l`analisi etnografica di un - Università di Modena e Reggio Emilia

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l`analisi etnografica di un - Università di Modena e Reggio Emilia
Dal ridere lavorando, al lavorare giocando.
Processi di costruzione di identità organizzativa: l’analisi etnografica di un’azienda di
Graphic Design.
Fabrizio Montanari Università di Modena e Reggio Emilia
Nicola Bigi Università di Bologna1
Come già ampiamente approfondito all’inizio della presente raccolta di saggi, la teoria
dell’organizzazione costituisce un corpus ampio e variegato, contraddistinto dalla presenza
di diversi modi di concepirla. Queste diverse concezioni riflettono differenti scelte
epistemologiche riconducibili essenzialmente alle posizioni di fondo espresse nel dibattito
epistemologico delle scienze sociali (Maggi, 1990). In estrema sintesi, ad una prima
concezione che interpreta l’organizzazione come un sistema (meccanico o organico)
predefinito rispetto agli attori che vi partecipano, si contrappone una seconda che vede
l’organizzazione sì come un’entità concreta, ma in continuo divenire e definibile solo a
posteriori in base al configurarsi delle interazioni dei singoli attori organizzativi. Questi
diversi modi di interpretare le realtà organizzative esprimono anche diverse modalità di
analizzarle. In particolare, la prima concezione implica la possibilità di spiegare rapporti
necessari, determinati da principi universalmente validi, oppure rapporti probabili basati
sulla generalizzazione di casi particolari; la seconda, invece, prevede la possibilità di
conoscere in modo approfondito la realtà organizzativa attraverso l’analisi di esperienze
concrete e particolari, ma di più difficile generalizzabilità (Maggi, 1990).
In questo ipotetico continuum fra una logica di sistema ed una dell’attore, il presente
contributo si colloca verso il secondo estremo, in quanto ne condivide l’assunto di fondo in
base al quale la realtà organizzativa può essere analizzata e interpretata attraverso lo studio
delle interazione dei singoli soggetti organizzativi. Ciò che ci proponiamo di fare in questo
intervento è, dopo aver esplicitato l’approccio del metodo seguito, affrontare il tema
dell’identità organizzativa attraverso l’analisi di un caso di studio. In particolare,
analizzeremo una piccola azienda di graphic design (che chiameremo Coliandro) di Reggio
Emilia. I dati sono stati raccolti durante dieci mesi di ricerca etnografica sul campo
1
[email protected] , [email protected]. Gli autori desiderano ringraziare Giulia Battilani per
il prezioso aiuto nel raccogliere e analizzare i dati.
1
(Febbraio - Dicembre 2006) attraverso l’utilizzo di riprese audio e video, la trascrizione di
note etnografiche e la conduzione di interviste in profondità.
LA LOGICA DELL’ATTORE
Dal sistema al soggetto
Come anticipato precedentemente, all’interno degli studi organizzativi è possibile
individuare due principali approcci in qualche modo antitetici. Il primo è legato ad una
concezione di organizzazione come sistema, in base alla quale si cerca di analizzare le
relazioni esistenti tra variabili oggettive e misurabili. Di conseguenza, anche i metodi di
analisi sono legati soprattutto all’utilizzo di strumenti matematici e statistici (Piccardo e
Benozzo, 1996). Il secondo approccio pone maggiore attenzione alla natura umana dei
sistemi sociali, cioè si concentra su come gli individui si pongono nei confronti di
un’organizzazione, come la percepiscono, la interpretano e la trasformano in funzione del
loro punto di vista soggettivo. L’organizzazione viene concepita, quindi, come una realtà
sociale, in quanto esiste solo nella misura in cui le persone la percepiscono in quanto tale e
le danno un significato (Ravagnani, 1996). Di conseguenza, dal punto di vista
metodologico l’analisi scientifica viene portata a livello soggettivo in modo da capire i
meccanismi attraverso cui gli individui percepiscono l’organizzazione e le danno un senso.
L’idea che l’organizzazione può essere concepita come il prodotto dei membri stessi
dell’organizzazione si basa sulle teorie legate alla costruzione sociale della realtà, secondo
cui gli individui le danno senso e ne vengono a loro volta influenzati (Berger e Luckmann,
1967). Karl Weick (1995) prova a fondere tale approccio con una visione più cognitivista
sull’organizzazione. I suoi studi, infatti, hanno l’obiettivo di capire come funziona il
processo di sensemaking2 da parte degli attori organizzativi. Un aspetto fondamentale del
sensemaking è che si tratta di un’attività che i soggetti fanno dopo che si manifestano
eventi inaspettati, dando senso a ciò che è avvenuto. Si studia, quindi, come effettivamente
i soggetti contribuiscono a creare la realtà, che costituirà poi le basi per interpretare i futuri
eventi inaspettati:
“Il risultato pratico di questa teoria, che spiega il grande successo di Weick
anche presso il pubblico manageriale, consiste in una maggiore e più realistica
comprensione del comportamento organizzativo, in cui all’attore vengono
riconosciuti il diritto e la libertà di agire e prendere decisioni senza
necessariamente essere vincolato a schemi di razionalità, obiettivi, utilità e altre
2
Il sensemaking è definito da Karl Weick (1995) come l’attività che i soggetti appartenenti all’organizzazione
compiono continuamente dinnanzi a fatti “inaspettati”. Questo processo è alla base delle costruzione del
senso di una organizzazione. Il sensemaking è successivo ad un evento “sorprendente” ed è quindi un fare
retrospettivo ma, contemporaneamente, contribuisce a “costruire” il futuro.
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gabbie imposte da teorie superatomistiche del ruolo del manager: l’attività
dell’organizzazione è al contempo molto più complicata di quanto si speri e
molto meno vincolata di quanto si tema” (Ravagnani, 1996: 213).
