il futuro dell`unione europea dopo il v allargamento

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il futuro dell`unione europea dopo il v allargamento
IL FUTURO DELL’UNIONE EUROPEA
DOPO IL V ALLARGAMENTO
Trento, 26 maggio 2004
Dott. Luigiandrea Pratolongo
Commissione europea
Direzione Generale Allargamento
Dott. Jens Woelk
Ricercatore di Diritto Costituzionale Comparato
Dipartimento di Scienze Giuridiche
Facoltà di Giurisprudenza
Università degli Studi di Trento
GIUNTA DELLA PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO – 2004
Copyright
Giunta della Provincia Autonoma di Trento, 2004
Centro Documentazione Europea
Coordinamento redazionale: Dott. Marco Zenatti
Stampa: Centro duplicazioni P.A.T.
Editore: PROVINCIA AUTONOMA DI TRENTO
PRATOLONGO, Luigiandrea
Il futuro dell'Unione Europea dopo il V allargamento : Trento, 26 maggio 2004 / Luigiandrea
Pratolongo, Jens Woelk. - [Trento] : Provincia autonoma di Trento. Giunta, 2004. - 45 p. ;
21 cm. - (Quaderni del CDE ; 20)
Relazioni presentate al Seminario
1. Europa - Unificazione 2. Unione europea I. Woelk, Jens
341.242 2
Introduzione
Con il gradito compito di aprire i lavori di questo seminario, vorrei
proporre qualche riflessione, sul tema del “Futuro dell’Unione europea dopo il V allargamento” partendo da una constatazione che emerge da due recenti indagini, entrambe della Fondazione Nord Est, che
danno del fenomeno dell’allargamento ad Est due chiavi di lettura
molto diverse.
La prima indagine fatta sugli imprenditori italiani, nell’aprile 2004,
che indica un atteggiamento fortemente positivo degli stessi operatori economici verso questo aumento dimensionale dell’Europa comunitaria.
Nell’Unione europea si passa, infatti, da circa 380 a 450 milioni di cittadini.
La prima ripercussione è evidente: un mercato che si allarga porta con
sé interessanti opportunità di natura commerciale. Ma non solo.
Quello attuale è anche un allargamento che riguarda le potenzialità
produttive di imprese come le nostre che soffrono per una situazione
di competizione internazionale nella quale uno dei fattori di maggiore
criticità è rappresentato dal costo del lavoro. L’allargamento, con il
fenomeno della delocalizzazione, consente ad esempio di affrontare
attraverso una redistribuzione geografica delle imprese questo tipo di
problema.
Un atteggiamento fortemente positivo dunque, anche perché i mercati tradizionali delle nostre imprese soffrono ormai, da due o tre anni,
di una situazione congiunturale di quasi recessione, si pensi ad esempio al mercato tedesco. Mentre ad Est i tassi di crescita del Prodotto
Interno Lordo dei Paesi coinvolti nell’allargamento - e non solo - viag-3-
giano a percentuali nettamente superiori rispetto allo 0,15% che
conoscevamo.
È evidente quindi che vi è un interesse reale da parte dell’imprenditore che vede in quest’allargamento un’opportunità da sfruttare.
Da ultimo vi è anche un ulteriore, interessante orientamento: lo scivolamento cioè degli interessi verso il lontano Est, che si riflette
anche nella scelta dello spostamento delle piattaforme logistiche
ancora più ad Oriente.
La nuova Europa, quindi, risulta particolarmente idonea ad avvicinare
le nostre imprese e i nostri imprenditori ai potenziali mercati del futuro, quelli che stanno crescendo, non a ritmi del 3 o 4%, ma del 7 o 8
o 9%, come avviene in Cina e nel Sud-Est asiatico. Uno sguardo ad
Est, corto o lungo che sia, diventa una proiezione dettata dagli interessi d’impresa.
A fronte di questa percezione, quasi incondizionatamente positiva,
certamente vi è anche chi teme gli effetti della concorrenza che può
accompagnare l’allargamento.
In generale, l’atteggiamento del mondo d’impresa risulta tuttavia
generalmente positivo.
Su questa tematica è stata svolta una seconda indagine, sempre dalla Fondazione Nord Est, realizzata nel maggio 2004. L’indagine, questa volta, è concentrata sui cittadini ed indica un atteggiamento diverso: un atteggiamento d’adesione ma senza passione, senza una convinzione connotata da slancio.
Un’adesione, quindi, simile a quella di chi subisce una decisione, venata da un certo timore.
Questo è l’atteggiamento che i cittadini europei dei 15 Paesi che, fino
a qualche settimana fa, costituivano l’Unione Europea avvertono nei
confronti dei dieci nuovi Paesi e, più in generale, nei confronti dell’evoluzione attuale.
La preoccupazione è essenzialmente dettata dall’idea che il livello della qualità della vita, del benessere raggiunto dai Quindici, possa essere messo in discussione, dall’arrivo di quasi 200 milioni di ulteriori
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abitanti che godono di condizioni di vita nettamente inferiori all’attuale media europea e che, inevitabilmente, tale situazione comporterà,
non per qualche anno ma per qualche decennio, problemi di riequilibrio.
Basti pensare a quel che è successo in Germania all’indomani della
caduta del Muro di Berlino; nell’immaginario collettivo della popolazione dell’Unione europea ci si raffigura una situazione simile.
Insomma, siamo in presenza di un debito che bisognerà spalmare sull’intera popolazione dei 380 milioni cittadini dei 15 Paesi, che deve
servire a colmare lentamente, con il tempo, le lacune, il gap, che dividono le due parti dell’Europa.
In questa contraddizione - in questo paradosso - di un’Europa in cui
le stesse persone - perché gli imprenditori sono a loro volta cittadini
- si esprimono con sensibilità tanto diverse, emerge una prima riflessione che si può sintetizzare così: in fondo, quello che noi stiamo sperimentando in questo dualismo, in questa paradossale antinomia di
atteggiamento nei confronti dell’allargamento, altro non è che l’ulteriore riflesso di un atteggiamento più generale che tutti noi abbiamo
nei confronti del fenomeno legato alla mondializzazione, alla globalizzazione.
