punta. Alcune decine di loro decidono di formare una cooperativa, che produce da allora abbigliamento, oltre
a materiale promozionale per il sindacato, con il marchio “Dignity returns”.
o
L’ong australiana Oxfam Community Aid pubblica nel 2002 il rapporto “Non siamo macchine”, risultato delle
indagini condotte fra i lavoratori di Nike e Adidas in Indonesia, dal quale emerge che i lavoratori vivono in grande
povertà con 2 dollari al giorno, contraggono debiti per arrivare alla fine del mese e mandano i figli presso parenti nei
villaggi per rivederli solo tre o quattro volte l’anno. Rispetto al passato è diminuito il livello di umiliazioni e molestie
sessuali, ma resta la repressione sindacale, effettuata anche con mezzi violenti. La violazione del diritto di associazione
e l’abuso di lavoro precario sono ormai un problema sistemico nell’industria indonesiana legata a filiere internazionali,
e nel 2008 la Clean Clothes Campaign ha presentato una piano di lavoro ai marchi internazionali per attuare misure
correttive di settore.
o
Nel 2002 Nike cancella gli ordini alla PT Doson, fabbrica di scarpe indonesiana di cui è l’unico committente. La
fabbrica chiude e i suoi 7 mila dipendenti sono gettati sul lastrico: il proprietario non ha soldi sufficienti per pagare a
tutti arretrati e liquidazioni, e Nike rifiuta di farlo al suo posto. Gli ex lavoratori PT Doson sono ridotti a vivere di riso e
sale. Il sindacato indonesiano SPN attribuisce la decisione di Nike alle iniziative sindacali avviate per miglioramenti
salariali e di trattamento nella fabbrica. Gli ordini vengono assegnati ad altri paesi che Nike reputa meno problematici.
o
Nel 2002 i lavoratori della fabbrica messicana Mexmode, che produce per una dozzina di università USA
abbigliamento sportivo a marchio Nike, riescono con il sostegno degli studenti americani, dopo mesi di intimidazioni e
di violenze subite, a far riconoscere il proprio sindacato e a firmare un contratto collettivo apripista per le zone franche
del Messico, che fra aumenti diretti e incentivi aumenta le paghe del 40%. Messa alle strette dalla grande campagna
mediatica, Nike si dichiara disponibile a favorire il nuovo corso sindacale presso il suo fornitore.
o
Durante le Olimpiadi di Sydney 2000 due ricercatori americani vivono per un mese in un quartiere di Jakarta
condivivendo il tenore di vita dei lavoratori di Nike che vi abitano in gran numero (iniziativa “Olympic living wage
project”). Al rientro a casa, dimagriti di 9 chili ciascuno, dichiarano: “Non si può vivere con il salario di Nike, abbiamo
trascorso un mese tormentati dai morsi della fame. E’ scandaloso che per un reddito che non copre neppure i bisogni
vitali si obblighino i lavoratori a turni fino a 15 ore al giorno”. Nei mesi successivi arriva dall’Indonesia la notizia che
Nike ha tolto gli ordini alle fabbriche i cui operai avevano fornito informazioni ai ricercatori americani.
o
Nel 2000 Nike viene condannata dalla Corte Federale di Melbourne al pagamento di 15 mila dollari australiani per
aver violato la legge di tutela dei lavoratori a domicilio, che in Australia nel solo settore delle confezioni sono oltre 300
mila. Il sindacato tessile australiano aveva sottoscritto nel 1997 un codice di condotta che le associazioni imprenditoriali
ma non era riuscito a ottenere l’adesione di imprese come Nike e Adidas che negavano l’esistenza di lavoro a domicilio
nella loro catena produttiva. Il sindacato ha portato in tribunale le prove di lavoratori impegnati nelle proprie case in
Australia nella produzione di abbigliamento 7 giorni alla settimana per 12-18 ore al giorno per un terzo del salario
minimo legale. Adidas è arrivata a una conciliazione, Nike si è sempre rifiutata di farlo, e nonostante la sentenza
avversa non ha mai voluto sottoscrivere il codice di condotta.
o
indonesiana PT Lintas, licenziato insieme ad altri attivisti per aver fondato un sindacato. Haryanto aveva già perso
alcune dita in seguito a infortunio sul lavoro. Le pressioni si sono concluse con la riassunzione del sindacalista dopo che
Nike ha ceduto alle richieste per un suo intervento diretto sul fornitore.