Nella letteratura più recente, da Weick (1979) in poi, si sostiene la quasi-impossibilità di
comprendere il comportamento organizzativo sulla base di schemi e prescrizioni
riconducibili alla organizzazione formale. In modo schematico si può sottolineare come
emerga l’esigenza di affermare la preminenza del processo organizzativo sul risultato (la
struttura), nella consapevolezza che tale processo fatto di sensemaking, rappresentazioni
elaborate, scambiate e condivise, influenzi, se non proprio produca, ciò che
l’organizzazione è/sta per diventare anche in termini di struttura. In questo senso svolgono
un ruolo fondamentale le interazioni tra i diversi soggetti. Il concetto di interazione è alla
base di molte interpretazioni classiche della sociologia, da Marx a Weber e soprattutto
Durkheim, secondo il quale le forme di interazioni tra individui determinano i simboli e le
credenze morali, i quali, a loro volta, riassemblano la struttura sociale. In campo
organizzativo riconoscere l’importanza delle interazioni significa non solo enfatizzare
l’esistenza di un’organizzazione informale contrapposta a quella formale, ma sopratutto
ribadire che anche gli aspetti più formali non esistono in sé, ma solo nella misura in cui gli
attori organizzativi giungono ad una visione condivisa. In queste dinamiche svolgono un
ruolo critico i processi cognitivi, quali ad esempio l’attribuzione, i frames, le categorie e le
mappe cognitive (Gioia e Sims, 1996). In estrema sintesi, l’idea fondamentale è che siano
gli individui e i gruppi, attraverso le interazioni sociali e gli scambi di interpretazioni, a
plasmare l’organizzazione, generare significato condiviso, produrre linguaggi e visioni
comuni che permettono di conoscere l’ambiente circostante e di “padroneggiarlo”.
Dato l’interesse suscitato da questo approccio, molti ricercatori si sono concentrati anche
sull’evoluzione delle metodologie di studio. Per esempio, Gioia (1986) sottolinea come, per
capire il sensemaking, sia fondamentale utilizzare un più ampio repertorio di metodi di
analisi, incluso approcci fenomenologici, interpretativi, etnografici, umanisti e strutturalisti.
In altre parole, un approccio che usi le metodologie indicate da Gioia vuole importare
definizioni e metodi già applicati in decenni di ricerche in altri ambiti, al contesto
organizzativo, pensando che, nel momento in cui l’organizzazione è costituita da esseri
umani, allora si possono sfruttare le competenze delle discipline che si sono sempre
occupate dell’interazione fra soggetti e del loro effetto sul sistema culturale in cui sono
immersi e che contribuiscono a modificare (Eco, 1975, 1990; Violi, 2006). In particolare, ai
fini della presente ricerca abbiamo adottato un metodo etnografico. Il ricercatore ha vissuto
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“dentro” l’organizzazione per dieci mesi, durante i quali è riuscito a cogliere problematiche
che non sarebbero state visibili con altre metodologie. Il nostro lavoro ha ovviamente le
limitazioni normali di questo tipo di ricerche, legate principalmente alla difficoltà di
generalizzare i risultati (Bate, 1997). Inoltre, come è stato notato più volte in letteratura
(e.g. Bate, 1997; Boyce, 1996), un altro limite riguarda più in generale i problemi legati
all’approccio basato sull’osservazione partecipata come, ad esempio, la soggettività del
ricercatore o la possibilità di influenzare il comportamento dei membri dell’organizzazione
studiata. Il corrispettivo di questi limiti è rappresentato dal fatto che tale tipo di ricerche
permettono di aumentare la profondità di analisi fornendo risultati molti ricchi e accurati,
che possono essere confrontati con altri tipi di ricerche simili e, soprattutto, possono essere
utilizzati come dati di partenza per ricerche più di tipo quantitativo.
L’APPROCCIO NARRATIVO
Proprio in virtù del bisogno di ampliare i metodi di analisi, ci siamo concentrati sul
paradigma narrativo. L’approccio narrativo applicato agli studi organizzativi è sintomatico
di un più generale spostamento verso un “paradigma” narrativo di molte discipline. Prima
di entrare nello specifico ci pare opportuno presentare una sintetica analisi di tale
“spostamento”.
La prospettiva narrativa nasce dalla convinzione che la principale modalità attraverso la
quale l’individuo organizza la propria conoscenza del mondo, e di sé, sia rappresentata
dalla narrazione: è attraverso l’atto del raccontare che l’essere umano, condividendo ed
esprimendo agli altri (dopo che a se stesso) il proprio sapere sulla realtà, struttura il
pensiero, definisce la propria identità e attribuisce significato all’esperienza.
“Across cultures, narrative emerges early in communicative development and is
fundamental means of making sense of experience. Narrative and the self are
inseparable in that narrative is simultaneously born out of experiences and
gives shape to experience. Narrative activity provides tellers with an
opportunity to impose order on otherwise disconnected events, and to create
continuity between past , present and imagined worlds. Narrative also
interfaces self and society, constituting a crucial resource for socializing
emotions, attitudes, and identities, developing interpersonal relationship, and
constituting membership in a community” (Ochs, Capps, 1996:2).
Con lo spostamento dell’attenzione verso l’interprete (si veda Pisanty e Pellerey, 2004 per
un approfondimento) si fa strada l’idea di un uomo come homo narrans (Fisher, 1984),
homo fabulans (Boje, 1991) o storyteller (Bruner, 1986). L’affermazione che la modalità
narrativa rappresenta una delle fondamentali declinazioni del pensiero umano, possiamo
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collegarla a Bruner, che individua due stili cognitivi che caratterizzano il pensiero umano:
la comprensione paradigmatica e la comprensione narrativa (Bruner 1986). Il primo tipo di
pensiero produce conoscenze di carattere generale e sviluppa un tipo di apprendimento
finalizzato a verificare i dati della realtà empirica, è un pensiero che procede per deduzione
e induzione, ed è teso a puntualizzare il flusso dell’esperienza, a separare, individualizzare,
calcolare e comparare (Bruner 1986). La comprensione narrativa, invece, consente una
pluralità di rappresentazioni del mondo, in quanto il suo criterio di validazione non è più
quello di verità ma il criterio di plausibilità: il pensiero narrativo si fonda attorno all’idea
d’intenzionalità e d’azione in sequenze temporali e si manifesta nelle storie, nei drammi e
nei racconti attraverso i quali i soggetti esprimono la propria rappresentazione della realtà.
Bruner (1986), pone l’accento sulla valenza della narrazione come strumento di interazione
sociale, di negoziazione di significati attorno a cui prendono forma visioni del mondo
condivise e istituzionalizzate.
Nel suo rapporto sul sapere nelle società post-moderne, Jean-François Lyotard (1986) parla
di come il sapere scientifico non rappresenti tutto il sapere, e di come esso in realtà sia
sempre stato “accompagnato”, in competizione e in conflitto, da un altro tipo di sapere:
quello narrativo. Il racconto è la forma per eccellenza di questo sapere.