Perché tutto questo? Noi ci rendiamo conto che il traino nei processi
di globalizzazione negli ultimi dieci o quindici anni è stata l’economia,
è stato l’interesse delle imprese, è stato l’interesse legato all’allargamento dei mercati, la ricerca delle migliori condizioni possibili per le
attività imprenditoriali, la ricerca del minore costo possibile per la
manodopera, delle migliori piattaforme logistiche possibili per la
distribuzione a livello mondiale.
I processi di globalizzazione hanno visto l’economia al primo posto e
la società e la cultura venire dopo, arrancare, seguire a fatica.
In sostanza, dunque, quello che risulta essere un sentimento dubbioso, un po’ freddo, nei confronti dell’allargamento da parte dei cittadini è, nel microcosmo europeo, la manifestazione di quell’inquietudine
che abbiamo vissuto nel corso dell’ultima decade verso i processi che
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si stanno sviluppando a livello mondiale, dove si riscontrano fenomeni di mondializzazione guidati da interessi né sottoposti ad alcun vincolo di natura culturale, né rispondenti a regole o garanzie di natura
politica: si tratta di logiche in qualche modo estranee alla società e
alle sue rappresentanze istituzionali o alla loro struttura culturale, che
avanzano e corrono per linee interne, solamente sulla base di interessi economici.
Tutto questo era un primo elemento, una prima riflessione che intendevo portare come contributo introduttivo a questo incontro.
La seconda riflessione riguarda questo. A me sembra importante riuscire a rendersi conto di come, nella storia europea, la presenza di
frontiere ha sempre svolto un ruolo determinante ai fini della costruzione dell’identità. Stabilire un limite di frontiera, stabilire “un bordo”,
serve a distinguere quello che è di qui da quello che è di là, serve agli
individui e alle società a concentrarsi attorno ad un nucleo identitario.
Giusto o sbagliato, questo è il processo, è un dato di fatto.
Noi siamo cresciuti culturalmente dentro frontiere. Culturalmente noi
abbiamo sempre avuto bisogno di identificarci in rapporto ad un contrasto. Le frontiere si sono fatte sempre più larghe. Prima, nel corso
dei secoli, erano frontiere che riguardavano territori piccoli che poi
sono diventati territori nazionali; poi, frontiere di aree complesse,
aggregazioni di nazioni, fino ad arrivare a dare un volto all’Europa
come l’abbiamo sperimentata e conosciuta nel corso degli ultimi 20 30 anni.
Adesso la sensazione è che in realtà noi non abbiamo semplicemente
spostato la frontiera ad Est, ma l’abbiamo persa, si è sciolta. La
nostra è una frontiera provvisoria e di là vi è già chi spinge per entrare. Noi stessi, in fin dei conti, se ci fosse chiesto di tracciare con precisione, con mano ferma, dove corre la frontiera della nuova Europa,
ad eccezione forse di qualche addetto ai lavori, non sapremmo farlo;
noi non siamo culturalmente in grado di dire esattamente, oggi, dove
sia la frontiera della nuova Europa.
Allora, questa mancanza, questo venire meno della frontiera, da un
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lato è un acquisto, un’acquisizione enorme, è un fatto di civiltà, perché significa che vi è uno spazio comune all’interno del quale non è
più necessario difendersi dall’ignoto, dal diverso, non “definirsi” per
contrasto rispetto ad un antagonista. Tuttavia tale contrasto, rispetto ad un antagonista virtuale o reale, costituisce sempre una componente fondamentale del nostro DNA. Quello che quindi voglio segnalare in questa seconda riflessione è che ci troviamo di fronte ad un
passaggio estremamente delicato.
Spostando la frontiera e quasi cancellandola, noi abbiamo posto in
cima alla nostra agenda - perché ne siamo meno consapevoli - il problema della nostra identità, di quello che siamo.
Per fare un esempio: pensate a che cosa implica in termini culturali,
sociali, politici, geopolitici il tema dell’allargamento alla Turchia, che è
già nella realtà delle cose, che è già oggetto di dibattito, che si può
procrastinare di qualche anno, ma a cui poi bisognerà dare risposta.
Voi capite che stiamo toccando leve e nervi molto scoperti che, per
ora, sono assopiti ed in seconda linea, ma che sotto lavorano.
Allargare significa cambiare identità, cosa che richiede tempi lunghi,
a volte richiede generazioni. Certamente noi non siamo pronti a questo. Non lo dichiariamo, ma avvertiamo, in questo percorso, un disagio latente.
Aggiungo una terza riflessione. Di fronte a questa condizione di indeterminatezza è evidente che si può reagire in due maniere: innanzi
tutto con spavento, facendo prevalere il timore, la paura, quindi
lasciandosi condizionare da questa perdita del confine, che è perdita
di identità, sviluppando meccanismi di reazione, di chiusura, oppure,
sviluppando le reazioni opposte, cominciando a ragionare in termini di
nuova identità, cominciando a pensare a che cosa significa essere parte di una popolazione di circa mezzo miliardo di persone che, se da un
lato ha un confine certo - il mare - dall’altro, ha un confine incerto che
potrebbe essere ulteriormente allargato, che sfocia e si allunga verso
un lontanissimo Est, verso l’Asia.
Il tema della costruzione della nuova identità è un tema particolar-7-
mente delicato nell’Unione europea, perché in Europa nel corso dei
secoli, ma più in particolare nel corso di questo secondo dopoguerra
si è proposto, con difficoltà, un modello diverso di relazione fra le tre
grandezze attorno alle quali ruota ogni processo di crescita: il tema
della coesione sociale, il tema dei diritti democratici e quello dello sviluppo economico.
Questi tre elementi sono le leve-guida di ogni processo di identità e
di sviluppo di un’area geografica, di un’unione di popoli; però questi
stessi elementi possono, nella realtà, essere graduati in modo diverso.
Noi sappiamo - ce lo ricorda Dahrendorf, che ha scritto delle pagine
mirabili a questo proposito - che esistono tre modi di articolare queste tre grandezze.
Semplificando l’approccio, c’è un modello Nord Americano, nel quale
lo sviluppo economico e i diritti di democrazia vengono al primo posto
e sono i pilastri della società americana anche a scapito del livello di
coesione sociale.
Si accetta, cioè, di pagare un costo significativo, in termini di coesione sociale, pur di avere un’economia forte ed uno scenario di diritti
fortemente garantiti. Quindi, la scelta di quel macrocosmo è quella di
avvantaggiare due elementi su tre.