DIRITTI DEI CONSUMATORI
o
Nel marzo 2009 l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato ha avviato un procedimento nei confronti di
Nike Italia a riguardo di una pratica commerciale scorretta messa in atto dalla campagna pubblicitaria del prodotto
“Nike +”, un accessorio da acquistare per le calzature sportive capace di misurare i passi e l’intensità di allenamento.
Secondo la segnalazione dell’Unione Nazionale dei Consumatori, sia sul messaggio pubblicitario che sul sito internet, si
ometteva l’indicazione della durata della batteria del prodotto e dell’impossibilità di sostituirla una volta esaurita.
o
Nel 1998 Marc Kasky, attivista di San Francisco, intenta causa a Nike per pubblicità ingannevole e false
informazioni ai consumatori, sulla base di una legge dello stato della California che consente ai singoli cittadini di
costituirsi in giudizio per tutelare gli interessi della comunità. Nike è accusata di mentire in interviste e comunicati
stampa sulle reali condizioni di lavoro nei suoi stabilimenti asiatici. Nike si difende sostenendo che le dichiarazioni
pubbliche di un’azienda sono protette dal diritto costituzionale alla libertà di espressione. La tesi della multinazionale è
respinta dalla Corte Suprema che nel settembre 2003 dichiara il ricorso ammissibile. Nike preferisce patteggiare con
Kasky la cifra di 1,5 milioni di dollari piuttosto che affrontare il giudizio.
o
I fondi di investimento Valori Responsabili di Etica Sgr, che fanno capo alla Banca Popolare Etica, hanno
rinunciato nel 2004 ad investire nelle azioni di Nike e Adidas, nonostante il parere favorevole di Ethibel, consulente
etico dei fondi, che ha giudicato migliorato l’impatto sociale delle due multinazionali nei paesi emergenti in seguito
alle pressioni della società civile.
RISPETTO DELL’AMBIENTE E DELLE COMUNITA’ LOCALI
o
Nell’ambito della campagna Detox, Greenpeace pubblica nel 2011 il rapporto “Panni sporchi” sull’inquinamento
dei due maggiori fiumi cinesi provocato dalle lavorazioni tessili. I risultati delle analisi indicano la presenza di
alchilfenoli e composti perfluorurati, sostanze usate in alcune fasi della produzione tessile e considerate pericolose
perché alterano il sistema ormonale umano e agiscono anche a basse concentrazioni. Tra i marchi internazionali
coinvolti compaiono Nike, Adidas, Puma, Calvin Klein, H&M.
° Il rapporto “Slaughtering the Amazon”, pubblicato nel giugno 2009 da Greenpeace, denuncia che molti marchi di
calzature, fra questi Nike, si riforniscono da tre grandi gruppi brasiliani proprietari di macelli e concerie di pelli di
bovini che acquistano da allevamenti illegali situati in aree deforestate all’interno dell’Amazzonia dove si pratica anche
lavoro in stato di schiavitù. A fine luglio 2009 Nike annuncia una nuova politica di acquisti della pelle bovina
concordata con Greenpeace.
o
Nel 2004 Nike, assieme ad altre imprese, ha sponsorizzato un’iniziativa dell’associazione degli industriali tesa a far
cambiare una legge della California che puniva i reati ambientali delle imprese.
o
Nike ha programmato l’eliminazione dell’uso di PVC e composti organostannici nei propri prodotti. Tuttavia,
un’analisi condotta da Greenpeace su una scarpa da ginnastica della Nike ha rilevato la presenza di questi composti.
PARADISI FISCALI
o
Nike ha filiali in Corea del Sud, Filippine, Hong Kong, Libano, Malaysia, Singapore, Svizzera, considerati paradisi
fiscali dalla legislazione italiana.
TRASPARENZA
o
La filiale italiana non ha risposto al questionario per la stesura della Guida al vestire critico.