Sul lato più “sociologico” Barthes (1969) ci ricorda la centralità sociale della narrazione,
sostenendo che essa consente agli individui di definire chi sono e che cosa stanno facendo.
A proposito del racconto così si esprime Roland Barthes:
Innumerevoli sono i racconti del mondo. In primo luogo una varietà prodigiosa
di generi, distribuiti a loro volta secondo differenti sostanze come se per l’uomo
ogni materia fosse adatta a ricevere i suoi racconti: al racconto può servire da
supporto il linguaggio articolato, orale o scritto, l’immagine, fissa o mobile, il
gesto e la commistione coordinata di tutte queste sostanze; il racconto è
presente nel mito, le leggende, le favole, i racconti, la novella, l’epopea, la
storia, la tragedia, il dramma, la commedia, la pantomima, il quadro [....], le
vetrate, il cinema, i fumetti, i fatti di cronaca, la conversazione, ed inoltre sotto
queste forme quasi infinite, il racconto è presente in tutti i luoghi, in tutte le
società: il racconto comincia con la storia stessa dell’umanità; non esiste, non è
mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconti; tutte le classi, tutti i
gruppi umani hanno i loro racconti e spesso questi racconti sono fruiti in
comune da uomini di culture diverse, talora opposte: il racconto si fa gioco
della buona e della cattiva letteratura: internazionale, trans-storico, transculturale, il racconto è come la vita”. (Barthes, 1969: 112).
In sintesi, la narrazione può essere interpretata come il principio che organizza l’azione
umana e che guida il pensiero all’azione: la narrazione è il processo tramite il quale
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l’individuo dà forma al proprio essere nel mondo, costruendo significati rispetto a se stesso
e al contesto in cui vive.
L'importanza della narratività negli studi organizzativi è stata riconosciuta da numerosi
studiosi (e.g., Boje, 2001; Boyce 1996; Brown, 2006; Czarniawska, 1997, 1998). La
narratività può essere considerata come genere fondamentale che organizza il senso con cui
i membri di un’organizzazione pensano ad essa e con cui interagiscono tra loro. Ogni
organizzazione, infatti, produce narrazioni sotto forma di storie che legano eventi ad eventi
in una forma di rappresentazione che ha un inizio, un centro e una fine (Van Maaren,
1998). L’analisi narrativa, quindi, vede le narrazioni come strumento per la creazione e lo
scambio di significati all’interno delle organizzazioni (Czarniawka, 1997), consentendo di
indagare da una prospettiva differente i fenomeni organizzativi. Tale approccio permette
anche di rendere conto della molteplicità delle voci e delle prospettive che non solo
possono coesistere all’interno della stessa organizzazione, ma possono anche dare vita a
visioni della realtà spesso contrastanti. Sovente, in ogni organizzazione accanto ad una
storia “ufficiale”, sostenuta e diffusa dai vertici aziendali, esistono altre storie “parallele”,
che esprimono le emozioni e i vissuti delle persone rispetto all’ideologia dominante (Boje,
1991). L’approccio narrativo, pertanto, cerca di rendere conto del complesso rapporto fra
storie, narratività e i processi di sensemaking. Come notava Weick (1995: 127; trad.
nostra), le persone “sono spesso limitate quando provano a dare significato alla vita
organizzativa, perché le loro abilità nell’usare la narratività come strumento per interpretare
non sono supportate dalle strutture organizzative, normalmente costruite secondo un
modello argomentativo”. Le storie, pertanto, possono avere un ruolo molto critico nei
processi di sensemaking, perchè conservano la plausibilità e la coerenza della cultura
aziendale, sono memorabili, comprendono l'esperienza precedente e le aspettative future, e
sono il fondamento per le future costruzioni retrospettive.
Un’altra considerazione sul tema del metodo narrativo applicato alle organizzazioni può
essere tratta dalla ricerca condotta da Giulio Sapelli in una azienda di medie dimensioni
(Sapelli, 1999). Il questo libro l’autore, oltre a ribadire l’importanza delle storie personali e
lavorative per l’organizzazione, ricorda come, coerentemente con la tradizione della ricerca
antropologica, anche i report delle ricerche condotte con l’approccio narrativo nelle aziende
siano anch’essi storie che pertanto devono essere raccontate in modo opportuno.
È importante notare che il paradigma narrativo può comprendere una gamma molto ampia
di forme narrative, anche molto differenti tra loro, proprio perché la narrazione è un’attività
molto presente nella vita dell’uomo. Ad esempio, con riferimento alle organizzazioni, è
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possibile analizzare la storia istituzionale di un’azienda usando come corpus il suo house
organ o altre forme di comunicazione ufficiali, oppure concentrarsi sull’analisi delle mail
scambiate tra i suoi membri, oppure su interviste narrative. Ai fini della presente ricerca ci
siamo focalizzati sulle storie raccontate spontaneamente durante i pranzi, in quanto “la
forma basilare e più universale di narratività non è prodotta da una Musa ispiratrice, ma
dalle conversazioni quotidiane” (Ochs, 1997: 185; trad. nostra). In particolare, per
analizzare tali dati abbiamo utilizzato la prospettiva dell’antropologia del linguaggio, che
già da tempo ha analizzato questo tipo di situazioni non solo in altri contesti sociali
(famiglia, amici, etc.), ma anche in contesti organizzativi (Duranti, 1997, 2001; Goodwin
1981; Goodwin e Duranti 1992). Questa prospettiva considera il linguaggio soprattutto
come una pratica culturale, “cioè come una forma d’azione che presuppone e al tempo
stesso dà vita ai modi essere nel mondo” (Duranti, 2001: 13). Di conseguenza,
l’organizzazione è analizzata partendo dal linguaggio, perché non è solo “specchio” più o
meno preciso di una certa cultura, ma anche il principale strumento con cui quella cultura è
costruita (Goodwin 1996; Ochs e Capps, 2001).
Come già affermato in precedenza, questo approccio non è totalmente nuovo agli studi
organizzativi, in quanto esistono numerosi studiosi precedenti che hanno adottato questa
prospettiva (Rosen 1991, Czarniawska 1992, Linstead 1985, Bate 1997, Gellner e Hirsch
2001, Kamsteeg e Wels 2004). In questo studio, adottiamo l’idea di narratività legata allo
storytelling nella concezione di Elinor Ochs (Ochs & Capps, 2001). Quindi, ci
concentreremo sulle narrazioni di esperienze personali da parte dei componenti
dell’organizzazione. Questa particolare prospettiva sulla narratività è importante perché
funge da:
“prosaic social arena for developing frameworks for understanding events.
