Externality: Gaia al tempo della post-democrazia
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Externality: Gaia al tempo della post-democrazia
1 Externality: Gaia al tempo della post-democrazia di Massimo Sciarretta Il Prometeo liberato Agli albori della Rivoluzione industriale, osservando la Manchester degli opifici, dei fumi e delle macchine trasformare la materia e la storia dell’umanità, Alexis de Tocqueville esclamava con stupore frammisto ad angustia: “Da questa roggia melmosa scaturisce la più grande corrente dell’industria umana a fertilizzare il mondo intero. Da questa sudicia fogna scorre oro puro. Qui l’umanità raggiunge il suo sviluppo più completo e più brutale, qui la civiltà opera i suoi miracoli e l’uomo civile si trasforma quasi in selvaggio”. Colui che già all’inizio del XIX secolo aveva intuito pregi e difetti della società di massa prossima ventura, in quella stessa tempèrie aveva afferrato una contraddizione destinata ad emergere nell’opinione pubblica solamente nel tardo Novecento: quella insita nel rapporto Uomo-Natura. A partire da quel momento, a partire dal momento in cui il nuovo Prometeo si era definitivamente liberato dai ceppi che lo avevano incatenato al malthusianesimo, rubando agli antichi Dei il sacro fuoco dello sviluppo senza limiti, era posto – per sempre – il problema della coesistenza tra Gaia e il suo più infaticabile abitante. Progresso e sauvagerie, l’uomo che supera la sua soggezione verso lo stato di natura e la natura che quello stato lo perde per sempre. Questa, forse, duecento anni dopo, continua ad essere il tratto maggiormente distintivo di quell’antinomia che definiamo “questione ambientale”. Effettivamente, proprio mentre Tocqueville dava libero corso ai suoi pensieri la Terra cominciava – secondo un numero ormai sempre più numeroso di studiosi, capitanati dal premio nobel Paul Crutzen –, ad entrare in una nuova era geologica. A questa è stato assegnato un nome, antropocene, per enfatizzarne la centralità dell’azione dell'uomo, alla cui attività sono attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche iniziate, simbolicamente, con la scoperta del motore a vapore (1784). Se il dies a quo è quello della setteottocentesca rivoluzione industriale, è anche vero che un ulteriore salto qualitativo lo si è avuto con la Guerra Fredda e l’ingresso nell’era atomica. Mai nella storia dell’umanità l’uomo era stato capace di costruire ordigni capaci di trasformare la Terra in un deserto radioattivo. Mai un siffatto potere di annichilimento era stato concentrato nelle mani di così pochi uomini. In nessun altro momento storico la sperimentazione tecnico-scientifica per usi militari e civili aveva prodotto residui destinati a permanere (alcune volte in barili a tenuta stagna, altre nell’atmosfera o nelle falde acquifere) per centinaia, o forse migliaia, di anni. “Non so con quali armi potrebbe essere combattuta una Terza Guerra Mondiale” – affermava Einstein. “So per certo che una Quarta lo sarebbe a pietre e bastoni”. E, tuttavia, sebbene camminando in un precario “Equilibrio del Terrore” sul filo USAURSS, il mondo della Guerra Fredda si faceva portatore di una realtà in cui la politica non N. 3 - Maggio-Giugno 2016 2 Externality: Gaia al tempo della post-democrazia di Massimo Sciarretta aveva ancora vestito i panni di ancella dell’economia. Per lo storico francese Jean Chesneaux, gli Stati di questo inizio di millennio navigano, invece, senza meta tra le esigenze dell’economia e le evidenze dell’ecologia mostrando l’assenza di una visione politica mondiale capace di intendere che “la questione ambientale ci fa diventare tutti passeggeri del Titanic, anche se alcuni viaggiano in prima ed altri in terza classe”. nazioni finiscono con il garantire una maggiore affidabilità – se non altro in termini di coerenza – rispetto ai regimi democratici. Con il risultato che quando la Cina