l`analisi etnografica di un - Università di Modena e Reggio Emilia
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l`analisi etnografica di un - Università di Modena e Reggio Emilia
Dal ridere lavorando, al lavorare giocando. Processi di costruzione di identità organizzativa: l’analisi etnografica di un’azienda di Graphic Design. Fabrizio Montanari Università di Modena e Reggio Emilia Nicola Bigi Università di Bologna1 Come già ampiamente approfondito all’inizio della presente raccolta di saggi, la teoria dell’organizzazione costituisce un corpus ampio e variegato, contraddistinto dalla presenza di diversi modi di concepirla. Queste diverse concezioni riflettono differenti scelte epistemologiche riconducibili essenzialmente alle posizioni di fondo espresse nel dibattito epistemologico delle scienze sociali (Maggi, 1990). In estrema sintesi, ad una prima concezione che interpreta l’organizzazione come un sistema (meccanico o organico) predefinito rispetto agli attori che vi partecipano, si contrappone una seconda che vede l’organizzazione sì come un’entità concreta, ma in continuo divenire e definibile solo a posteriori in base al configurarsi delle interazioni dei singoli attori organizzativi. Questi diversi modi di interpretare le realtà organizzative esprimono anche diverse modalità di analizzarle. In particolare, la prima concezione implica la possibilità di spiegare rapporti necessari, determinati da principi universalmente validi, oppure rapporti probabili basati sulla generalizzazione di casi particolari; la seconda, invece, prevede la possibilità di conoscere in modo approfondito la realtà organizzativa attraverso l’analisi di esperienze concrete e particolari, ma di più difficile generalizzabilità (Maggi, 1990). In questo ipotetico continuum fra una logica di sistema ed una dell’attore, il presente contributo si colloca verso il secondo estremo, in quanto ne condivide l’assunto di fondo in base al quale la realtà organizzativa può essere analizzata e interpretata attraverso lo studio delle interazione dei singoli soggetti organizzativi. Ciò che ci proponiamo di fare in questo intervento è, dopo aver esplicitato l’approccio del metodo seguito, affrontare il tema dell’identità organizzativa attraverso l’analisi di un caso di studio. In particolare, analizzeremo una piccola azienda di graphic design (che chiameremo Coliandro) di Reggio Emilia. I dati sono stati raccolti durante dieci mesi di ricerca etnografica sul campo 1 [email protected] , [email protected]. Gli autori desiderano ringraziare Giulia Battilani per il prezioso aiuto nel raccogliere e analizzare i dati. 1 (Febbraio - Dicembre 2006) attraverso l’utilizzo di riprese audio e video, la trascrizione di note etnografiche e la conduzione di interviste in profondità. LA LOGICA DELL’ATTORE Dal sistema al soggetto Come anticipato precedentemente, all’interno degli studi organizzativi è possibile individuare due principali approcci in qualche modo antitetici. Il primo è legato ad una concezione di organizzazione come sistema, in base alla quale si cerca di analizzare le relazioni esistenti tra variabili oggettive e misurabili. Di conseguenza, anche i metodi di analisi sono legati soprattutto all’utilizzo di strumenti matematici e statistici (Piccardo e Benozzo, 1996). Il secondo approccio pone maggiore attenzione alla natura umana dei sistemi sociali, cioè si concentra su come gli individui si pongono nei confronti di un’organizzazione, come la percepiscono, la interpretano e la trasformano in funzione del loro punto di vista soggettivo. L’organizzazione viene concepita, quindi, come una realtà sociale, in quanto esiste solo nella misura in cui le persone la percepiscono in quanto tale e le danno un significato (Ravagnani, 1996). Di conseguenza, dal punto di vista metodologico l’analisi scientifica viene portata a livello soggettivo in modo da capire i meccanismi attraverso cui gli individui percepiscono l’organizzazione e le danno un senso. L’idea che l’organizzazione può essere concepita come il prodotto dei membri stessi dell’organizzazione si basa sulle teorie legate alla costruzione sociale della realtà, secondo cui gli individui le danno senso e ne vengono a loro volta influenzati (Berger e Luckmann, 1967). Karl Weick (1995) prova a fondere tale approccio con una visione più cognitivista sull’organizzazione. I suoi studi, infatti, hanno l’obiettivo di capire come funziona il processo di sensemaking2 da parte degli attori organizzativi. Un aspetto fondamentale del sensemaking è che si tratta di un’attività che i soggetti fanno dopo che si manifestano eventi inaspettati, dando senso a ciò che è avvenuto. Si studia, quindi, come effettivamente i soggetti contribuiscono a creare la realtà, che costituirà poi le basi per interpretare i futuri eventi inaspettati: “Il risultato pratico di questa teoria, che spiega il grande successo di Weick anche presso il pubblico manageriale, consiste in una maggiore e più realistica comprensione del comportamento organizzativo, in cui all’attore vengono riconosciuti il diritto e la libertà di agire e prendere decisioni senza necessariamente essere vincolato a schemi di razionalità, obiettivi, utilità e altre 2 Il sensemaking è definito da Karl Weick (1995) come l’attività che i soggetti appartenenti all’organizzazione compiono continuamente dinnanzi a fatti “inaspettati”. Questo processo è alla base delle costruzione del senso di una organizzazione. Il sensemaking è successivo ad un evento “sorprendente” ed è quindi un fare retrospettivo ma, contemporaneamente, contribuisce a “costruire” il futuro. 