Poi possiamo individuare il modello che oggi noi, per semplicità,
riconduciamo alla Cina ma anche un po’ a tutto il Sud Est asiatico.
Questa realtà propone una diversa proporzione fra queste tre leve.
Infatti, troviamo un’alta coesione sociale.
Ci sono società in cui le disparità, almeno fino a non molto tempo fa,
erano contenute rispetto alla società americana. Fino a poco tempo
fa, i paesi a maggiore sviluppo come la Cina tendevano a mantenere
come valore primario la coesione sociale, quindi a non allargare le differenze tra ceti ricchi e poveri. Si persegue, invece, sempre più, nel
caso della Cina ormai da quindici anni, il modello di un alto sviluppo
economico. A fronte delle due grandezze su cui si spinge l’acceleratore - coesione sociale e sviluppo economico - si rinuncia, o si mette in
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sordina il tema dei diritti democratici, dei diritti civili; sviluppando
dunque una diversa combinazione dei tre elementi in esame.
L’Europa ha rappresentato, fino ad oggi, un modello in cui, invece, si
è salvaguardato gelosamente un elevato grado di coesione sociale ed
un tenore elevato di democraticità, a scapito, quindi, di una capacità
di sviluppo economico.
Il nostro problema, in Europa oggi, è che abbiamo una crescita economica molto inferiore a quella presente negli Stati Uniti ed a quella
del Sud Est asiatico e che siamo in una situazione di quasi recessione, ormai cronica, da quasi dieci anni. Tuttavia, tutto ciò è affrontato
con piena consapevolezza, perché non vogliamo adottare un modello
che faccia venire meno i valori di tipo democratico e di welfare sul
quale abbiamo costruito la nostra identità, dal secondo dopoguerra in
poi.
Allora risulta comprensibile come il tema relativo alla costruzione di
una diversa identità in un’Europa che s’allarga, che si perde nel confine ad Est, va declinato nella difesa di una diversa composizione di
queste tre leve, mantenendo, comunque, la specificità e l’identità che
fino ad oggi l’Europa ha gelosamente difeso nei confronti dei modelli
che si sono affermati ad Ovest e ad Est.
Ma saremo capaci di mantenere quest’equilibrio?
Evidentemente è faticoso, perché non si riesce a mantenere un elevato modello di coesione sociale quando per troppo tempo la società
non sviluppa ulteriore valore economico.
Ma a fronte di un allargamento che porta problemi di sviluppo economico e di coesione sociale, che sono quelli dei dieci Paesi in cui i livelli di coesione sociale e di sviluppo economico risultano certamente
inferiori rispetto a quelli degli altri quindici, sapremo inventare qualcosa per mantenere una situazione equilibrata, peraltro necessaria a
ricostituire, all’interno della nuova dimensione europea, quella identità che oggi ci sembra di perdere?
Queste sono le tre riflessioni che mi sembra opportuno premettere ai
lavori di questo seminario. Potevo limitarmi ad affermare soltanto:
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“che bello, ci sono dieci nuovi Paesi, siamo tanti di più, l’Europa è una
grande idea”, ma non ho inteso questo seminario come un incontro
celebrativo. Non si può rimanere sprovveduti di fronte ai problemi che
quest’allargamento sta ponendo, che richiedono risposte non solo da
gruppi di esperti o da vertici istituzionali, ma che richiedono un investimento, un coinvolgimento dell’intera collettività, perché, in fin dei
conti.
Con queste considerazioni che vogliono essere d’introduzione agli
interventi dei relatori e di stimolo al dibattito, ringrazio per l’attenzione ed auguro un proficuo lavoro a tutti.
- Gianluca Salvatori Assessore alla Programmazione,
Ricerca e Innovazione
della Provincia Autonoma di Trento
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Dott. Luigiandrea Pratolongo
Ringrazio la Provincia Autonoma di Trento per quest'invito. Faccio
subito riferimento a quanto diceva all'Assessore nel merito alla diffidenza dei cittadini europei riguardo all'allargamento, dovuta anche al
fatto che c'è stata poca informazione, perché sono mancate occasioni
come questa, in cui si poteva spiegare che cos'è l'allargamento e perché andava fatto.
Cercherò di essere leggermente più positivo dell'Assessore: è d'obbligo, come funzionario della Commissione che ha lavorato dal 1998 a
preparare questo allargamento. Non so se si possa veramente parlare di "perdita della frontiera ad est" ma, sicuramente, l'idea è presente nella mente di molti cittadini europei, bisogna però anche ricordare che le garanzie per i cittadini europei non mancano. Non va dimenticato che abbiamo un Trattato che prevede l'obbligo, da parte dei
Paesi nuovi aderenti, di rispettare l'acquis comunitario, che comprende fra gli altri i concetti di democrazia e di coesione sociale.
D'altronde, ne parlerà anche il collega che interverrà dopo di me, i criteri che sono stati definiti a Copenhagen per poter permettere di
accedere all'Unione, sono sia di carattere economico che di carattere
democratico; di conseguenza in fase di negoziato si verifica non solo
che se il Paese sia pronto ad entrare nella Comunità dal punto di vista
economico, ma anche che abbia un'amministrazione rigorosa in grado
di garantire il rispetto delle democrazia e dei diritti fondamentali.
Proprio da questo vorrei partire; ebbene quale è stato il punto di partenza? Il Trattato prevede, all'articolo 49, cito testualmente: "….che
qualunque Stato europeo che rispetti i principi di libertà e il rispetto
dei diritti umani e delle libertà fondamentali può presentare candidatura per diventare membro dell'Unione Europea." Già questo dà un
minimo di quadro, che può far capire dove si situano le frontiere
dell'Unione.
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Su questo punto tornerò dopo, perché si ricollega al mio lavoro;
attualmente lavoro alla "DG Allargamento" e mi occupo, oltre che dei
Paesi candidati, per la parte doganale, anche della nuova politica
cosiddetta di "vicinato" con i "nuovi vicini" per i quali non si prevede
un'adesione. Non starò a ripetere alcune cose ovvie perché, come
diceva giustamente l'Assessore, stiamo cercando di analizzare i problemi e non stiamo semplicemente cercando di "fare la festa" per il
grande successo del primo maggio. Comunque credo che sia giusto
ricordare che, senza dubbio, l'allargamento è il risultato di uno dei
lavori più importanti svolti dalla Commissione dal momento in cui è
stata creata, e dall'Unione stessa - perché il lavoro è stato compiuto
non solo dai funzionari, i "tecnici" della Commissione ma anche dagli
Stati membri, che hanno cooperato nei negoziati - e soprattutto dai
nuovi Stati Membri. Dobbiamo sempre ricordare che questi Paesi hanno fatto un lavoro enorme nel prepararsi all'adesione.