annuncia un taglio drastico delle emissioni inquinanti nei prossimi anni per questioni di sicurezza nazionale ci troviamo dinanzi ad un proclama più attendibile di quello realizzato da un politico di un paese democratico alla fine del suo mandato presidenziale o in caduta di popolarità nei sondaggi. Madre-natura tra dispotismi e postdemocrazie Oligarchie tecnocratotico-economiche, da un lato. Puri autoritarismi dall’altro. Non è un buon momento per la storia. E per la natura. Nei regimi post-democratici, dinanzi allo strapotere di un potentato oligarchico totus oeconomicus, il potere pubblico si propone, così, come governance, la nuova parola anglofona di derivazione aziendalista che non si scrive neanche più in corsivo perché già parte integrante del nostro vocabolario politico e che, in buona sostanza, può sintetizzarsi nel farsi carico e nel tentare di gestire per presa d’atto dinamiche e decisioni imposte da forze erosive transnazionali e politicamente irresponsabili. È così avvenuto, come dice Zygmunt Bauman, che nel cabaret della globalizzazione lo Stato si sia esibito in uno strip-tease che, alla fine dello spettacolo, lo ha lasciato con indosso soltanto il suo indumento più intimo: il potere di repressione, messo al servizio di megaimprese felici di aver finalmente realizzato l’equazione Stato minimo = gendarme. Nell’era in cui il vecchio muore, ma il nuovo non è ancora nato, “post-democrazia” è il termine coniato dal politologo britannico Colin Crouch per descrivere la realtà delle decisioni che riguardano la collettività e il futuro del genere umano negli Stati democratici al tempo del turbo-capitalismo e della finanziarizzazione. Un momento storico nel quale l’impianto democratico decisorio del sistema politico svolge la funzione di mero simulacro, regolato com’è da norme svuotate della loro effettiva prassi. “La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve” – sostiene Crouch. “A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall'integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici”. Se la post-democracy è la cifra di fondo della galassia di nazioni (ex-)democratiche, il caro e vecchio autoritarismo continua a valere in altre parti del globo, con il paradosso che tali compagini illiberali paiono, allo stato, le uniche ancora detentrici di un potere politico determinante, laddove politica ed economia coincidono. Tradotto per il tema che ci sta qui a cuore, se ne ricava che queste stesse Da un lato, quindi, l’ondata di privatizzazioni ha intaccato la capacità politica (produttiva e distributiva) dello Stato-nazione, annientando l’idea di beni e spazi pubblici; dall’altro, il conseguente acuirsi della conflittualità ne ha aumentato sensibilmente le funzioni repressive, per domare le forze sociali che si oppongono al tentativo di N. 3 - Maggio-Giugno 2016 3 Externality: Gaia al tempo della post-democrazia di Massimo Sciarretta “cancellare un secolo di progresso sociale, trasformando la ripartizione delle ricchezze prodotte da ingiusta ad inumana” (una considerazione, quest’ultima, avanzata da un pericoloso sovversivo: Paul Hellyer, l’expremier del Canada, paese G-7). In verità, non proprio tutto è stato assorbito dalle idrovore del mercato globale. Mentre le prime 147 multinazionali (detentrici, secondo New Scientist del 40% del potere finanziario globale) continuano a produrre lucro e dividendi milionari per i propri azionisti, è stata, come dicevamo, democraticamente riservata alla collettività la conduzione e risoluzione di questioni quali flussi migratori, povertà, criminalità, disoccupazione, tensione sociale, generate da tali dinamiche globali fuori controllo. Externality è il termine (questo sì, senza anglicismi, da scrivere in corsivo perché volutamente poco utilizzato nel gergo politico) dato a tali spiacevoli controindicazioni contenute nella ricetta farmacologica neoliberista, che hanno fatto