VARIE
o
Nike è membro di USCIB (United States Council for International Business), un’associazione che sostiene gli
interessi delle imprese di fronte ai politici americani ed europei, alle Nazioni Unite e ad altri organismi internazionali.
o
Nike partecipa al World Economic Forum, un’organizzazione che ha l’obiettivo di fare incontrare i rappresentanti
delle multinazionali e dei paesi più potenti per definire le politiche economiche mondiali più consone agli interessi delle
imprese.
o
Nike è tra le imprese che finanziano i partiti statunitensi. Nel 2002 ha speso a tale scopo 100 mila dollari, tutti
indirizzati al partite repubblicano.
o
Nel 2005 la magistratura francese ha avviato un’indagine per falso nei confronti di tre dirigenti di Nike Francia per
pagamenti in nero ad alcuni giocatori della squadra di calcio Parsi-Saint Germani, sponsorizzata da Nike. Secondo
l’accusa l’operazione illegale tendeva a favorire l’evasione fiscale e l’evasione contributiva.
o
Nel 2004 Nike è stata condannata da un tribunale cinese per violazione dei diritti di proprietà intellettuale per aver
copiato l’idea di un artista cinese a scopi pubblicitari. Nike, che ha presentato ricorso, dovrà pagare un’ammenda pari a
27 mila euro all’illustratore cinese.
o
Nike ha chiesto al governo cinese di svolgere indagini per risalire alla fonte (cinese) di una voce circolata nella rete
web che ipotizzava un intervento della multinazionale nella decisione dell’atleta prediletto dai cinesi, Liu Xiang, di
ritirarsi dalle Olimpiadi di Pechino 2008, ufficialmente a seguito di infortunio. Nike, top sponsor dell’atleta, avrebbe
temuto le conseguenze sui propri investimenti di un cattivo risultato in gara. Le conseguenze di un gesto del genere in
un paese come la Cina sono facilmente immaginabili.
o
Nel 2003 il patrimonio personale del presidente e fondatore di Nike, Phil Knight, è aumentato per un valore pari a 7
volte quanto hanno guadagnato in un anno tutti i lavoratori impiegati nelle sue fabbriche in giro per il mondo.
Comportamenti responsabili
TRASPARENZA
o
Nel 2005 Nike ha fornito la lista completa dei suoi fornitori. E’ stata la prima multinazionale del settore ad aver
compiuto questo passo, ma la decisione è arrivata dopo 10 anni di pressioni dei consumatori di tutto il mondo. Negli
ultimi anni pubblica periodicamente una sintesi dei risultati delle ispezioni condotte presso i suoi fornitori. E’ più aperta
al dialogo con ong e sindacati che non in passato e si rende maggiormente disponibile a intervenire ogni volta che
risulta coinvolta in un caso urgente diffuso dalla Clean Clothes Campaign.
o
Nel secondo rapporto sulla responsabilità sociale, pubblicato nell’aprile 2005, Nike dichiara di avere effettuato
controlli in 569 fabbriche di suoi fornitori con i seguenti risultati: in oltre il 25% delle fabbriche del sudest asiatico sono
stati rilevati abusi verbali e fisici, tra il 25 e il 50% delle fabbriche in quella regione pongono restrizioni all’uso delle
toilette e alla possibilità di bere acqua nell’orario di lavoro. In oltre la metà delle fabbriche del sudest asiatico e nel 25%
delle fabbriche sparse per il mondo, l’orario normale di lavoro supera le 60 ore settimanali. Il rapporto, che pure non si
sofferma sull’aspetto salariale e delle libertà sindacali, è stato salutato da sindacati e ong come un passo avanti sulla
strada della trasparenza da parte della multinazionale.
o
Nel 2007 Nike ha presentato il suo terzo rapporto sulla responsabilità sociale assumendo l’impegno prioritario di
eliminare, entro il 2011, l’abuso di ore straordinarie di lavoro in tutte le fabbriche dei suoi fornitori che sono oltre 700.
Riguardo all’efficacia delle ispezioni tradizionali, giudicate valide per rimediare alle violazioni del codice di condotta,
ma inefficaci per prevenirle, Nike afferma di aver elaborato un nuovo strumento di analisi del management nelle
fabbriche dei fornitori, finora sperimentato in 42 casi, e di avere in programma una campagna educativa sulla gestione
delle risorse umane, in particolare sui diritti dei lavoratori. Nei programmi anche la riduzione delle sostanze chimiche
nocive nella lavorazione delle scarpe. Neil Kearney, segretario generale del sindacato tessile internazionale ha
commentato positivamente le buone intenzioni contenute nel rapporto, ma ha fatto notare come i grandi marchi debbano
rivedere profondamente le loro politiche commerciali per garantire ai fornitori tariffe di commessa adeguate, tempi di
consegna realistici, rapporti di lunga durata.