Si tratta di Paesi relativamente poveri, come citato precedentemente;
si va dal Paese più ricco, che è Cipro, che ha l'82% in termini di PIL
rispetto al 100% della media comunitaria, a Paesi come la Lituania e
la Lettonia, dove questa cifra si ferma al 29%. Quindi é innegabile che
ci siano problemi di carattere economico e certo questi ci saranno
anche in futuro: la coesione economica è sicuramente uno dei degli
aspetti che sono stati presi in considerazione in fase di negoziato. Per
preparare l'ingresso di questi Stati, la Commissione ha elaborato un
Piano di lavoro ben preciso, che è cominciato con gli accordi europei.
Adesso si parla di libera circolazione delle merci ma, in realtà, la liberalizzazione, per quanto riguarda i prodotti dei Paesi dell'est , Cipro e
Malta hanno avuto un percorso diverso, era già iniziata con gli accordi europei che risalgono agli anni 1994 -95.
In seguito i Paesi candidati hanno cominciato a svolgere un lavoro di
preparazione particolarmente difficile ed posso dire che, discutendo
con altre colleghi che hanno vissuto i precedenti negoziati, questo è
l'allargamento che è stato preparato meglio rispetto agli altri. È chiaro che le problematiche sono diverse rispetto al passato; i Paesi era- 12 -
no di più e soprattutto si tratta di Paesi più poveri. E' innegabile che
sia stato più facile integrare l'Austria, la Finlandia e la Svezia che non
la Lettonia e la Lituania. In ogni caso, durante questi anni l'integrazione c'è stata, anche mediante gli aiuti comunitari: non dimentichiamo
che l'Unione Europea ha contribuito al processo di integrazione con
molti finanziamenti: posso citare PHARE, oppure ISPA per quanto
riguarda il settore trasporti, l'energia e l'ambiente, che hanno permesso a questi Paesi di riavvicinarsi agli Stati membri. Questi aiuti hanno
consentito soprattutto di prepararsi dal punto di vista amministrativo e del rispetto di tutte quelle caratteristiche necessarie per poter
essere Stati membri a pieno titolo.
Non è stata una cosa semplice e posso dire che i Parlamenti dei Paesi
candidati hanno lavorato a pieno regime, per anni, per prepararsi
all'adesione. Certo è vero che l'allargamento costa ad ogni cittadino,
ritengo però che anche un cittadino britannico euroscettico sia pronto a spendere la cifra stimata di dieci euro per l'adesione dei Paesi candidati.
Il Bilancio comunitario in seguito all'adesione è stato aumentato meno
di quanto avesse richiesto la Commissione: per essere sinceri noi avevamo richiesto molto di più ma gli Stati membri sono stati piuttosto
parsimoniosi. I nuovi fondi a Bilancio serviranno anche per i fondi
strutturali e con questo mi ricollego al discorso della coesione.
L'ampliamento non è stato un processo semplicemente economico,
mirato unicamente a localizzare la possibilità di importare ed esportare, eliminando i dazi; ampliamento significa che, prima di tutto,
questi Paesi avranno possibilità di accesso ai fondi strutturali, aiuti
che hanno avuto i nostri Paesi nel corso degli anni e che sono serviti
a fare, per esempio dell'Irlanda, della Spagna e del Portogallo paesi
completamente diversi da quelli che erano al momento dell'adesione.
In parallelo i paesi hanno sviluppato anche una legislazione rigorosa
e certa in tutte le materie - in materia di lavoro, trasporti, ambiente
e così via - in pratica una legislazione equivalente alla nostra. C'è stato quindi un graduale processo di adattamento alla normativa dei
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Paesi aderenti e, di conseguenza, non ci troviamo più in una situazione di rischio di dumping sociale, perché ormai, ad esempio, i tempi
di lavoro di un autotrasportatore in Slovacchia non potranno più,
come nel passato , essere completamente diversi da quelli del suo collega tedesco. Un'azienda di autotrasporti della Slovacchia non avrà più
la possibilità di far lavorare i propri dipendenti per ore ed ore, come
avveniva in passato, mentre le aziende tedesche dovevano sottostare
alla legislazione comunitaria e quindi garantire ai loro dipendenti altri
ritmi di lavoro.
Tutti questi problemi dunque, sono stati, in qualche modo, risolti in
fase di pre-adesione E' tuttavia necessario che i Paesi aderenti - e per
questo la Commissione ha lavorato a lungo - preparino la loro amministrazione ai nuovi compiti, perché sappiamo che per gestire i fondi
comunitari ci vuole un'amministrazione capace. Sappiamo benissimo
che ci sono Stati membri attuali che perdono fondi comunitari perché
non li sanno gestire. Nel passato abbiamo visto che alcuni dei Paesi
candidati non sapevano gestire neanche i fondi di preadesione ma
devo dire che, attualmente, la situazione è molto migliorata e vedremo nel futuro che cosa i nuovi Stati Membri saranno capaci di fare.
Non mi dilungherò molto su questi aspetti, perché penso ne parlerà
il collega. Voglio invece fare qualche considerazione sui criteri dell'adesione.
Nel 1992 a Copenaghen è stata presa la 'grande' decisione. I paesi
candidati, se rispettavano determinati criteri, potevano diventare
Stati membri: il criterio politico innanzi tutto, ossia, il fatto di essere
una democrazia, di avere un governo stabile, cosa che prima non era
assolutamente assicurata. Il criterio economico, perché per far parte
dell'Unione bisogna far fronte alla concorrenzialità del mercato unico
e degli altri Stati Membri. Il criterio amministrativo, che citavo prima,
cioè avere un'amministrazione in grado di gestire l'acquis comunitario nella sua globalità.
Da lì è cominciato il grande viaggio, noi diciamo "da Copenhagen a
Copenhagen", perché a Copenhagen sono stati definiti i criteri e sem- 14 -
pre a Copenhagen si sono conclusi i negoziati.