salire alle stelle la febbre del pianeta. Lungi dal fermarsi alle masse diseredate di esseri umani, l’externality ha, infatti, colpito anche l’altro soggetto debole e senza voce, rappresentato dalla Terra e dagli esseri non umani che la popolano. Un pensiero, questo, che incontra tra i suoi sostenitori il papa che si richiama al santo ecologico per eccellenza e che nella sua ultima enciclica non ha mancato di sottolineare “l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta e la convinzione di come tutto nel mondo sia intimamente connesso”. Extenality è stato, nel 1984, a Bophal, l’effetto indesiderato causato dalla fuoriuscita di 40 tonnellate di isocenato di mitile, nella fabbrica della multinazionale Union Carbide che, dopo aver ucciso più di ventimila persone, ancora oggi inquina terra e sorgenti d’acqua. Il disastro causato, nel 2010, nel Golfo del Mexico dalla marea nera fuoriuscita dalla piattaforma petrolifera del colosso BP, che ha irrimediabilmente contaminato i fondali di quel tratto di mare, è anch’esso annoverabile tra le esternalità. Così come lo è l’inondazione di liquami tossici prodotta lo scorso anno dalla Vale Samarco S.A. e che ha inoculato veleni tossici per gli oltre 800 chilometri di letto del Rio Doce, fino alla sua foce, nell’Atlantico. Externality è il continuo, costante, peggioramento della qualità dell’aria che respiriamo; del cibo che mangiamo. È la sensibile riduzione dell’acqua dolce a disposizione e, contemporaneamente, il gigantesco innalzamento del livello dei mari che, alla fine di questo secolo, al netto del continuo aumento delle temperature, lascerà circa 470 milioni di profughi ambientali, da Venezia alle isole dell’Alaska, da New York ai paesini di pescatori del Bangladesh, questa volta senza fare distinzioni tra poveri ed agiati, perché – per dirla con Ulrich Beck, la povertà è gerarchica, ma il disastro ambientale è democratico. “Siamo tutti passeggeri del Titanic” Molti anni prima di Colin Crouch è stato lo stesso Ulrich Beck a cogliere nella “perdita di importanza del parlamento come centro di formazione della volontà razionale” un N. 3 - Maggio-Giugno 2016 4 Externality: Gaia al tempo della post-democrazia di Massimo Sciarretta segnale in un certo senso positivo e, cioè, un successo, e non una sconfitta, della politica propriamente detta, il cui compito dovrebbe essere giustamente quello di auto-limitarsi, conferendo facoltà decisorie alla società civile, trasferendo ad essa potere politico e responsabilizzazione. “Il tempo delle scuse è finito”, scriveva nel 1986 Beck rivolgendosi alla collettività sulle ali emotive dell’incendio al reattore 4 della centrale di Chernobyl che ha fatto sprofondare una parte dell’Ucraina in un inverno nucleare senza fine. Lo scriveva nel tentativo di scuotere la società umana, invitandola a sentirsi parte di una “comunità di rischio”, solidale non per virtuosismo, ma per paura e, tuttavia, finalmente propositiva e coesa, sebbene per fini utilitaristici. Per Leonardo Boff è inutile girarci intorno: l’uomo pare aver perso la tempra morale per fare una rivoluzione. A farla ci penserà Gaia e allora “diventeremo tutti socialisti non per convinzione, ma per necessità, perché dovremo accontentarci di quel poco che sopravviverà in natura”. Qui il tono inizialmente minaccioso lascia il posto ad un improbabile lieto fine. Davvero una futura penuria di risorse favorirà il fiorire di comunità auto-sostenibili? O, in un’ipotesi del genere, non è forse più credibile uno scenario alla Mad Max? Karl Marx criticava del capitalismo del suo tempo una postura inesorabilmente suicida, dal momento che quello stesso sfruttamento che genera il plusvalore che conviene ad ogni singolo capitalista, dal punto di vista macroeconomico si trasforma nel suo principale punto debole: l’assottigliamento inesorabile del numero di consumatori a cui vendere la merce prodotta. A questa