Windsor Park Hotel (terza parte) - Il blog di Ernesto - Il mio blog

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Windsor Park Hotel (terza parte) - Il blog di Ernesto
XIV
Il nome dell’albergo è inglese, quindi spero in una cucina internazionale. Prendo l’ascensore e
premo il piano 1,
che individua il nostro piano terra, dato che altri bottoni più piccoli non ci sono e ricordo
precedenti esperienze all’estero. Chiuse le porte, guardo lo specchi, due manifesti che
pubblicizzano la sala fitness al piano 2 (secondo piano per me indica quello superiore se, come
in Italia, cominciamo a contare da zero) e la pulsantiera. “Cos’ha di strano?”. Oltre alle due file
di bottoni e un po’ di spazio che avanza, oltre al piano terra mancante: ci sono sei pulsanti con
numeri e i piani cominciano con uno e finiscono con sette. Qualcosa non mi torna. 1, 2, 3…
altra fila 5, 6 ,7. Ma dov’è finito il 4? L’ascensore non ha impiegato un tempo maggiore tra il 5
ed il 3. Che ci sia anche qui qualche forma di scaramanzia? Facendo quindi i conti, se hai una
stanza al piano 7, saresti al nostro quinto piano, il che porta a dire che, stando io al 5, sono al
terzo piano.
Il ristorante è al piano terra, vicino alla reception. Posso scegliere liberamente il posto, dato che
non c’è nessun altro. “Perché qui mangiano prima, perché ci sono pochi clienti, o il cibo è poco
gustoso?”. Tanto non ho alternative. Ancora sono un po’ intontito dal
jet-lag
e non ho intenzione di mettermi a cercare un posto dove mangiare a quest’ora ed in un luogo
completamente sconosciuto.
Mi siedo su un divanetto vicino al secondo tavolo dall’ingresso. Più che sedermi, sprofondo: ho
il bordo del tavolo a livello del mento e, penso, mi riuscirà difficile mangiare. La buona notizia à
che sul tavolo ci sono le posate, coltello, forchetta e cucchiaio.
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C’è anche un posacenere sul tavolo, e dentro, l’oggetto del desiderio precedente, una scatola di
fiammiferi. Non solo, ce n’è una in ogni posacenere, su ogni tavolo, e un certo numero su una
tavola di servizio. Bastava riuscire a farsi capire. A scanso di equivoci, mi prendo anche questa
scatolina e me la metto in tasca.
Mentre mi alzo per spostarmi nella poltroncina di fronte arriva una ragazza col menu. Mi siedo e
comincio a sfogliarlo. È molto spesso, ma le pagine sono incollate su fogli cartonati e
plastificate; in pratica ci sono una decina di piatti tra cui scegliere. Molti sono di pesce, c’è
anche la foto, con la scritta in cinese ed in inglese. Nell’ultima pagina, di fronte ci sono una serie
di spuntini veloci (tramezzini, club sandwich e cose simili) ed altri piatti che cercherò di evitare
conoscendo le modalità di cottura che usano di solito al di fuori dell’Italia: spaghetti
bolognaise
e
seafood
spaghetti. In fondo c’è la pizza, con tre possibili ingredienti a scelta tra prosciutto,
bacon
, pomodori, gamberi, calamari, granchio e peperoni. Nel retro bibite, vini e liquori.
Trovo un piatto classico, un piatto di shrimps che, dall’aspetto in foto, non sembrano
particolarmente complicati, anzi sembrano appena scaldati. La ragazza guarda il mio dito che
indica sul menu. “che sia miope?”, penso. Poi capisco il suo leggero imbarazzo; col dito sto
coprendo la scritta che riporta in cinese il nome del piatto scelto. Sposto l’indice e lei legge a
bassa voce nella sua lingua e lo appunta su un foglietto. “
Only this
?”, domanda in un inglese veloce e ricco di accento. “A me sembra più che sufficiente”, penso. “
Yes, only this
one
”, rispondo. Mi prende con garbo il menu dalle mani e sparisce fuori dalla sala.