2 gabbie imposte da teorie superatomistiche del ruolo del manager: l’attività dell’organizzazione è al contempo molto più complicata di quanto si speri e molto meno vincolata di quanto si tema” (Ravagnani, 1996: 213). Nella letteratura più recente, da Weick (1979) in poi, si sostiene la quasi-impossibilità di comprendere il comportamento organizzativo sulla base di schemi e prescrizioni riconducibili alla organizzazione formale. In modo schematico si può sottolineare come emerga l’esigenza di affermare la preminenza del processo organizzativo sul risultato (la struttura), nella consapevolezza che tale processo fatto di sensemaking, rappresentazioni elaborate, scambiate e condivise, influenzi, se non proprio produca, ciò che l’organizzazione è/sta per diventare anche in termini di struttura. In questo senso svolgono un ruolo fondamentale le interazioni tra i diversi soggetti. Il concetto di interazione è alla base di molte interpretazioni classiche della sociologia, da Marx a Weber e soprattutto Durkheim, secondo il quale le forme di interazioni tra individui determinano i simboli e le credenze morali, i quali, a loro volta, riassemblano la struttura sociale. In campo organizzativo riconoscere l’importanza delle interazioni significa non solo enfatizzare l’esistenza di un’organizzazione informale contrapposta a quella formale, ma sopratutto ribadire che anche gli aspetti più formali non esistono in sé, ma solo nella misura in cui gli attori organizzativi giungono ad una visione condivisa. In queste dinamiche svolgono un ruolo critico i processi cognitivi, quali ad esempio l’attribuzione, i frames, le categorie e le mappe cognitive (Gioia e Sims, 1996). In estrema sintesi, l’idea fondamentale è che siano gli individui e i gruppi, attraverso le interazioni sociali e gli scambi di interpretazioni, a plasmare l’organizzazione, generare significato condiviso, produrre linguaggi e visioni comuni che permettono di conoscere l’ambiente circostante e di “padroneggiarlo”. Dato l’interesse suscitato da questo approccio, molti ricercatori si sono concentrati anche sull’evoluzione delle metodologie di studio. Per esempio, Gioia (1986) sottolinea come, per capire il sensemaking, sia fondamentale utilizzare un più ampio repertorio di metodi di analisi, incluso approcci fenomenologici, interpretativi, etnografici, umanisti e strutturalisti. In altre parole, un approccio che usi le metodologie indicate da Gioia vuole importare definizioni e metodi già applicati in decenni di ricerche in altri ambiti, al contesto organizzativo, pensando che, nel momento in cui l’organizzazione è costituita da esseri umani, allora si possono sfruttare le competenze delle discipline che si sono sempre occupate dell’interazione fra soggetti e del loro effetto sul sistema culturale in cui sono immersi e che contribuiscono a modificare (Eco, 1975, 1990; Violi, 2006). In particolare, ai fini della presente ricerca abbiamo adottato un metodo etnografico. Il ricercatore ha vissuto 3 “dentro” l’organizzazione per dieci mesi, durante i quali è riuscito a cogliere problematiche che non sarebbero state visibili con altre metodologie. Il nostro lavoro ha ovviamente le limitazioni normali di questo tipo di ricerche, legate principalmente alla difficoltà di generalizzare i risultati (Bate, 1997). Inoltre, come è stato notato più volte in letteratura (e.g. Bate, 1997; Boyce, 1996), un altro limite riguarda più in generale i problemi legati all’approccio basato sull’osservazione partecipata come, ad esempio, la soggettività del ricercatore o la possibilità di influenzare il comportamento dei membri dell’organizzazione studiata. Il corrispettivo di questi limiti è rappresentato dal fatto che tale tipo di ricerche permettono di aumentare la profondità di analisi fornendo risultati molti ricchi e accurati, che possono essere confrontati con altri tipi di ricerche simili e, soprattutto, possono essere utilizzati come dati di partenza per ricerche più di tipo quantitativo. L’APPROCCIO NARRATIVO Proprio in virtù del bisogno di ampliare i metodi di analisi, ci siamo concentrati sul paradigma narrativo. L’approccio narrativo applicato agli studi organizzativi è sintomatico di un più generale spostamento verso un “paradigma” narrativo di molte discipline. Prima di entrare nello specifico ci pare opportuno presentare una sintetica analisi di tale “spostamento”. La prospettiva narrativa nasce dalla convinzione che la principale modalità attraverso la quale l’individuo organizza la propria conoscenza del mondo, e di sé, sia rappresentata dalla narrazione: è attraverso l’atto del raccontare che l’essere umano, condividendo ed esprimendo agli altri (dopo che a se stesso) il proprio sapere sulla realtà, struttura il pensiero, definisce la propria identità e attribuisce significato all’esperienza. “Across cultures, narrative emerges early in communicative development and is fundamental means of making sense of experience. Narrative and the self are inseparable in that narrative is simultaneously born out of experiences and gives shape to experience. Narrative activity provides tellers with an opportunity to impose order on otherwise disconnected events, and to create continuity between past , present and imagined worlds. Narrative also interfaces self and society, constituting a crucial resource for socializing emotions, attitudes, and identities, developing interpersonal relationship, and constituting membership in a community” (Ochs, Capps, 1996:2). Con lo spostamento dell’attenzione verso l’interprete (si veda Pisanty e Pellerey, 2004 per un approfondimento) si fa strada l’idea di un uomo come homo narrans (Fisher, 1984), homo fabulans (Boje, 1991) o storyteller (Bruner, 1986). L’affermazione che la modalità narrativa rappresenta una delle fondamentali declinazioni del pensiero umano, possiamo 4 collegarla a Bruner, che individua due stili cognitivi che caratterizzano il pensiero umano: la comprensione paradigmatica e la comprensione narrativa (Bruner 1986). Il primo tipo di pensiero produce conoscenze di carattere generale e sviluppa un tipo di apprendimento finalizzato a verificare i dati della realtà empirica, è un pensiero che procede per deduzione e induzione, ed è teso a puntualizzare il flusso dell’esperienza, a separare, individualizzare, calcolare e comparare (Bruner 1986). La comprensione narrativa, invece, consente una pluralità di rappresentazioni del mondo, in quanto il suo criterio di validazione non è più quello di verità ma il criterio di plausibilità: il pensiero narrativo si fonda attorno all’idea d’intenzionalità e d’azione in sequenze temporali e si manifesta nelle storie, nei drammi e nei racconti attraverso i quali i soggetti esprimono la propria rappresentazione della realtà. Bruner (1986), pone l’accento sulla valenza della narrazione come strumento di interazione sociale, di negoziazione di significati attorno a cui prendono forma visioni del mondo condivise e istituzionalizzate. Nel suo rapporto sul sapere