Narrative activity becomes a tool for collaboratively reflecting upon specific
situations and their place in the general scheme of life” (Ochs e Capps, 2001:2).
Ci avvicineremo alla nostra analisi usando le dimensioni narrative sviluppate da Ochs e
Capps (2001). Queste dimensioni sono sempre presenti in una narrazione, anche se non
palesi, e sta al ricercatore prendere in considerazione quelle, nel caso specifico, più
importanti per i propri obiettivi. Le cinque dimensioni sono: tellership, tellability,
embeddedness, linearity e moral stance, e, dopo avere analizzato i dati, abbiamo deciso di
omettere l’ embeddedness, in quanto poco rilevante ai nostri fini.
In particolare, la dimensione di tellership si riferisce a “the extent and kind of involvement
of conversational partners in the actual recounting of a narrative (Ochs e Capps, 2001:24);
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cioè alle modalità con cui la storia è sviluppata in modo più o meno partecipato da un
singolo primary teller. Il ruolo del teller è distinto da quello dell'autore: il teller è colui che
inizia a raccontare una storia (non necessariamente accaduta a lui in prima persona) e, a
seconda della situazione, anche gli ascoltatori (anche quelli apparentemente più silenziosi)
possono essere coautori attivi di una narrazione. Abbiamo una bassa partecipazione nel
racconto quando il primary teller prevale ed il pubblico è relativamente passivo. Nel caso
opposto abbiamo un’alta partecipazione ed il pubblico può, quindi, diventare un coautore
della storia. La dimensione della tellability si riferisce al modo in cui una narrazione può
essere raccontata e ri-raccontata molte volte senza che ciò diminuisca l’apprezzamento e
l’interesse del pubblico. La tellability è riferita non solo alle caratteristiche di
“sensazionalità” degli eventi, ma anche all'importanza degli eventi per gli interlocutori, e
alle modalità con cui gli eventi sono retoricamente modellati e narrati (Ochs e Capps,
2001). Un'altra dimensione importante nelle narrazioni è la linearity, la quale si riferisce al
modo in cui le narrazioni di “personal experience depict events as transpiring in a single
closed, temporal, and causal path or, alternatively, in diverse, open, uncertain paths” (Ochs
& Capps, 2001:41). In particolare, la linearity consiste di due elementi: la costruzione del
tempo e la causalità espressa in una storia. La moral stance, infine, è sia un giudizio sul
contenuto della storia e, di conseguenza, anche sul comportamento degli attori della storia
(Ochs & Capps, 2001). Le narrazioni quotidiane di esperienze personali codificano, infatti,
i codici morali secondo cui vedere il mondo e normalmente tali narrazioni riguardano un
protagonista che ha violato determinate aspettative sociali. Raccontando queste violazioni e
prendendo una posizione morale verso tali comportamenti “devianti”, si crea un momento
per gli individui per condividere ciò che è considerato giusto o sbagliato.
Useremo queste dimensioni per analizzare le storie di esperienze personali emerse durante
la pausa pranzo. Abbiamo scelto questo momento conviviale perché rappresenta l'unico
momento nella giornata lavorativa dove, i componenti dell’organizzazione, possono parlare
liberamente senza essere interrotti dal telefono, dai colleghi, o dai clienti. In altri termini è
l’unico momento in cui, da un lato, è possibile avere conversazioni lunghe che forniscono
più materiale da analizzare, d'altro rappresenta la principale occasione all’interno di una
giornata di lavoro in cui i membri di un’organizzazione possono condividere le proprie
esperienze e raccontare aneddoti legata alla vita organizzativa. Secondo Ochs e colleghi
(1992), avere abbastanza tempo per comunicare ed ascoltare le storie è una condizione
indispensabile per permettere alla narrazione di esercitare a pieno il proprio potenziale.
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HUMOUR E IDENTITÀ ORGANIZZATIVA
Il metodo e la metodologia appena descritti sono stati utilizzati per analizzare il ruolo che
l’umorismo3 può avere in un’organizzazione. Senza voler addentrarci troppo nel tema (per
un’approfondita review si veda, ad esempio, Battilani, Montanari e Bigi, 2007), è
opportuno notare come l’analisi dello humour che contraddistingue un posto di lavoro (il
cosiddetto workplace humour) può offrire importanti chiavi di lettura per comprendere
un’organizzazione, la sua cultura, le sue dinamiche, i suoi conflitti (Gabriel, Fineman e
Sims, 2000).
In letteratura, esistono numerosi studi che hanno analizzato il ruolo dello humour nei
luoghi di lavoro. Ad esempio, gli studi di tipo “funzionalista” tendono ad associare alle
forme di umorismo fatte dai dipendenti nei confronti del management (anche quelle più
critiche e dure) una funzione positiva, in quanto rappresentano una sorta di “valvola di
sfogo” per le tensioni e lo stress che normalmente vengono accumulati nelle interazioni
quotidiane (Barsoux, 1993, 1996; Hay, 2000). Al contrario, gli studi critici concepiscono lo
humour come un’espressione di disagio e come una manifestazione di resistenza nei
confronti della classe dirigente (Ackroyd e Thompson, 1999; Dwyer, 1991; Taylor e Bain,
2003). In questo modo, il workplace humour può divenire la principale modalità attraverso
cui i lavoratori possono esprimere insoddisfazione e malcontento nei confronti del gruppo
dirigente, fino a diventare un vero e proprio strumento di resistenza (Rodrigues e Collinson,
1995). Altri studi hanno riconosciuto al workplace humour effetti soprattutto di tipo
psicologico (Gruner, 1978). Lo humour, ad esempio, può essere usato per cercare di
alleggerire il proprio contesto lavorativo. Ciò accade non solo quando si svolgono attività
noiose e ripetitive, ma anche in relazione a situazioni più pesanti e di difficile gestione. Ad
esempio, alcuni studi hanno mostrato come gli agenti di polizia o del pronto intervento
scherzino su suicidi, omicidi, o incidenti gravi (Smith e Kleinman, 1989). Battute e scherzi
fatti in questi situazioni svolgono una funzione ben precisa: quella di relativizzare le
situazioni estreme che si possono incontrare nello svolgimento del proprio lavoro, in modo
da ottenere un effetto benefico sul proprio equilibrio psicologico. Infine, approcci più
recenti interpretano l’umorismo come una meccanismo molto importante per i processi di
sensemaking (Hatch, 1997; Weick e Westley, 1996), o di creazione dell’identità all’interno
dei gruppi (Lennox e Ashforth, 2002).