Direi che il momento della svolta è stato sicuramente il 1998, anno in
cui sono iniziati i negoziati di adesione .
Credo che anche di questo parlerà il collega; sul modo in cui sono stati condotti posso dirvi che il negoziato è stato diviso per settori: agricoltura, ambiente, trasporti eccetera. Io ho cominciato a lavorare nel
settore doganale proprio in quell'anno e ho negoziato con tutti i Paesi
candidati un capitolo, quello dell'Unione doganale, che include anche
la parte commerciale, la tariffa doganale esterna dell'Unione Europea.
Nel 2001, avviene una nuova svolta: si sono iniziati i negoziati con i
Paesi che precedentemente non rispettavano i criteri - come la
Slovacchia - che, al momento in cui sono cominciati i negoziati con i
primi Paesi aveva un governo che non si poteva definire certo democratico; ebbene la Commissione, fino ad allora, nel suo parere annuale, aveva evidenziato che il criterio di democrazia non era soddisfatto
e che per questo non si poteva iniziare il negoziato. La stessa cosa,
del resto, la stiamo dicendo alla Turchia oramai da alcuni anni.
Sempre nel 2001 c'è stata un'ulteriore svolta, un nuovo documento
della Commissione definito road map, in cui abbiamo analizzato lo
stato di avanzamento di tutti i Paesi, settore per settore, per vedere
quale fosse la situazione reale e le prospettive future. Semplificando
si è usato modello a "semaforo", verde, rosso, giallo, qui non funziona, c'é molto da fare, qui siamo sulla buona strada, qui invece le cose
sono state risolte.
Da quel momento abbiamo usato il metodo della concorrenza positiva, fra i paesi nel senso che avevamo diviso il negoziato in capitoli;
avevamo delle tabelle in cui si riportava il numero di capitoli negoziali chiusi da ciascun paese. Questo ha avuto un effetto molto positivo, perché ogni Paese aveva la tabella degli altri paesi e diceva: "Il
paese X ha chiuso più capitoli di noi", e si dava da fare. Un vero e proprio incubo per i politici, soprattutto di quelli che lavoravano nei
Parlamenti nazionali , che hanno dovuto lavorare a ciclo continuo per
rispettare tutte le scadenze di trasposizione della legislazione .
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Da quel punto abbiamo analizzato, anno per anno, lo stato di avanzamento dei Paesi ed a Copenhagen, nel 2002, si è deciso che i 10 Paesi
di cui parliamo oggi , potevano "entrare in Europa". Posso dire che è
stato un lavoro complesso nel quale tutti gli elementi dovevano essere presi in considerazione. Per questo motivo prima parlavo di garanzie, perché la Commissione , insieme agli Stati membri (perché non
dobbiamo dimenticare che la Commissione presenta i suoi risultati,
ma poi tutto questo viene discusso e deciso dagli Stati membri) ha
ritenuto che le condizioni fossero tali da permettere a questi 10 Paesi
di aderire all'Unione.
In seguito abbiamo avuto la firma del trattato d'adesione e mi limito
a dire che il risultato è stato particolarmente positivo. Da notare che,
rispetto a quella che è la situazione dei "15", la diffidenza nei confronti dell'adesione nei Paesi candidati era decisamente inferiore e questo
si è visto nei referendum che si sono tenuti in tutti, Paesi candidati ,
tranne Cipro dove non si è votato, che hanno visto la grande maggioranza dei cittadini esprimersi a favore dell'adesione. Per quanto
riguarda invece l'informazione in materia d'allargamento negli stati
Membri, è innegabile che in alcuni casi l'informazione è stata insufficiente soprattutto per colpa dei governi, nel senso che la
Commissione si è incaricata di fare il suo lavoro nei Paesi candidati,
mentre gli Stati membri hanno detto che spettava a loro organizzare
la strategia d'informazione dei loro cittadini. Si deve riconoscere che
qualche Stato membro è stato più efficace, altri meno
Prossime tappe: qui ritorno al problema di definire dove si ferma la
frontiera dell'Unione. Tanto per cominciare, bisogna "digerire" quest'ampliamento, cosa che sarà sicuramente non direi complicata ma
sicuramente impegnativa perché, dal punto di vista tecnico, non sarà
facile anche per i nuovi stati membri prepararsi a questa nuova vita,
quella della partecipazione al sistema comunitario. La Commissione
continuerà a monitorare la situazione nei Paesi e gli stessi Paesi hanno la possibilità, in caso di problemi, di invocare delle clausole di salvaguardia.
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Rimangono ancora problemi aperti. Ad esempio, per l'adesione alla
moneta unica ci vorrà tempo ma, anche in questo caso, i criteri cui
i nuovi Stati Membri dovranno sottostare sono già definiti; lo stesso
vale per il Trattato di Schenghen. Se nell'Unione allargata il concetto di "frontiera doganale interna " ora è scomparso, perché ricordo
che le merci possono circolare liberamente, rimane il problema, assai
articolato e complesso, della circolazione delle persone.
I Paesi aderenti non sono membri dell'accordo di Schenghen e ci vorrà ancora tempo perché possano dare le garanzie che sono necessarie per la sicurezza dei cittadini europei. La Commissione, infatti, ha
ritenuto che, se per il momento questi Paesi sono in grado di garantire la sicurezza per quanto riguarda il controllo delle merci o i controlli sanitari e così via, non sono in grado di farlo per quanto riguarda il controllo delle persone (pensiamo, ad esempio, ai problemi legati al terrorismo e via dicendo); quindi richiediamo un ulteriore sforzo
a questi Paesi prima di accettare l'eliminazione dei controlli delle persone alle frontiere "interne".
Per quanto riguarda invece la libera circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione allargata, se io, cittadino per esempio slovacco,
desidero andare a lavorare in Germania devo informarmi bene quali
siano le norme valide nel "periodo transitorio", deciso con l'atto di
adesione. Il trattato prevede che siano i 15 vecchi Stati membri a
negoziare accordi bilaterali con i nuovi Paesi, di conseguenza sarà ad
esempio la Germania a stabilire qual è la possibilità per i cittadini slovacchi di andare a lavorare in Germania, come l'Italia deve decidere
per i cittadini polacchi che verranno in Italia e così via.