nelle società post-moderne, Jean-François Lyotard (1986) parla di come il sapere scientifico non rappresenti tutto il sapere, e di come esso in realtà sia sempre stato “accompagnato”, in competizione e in conflitto, da un altro tipo di sapere: quello narrativo. Il racconto è la forma per eccellenza di questo sapere. Sul lato più “sociologico” Barthes (1969) ci ricorda la centralità sociale della narrazione, sostenendo che essa consente agli individui di definire chi sono e che cosa stanno facendo. A proposito del racconto così si esprime Roland Barthes: Innumerevoli sono i racconti del mondo. In primo luogo una varietà prodigiosa di generi, distribuiti a loro volta secondo differenti sostanze come se per l’uomo ogni materia fosse adatta a ricevere i suoi racconti: al racconto può servire da supporto il linguaggio articolato, orale o scritto, l’immagine, fissa o mobile, il gesto e la commistione coordinata di tutte queste sostanze; il racconto è presente nel mito, le leggende, le favole, i racconti, la novella, l’epopea, la storia, la tragedia, il dramma, la commedia, la pantomima, il quadro [....], le vetrate, il cinema, i fumetti, i fatti di cronaca, la conversazione, ed inoltre sotto queste forme quasi infinite, il racconto è presente in tutti i luoghi, in tutte le società: il racconto comincia con la storia stessa dell’umanità; non esiste, non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconti; tutte le classi, tutti i gruppi umani hanno i loro racconti e spesso questi racconti sono fruiti in comune da uomini di culture diverse, talora opposte: il racconto si fa gioco della buona e della cattiva letteratura: internazionale, trans-storico, transculturale, il racconto è come la vita”. (Barthes, 1969: 112). In sintesi, la narrazione può essere interpretata come il principio che organizza l’azione umana e che guida il pensiero all’azione: la narrazione è il processo tramite il quale 5 l’individuo dà forma al proprio essere nel mondo, costruendo significati rispetto a se stesso e al contesto in cui vive. L'importanza della narratività negli studi organizzativi è stata riconosciuta da numerosi studiosi (e.g., Boje, 2001; Boyce 1996; Brown, 2006; Czarniawska, 1997, 1998). La narratività può essere considerata come genere fondamentale che organizza il senso con cui i membri di un’organizzazione pensano ad essa e con cui interagiscono tra loro. Ogni organizzazione, infatti, produce narrazioni sotto forma di storie che legano eventi ad eventi in una forma di rappresentazione che ha un inizio, un centro e una fine (Van Maaren, 1998). L’analisi narrativa, quindi, vede le narrazioni come strumento per la creazione e lo scambio di significati all’interno delle organizzazioni (Czarniawka, 1997), consentendo di indagare da una prospettiva differente i fenomeni organizzativi. Tale approccio permette anche di rendere conto della molteplicità delle voci e delle prospettive che non solo possono coesistere all’interno della stessa organizzazione, ma possono anche dare vita a visioni della realtà spesso contrastanti. Sovente, in ogni organizzazione accanto ad una storia “ufficiale”, sostenuta e diffusa dai vertici aziendali, esistono altre storie “parallele”, che esprimono le emozioni e i vissuti delle persone rispetto all’ideologia dominante (Boje, 1991). L’approccio narrativo, pertanto, cerca di rendere conto del complesso rapporto fra storie, narratività e i processi di sensemaking. Come notava Weick (1995: 127; trad. nostra), le persone “sono spesso limitate quando provano a dare significato alla vita organizzativa, perché le loro abilità nell’usare la narratività come strumento per interpretare non sono supportate dalle strutture organizzative, normalmente costruite secondo un modello argomentativo”. Le storie, pertanto, possono avere un ruolo molto critico nei processi di sensemaking, perchè conservano la plausibilità e la coerenza della cultura aziendale, sono memorabili, comprendono l'esperienza precedente e le aspettative future, e sono il fondamento per le future costruzioni retrospettive. Un’altra considerazione sul tema del metodo narrativo applicato alle organizzazioni può essere tratta dalla ricerca condotta da Giulio Sapelli in una azienda di medie dimensioni (Sapelli, 1999). Il questo libro l’autore, oltre a ribadire l’importanza delle storie personali e lavorative per l’organizzazione, ricorda come, coerentemente con la tradizione della ricerca antropologica, anche i report delle ricerche condotte con l’approccio narrativo nelle aziende siano anch’essi storie che pertanto devono essere raccontate in modo opportuno. È importante notare che il paradigma narrativo può comprendere una gamma molto ampia di forme narrative, anche molto differenti tra loro, proprio perché la narrazione è un’attività molto presente nella vita dell’uomo. Ad esempio, con riferimento alle organizzazioni, è 6 possibile analizzare la storia istituzionale di un’azienda usando come corpus il suo house organ o altre forme di comunicazione ufficiali, oppure concentrarsi sull’analisi delle mail scambiate tra i suoi membri, oppure su interviste narrative. Ai fini della presente ricerca ci siamo focalizzati sulle storie raccontate spontaneamente durante i pranzi, in quanto “la forma basilare e più universale di narratività non è prodotta da una Musa ispiratrice, ma dalle conversazioni quotidiane” (Ochs, 1997: 185; trad. nostra). In particolare, per analizzare tali dati abbiamo utilizzato la prospettiva dell’antropologia del linguaggio, che già da tempo ha analizzato questo tipo di situazioni non solo in altri contesti sociali (famiglia, amici, etc.), ma anche in contesti organizzativi (Duranti, 1997, 2001; Goodwin 1981; Goodwin e Duranti 1992). Questa prospettiva considera il linguaggio soprattutto come una pratica culturale, “cioè come una forma d’azione che presuppone e al tempo stesso dà vita ai modi essere nel mondo” (Duranti, 2001: 13). Di conseguenza, l’organizzazione è analizzata partendo dal linguaggio, perché non è solo “specchio” più o meno preciso di una certa cultura, ma anche il principale strumento con cui quella cultura è costruita (Goodwin 1996; Ochs e Capps, 2001). Come già affermato in precedenza, questo approccio non è totalmente nuovo agli studi organizzativi, in quanto esistono numerosi studiosi