Rifacendoci a quest’ultimo filone teorico, nel presente studio abbiamo adottato una
prospettiva dello humour come sensemaking practice: i membri di un’organizzazione
3
Intendiamo con humour un complesso di situazioni che suscitano ilarità e divertimento e che comprendono
una moltitudine di fenomeni: scherzi, ironia, paradossi, ecc.
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possono analizzare le diverse situazioni, selezionarne l’interpretazione preferita e
rinforzarla nel corso del tempo attraverso il racconto o il ricordo di risate memorabili
(Tracy, Myers e Scott, 2006). In altri termini, il racconto di uno scherzo o di un aneddoto
divertente può diventare un potente mezzo per rinforzare l’idea di quali comportamenti
sono socialmente accettabili all’interno dell’organizzazione e quali invece no.
Coerentemente, lo humour può svolgere un ruolo molto importante nei processi
organizzativi di costruzione dell’identità organizzativa, in particolare quando ne diventa un
elemento centrale e distintivo.
Senza voler trattare in modo esaustivo l’argomento (si veda per una review Ravasi e
Schultz, 2006), pare opportuno ricordare che, in generale, il concetto di identità
organizzativa si riferisce a come i membri di un’organizzazione si percepiscono
rispondendo alla domanda “chi siamo come organizzazione”? (Albert e Whetten, 1985;
Ashforth e Mael, 1989; Dutton e Duckerich, 1991). L’identità organizzativa è costituita
dagli attributi dell’organizzazione stessa considerati dai suoi membri come centrali,
distintivi e duraturi nel tempo (Albert and Whetten, 1985; Gioia, 1998). Recenti contributi
hanno evidenziato come il costrutto dell’identità organizzativa sia da essere inteso come il
risultato di un processo dinamico piuttosto che un concetto statico ed immutabile
(l’adaptive instability di Gioia, Shultz & Corley, 2000). Secondo questa interpretazione, la
caratteristica della continuità nel tempo (enduring) dell’identità organizzativa deve essere
concepita in modo relativistico a causa dell’instabilità e dell’adattività dei significati che vi
sono associati in relazione al contesto di riferimento, e dell’interdipendenza con gli input
provenienti dall’esterno, cioè dall’organizational image concepita come il modo in cui i
membri dell’organizzazione pensano che gli altri vedano l’organizzazione (costructed
external image in Dutton e Duckerich, 1991; projected image in Alvesson 1990, desidered
future image in Gioia e Thomas, 1996, reputation in Fombrum, 1996). Pertanto, il concetto
di identità organizzativa presenta una forte componente di costruzionismo sociale, in
quanto le convinzioni condivise dai membri di un’organizzazione su quali siano le
caratteristiche centrali, distintive e durature sono il risultato di continui processi di
sensemaking con cui gli stessi membri cercano di dar senso alle loro esperienze per
giungere ad una interpretazione condivisa (Corley e Gioia, 2004; Gioia e Chittipeddi,
1991).
In questo senso, lo humour, soprattutto quando è percepito come un elemento centrale e
peculiare dell’identità di un’organizzazione, può svolgere un ruolo molto importante nei
processi quotidiani di costruzione dell’identità organizzativa. Esso, infatti, può diventare
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uno schema condiviso dai membri dell’organizzazione per interpretare e analizzare le
situazioni che possono essere riferite alle immagini organizzative, contribuendo alla
ricostruzione quotidiana dell’identità organizzativa
LA RICERCA SUL CAMPO
Come affermato in precedenza, abbiamo analizzato il caso di “Coliandro”, una piccola
agenzia di graphic design composta da 12 dipendenti, oltre che dai 3 soci fondatori di cui
uno svolge la funzione di direttore generale. L’azienda analizzata opera su commessa nel
campo della grafica pubblicitaria, della regia di videoclip, della post-produzione, della
realizzazione di siti web e di edu-game, della edizione di libri sulla grafica e il design. La
sede si trova a Reggio Emilia all’interno di un loft ricavato da un ex area industriale. Si
tratta di un open-space in cui non esistono uffici. Solamente la persona che si occupa
dell’amministrazione e il “direttore” sono in una stanza separata che però non ha pareti
divisorie. Nell’open space è presente anche una cucina e una sala per le riunioni dove soci e
dipendenti mangiano insieme durante la pausa pranzo. Nello svolgimento delle attività
lavorative, i dipendenti hanno un referente per il progetto al quale lavorano; le relazioni
lavorative, però, sono assolutamente di tipo orizzontale e informale.
La ricerca è basata sull’osservazione, partecipata, alle attività lavorative dell’agenzia svolta
nell’arco temporale di 10 mesi (febbraio-novembre 2006), in cui il ricercatore si recava 4
giorni la settimana, per tutta la durata della giornata lavorativa. I dati raccolti sono riprese
audio/video di momenti lavorativi, riunioni, pranzi, pause caffé, affiancati da interviste in
profondità e note etnografiche. Tutti i membri di Coliandro sapevano che il ricercatore era
un dottorando dell’Università di Bologna, che effettuava ricerche sulla loro azienda.
Attraverso alcune interviste in profondità è stato possibile delineare i tratti percepiti come
unici e distintivi dell’identità organizzativa. Questi sono legati all’idea di lavorare in un
ambiente bello, positivo, stimolante e creativo. Un ambiente contraddistinto da relazioni
paritarie e dove il libero scambio di idee è assolutamente stimolato. In sintesi, i membri di
Coliandro condividono l’immagine dell’azienda come di “un bel posto dove lavorare”. Essi
sono altresì convinti che l’azienda sia percepita in questo modo anche all’esterno (da
fornitori, concorrenti, clienti, ecc.). Un elemento peculiare su cui sia i dipendenti che i soci
si sono soffermati maggiormente è l’importanza dello scherzare, del saper ridere e del
divertirsi. I membri di Coliandro, cioè, pensano che l’umorismo (inteso in senso ampio)
costituisca un tratto distintivo dell’organizzazione che permea molti aspetti della vita
aziendale. Ai fini della presente ricerca è stato adottato il punto di vista dell’antropologia
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del linguaggio senza focalizzarsi sull’analisi del meccanismo semiotico o linguistico che fa
sì che un determinato racconto diventi fonte di ilarità. In altri termini, abbiamo analizzato i
racconti di esperienze personali che risultavano divertenti per l’audience, cercando di
capire come e perché alcuni racconti possono diventare storie divertenti che vengono
raccontate e ri-raccontate all’interno della pausa pranzo.