Il trattato prevede diverse fasi, per cui si può avere una liberalizzazione immediata o graduale; per esempio il Regno Unito e l'Irlanda hanno deciso che qualunque lavoratore dei nuovi Paesi potrà entrare liberamente sul loro territorio per lavorare, pur definendo delle condizioni per quanto riguarda la copertura della previdenza sociale, in particolare in materia di sussidi alla disoccupazione.
Si tratta di accordi bilaterali, che possono durare due anni con una
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possibile proroga di altri cinque anni; la Commissione farà un'analisi
della situazione in materia alla fine del secondo anno, lo Stato membro avrà comunque la competenza in materia fino al settimo anno;
dopo il settimo anno non potranno più essersi ostacoli di nessun tipo
alla libera circolazione dei lavoratori.
Dove finisce l'allargamento? È la domanda di tutti e direi che la
Commissione ha cercato di fornire una risposta con una nuova politica, di cui mi occupo attualmente, che è la nuova politica di vicinato.
Si tratta di una politica rivolta a quei Paesi che sono nostri vicini e che
si ritiene non abbiano vocazione a diventare Stati membri. La domanda, a questo punto, è questa: quali sono i Paesi che hanno vocazione
a diventare Stati membri? Sicuramente dal punto di vista della
Commissione - e penso che anche gli Stati membri in parte siano d'accordo - ci sono sicuramente i Balcani. Di questo parlerà il collega. Ma,
che cosa deve fare - o non fare - un Paese se vuole diventare membro? Deve presentare una candidatura ufficiale d'adesione e la
Commissione deve analizzare la richiesta e fornire un parere agli
Stati membri, per spiegare se ritiene che il Paese possa, o meno,
entrare e quindi dare avvio ai negoziati. Questo è stato fatto per la
Croazia, in questo semestre; quest'anno, la Commissione ha espresso parere positivo alla candidatura croata; nel frattempo anche la
Macedonia ha fatto domanda ma non vi è ancora alcuna risposta ufficiale in merito da parte della Commissione .
Posso dire che in realtà non abbiamo ancora iniziato il lavoro tecnico
di analisi della candidatura , perché probabilmente è ancora un po'
presto, ma sicuramente i Balcani rappresentano una zona che ha
vocazione a diventare parte dell'Unione Europea.
Con la Bulgaria e la Romania stiamo negoziando e ci sono ancora alcuni capitoli aperti. L'Assessore citava il 2007; questa è una data che
viene evocata spesso, però, evidentemente, finché il negoziato non
sarà concluso non si potrà definire la data precisa dell'adesione.
La Turchia è un problema a sé; è innegabilmente un problema e qualcuno mette addirittura in dubbio il fatto che si possa applicare l'arti- 18 -
colo 49 del Trattato perché si parla di "Paese europeo" ed, in realtà,
tutti si chiedono se la Turchia sia un Paese europeo o meno.
Personalmente non ho una risposta precisa a questa domanda ma
devo dire che la Commissione sta preparando in questo momento il
documento che verrà presentato al Consiglio per decidere se iniziare
o meno i negoziati con la Turchia. Dal mio punto di vista, tecnico, (per
la Turchia mi occupo essenzialmente di Unione doganale), la mia
risposta non può che essere positiva. La Turchia è già in Unione doganale per i prodotti industriali con l'Unione e gestisce i rapporti con
l'Unione in maniera corretta e quindi, dal punto di vista tecnico, almeno nel mio settore, il mio parere è essenzialmente positivo.
Chiaramente il problema dell'adesione della Turchia va molto al di là
del criterio tecnico, perché i parametri e i criteri di Copenhagen in
realtà riguardano anche altri aspetti che superano quelli strettamente tecnici, come il rispetto dei criteri di democrazia. La Commissione
fornirà il suo parere in merito alla decisione di iniziare i negoziati con
la Turchia, ma la responsabilità politica spetta agli Stati membri che
rappresentano i cittadini dell'Unione Europea.
Per gli altri Paesi vicini invece la nuova politica è diversa (sto parlando dei Paesi di cui mi occupo attualmente, cioè Paesi mediterranei, dal
Marocco fino alla Siria; e all'est Paesi come l'Ucraina, la Moldavia, la
Bielorussia e, parzialmente, anche la Russia). Questi sono Paesi che
non hanno vocazione ad entrare nell'Unione europea e per questo
motivo bisogna rivedere le nostre relazioni con loro anche alla luce
dell'allargamento, perché l'Europa cambia per gli Stati Membri ma
cambia anche per gli altri Paesi. Noi quindi stiamo rivedendo la nostra
politica nei confronti di questi Paesi nella sua totalità, cercando di
basare le nostre azioni su idee e su principi condivisi - o spesso anche
non condivisi - ma per i quali cerchiamo di dare un impulso positivo.
Questi principi sono soprattutto quelli di democrazia, del rispetto delle minoranze, delle regole di mercato, della concorrenza, rispetto dell'ambiente, di tutela delle persone.
Si tratta di Paesi molto diversi tra loro, perché chiaramente è difficile
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fare un paragone fra l'Ucraina e il Marocco; in ogni caso sono Paesi
che sono nostri vicini e con i quali dovremmo avere una politica globale coerente, per i quali, appunto, la Commissione ha varato questa
nuova proposta. Stiamo in questo momento preparando dei "piani
d'azione" con ognuno di questi Paesi per vedere come poterli aiutare
e come poterli portare ad un livello simile al nostro ma, ripeto, non
con l'idea che questi Paesi possano diventare in un futuro Stati membri. Va anche detto che alcuni di questi Paesi sono interessati ad
entrare nell'Unione europea come , ad esempio, il Marocco, che ha
più volte espresso questa sua intenzione.
Non si può escludere che per paesi come la Bielorussia, l'Ucraina e la
Moldavia si possa in futuro parlare di adesione, ma sicuramente nell'arco di uno spazio temporale piuttosto lungo, perché la situazione
economica e politica è tale da non permettere neanche di prendere in
considerazione una alcuna richiesta di adesione.
La Bielorussia è un caso ancora a parte, perché non abbiamo, con quel
paese, alcun rapporto ufficiale. La situazione del regime bielorusso è
tale per cui l'Unione europea ha deciso di non avere rapporti diplomatici con il governo della Bielorussia. In realtà, nonostante faccia parte della politica di vicinato, tutto quello che la Commissione può fare,
perché ne ha mandato, è intrattenere rapporti con organizzazioni non
governative, o con altri enti che non rappresentano il governo.