precedenti che hanno adottato questa prospettiva (Rosen 1991, Czarniawska 1992, Linstead 1985, Bate 1997, Gellner e Hirsch 2001, Kamsteeg e Wels 2004). In questo studio, adottiamo l’idea di narratività legata allo storytelling nella concezione di Elinor Ochs (Ochs & Capps, 2001). Quindi, ci concentreremo sulle narrazioni di esperienze personali da parte dei componenti dell’organizzazione. Questa particolare prospettiva sulla narratività è importante perché funge da: “prosaic social arena for developing frameworks for understanding events. Narrative activity becomes a tool for collaboratively reflecting upon specific situations and their place in the general scheme of life” (Ochs e Capps, 2001:2). Ci avvicineremo alla nostra analisi usando le dimensioni narrative sviluppate da Ochs e Capps (2001). Queste dimensioni sono sempre presenti in una narrazione, anche se non palesi, e sta al ricercatore prendere in considerazione quelle, nel caso specifico, più importanti per i propri obiettivi. Le cinque dimensioni sono: tellership, tellability, embeddedness, linearity e moral stance, e, dopo avere analizzato i dati, abbiamo deciso di omettere l’ embeddedness, in quanto poco rilevante ai nostri fini. In particolare, la dimensione di tellership si riferisce a “the extent and kind of involvement of conversational partners in the actual recounting of a narrative (Ochs e Capps, 2001:24); 7 cioè alle modalità con cui la storia è sviluppata in modo più o meno partecipato da un singolo primary teller. Il ruolo del teller è distinto da quello dell'autore: il teller è colui che inizia a raccontare una storia (non necessariamente accaduta a lui in prima persona) e, a seconda della situazione, anche gli ascoltatori (anche quelli apparentemente più silenziosi) possono essere coautori attivi di una narrazione. Abbiamo una bassa partecipazione nel racconto quando il primary teller prevale ed il pubblico è relativamente passivo. Nel caso opposto abbiamo un’alta partecipazione ed il pubblico può, quindi, diventare un coautore della storia. La dimensione della tellability si riferisce al modo in cui una narrazione può essere raccontata e ri-raccontata molte volte senza che ciò diminuisca l’apprezzamento e l’interesse del pubblico. La tellability è riferita non solo alle caratteristiche di “sensazionalità” degli eventi, ma anche all'importanza degli eventi per gli interlocutori, e alle modalità con cui gli eventi sono retoricamente modellati e narrati (Ochs e Capps, 2001). Un'altra dimensione importante nelle narrazioni è la linearity, la quale si riferisce al modo in cui le narrazioni di “personal experience depict events as transpiring in a single closed, temporal, and causal path or, alternatively, in diverse, open, uncertain paths” (Ochs & Capps, 2001:41). In particolare, la linearity consiste di due elementi: la costruzione del tempo e la causalità espressa in una storia. La moral stance, infine, è sia un giudizio sul contenuto della storia e, di conseguenza, anche sul comportamento degli attori della storia (Ochs & Capps, 2001). Le narrazioni quotidiane di esperienze personali codificano, infatti, i codici morali secondo cui vedere il mondo e normalmente tali narrazioni riguardano un protagonista che ha violato determinate aspettative sociali. Raccontando queste violazioni e prendendo una posizione morale verso tali comportamenti “devianti”, si crea un momento per gli individui per condividere ciò che è considerato giusto o sbagliato. Useremo queste dimensioni per analizzare le storie di esperienze personali emerse durante la pausa pranzo. Abbiamo scelto questo momento conviviale perché rappresenta l'unico momento nella giornata lavorativa dove, i componenti dell’organizzazione, possono parlare liberamente senza essere interrotti dal telefono, dai colleghi, o dai clienti. In altri termini è l’unico momento in cui, da un lato, è possibile avere conversazioni lunghe che forniscono più materiale da analizzare, d'altro rappresenta la principale occasione all’interno di una giornata di lavoro in cui i membri di un’organizzazione possono condividere le proprie esperienze e raccontare aneddoti legata alla vita organizzativa. Secondo Ochs e colleghi (1992), avere abbastanza tempo per comunicare ed ascoltare le storie è una condizione indispensabile per permettere alla narrazione di esercitare a pieno il proprio potenziale. 8 HUMOUR E IDENTITÀ ORGANIZZATIVA Il metodo e la metodologia appena descritti sono stati utilizzati per analizzare il ruolo che l’umorismo3 può avere in un’organizzazione. Senza voler addentrarci troppo nel tema (per un’approfondita review si veda, ad esempio, Battilani, Montanari e Bigi, 2007), è opportuno notare come l’analisi dello humour che contraddistingue un posto di lavoro (il cosiddetto workplace humour) può offrire importanti chiavi di lettura per comprendere un’organizzazione, la sua cultura, le sue dinamiche, i suoi conflitti (Gabriel, Fineman e Sims, 2000). In letteratura, esistono numerosi studi che hanno analizzato il ruolo dello humour nei luoghi di lavoro. Ad esempio, gli studi di tipo “funzionalista” tendono ad associare alle forme di umorismo fatte dai dipendenti nei confronti del management (anche quelle più critiche e dure) una funzione positiva, in quanto rappresentano una sorta di “valvola di sfogo” per le tensioni e lo stress che normalmente vengono accumulati nelle interazioni quotidiane (Barsoux, 1993, 1996; Hay, 2000). Al contrario, gli studi critici concepiscono lo humour come un’espressione di disagio e come una manifestazione di resistenza nei confronti della classe dirigente (Ackroyd e Thompson, 1999; Dwyer, 1991; Taylor e Bain, 2003). In questo modo, il workplace humour può divenire la principale modalità attraverso cui i lavoratori possono esprimere insoddisfazione e malcontento nei confronti del gruppo dirigente, fino a diventare un vero e proprio strumento di resistenza (Rodrigues e Collinson, 1995). Altri studi hanno riconosciuto al workplace humour effetti soprattutto di tipo psicologico (Gruner, 1978). Lo humour, ad esempio, può essere usato per cercare di alleggerire il proprio contesto lavorativo. Ciò accade non solo quando si svolgono attività noiose e ripetitive, ma anche in relazione a situazioni più pesanti e di difficile gestione. Ad esempio, alcuni