L’analisi, in particolare, si focalizzerà su un corpus di dialoghi e racconti raccolto durante
la pausa pranzo. Dalla grande quantità di videoregistrazioni e di trascrizioni raccolte (circa
550 ore di filmato), abbiamo scelto i racconti di esperienze personali in quanto:
“Personal narrative is a way of using language […] to imbue life events with a
temporal and logic order, to demystify them and establish coherence across
past, present, and as yet unrealized experience (Ochs & Capps, 2001: 2).
Infine, abbiamo focalizzato la nostra attenzione sulle storie riguardanti avvenimenti, fatti e
personaggi accaduti all'interno di Coliandro. Queste storie sono collegate direttamente alla
vita dell'organizzazione e sono state divise in due gruppi: il primo (gruppo A1) considera le
storie relative ai “giochi” che si svolgono dentro all’organizzazione durante l’orario di
lavoro (calcio, giochi a computer, ecc.); il secondo (gruppo A2) riguarda qualsiasi tipo di
episodio divertente avvenuto durante l’orario di lavoro. Nei paragrafi seguenti
analizzeremo questi racconti, citando a titolo esemplificativo alcune conversazioni che
possono essere considerate come rappresentative rispetto a tutti i dati raccolti.
Storytelling e giochi
La prima storia riguarda una partita di calcetto giocata all’interno della sede di Coliandro.
Solitamente, i membri di Coliandro giocano a calcetto con una piccola sfera di
gommapiuma, seguendo alcune regole molto precise. La partita non è un evento
programmato. Quando qualcuno desidera giocare domanda a voce alta “calcio?” e gli altri
colleghi decidono di accettare o meno la richiesta a seconda della mole di lavoro che
devono svolgere quel giorno. Durante i dieci mesi della ricerca sono state filmate numerose
partite alle quali ha preso parte anche il ricercatore. Tali partite sono spesso il tema delle
storie raccontate durante l’orario di lavoro. Di seguito riportiamo il testo di una di queste
storie4:
M: “come gioco ha meno exploit di Berry, però /,/”
M: “eh bhe lui aveva giornate in cui faceva 5 goal”
N: “chi è Barry?”
4
Si sta parlando della prima partita a cui ha preso parte il ricercatore. “M” è uno dei manager, “Ske” e “Ste”
sono dipendenti, “N” è il ricercatore.
12
M: “un web designer che lavorava qua (--) (muove le mani per stoppare me) comunque dicevo. Tu
però comunque hai un tiro preciso ma non ti butti dentro (-) eh ma non offenderti (--) sei troppo
fuori gioco (-) non è un offesa è importante saperlo (---) è DIFFICILE sto gioco sembra cazzerone
ma è difficile, vero ske?”
Ske: “si infatti a me l’han menata mesi con sta cosa del tener palla (--) io andavo giravo e non
passavo (-) che va bene a calcio ma qua no.
[
M: ok, vero. Però or che t’abbiam conosciuto dobbiam fare le squadre meglio.
E’importante (--) (muove le braccia per sottolineare) le facciam sempre senza pensarci (--) poi non
si gioca. Non è questione solo maschi femmine, la ste fa più gol di nik (-) no?”
Ste : bho, si, ma è perchè seguo il mio istinto (ride). All’inizio ero timida e calciavo via sempre (-) ora ci penso
[
M:”è BHE è importante migliorare, senno non ci si diverte”
La stessa storia è stata ripresa circa 20 giorni dopo il racconto precedente.
M: “allora che dici ske com’è adesso nico?”
Ske: ”bhe l’altra volta dicevi che era simile a barry, secondo me è ancora cosi, cioè, si. Sempre di
più, ma non è ancora al massimo. No, ma senza offesa eh, è che giri poco con la palla. L’altra
volta diceva mauro che eri fuori, secondo me….
[
M: “eh si però secondo me devi pensare di più alle partire come sono andate.
Cioè quando finisci pensaci, e poi vedi . Non è poi tutta sta roba, ma cioè (--) diventa bello se
ognuno fa la cosa bene. Oh è poi solo un gioco, ma pensaci. A barry non è mai piaciuto giocare.
Cioè giocava ma non ci pensava.”
[
Ske: (annuisce) già!
Analizzando queste conversazioni possiamo notare due caratteristiche importanti. In primo
luogo queste storie non sono collegate ad un evento straordinario, perché sia la partita sia il
racconto di tali partite sono eventi abbastanza regolari. In questo modo, la possibilità di
un’elevata tellability (cioè la raccontabilità) è garantita proprio dalla quotidianità del tema,
non dalla sua “sensazionalità”. Infatti “giocare” e raccontare storie rispetto a questi episodi
rappresentano elementi caratteristici della routine quotidiana all’interno di Coliandro.
Un’altro elemento distintivo di questi racconti è rappresentato dal fatto che i membri
dell’organizzazione ne parlano sempre in modo serio. Di conseguenza, la tellability di
queste storie non è collegata con il lato divertente del giocare, ma, come ha sottolineato
Bateson (1972), all’idea che il “gioco è una cosa seria, se si vuole giocare bene”. La chiave
di lettura che implicitamente emerge da questo tipo di racconti è, dunque, che questo tipo di
gioco (nel caso specifico le partite di calcio, ma più in generale tutti i giochi svolti
all’interno di Coliandro) è da prendere seriamente, come anche la frase di “M” sottolinea:
M: “eh si però secondo me devi pensare di più alle partire come sono andate. Cioè quando finisci
pensaci, e poi vedi. ”
13
Se analizziamo la conversazione applicando le altre dimensioni narrative di Capps e Ochs
(2001), troviamo conferma di questa concezione “seria” del gioco. Da un punto di vista di
tellership, per esempio, il primary teller, “M” (uno dei soci fondatori), stabilisce i tempi e i
modi dgli interventi dell’audience. Questo potere da parte del teller è ovviamente collegato
ad una situazione non paritaria fra audience e teller ed è tipica di situazioni più formali,
dove i differenti ruoli sono ben definiti (Capps e Ochs, 2001). “M”, quando viene interrotto
dal ricercatore, dà una risposta brevissima e subito inizia il racconto esattamente dal punto
in cui è stato interrotto. Questa conversazione, che ha luogo durante la pausa pranzo e che
riguarda un momento ludico e divertente, è in realtà caratterizzata da un alto grado di
formalità come normalmente accade nelle conversazioni relative al lavoro, dove i
responsabili dell’azienda hanno l'ultima parola ed usano il potere che deriva dal loro ruolo.