disamina – aggiornata ai nostri tempi – andrebbe aggiunto un ulteriore comportamento, alla lunga, controproducente, rappresentato dal fatto che lo sfruttamento predatorio al quale il capitalismo sta sottoponendo il pianeta finirà con l’annientare lo stesso genere umano che la abita. Perché la Terra è molto di più della crosta terrestre che calpestiamo. E perché, come mostra Alan Weisman in “Il Mondo senza di noi”, la Terra può sopravvivere e rinascere senza l’uomo, non viceversa. Mentre lo sviluppo del nostro sistema di produzione segue un ritmo lineare, il nostro pianeta continua ad “incaponirsi” in un ritmo circolare. E non è possibile adottare per un tempo indefinito un sistema lineare in un mondo che è finito e circolare. Questo lo capirebbe anche un bambino. Tuttavia, al di là delle sempre presenti teorie cospiratorie, il dato forse più allarmante è che non esiste un N. 3 - Maggio-Giugno 2016 5 Externality: Gaia al tempo della post-democrazia di Massimo Sciarretta piano per distruggere il mondo. Ciascuna multinazionale (e, perché no, ciascuno dei consumatori onnivori che le alimenta) si limita alla sua externality. La visione d’insieme è, quindi, quella che manca. Quella visione d’insieme che, nella buona come nella cattiva sorte, risponde al nome di politica. Sicché il dato più preoccupante non è lo strapotere, ma l’impotenza di organismi incapaci di immaginare il mondo per completo, le sue interazioni, i suoi effetti a catena. Gli statisti pensano alle future generazioni, i politici alle prossime elezioni, i maghi della finanza si concentrano nelle imminenti quotazioni della borsa valori, immersi in un intorpidito presentismo. Certo, confidando nella capacità capitalista di risolvere le crisi prodotte attraverso l’accaparramento di nuove terre di conquista c´è poi sempre la possibilità di giocare tutte le nostre fiches sulla futura migrazione verso un pianeta ancora incontaminato. Marte, per esempio, come promette il miliardario sudafricano Elon Musk, portando all’inveramento il desiderio di un altro grande capitalista del XIX secolo che aveva una certa dimestichezza con l’imperialismo, Sir Cecil Rhodes (“annetterei i pianeti, se solo potessi”). È giusto ammettere che se il capitalismo predatorio rappresenta il maggiore dei problemi per la sostenibilità del pianeta, esso non è l’unico. Andrebbero poi discusse altre questioni che un articolo non lascia lo spazio di approfondire, quali la sostenibilità ecologica di un mondo sempre più popolato, indipendentemente dal sistema di produzione utilizzato. Le problematiche legate all’approccio culturale dell’uomo moderno che, contrariamente agli antichi, non si accontenta di essere parte della natura, ma ne vuole costituire il centro. Così come andrebbero affrontate le questioni legate al percorso di rivoluzione interiore che ogni uomo che ha a cuore le sorti del pianeta dovrebbe compiere, senza aspettare l’aiuto di alcun potere esterno e, cioè, uno stile di vita minimalista, che parte da una limitazione nei consumi per finire con l’adozione di nuove abitudini alimentari (chi ha visto il documentario Cowspiracy sa bene quale bomba ecologica rappresenti il consumo di carne su scala planetaria). Tanto i Capi di Stato di nazioni autoritarie, quanto i rappresentanti di regimi democratici hanno comunque, dopo anni di rovinosa inerzia, accettato di riunirsi a Parigi per tentare di sancire delle regole valide per tutti sull’emissione dei gas-serra. La buona notizia è che ci sono riusciti. La cattiva è che l’accordo partirà nel 2020 e che ogni Stato autocertificherà il proprio virtuosismo senza possibilità di controlli di verifica esterni. È vero che la storia non cammina al ritmo della nostra pazienza. È, altresì, vero che se vogliamo continuare ad averne una – di storia –, dovremmo sbrigarci a capire che anche Gaia non vive al ritmo della nostra post-democrazia. N. 3 - Maggio-Giugno 2016