studi hanno mostrato come gli agenti di polizia o del pronto intervento scherzino su suicidi, omicidi, o incidenti gravi (Smith e Kleinman, 1989). Battute e scherzi fatti in questi situazioni svolgono una funzione ben precisa: quella di relativizzare le situazioni estreme che si possono incontrare nello svolgimento del proprio lavoro, in modo da ottenere un effetto benefico sul proprio equilibrio psicologico. Infine, approcci più recenti interpretano l’umorismo come una meccanismo molto importante per i processi di sensemaking (Hatch, 1997; Weick e Westley, 1996), o di creazione dell’identità all’interno dei gruppi (Lennox e Ashforth, 2002). Rifacendoci a quest’ultimo filone teorico, nel presente studio abbiamo adottato una prospettiva dello humour come sensemaking practice: i membri di un’organizzazione 3 Intendiamo con humour un complesso di situazioni che suscitano ilarità e divertimento e che comprendono una moltitudine di fenomeni: scherzi, ironia, paradossi, ecc. 9 possono analizzare le diverse situazioni, selezionarne l’interpretazione preferita e rinforzarla nel corso del tempo attraverso il racconto o il ricordo di risate memorabili (Tracy, Myers e Scott, 2006). In altri termini, il racconto di uno scherzo o di un aneddoto divertente può diventare un potente mezzo per rinforzare l’idea di quali comportamenti sono socialmente accettabili all’interno dell’organizzazione e quali invece no. Coerentemente, lo humour può svolgere un ruolo molto importante nei processi organizzativi di costruzione dell’identità organizzativa, in particolare quando ne diventa un elemento centrale e distintivo. Senza voler trattare in modo esaustivo l’argomento (si veda per una review Ravasi e Schultz, 2006), pare opportuno ricordare che, in generale, il concetto di identità organizzativa si riferisce a come i membri di un’organizzazione si percepiscono rispondendo alla domanda “chi siamo come organizzazione”? (Albert e Whetten, 1985; Ashforth e Mael, 1989; Dutton e Duckerich, 1991). L’identità organizzativa è costituita dagli attributi dell’organizzazione stessa considerati dai suoi membri come centrali, distintivi e duraturi nel tempo (Albert and Whetten, 1985; Gioia, 1998). Recenti contributi hanno evidenziato come il costrutto dell’identità organizzativa sia da essere inteso come il risultato di un processo dinamico piuttosto che un concetto statico ed immutabile (l’adaptive instability di Gioia, Shultz & Corley, 2000). Secondo questa interpretazione, la caratteristica della continuità nel tempo (enduring) dell’identità organizzativa deve essere concepita in modo relativistico a causa dell’instabilità e dell’adattività dei significati che vi sono associati in relazione al contesto di riferimento, e dell’interdipendenza con gli input provenienti dall’esterno, cioè dall’organizational image concepita come il modo in cui i membri dell’organizzazione pensano che gli altri vedano l’organizzazione (costructed external image in Dutton e Duckerich, 1991; projected image in Alvesson 1990, desidered future image in Gioia e Thomas, 1996, reputation in Fombrum, 1996). Pertanto, il concetto di identità organizzativa presenta una forte componente di costruzionismo sociale, in quanto le convinzioni condivise dai membri di un’organizzazione su quali siano le caratteristiche centrali, distintive e durature sono il risultato di continui processi di sensemaking con cui gli stessi membri cercano di dar senso alle loro esperienze per giungere ad una interpretazione condivisa (Corley e Gioia, 2004; Gioia e Chittipeddi, 1991). In questo senso, lo humour, soprattutto quando è percepito come un elemento centrale e peculiare dell’identità di un’organizzazione, può svolgere un ruolo molto importante nei processi quotidiani di costruzione dell’identità organizzativa. Esso, infatti, può diventare 10 uno schema condiviso dai membri dell’organizzazione per interpretare e analizzare le situazioni che possono essere riferite alle immagini organizzative, contribuendo alla ricostruzione quotidiana dell’identità organizzativa LA RICERCA SUL CAMPO Come affermato in precedenza, abbiamo analizzato il caso di “Coliandro”, una piccola agenzia di graphic design composta da 12 dipendenti, oltre che dai 3 soci fondatori di cui uno svolge la funzione di direttore generale. L’azienda analizzata opera su commessa nel campo della grafica pubblicitaria, della regia di videoclip, della post-produzione, della realizzazione di siti web e di edu-game, della edizione di libri sulla grafica e il design. La sede si trova a Reggio Emilia all’interno di un loft ricavato da un ex area industriale. Si tratta di un open-space in cui non esistono uffici. Solamente la persona che si occupa dell’amministrazione e il “direttore” sono in una stanza separata che però non ha pareti divisorie. Nell’open space è presente anche una cucina e una sala per le riunioni dove soci e dipendenti mangiano insieme durante la pausa pranzo. Nello svolgimento delle attività lavorative, i dipendenti hanno un referente per il progetto al quale lavorano; le relazioni lavorative, però, sono assolutamente di tipo orizzontale e informale. La ricerca è basata sull’osservazione, partecipata, alle attività lavorative dell’agenzia svolta nell’arco temporale di 10 mesi (febbraio-novembre 2006), in cui il ricercatore si recava 4 giorni la settimana, per tutta la durata della giornata lavorativa. I dati raccolti sono riprese audio/video di momenti lavorativi, riunioni, pranzi, pause caffé, affiancati da interviste in profondità e note etnografiche. Tutti i membri di Coliandro sapevano che il ricercatore era un dottorando dell’Università di Bologna, che effettuava ricerche sulla loro azienda. Attraverso alcune interviste in profondità è stato possibile delineare i tratti percepiti come unici e distintivi dell’identità organizzativa. Questi sono legati all’idea di lavorare in un ambiente bello, positivo, stimolante e creativo. Un ambiente contraddistinto da relazioni paritarie e dove il libero scambio di idee è assolutamente stimolato. In sintesi, i membri di Coliandro condividono l’immagine dell’azienda come di “un bel posto dove lavorare”. Essi sono altresì convinti che l’azienda sia percepita in questo modo anche all’esterno (da fornitori, concorrenti, clienti, ecc.). Un elemento