“M”, inoltre, non ha solo il potere di decidere quando far intervenire qualcun altro nel
racconto (cioè “S” e “Ste” nell'esempio), ma ha quello di interromperli. Il risultato finale è
quello di avere una situazione caratterizzata da elevata tellability, in quanto “M” fa
partecipare le altre persone presenti alla narrazione. In questo modo, ognuno dei presenti
contribuisce alla serietà della narrazione, non solo con il tono della voce e l'assenza di riso,
ma anche (e in modo maggiore) con la forma che si dà alla narrazione stessa.
Considerando la moral stance implicita nella precedente conversazione possiamo
evidenziare tre momenti importanti, in cui qualcuno sottolinea il proprio giudizio su cosa è
positivo e cosa è negativo. Nel primo punto (i), “M” evidenzia come il gioco sia qualcosa
di complesso; nel secondo punto (ii) “M” si focalizza sull’importanza di impegnarsi in
questi giochi. Di conseguenza, parlando in questo modo, “M”, desidera riaffermare la
propria moral stance verso il giocare (cioè che il gioco è qualcosa che tutti devono
prendere seriamente).
(i) DIFFICILE sto gioco
(ii) BHE è importante migliorare, senno non ci si diverte
(iii) A barry non è mai piaciuto giocare. Cioè giocava ma non ci pensava.”
[
Ske: (annuisce) già!
Nel terzo punto (iii) vediamo come Barry venga criticato per la sua mancanza di impegno.
All'inizio della storia “M” parla di Barry come di buon giocatore, mentre alla fine lo
sancisce negativamente: inizialmente si parlava del suo talento, mentre alla fine il giudizio
è negativo (iii). Di conseguenza, possiamo notare un cambiamento nella moral stance.
Questo spostamento implica che non sia sufficiente avere talento e che è importante
impegnarsi e dimostrare committment lavorando duro per migliorarsi. Questa visione della
14
moral stance non è solo del manager (“M”), poichè anche il pubblico avvalla il suo punto
di vista (si veda il commento di Ske). L’audience, infatti, reagisce positivamente,
dimostrando di avere la medesima visione della moral stance diventando, così, co-autore
della storia e rendendo ancora più forte la moral stance stessa.
Storytelling e “divertimento al lavoro”
Per quanto riguarda il secondo gruppo di storie prese in considerazione, gli episodi
riguardanti un fatto divertente accaduto durante l’orario di lavoro. Questi sono
normalmente legati ad uno scherzo, una battuta o ad altri episodi, con cui si è interrotto
volontariamente il lavoro. Di seguito riportiamo il testo di una di queste storie5:
E: ”è stato nicola”
Ske: ”no veramente sei stato tu /,/”
E: ”eh vabbe lui mi istiga, m’ha messo la telecamera li”
Elia: ”già /,/vero, ma quanto ho riso!”
Ske: ”bhe praticamente c’era sta telecamera, e mentre lavorava ezio ha preparato tutto”
[
E: “eh si stavo lavorando poi pensavo a mauro e ai suoi video e m’è venuta l’idea cioè
subito ero li con sto lavoro orrendo (--) da operaio fra le mani. Un logo, un cazzetto, insomma
mi giro per storcermi il collo e vedo la telecamera e penso ‘ma che caspita di lavoro è il suo,
OSSERVARCI?’, allora ho pensato che è troppo facile osservare gente inerme e ho pensato
allo scherzo”
[
Ske: “eh si giusto /,/ mi s’è messo vicino e mi fa ‘dai dai
facciamo cheneso alla telecamera, pigliam per culo la telecamera’ io ero li con sto lavoro che
dovevo consegnare ad alle però lo scherzo che c’aveva in testa era fico allora l’abbiam fatto”
M: ”NOOOO dovevi chiamarmi!”
Ste: ”e poi”
E: ”e poi niente nicola ha visto ed è venuto a ridere lì”
N: ”eh si non m’era mai capitato”
Ste: ”che fico (--) ma io non me n’ero accorta”
Elia: ”ma si l’avevi già detto no, l’hai fatto l’altro giorno”
E: ”si si ma non c’era nico e la ste a sentire”
E: “poi non è finita, son tornato sul lavoro ed ero orgoglioso del mio SCHERZO(--) mentre
lavoravo e mi venivano delle idee belle per il logo fico che stavo facendo, pensavo. Poi ho
finito e mi piaceva un sacco il mio logo e mi son messo a coltivare un altro scherzo…”
[
Ske”uh bah, però mi devi coinvolgere anche a me”
E: ”si si…ma ora lasciamolo nella suspance”
Analizzando la dimensione di tellership, possiamo osservare che questa conversazione è
molto differente da quella precedente, pur essendo presente lo stesso socio fondatore di
prima (“M”). Qui non è presente un primary teller che esercita il proprio potere decidendo
chi può parlare e chi no. La storia è co-raccontata assieme al pubblico, in un flusso costante
di co-interazioni nella narrazione. Inoltre, è interessante notare che anche se c’è qualcuno
che ha già ascoltato questa storia (nell'esempio, “E”, “Elia” e “Ske”), questi partecipa
5
“E” e “M” sono due soci, “Ske”, “Elia” e “Ste” dipendenti, “N” il ricercatore.
15
comunque attivamente alla narrazione. Questo particolare suggerisce un’alta tellability,
cioè un’elevata raccontabilità.
Per quel che riguarda la dimensione di linearity, possiamo dividere la storia in quattro
“tempi” diversi. C’è un tempo A descritto come “lavoro noioso”, un tempo B come
“scherzi divertenti”, un tempo C come “tornare ad un lavoro piacevole” (che in realtà è
sempre il tempo A, descritto all’inizio del dialogo come noioso), e, infine, un tempo D in
cui “ho iniziato a pensare ad un altro scherzo”. Quindi se leghiamo la causalità al tempo,
possiamo vedere come lo scherzo ha cambiato l'opinione di “E” relativamente al lavoro che
stava svolgendo: dopo lo scherzo il lavoro che stava svolgendo è percepito non più come
noioso, ma come piacevole. L’ultima percezione del lavoro gli ha permesso di pensare ad
un altro scherzo, che, a sua volta, implicitamente gli permetterà di dargli forza per eseguire
altri lavori noiosi. A proposito di moral stance possiamo notare che ancora una volta tutti
gli interlocutori condividono la stessa percezione di cosa sia giusto fare. È molto
interessante notare che “M” (il socio fondatore) apprezzi fortemente questo scherzo,
legittimando cosi ciò che è stato fatto e l’atteggiamento verso questo evento.