DIRITTI DEI LAVORATORI
o
Nel giugno 2011 viene siglato in Indonesia il primo accordo di settore sui diritti sindacali fra i sindacati indonesiani
del tessile-abbigliamento e calzature, i principali marchi dello sport fra cui Adidas, Nike e Puma, e i loro maggiori
fornitori: un accordo che definisce gli obblighi che i fornitori e i committenti internazionali devono assumere affinché
sia garantita nelle fabbriche indonesiane l’agibilità sindacale per consentire alle organizzazioni dei lavoratori di avviare
contrattazioni collettive. L’accordo è il risultato di due anni di trattative nel quadro della campagna di pressione
internazionale Play Fair per i giochi olimpici di Pechino 2008 (Clean Clothes Campaign, Campagna Abiti Puliti)
o
Nel luglio 2010 Nike cede alle pressioni internazionali, tra cui quelle di alcune decine di università americane, e
accetta di versare 1,5 milioni di dollari per un fondo a sostegno di 1.800 lavoratori licenziati da due suoi fornitori in
Honduras che nel 2009 cessano improvvisamente l’attività senza corrispondere ai dipendenti le ultime retribuzioni e il
trattamento di fine rapporto. L’accordo negoziato col sindacato impegna Nike inoltre a garantire l’assistenza sanitaria
per un anno e a dare priorità all’assunzione di questi lavoratori presso i propri fornitori indonesiani (Clean Clothes
Campaign, Maquila Solidarity Network)
o
Nel 2008 Nike ha annunciato alla Clean Clothes Campaign l’intenzione di rivedere il suo codice di condotta (entro
la fine del 2008) incorporando nello stesso l’espresso riferimento alle convenzioni dell’OIL e alla Dichiarazione
universale dei diritti umani, misure volte a favorire condizioni di lavoro dignitose in paesi che limitano per legge
l’associazione sindacale e la contrattazione collettiva, il requisito di contratti di lavoro stipulati in forma legale. Non ha
tuttavia ancora preso posizione su un tema portante: la congruità delle retribuzioni.
o
Nel luglio 2008, nell’ambito di un incontro organizzato dalla Campagna Play Fair 2008 con i grandi marchi dello
sport, Nike si è impegnata a partecipare a un gruppo di lavoro congiunto con altre aziende concorrenti, con le
organizzazioni sindacali e non governative, allo scopo di individuare strumenti per promuovere la libertà sindacale e il
miglioramento delle condizioni retributive in tutto il settore produttivo.
o
Nel 2007 Nike si è dissociata, insieme ad altre nove multinazionali, dalla presa di posizione delle Camere di
commercio statunitense ed europea in Cina, contro la proposta di legge (poi divenuta legge) del governo di Pechino, che
prevedeva un miglioramento sostanziale delle condizioni di lavoro nelle fabbriche cinesi. Le dieci multinazionali hanno
tuttavia espresso perplessità rispetto ad alcune parti della legge. Nike, in particolare, teme la stabilizzazione dei rapporti
di lavoro e non si discosta dal criterio del salario minimo legale.
o
A fine 2007 la lotta dei lavoratori della fabbrica Star in Honduras, che aveva licenziato 55 iscritti al sindacato
subito dopo la sua registrazione, termina in modo positivo dopo che Nike è sollecitata a intervenire presso il suo
fornitore. Un accordo sottoscritto fra tutte le parti reintegra i lavoratori licenziati e avvia un confronto per la risoluzione
delle altre questioni aperte.
RISPETTO DELL’AMBIENTE E DELLE COMUNITA’ LOCALI
o
Nike utilizza cotone biologico, sia pure in percentuali minime, nel 47% dell’abbigliamento di cotone. Ha in
programma di utilizzare il 5% di cotone biologico in tutti i prodotti di cotone entro il 2010.
o
Nike, Adidas e Gap scrivono nel luglio 2009 al segretario di stato americano per esprimere preoccupazione per la
situazione politica che si è venuta a creare dopo il colpo di stato in Honduras, paese nel quale sono localizzati alcuni
loro fornitori, e per chiedere che le libertà democratiche siano ripristinate senza ricorrere all’uso della forza.