peculiare su cui sia i dipendenti che i soci si sono soffermati maggiormente è l’importanza dello scherzare, del saper ridere e del divertirsi. I membri di Coliandro, cioè, pensano che l’umorismo (inteso in senso ampio) costituisca un tratto distintivo dell’organizzazione che permea molti aspetti della vita aziendale. Ai fini della presente ricerca è stato adottato il punto di vista dell’antropologia 11 del linguaggio senza focalizzarsi sull’analisi del meccanismo semiotico o linguistico che fa sì che un determinato racconto diventi fonte di ilarità. In altri termini, abbiamo analizzato i racconti di esperienze personali che risultavano divertenti per l’audience, cercando di capire come e perché alcuni racconti possono diventare storie divertenti che vengono raccontate e ri-raccontate all’interno della pausa pranzo. L’analisi, in particolare, si focalizzerà su un corpus di dialoghi e racconti raccolto durante la pausa pranzo. Dalla grande quantità di videoregistrazioni e di trascrizioni raccolte (circa 550 ore di filmato), abbiamo scelto i racconti di esperienze personali in quanto: “Personal narrative is a way of using language […] to imbue life events with a temporal and logic order, to demystify them and establish coherence across past, present, and as yet unrealized experience (Ochs & Capps, 2001: 2). Infine, abbiamo focalizzato la nostra attenzione sulle storie riguardanti avvenimenti, fatti e personaggi accaduti all'interno di Coliandro. Queste storie sono collegate direttamente alla vita dell'organizzazione e sono state divise in due gruppi: il primo (gruppo A1) considera le storie relative ai “giochi” che si svolgono dentro all’organizzazione durante l’orario di lavoro (calcio, giochi a computer, ecc.); il secondo (gruppo A2) riguarda qualsiasi tipo di episodio divertente avvenuto durante l’orario di lavoro. Nei paragrafi seguenti analizzeremo questi racconti, citando a titolo esemplificativo alcune conversazioni che possono essere considerate come rappresentative rispetto a tutti i dati raccolti. Storytelling e giochi La prima storia riguarda una partita di calcetto giocata all’interno della sede di Coliandro. Solitamente, i membri di Coliandro giocano a calcetto con una piccola sfera di gommapiuma, seguendo alcune regole molto precise. La partita non è un evento programmato. Quando qualcuno desidera giocare domanda a voce alta “calcio?” e gli altri colleghi decidono di accettare o meno la richiesta a seconda della mole di lavoro che devono svolgere quel giorno. Durante i dieci mesi della ricerca sono state filmate numerose partite alle quali ha preso parte anche il ricercatore. Tali partite sono spesso il tema delle storie raccontate durante l’orario di lavoro. Di seguito riportiamo il testo di una di queste storie4: M: “come gioco ha meno exploit di Berry, però /,/” M: “eh bhe lui aveva giornate in cui faceva 5 goal” N: “chi è Barry?” 4 Si sta parlando della prima partita a cui ha preso parte il ricercatore. “M” è uno dei manager, “Ske” e “Ste” sono dipendenti, “N” è il ricercatore. 12 M: “un web designer che lavorava qua (--) (muove le mani per stoppare me) comunque dicevo. Tu però comunque hai un tiro preciso ma non ti butti dentro (-) eh ma non offenderti (--) sei troppo fuori gioco (-) non è un offesa è importante saperlo (---) è DIFFICILE sto gioco sembra cazzerone ma è difficile, vero ske?” Ske: “si infatti a me l’han menata mesi con sta cosa del tener palla (--) io andavo giravo e non passavo (-) che va bene a calcio ma qua no. [ M: ok, vero. Però or che t’abbiam conosciuto dobbiam fare le squadre meglio. E’importante (--) (muove le braccia per sottolineare) le facciam sempre senza pensarci (--) poi non si gioca. Non è questione solo maschi femmine, la ste fa più gol di nik (-) no?” Ste : bho, si, ma è perchè seguo il mio istinto (ride). All’inizio ero timida e calciavo via sempre (-) ora ci penso [ M:”è BHE è importante migliorare, senno non ci si diverte” La stessa storia è stata ripresa circa 20 giorni dopo il racconto precedente. M: “allora che dici ske com’è adesso nico?” Ske: ”bhe l’altra volta dicevi che era simile a barry, secondo me è ancora cosi, cioè, si. Sempre di più, ma non è ancora al massimo. No, ma senza offesa eh, è che giri poco con la palla. L’altra volta diceva mauro che eri fuori, secondo me…. [ M: “eh si però secondo me devi pensare di più alle partire come sono andate. Cioè quando finisci pensaci, e poi vedi . Non è poi tutta sta roba, ma cioè (--) diventa bello se ognuno fa la cosa bene. Oh è poi solo un gioco, ma pensaci. A barry non è mai piaciuto giocare. Cioè giocava ma non ci pensava.” [ Ske: (annuisce) già! Analizzando queste conversazioni possiamo notare due caratteristiche importanti. In primo luogo queste storie non sono collegate ad un evento straordinario, perché sia la partita sia il racconto di tali partite sono eventi abbastanza regolari. In questo modo, la possibilità di un’elevata tellability (cioè la raccontabilità) è garantita proprio dalla quotidianità del tema, non dalla sua “sensazionalità”. Infatti “giocare” e raccontare storie rispetto a questi episodi rappresentano elementi caratteristici della routine quotidiana all’interno di Coliandro. Un’altro elemento distintivo di questi racconti è rappresentato dal fatto che i membri dell’organizzazione ne parlano sempre in modo serio. Di conseguenza, la tellability di queste storie non è collegata con il lato divertente del giocare, ma, come ha sottolineato Bateson (1972), all’idea che il “gioco è una cosa seria, se si vuole giocare bene”. La chiave di lettura che implicitamente emerge da questo tipo di racconti è, dunque, che questo tipo di gioco (nel caso specifico le partite di calcio, ma più in generale tutti i giochi svolti all’interno di Coliandro) è da prendere seriamente, come anche la frase di “M” sottolinea: M: “eh si però secondo me devi pensare di più alle partire come sono andate. Cioè quando finisci pensaci, e poi vedi. ” 13 Se analizziamo la conversazione applicando le altre dimensioni narrative di Capps e Ochs (2001), troviamo conferma di questa concezione “seria” del gioco. Da un punto di vista di tellership, per esempio, il primary teller, “M” (uno dei soci fondatori), stabilisce i tempi e i modi dgli interventi dell’audience. Questo potere da parte del teller