M: ”NOOOO dovevi chiamarmi!”
CONCLUSIONI
Al di là delle differenti tipologie di storie considerate, è possibile rilevare alcune
caratteristiche simili in termini di dimensioni narrative (Ochs & Capps, 2001). Per esempio
tutte presentano livelli elevati di tellership. Ciò significa che quando qualche membro
dell’agenzia sta raccontando una storia, l’audience è solitamente molto coinvolta nel
racconto, diventando anche co-autore della storia a prescindere del ruolo formale ricoperto
dal primary teller. Anche nel caso del racconto della partita di calcetto, nonostante una
predominanza del primary teller, possiamo notare che l’audience diventa effettivamente
co-autrice.
Tutte le storie inoltre mostrano elevati livelli di tellability. Dal momento che ci siamo
focalizzati sulla narrazione di episodi quotidiani, possiamo sostenere che l’elevata
tellability non è collegata con le eventuali caratteristiche “sensazionali” dell’evento narrato,
ma all'importanza di tali eventi per l’audience. Tutto ciò diventa ancora più rilevante se
analizziamo la moral stance implicita nelle storie. Le narrazioni quotidiane di esperienze
personali, infatti, creano e perpetuano punti di vista sul mondo e sull’organizzazione. In
altri termini, tali narrazioni rappresentano un meccanismo efficace per veicolare nel tempo
i giudizi su quali siano i comportamenti considerati appropriati, su ciò che i membri
dell’organizzazione devono fare e su ciò da cui, invece, devono astenersi. In particolare, il
16
fatto che le storie possano essere ripetute più volte senza decrescere l’interesse da parte del
potenziale pubblico (elevata tellability) fa sì che i momenti del pranzo diventino una sorta
di momento interno di confronto su quali siano i valori fondanti l’organizzazione.
Quest’ultima considerazione ci spinge a riflettere su un’altro aspetto interessante. L’ironia,
il paradosso, il gioco creano messaggi forti per i dipendenti rispetto a cosa è giusto fare
all’interno di Coliandro. Tali considerazioni delineano lo humour come uno strumento
potenzialmente critico per la promozione della cultura e dell'identità organizzativa.
Naturalmente, come abbiamo già precisato all’inizio del presente saggio, il nostro
approccio non permette di trarre implicazioni normative generalizzabili per un duplice
ordine di motivi: la limitatezza del campione analizzato e le specificità del caso trattato
(una piccola azienda di graphic design). Pertanto, potrebbe essere utile che in futuro altre
ricerche comparino i nostri risultati analizzando altri casi appartenenti anche a contesti
organizzativi differenti dal nostro.
Nonostante questi limiti, la presente analisi ha portato alla luce alcuni risultati interessanti.
Ad esempio, come anticipato precedentemente, i nostri risultati confermano l'idea che lo
humour può essere concepito come un processo interattivo che serve a selezionare, creare,
riprodurre e reificare le interpretazioni legittime su quali siano le caratteristiche distintive,
centrali e durature dell’identità organizzativa. In altri termini, il racconto di uno scherzo o
di un aneddoto divertente può costituire un mezzo per rinforzare l’idea di quali
comportamenti sono socialmente accettabili all’interno dell’organizzazione e quali invece
no. In questo modo, lo humour può essere considerato come una pratica di sensemaking.
Cioè lo humour è un riferimento comune che permette ai membri dell’organizzazione di
interpretare “correttamente” le situazioni, di sviluppare una griglia interpretativa comune
che permetterà loro anche di interpretare future situazioni impreviste. In particolare, come
nel caso di Coliandro, lo humour svolge un ruolo legato ai processi quotidiani nella
costruzione dell’identità organizzativa. Nella nostra analisi, infatti, lo humour costituisce
una delle caratteristiche centrali e stabili dell’identità organizzativa trasformandosi così nel
riferimento comune che i membri di Coliandro usano per “incorniciare” (frame),
interpretare ed analizzare le situazioni relative alle immagini organizzative dell’identità
dell’azienda. In altre parole, i membri di Coliandro sembrano utilizzare lo humour per
riaffermare l’immagine interna della loro organizzazione, con lo scopo finale di effettuare
(o di ristabilire) un allineamento fra come i membri si vedono come organizzazione
(immagine organizzativa interna) e come credono di essere percepiti dall’esterno
(immagine organizzativa esterna).
17
Un aspetto interessante, e forse problematico rispetto al ruolo dello humour nel processo di
costruzione dell’identità è che, potenzialmente, può essere un fattore di esclusione. Il
paradosso, l’ironia, lo scherzo sono processi molto complessi che possono essere
difficilmente compresi da una persona esterna ad un determinato gruppo. Di conseguenza,
per i nuovi assunti la reale comprensione delle forme umoristiche utilizzate potrebbe essere
molto problematica e ciò potrebbe limitare la loro capacità di inserirsi nel nuovo ambiente
di lavoro. Il risultato finale potrebbe essere una esclusione ed emarginazione di persone di
talento, ma non in grado di allinearsi al tipo di humour specifico dell’organizzazione.
Per concludere, la presente analisi contribuisce anche ad evidenziare la potenziale
importanza dei momenti conviviali (pranzi, cene, coffe break, ecc.) per la vita delle
organizzazioni, in quanto questi momenti costituiscono una rilevante opportunità non solo
di socializzazione, ma anche di vera e propria discussione e rinforzo dell’identità
organizzativa.
18
APPENDICE
Convezioni di trascrizione dei dialoghi
• (-) (--) (---) piccola, media, lunga pausa
• (5) numero di secondi di pausa
• xxxxxxxxxxxx
[
xxxxxx
Identifica il momento in cui un altro parlante prende la parola
• ! intonazione discendente
• ? intonazione ascendente
• XXXX volume alto
• (xxx) volume basso
• /,/ intonazione sospesa
19
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