Per quanto riguarda la percezione dei confini, devo dire che sono perfettamente d'accordo sul fatto che lo scopo della nuova politica di vicinato è anche quello di evitare problemi per il futuro; va detto anche
che insieme alla politica di vicinato la Commissione sta preparando
un nuovo strumento di assistenza tecnica. L'idea è di mettere insieme
le forze ed intervenire sui diversi strumenti esistenti: TACIS, per i
Paesi ex Unione Sovietica, CARDS per i Balcani; il programma PHARE per i Paesi candidati, Bulgaria e Romania; l'idea è quella di mettere ordine per permettere a tutti i nostri vicini di poter usufruire degli
strumenti di assistenza nel migliore dei modi. E' il caso dei gemellaggi. I gemellaggi sono uno strumento che è stato utilizzato con i
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Paesi candidati, che permetteva di dare assistenza tecnica non direttamente, ma tramite gli Stati membri con l'uso di fondi comunitari. Ad
esempio la Francia poteva aiutare la Slovacchia a preparare la struttura amministrativa del Ministero delle finanze, e la Commissione finanziava il progetto; pensiamo che questo sarà un altro tipo di attività
che potremmo estendere a tutti i paesi vicini. Per quanto riguarda
l'applicazione pratica del nuovo strumento unico di assistenza tecnica è un po' prematuro in questa fase fare previsioni , stiamo ancora
lavorando e il collega che sta preparando la bozza del regolamento si
trova di fronte ad enormi problemi. E' chiaramente difficile, dopo aver
gestito per tanti anni dei programmi di assistenza completamente
separati, riuscire a crearne uno unico. Tuttavia stiamo lavorando per
rendere più coerente con la nuova politica di vicinato anche la gestione degli attuali programmi fino al 2007, quindi nell'ambito delle prospettive finanziarie esistenti.
In termini di competenze, nel settore delle relazioni esterne ci sono
attualmente diverse Direzioni Generali: la Direzione Generale allargamento, la Direzione Generale relazioni esterne, la Direzione Generale
che si occupa dei Paesi in via di sviluppo; poi c'è la parte del "Terzo
pilastro", non comunitaria, gestita da Solana. Per il futuro le rispettive competenze saranno riviste. E' chiaro che la gestione dello strumento finanziario seguirà l'andamento della Commissione e quindi per
il momento è piuttosto difficile dire esattamente come sarà lo scenario futuro. L'idea fondamentale è che non si presenti più il caso in cui,
alla stessa frontiera, due progetti, uno gestito con un Paese candidato e l'altro gestito con un Paese TACIS, (ex Unione sovietica) , con
regole completamente diverse, con tempi completamente diversi, siano gestiti in maniera completamente disgiunta come, in realtà, è
avvenuto finora.
Per concludere, spero che, fra una decina d'anni, potrà venire in questa Università qualcuno a raccontare l'esito favorevole della "politica
di vicinato", così come posso farlo io oggi per il processo del quinto
allargamento. Nel frattempo aspetto le vostre domande, grazie.
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IL PROCESSO DI INTEGRAZIONE EUROPEA
TRA ALLARGAMENTO E APPROFONDIMENTO:
UN EQUILIBRIO DIFFICELE
Dott. Jens Woelk
Secondo una felice metafora l'Unione europea funziona come una bicicletta in movimento: si va avanti, e solo in avanti, e questo finché ci
si muove senza porsi la questione del giusto equilibrio; quando ci si
ferma invece, si deve anche decidere dove mettere i piedi e cercare un
equilibrio diverso. Questa metafora illustra molto bene la storia del
processo di integrazione europea con dei continui cambiamenti ed
approfondimenti: ciò è di particolare attualità in questo periodo, nel
quale da un lato l'Unione europea sta compiendo l'allargamento
all'Europa orientale includendo 10 nuovi Stati membri (Estonia,
Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca,
Ungheria, Slovenia, Malta e Cipro) e dall'altro sta cercando di darsi
una nuova base giuridica con il Trattato costituzionale europeo per
disciplinare la convivenza di questi Stati nella comunità sovranazionale.
Dall'inerente tensione tra allargamento ed approfondimento dell'integrazione nasce la questione decisiva per il prossimo futuro: riuscirà
l'Unione, soprattutto con l'approvazione del Trattato costituzionale
Europeo, a fare dei passi importanti in avanti con l'approfondimento,
oppure sarà costretta, come conseguenza dell'allargamento, ad una
fase di consolidamento che rallenterà la corsa oppure addirittura la
fermerà, facendola entrare in un periodo di stasi nel processo di integrazione? Per rimanere nella metafora, gli effetti dell'allargamento ci
costringeranno a prendere una posizione più netta riguardo agli obiettivi della corsa ed ai difficili equilibri da tenere.
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Il seguente intervento cercherà di mettere luce su allargamento e
approfondimento, sui rapporti tra loro e la risultante tensione fra
entrambi. Partendo dal carattere evolutivo del processo di integrazione europea si ricorderà l'emergere (e dunque l'esistenza) di uno spazio costituzionale europeo "a geometria variabile" che da tempo va
oltre la mera dimensione comunitaria includendo nelle sue organizzazioni principali (Consiglio d'Europa e Organizzazione per la Sicurezza
e la Cooperazione in Europa - OSCE) tanti Stati che non sono (ancora) membri dell'UE. Come primo passo, quindi, l'avvicinamento
all'Unione europea passa per queste organizzazioni, solo in una seconda fase la richiesta di adesione viene formalizzata con dei criteri specifici ed una procedura particolare per l'adesione degli Stati candidati.
Dopo l'esame di questi criteri si passerà ad un breve bilancio riguardo agli equilibri tra allargamenti e approfondimenti dell'Unione nel
passato, seguito infine da una valutazione delle prospettive per il
futuro.