è ovviamente collegato ad una situazione non paritaria fra audience e teller ed è tipica di situazioni più formali, dove i differenti ruoli sono ben definiti (Capps e Ochs, 2001). “M”, quando viene interrotto dal ricercatore, dà una risposta brevissima e subito inizia il racconto esattamente dal punto in cui è stato interrotto. Questa conversazione, che ha luogo durante la pausa pranzo e che riguarda un momento ludico e divertente, è in realtà caratterizzata da un alto grado di formalità come normalmente accade nelle conversazioni relative al lavoro, dove i responsabili dell’azienda hanno l'ultima parola ed usano il potere che deriva dal loro ruolo. “M”, inoltre, non ha solo il potere di decidere quando far intervenire qualcun altro nel racconto (cioè “S” e “Ste” nell'esempio), ma ha quello di interromperli. Il risultato finale è quello di avere una situazione caratterizzata da elevata tellability, in quanto “M” fa partecipare le altre persone presenti alla narrazione. In questo modo, ognuno dei presenti contribuisce alla serietà della narrazione, non solo con il tono della voce e l'assenza di riso, ma anche (e in modo maggiore) con la forma che si dà alla narrazione stessa. Considerando la moral stance implicita nella precedente conversazione possiamo evidenziare tre momenti importanti, in cui qualcuno sottolinea il proprio giudizio su cosa è positivo e cosa è negativo. Nel primo punto (i), “M” evidenzia come il gioco sia qualcosa di complesso; nel secondo punto (ii) “M” si focalizza sull’importanza di impegnarsi in questi giochi. Di conseguenza, parlando in questo modo, “M”, desidera riaffermare la propria moral stance verso il giocare (cioè che il gioco è qualcosa che tutti devono prendere seriamente). (i) DIFFICILE sto gioco (ii) BHE è importante migliorare, senno non ci si diverte (iii) A barry non è mai piaciuto giocare. Cioè giocava ma non ci pensava.” [ Ske: (annuisce) già! Nel terzo punto (iii) vediamo come Barry venga criticato per la sua mancanza di impegno. All'inizio della storia “M” parla di Barry come di buon giocatore, mentre alla fine lo sancisce negativamente: inizialmente si parlava del suo talento, mentre alla fine il giudizio è negativo (iii). Di conseguenza, possiamo notare un cambiamento nella moral stance. Questo spostamento implica che non sia sufficiente avere talento e che è importante impegnarsi e dimostrare committment lavorando duro per migliorarsi. Questa visione della 14 moral stance non è solo del manager (“M”), poichè anche il pubblico avvalla il suo punto di vista (si veda il commento di Ske). L’audience, infatti, reagisce positivamente, dimostrando di avere la medesima visione della moral stance diventando, così, co-autore della storia e rendendo ancora più forte la moral stance stessa. Storytelling e “divertimento al lavoro” Per quanto riguarda il secondo gruppo di storie prese in considerazione, gli episodi riguardanti un fatto divertente accaduto durante l’orario di lavoro. Questi sono normalmente legati ad uno scherzo, una battuta o ad altri episodi, con cui si è interrotto volontariamente il lavoro. Di seguito riportiamo il testo di una di queste storie5: E: ”è stato nicola” Ske: ”no veramente sei stato tu /,/” E: ”eh vabbe lui mi istiga, m’ha messo la telecamera li” Elia: ”già /,/vero, ma quanto ho riso!” Ske: ”bhe praticamente c’era sta telecamera, e mentre lavorava ezio ha preparato tutto” [ E: “eh si stavo lavorando poi pensavo a mauro e ai suoi video e m’è venuta l’idea cioè subito ero li con sto lavoro orrendo (--) da operaio fra le mani. Un logo, un cazzetto, insomma mi giro per storcermi il collo e vedo la telecamera e penso ‘ma che caspita di lavoro è il suo, OSSERVARCI?’, allora ho pensato che è troppo facile osservare gente inerme e ho pensato allo scherzo” [ Ske: “eh si giusto /,/ mi s’è messo vicino e mi fa ‘dai dai facciamo cheneso alla telecamera, pigliam per culo la telecamera’ io ero li con sto lavoro che dovevo consegnare ad alle però lo scherzo che c’aveva in testa era fico allora l’abbiam fatto” M: ”NOOOO dovevi chiamarmi!” Ste: ”e poi” E: ”e poi niente nicola ha visto ed è venuto a ridere lì” N: ”eh si non m’era mai capitato” Ste: ”che fico (--) ma io non me n’ero accorta” Elia: ”ma si l’avevi già detto no, l’hai fatto l’altro giorno” E: ”si si ma non c’era nico e la ste a sentire” E: “poi non è finita, son tornato sul lavoro ed ero orgoglioso del mio SCHERZO(--) mentre lavoravo e mi venivano delle idee belle per il logo fico che stavo facendo, pensavo. Poi ho finito e mi piaceva un sacco il mio logo e mi son messo a coltivare un altro scherzo…” [ Ske”uh bah, però mi devi coinvolgere anche a me” E: ”si si…ma ora lasciamolo nella suspance” Analizzando la dimensione di tellership, possiamo osservare che questa conversazione è molto differente da quella precedente, pur essendo presente lo stesso socio fondatore di prima (“M”). Qui non è presente un primary teller che esercita il proprio potere decidendo chi può parlare e chi no. La storia è co-raccontata assieme al pubblico, in un flusso costante di co-interazioni nella narrazione. Inoltre, è interessante notare che anche se c’è qualcuno che ha già ascoltato questa storia (nell'esempio, “E”, “Elia” e “Ske”), questi partecipa 5 “E” e “M” sono due soci, “Ske”, “Elia” e “Ste” dipendenti, “N” il ricercatore. 15 comunque attivamente alla narrazione. Questo particolare suggerisce un’alta tellability, cioè un’elevata raccontabilità. Per quel che riguarda la dimensione di linearity, possiamo dividere la storia in quattro “tempi” diversi. C’è un tempo A descritto come “lavoro noioso”, un tempo B come “scherzi divertenti”, un tempo C come “tornare ad un lavoro piacevole” (che in realtà è sempre il tempo A, descritto all’inizio del dialogo come noioso), e, infine, un tempo D in cui “ho iniziato a pensare ad un altro scherzo”. Quindi se leghiamo la causalità al tempo, possiamo vedere come lo scherzo ha cambiato l'opinione di “E” relativamente al lavoro che stava svolgendo: dopo lo scherzo il lavoro che stava svolgendo è percepito non più come noioso, ma come piacevole. L’ultima percezione del lavoro gli ha permesso di pensare ad un altro scherzo, che, a sua volta, implicitamente gli permetterà di dargli forza per eseguire altri lavori noiosi. A proposito di moral stance possiamo notare