Tenendo conto che siamo in un ristorante di un albergo, anche con un certo numero di stelle, i
prezzi sembrano abbordabili. Non si superano i 55 yuan che al cambio visto su internet prima di
partire, equivalgono a circa 5 euro e mezzo. Supponendo un cambio “esoso”, da fare in un
posto sicuro come la reception dell’albergo, possiamo immaginare che non superiamo i 7 euro.
La tovaglietta su cui poggiano le posate è di carta, ed è niente di più che la cartina della zona,
con l’albergo, il municipio, il mare. Più tardi cercherò su Google la mappa della zona e
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approfondirò. La poltrona su cui sono seduto non è molto più alta del divanetto, ma stando con
le spalle diritte, mezzo sterno riesco a portarlo sopra il livello del tavolo. “Sono mediamente
bassi, i cinesi, eppure hanno i tavoli così alti!”. Sarà per utilizzare le bacchette ed arrivare prima
alla bocca.
Ma a me le spalle si incurvano lo stesso. Sono qui, solo, in un paese lontanissimo da casa, in
un orario in cui avrei dovuto pranzare e sto per cenare. Chissà cosa staranno facendo i miei
ragazzi a Roma? L’ultima volta che li ho visti è stato il giorno prima di partire, nel nostro
ristorante di fiducia, dove si parlava la nostra lingua e si mangiavano piatti di cui conoscevamo il
gusto fino in fondo. Ci siamo lasciati lì, scherzando di un’allegria piena di commozione, non
volendo pensare ad una lunga separazione e alle preoccupazioni reciproche. I miei figli non
esprimono, come me, a parole, i loro sentimenti, e, spesso, cercano di mascherarli, dietro una
battuta, un atteggiamento superficiale, un discorso sul niente. Eppure so che mi vogliono bene,
a modo loro, come io gliene voglio, anche se non ce lo diciamo spesso. E anche oggi mi
mancano, come ogni giorno.
Sono immerso in questi pensieri quando la cinesina mi depone gentilmente il piatto sulla tavola.
Sorride e se ne va, senza fare rumore, così come era arrivata.
Sembrano cotti appena, al vapore immagino, questi gamberi. Prendo forchetta e coltello e
comincio l’opera, costante e continua, di togliere la testa, poi la coda e quindi aprire il resto. La
ragazza è tornata con una ciotolina di salsa di soia. Il primo gambero lo mangio senza
condimento; è saporito, pur non impreziosito da nessun aroma particolare, neanche da quel
prezzemolo un ciuffetto del quale è, solo per ornamento, al centro del piatto. Poi comincio a
mangiarli intingendoli nella salsa, che ne cambia un po’ il sapore, ma che ci sta bene.
Dalla reception le altre due ragazze guardano la mia opera certosina. Loro forse si chiedono
perché uso forchetta e coltello per mangiarli, io mi sto chiedendo come li mangerebbero loro
con le bacchette.
La fame è tanta, ma mi rimane difficile finirli, anche se sono gustosi. E poi sto mangiando senza
pane (non può che far bene al mio sovrappeso) e senza bere. “Domani chiederò una bottiglia
d’acqua”. Al pane ci ho rinunciato prima di partire, ma almeno l’acqua.
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Mi alzo e vado verso il banco delle ragazze. E’ già pronta la ricevuta. Mi chiedono se ho gradito
la cena, rispondo positivamente e ringrazio. Chiedo di non pagare al momento, dato che non ho
valuta locale e di addebitare la cena sulla mia stanza. Il mio contratto prevede vitto, alloggio,
lavanderia e quant’altro a spese del mio cliente per tutta la permanenza in questo paese. Sarà
bene che eviti di espormi finanziariamente e dover successivamente esporre ricevute in lingua
straniera, assumermi il rischio di cambio. E’ chiaro che le cifre in ballo non sono notevoli, ma è
meglio stare tranquilli.
Le ragazze, amabilmente, mi augurano la buonanotte. Sono le venti e trenta, ora locale, io sono
ancora intronato, ma almeno una sigaretta me la voglio fumare. Vado fuori. La serata è calma, il
traffico scarso, anche per i lavori sulla strada, davanti e a fianco l’albergo, sono solo, lontano da
casa e dalle persone che amo. Nessun programma per la serata, nessuna informazione
sull’inizio dei lavori, con una lunga notte davanti, la mia prima notte in Cina.
4/4