(Fonte: Clean Clothes Campaign/Campagna Abiti Puliti, Guida al vestire critico 2006, RSI News, The Guardian,
Nikewatch Campaign, Oppidum, sito Nike, Greenpeace, Maq uila Solidarity Network)
RAGGIO VERDE
SCHEDA ANALITICA
Marchio: E COTTON / BE COTTON
Società: COOPERATIVA RAGGIO VERDE
Presentazione
La Cooperativa Raggio Verde nasce nel 1997 a Cossato (Biella) per iniziativa di un gruppo di ragazzi che, al termine
del servizio civile, decidono di continuare a lavorare insieme per promuovere valori condivisi quali lo sviluppo
sostenibile e il commercio equo e solidale. Attualmente la cooperativa gestisce sei botteghe del mondo, segue tre
progetti di importazione, uno in Mozambico, uno in Brasile e uno in Kenya. Fornisce servizio di catering e gestisce
distributori automatici con prodotti equo-solidali. Ha creato lavoro per 18 giovani in Italia e per qualche centinaio di
persone nel sud del mondo.
Il Raggio Verde propone una linea di t-shirt da personalizzare (marchio E-COTTON), realizzata da un consorzio di
commercio equo in Bangladesh, e una linea di abbigliamento (marchio BE-COTTON), realizzata con cotone biologico
tessuto e confezionato nel distretto tessile di Biella.
LINEA E-COTTON
E-Cotton è la maglietta in cotone di commercio equo-solidale, prodotta in Bangladesh da artigiani e cooperative
indipendenti con il sostegno di Aarong, consorzio che fornisce servizi a più di 30 mila lavoratori (85% donne), da anni
inserito nel circuito equo-solidale e importante fornitore di CTM Altromercato. Aarong nasce e opera come
ramificazione commerciale di BRAC, un’organizzazione umanitaria impegnata nella riduzione della povertà e il
sostegno ai poveri e alle donne, in particolare nelle aree rurali. La maglietta E-Cotton, disponibile in 10 colori, è stata
ideata per fornire uno strumento promozionale, trasparente e di qualità sociale, per le attività di organizzazioni o per la
diffusione di campagne. Il Raggio Verde fornisce a questo scopo, su richiesta, i servizi di ideazione grafica, stampa e
imballaggio, realizzati in laboratori artigianali e cooperative sociali della provincia di Biella.
-
-
LINEA BE-COTTON
Il progetto BE-Cotton nasce per rispondere a un’esigenza sempre più avvertita dai consumatori consapevoli, quella di
riuscire a coniugare nell’atto dell’acquisto il rispetto dei diritti umani e il rispetto dell’ambiente. Il cotone con cui
vengono prodotti i capi BE-Cotton proviene dalle piantagioni Maikaal (India), dove dal 1991 si pratica la coltivazione
del cotone secondo criteri di agricoltura biodinamica. Sono più di mille (anno 2005) i lavoratori occupati nella
coltivazione e trasformazione di cotone biologico del progetto Maikaal. Un lavoro che si fonda sul principio “lavorare
la terra per farla vivere”. Il consorzio BioRe (Svizzera) garantisce l’importazione di cotone coltivato secondo criteri
ecologici e sociali, privo in ogni fase di lavorazione di trattamenti chimici nocivi e inquinanti. Il cotone viene poi
trasformato in Italia, nel distretto tessile di Biella, oggi in crisi produttiva, lungo una filiera completamente trasparente:
la filatura è realizzata dal maglificio Ren di Cossato, fondato nel 1977;
tintoria e finissaggio sono eseguite dalla ditta Fin.Ma di Gaglianico (BI), fondata nel 1986, che opera in
conformità con i requisiti ecologici Oeko-Tex Standard 100);
taglio e sviluppo modelli sono affidati alla Sitiemme di Bienna (BI), impresa artigiana fondata nel 1985 dalle
due titolari, uniche lavoratrici della ditta.
Si occupa della confezione dei capi la Confezioni Belmond di Quaregna (BI), piccola azienda a conduzione
familiare fondata nel 1976, specializzata nella confezione di capi sportivi e maglieria intima per le aziende biellesi del
territorio limitrofo. La Belmond ha dieci dipendenti e il lavoro – dichiara il Raggio Verde nel suo sito – si svolge nel
rispetto delle persone e dell’ambiente.
Progettazione, logistica e distribuzione sono curate dal Raggio Verde.
(notizie tratte dal sito: www.raggioverde.com)