che ancora una volta tutti gli interlocutori condividono la stessa percezione di cosa sia giusto fare. È molto interessante notare che “M” (il socio fondatore) apprezzi fortemente questo scherzo, legittimando cosi ciò che è stato fatto e l’atteggiamento verso questo evento. M: ”NOOOO dovevi chiamarmi!” CONCLUSIONI Al di là delle differenti tipologie di storie considerate, è possibile rilevare alcune caratteristiche simili in termini di dimensioni narrative (Ochs & Capps, 2001). Per esempio tutte presentano livelli elevati di tellership. Ciò significa che quando qualche membro dell’agenzia sta raccontando una storia, l’audience è solitamente molto coinvolta nel racconto, diventando anche co-autore della storia a prescindere del ruolo formale ricoperto dal primary teller. Anche nel caso del racconto della partita di calcetto, nonostante una predominanza del primary teller, possiamo notare che l’audience diventa effettivamente co-autrice. Tutte le storie inoltre mostrano elevati livelli di tellability. Dal momento che ci siamo focalizzati sulla narrazione di episodi quotidiani, possiamo sostenere che l’elevata tellability non è collegata con le eventuali caratteristiche “sensazionali” dell’evento narrato, ma all'importanza di tali eventi per l’audience. Tutto ciò diventa ancora più rilevante se analizziamo la moral stance implicita nelle storie. Le narrazioni quotidiane di esperienze personali, infatti, creano e perpetuano punti di vista sul mondo e sull’organizzazione. In altri termini, tali narrazioni rappresentano un meccanismo efficace per veicolare nel tempo i giudizi su quali siano i comportamenti considerati appropriati, su ciò che i membri dell’organizzazione devono fare e su ciò da cui, invece, devono astenersi. In particolare, il 16 fatto che le storie possano essere ripetute più volte senza decrescere l’interesse da parte del potenziale pubblico (elevata tellability) fa sì che i momenti del pranzo diventino una sorta di momento interno di confronto su quali siano i valori fondanti l’organizzazione. Quest’ultima considerazione ci spinge a riflettere su un’altro aspetto interessante. L’ironia, il paradosso, il gioco creano messaggi forti per i dipendenti rispetto a cosa è giusto fare all’interno di Coliandro. Tali considerazioni delineano lo humour come uno strumento potenzialmente critico per la promozione della cultura e dell'identità organizzativa. Naturalmente, come abbiamo già precisato all’inizio del presente saggio, il nostro approccio non permette di trarre implicazioni normative generalizzabili per un duplice ordine di motivi: la limitatezza del campione analizzato e le specificità del caso trattato (una piccola azienda di graphic design). Pertanto, potrebbe essere utile che in futuro altre ricerche comparino i nostri risultati analizzando altri casi appartenenti anche a contesti organizzativi differenti dal nostro. Nonostante questi limiti, la presente analisi ha portato alla luce alcuni risultati interessanti. Ad esempio, come anticipato precedentemente, i nostri risultati confermano l'idea che lo humour può essere concepito come un processo interattivo che serve a selezionare, creare, riprodurre e reificare le interpretazioni legittime su quali siano le caratteristiche distintive, centrali e durature dell’identità organizzativa. In altri termini, il racconto di uno scherzo o di un aneddoto divertente può costituire un mezzo per rinforzare l’idea di quali comportamenti sono socialmente accettabili all’interno dell’organizzazione e quali invece no. In questo modo, lo humour può essere considerato come una pratica di sensemaking. Cioè lo humour è un riferimento comune che permette ai membri dell’organizzazione di interpretare “correttamente” le situazioni, di sviluppare una griglia interpretativa comune che permetterà loro anche di interpretare future situazioni impreviste. In particolare, come nel caso di Coliandro, lo humour svolge un ruolo legato ai processi quotidiani nella costruzione dell’identità organizzativa. Nella nostra analisi, infatti, lo humour costituisce una delle caratteristiche centrali e stabili dell’identità organizzativa trasformandosi così nel riferimento comune che i membri di Coliandro usano per “incorniciare” (frame), interpretare ed analizzare le situazioni relative alle immagini organizzative dell’identità dell’azienda. In altre parole, i membri di Coliandro sembrano utilizzare lo humour per riaffermare l’immagine interna della loro organizzazione, con lo scopo finale di effettuare (o di ristabilire) un allineamento fra come i membri si vedono come organizzazione (immagine organizzativa interna) e come credono di essere percepiti dall’esterno (immagine organizzativa esterna). 17 Un aspetto interessante, e forse problematico rispetto al ruolo dello humour nel processo di costruzione dell’identità è che, potenzialmente, può essere un fattore di esclusione. Il paradosso, l’ironia, lo scherzo sono processi molto complessi che possono essere difficilmente compresi da una persona esterna ad un determinato gruppo. Di conseguenza, per i nuovi assunti la reale comprensione delle forme umoristiche utilizzate potrebbe essere molto problematica e ciò potrebbe limitare la loro capacità di inserirsi nel nuovo ambiente di lavoro. Il risultato finale potrebbe essere una esclusione ed emarginazione di persone di talento, ma non in grado di allinearsi al tipo di humour specifico dell’organizzazione. Per concludere, la presente analisi contribuisce anche ad evidenziare la potenziale importanza dei momenti conviviali (pranzi, cene, coffe break, ecc.) per la vita delle organizzazioni, in quanto questi momenti costituiscono una rilevante opportunità non solo di socializzazione, ma anche di vera e propria discussione e rinforzo dell’identità organizzativa. 18 APPENDICE Convezioni di trascrizione dei dialoghi • (-) (--) (---) piccola, media, lunga pausa • (5) numero di secondi di pausa • xxxxxxxxxxxx [ xxxxxx Identifica il momento in cui un altro parlante prende la parola • ! intonazione discendente • ? intonazione ascendente • XXXX volume alto • (xxx) volume basso • /,/ intonazione sospesa 19 BIBLIOGRAFIA Ackroyd, S. e Thompson, P. 1999. Organizational misbehaviour, London: Sage. Albert, S. e Whetten, D. A. 1985. 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