L'integrazione europea tra allargamento e approfondimento
Pochi giorni fa, il 1 maggio del 2004, si è compiuto, dalla prospettiva dell'UE, il suo quinto allargamento che ha esteso l'Unione a Stati
che per decenni facevano parte del blocco comunista. In questo modo
è stata definitivamente superata la divisione del Continente europeo,
un obiettivo politico visto quasi come necessità e quindi condiviso da
tutti. Dalla loro prospettiva, la richiesta di adesione da parte dei 10
nuovi stati membri ed i successivi sforzi fatti per entrare nell'Unione
sottolineano che l'integrazione è considerata un successo al quale si
vuole partecipare e contribuire.
Nonostante l'importanza dell'evento, l'allargamento è però passato
quasi in "silenzio": complessivamente c'è stata poca pubblicità e relativamente poca attenzione alle questioni connesse. Nella percezione
dell'opinione pubblica sembrano appena dominanti le chances politiche e strategiche positive (sebbene ancora poco chiare) di fronte alla
sensazione generale di paure diffuse che riguardano soprattutto le
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conseguenze economiche dell'allargamento (probabilmente negative).
Questi timori dovrebbero far riflettere visto che l'approccio funzionale ed economico è sempre stato il motore dell'integrazione europea.
L'atteggiamento piuttosto scettico si aggiunge al poco interesse con
cui si sono seguiti i lavori della Convenzione europea che ha elaborato il "Trattato per una Costituzione europea": la causa di ciò è ritrovabile nella complessità e tecnicità dei problemi o nelle controversie
politiche spesso limitate a questioni simboliche? Quali collegamenti
esistono tra le due dimensioni - allargamento e approfondimento?
Deve l'uno essere considerato il presupposto necessario dell'altro (il
mandato della Convenzione riguardava anche l'assetto istituzionale
con l'obiettivo di renderlo più efficiente in vista dell'allargamento)? E
quali sarebbero le conseguenze di un fallimento nell'adozione del
Trattato costituzionale per l'Unione (ormai già allargata)?
L'approfondimento, cioè il processo di una sempre maggiore integrazione fra gli Stati membri della Comunità europea, si è svolto in varie
tappe: vanno a tal proposito ricordati soprattutto l'Atto Unico
Europeo del 1986 (che poneva l'importante obiettivo della creazione
del mercato comune), poi le successive revisioni dei Trattati, a partire dal salto di qualità del Trattato di Maastricht del 1992 (con l'introduzione dell'Unione europea), passando poi, sempre più velocemente,
per Amsterdam (1997), fino a Nizza (dicembre 2000), revisione
entrata in vigore solo il 1 febbraio 2003. Da tanto tempo ci si riferisce al sistema costruito da tali Trattati con l'espressione di una
"Comunità di diritto" con i Trattati che fungono come una
"Costituzione di fatto", a causa della loro funzione, importanza e
supremazia sul diritto nazionale degli Stati membri.
Allo stesso tempo si è sentita sempre di più l'esigenza di razionalizzare e soprattutto semplificare le basi giuridiche create per rendere la
struttura sovranazionale più trasparente e comprensibile per i cittadini in Europa. Un esempio per tutti è la proclamazione della Carta
europea dei diritti fondamentali che, raccogliendo la giurisprudenza
della Corte di Giustizia in materia nonché i princípi costituzionali
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comuni degli Stati membri, doveva soprattutto dare maggiore visibilità a questi diritti (senza introdurne - troppi - nuovi). Per la sua stesura si è sperimentato per la prima volta e con successo il metodo
convenzionale; tuttavia, al vertice di Nizza, il 6 dicembre 2000, la
Carta è stata soltanto "solennemente proclamata" senza attribuirle
forza giuridica vincolante. Tutt'ora, e a differenza della Convenzione
europea dei diritti e delle libertà fondamentali (CEDU) del Consiglio
d'Europa, il catalogo comunitario è quindi in primo luogo un documento simbolico, espressione di valori e di una identità costituzionale comune.
Il carattere processuale dell'integrazione europea non è però limitato
all'approfondimento: anche il suo allargamento è avvenuto in quattro fasi successive: nel 1973 hanno aderito il Regno Unito, l'Irlanda
e la Danimarca, nel 1981 è entrata la Grecia, dopo la sua uscita da
una dittatura, nel 1986 la Spagna ed il Portogallo, il cosiddetto
allargamento meridionale (anche questi due Stati attraversarono
una fase di trasformazione dopo esperienze di dittatura), ed infine,
nel 1995, l'adesione dell'Austria, della Finlandia e della Svezia, tutti
Stati "neutrali" (la Norvegia si era all'ultimo momento decisa contro
un'adesione). Guardando all'attuale quinto allargamento sembra
importante sottolineare che i quattro allargamenti precedenti comprendevano sia Stati che prima erano sistemi totalitari sia Stati che
erano allora economicamente molto più deboli rispetto alla media
degli Stati membri (si pensa soprattutto a Grecia, Spagna e
Portogallo).
Inoltre, nonostante l'impressionante allargamento attuale che aggiunge 10 nuovi Stati membri ai 15 dell'Unione, il processo rimane aperto: Bulgaria e Romania sono già da tempo paesi candidati per il prossimo turno, probabilmente nel 2007; inoltre c'è la questione controversamente discussa della Turchia nonché la promessa di integrazione data agli Stati dei cosiddetti Balcani occidentali (tra cui la Croazia
come Stato più avanzato ha recentemente acquisito lo status di paese candidato). Altri potrebbero ancora seguire.
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Guardando bene questo quadro articolato, complesso e differenziato
non va dimenticato che l'Unione europea costituisce soltanto una parte dello spazio costituzionale europeo che si sta costruendo negli ultimi decenni. Si assiste, infatti, alla formazione di un diritto costituzionale europeo comune consistente nella coesistenza e sovrapposizione
di una realtà giuridica articolata, nella quale operano contestualmente tre sfere "geogiuridiche" (Toniatti) che si rapportano tra di loro
come tre cerchi concentrici:
Q All'interno, come nucleo, sta l'Unione (e la Comunità) europea,
caratterizzata dall'integrazione (non solo economica) nel contesto di
un ordinamento giuridico condiviso, di carattere sovranazionale. Dal
punto di vista territoriale e sociale si tratta dell'entità geogiuridica più
ridotta e contenuta ma più omogenea e integrata.
Q La sfera intermedia è rappresentata dal Consiglio d'Europa, più
esteso territorialmente e socialmente. Questa organizzazione si è
rivelata in grado - attraverso la cooperazione intergovernativa - di
promuovere nel corso di decenni importanti accordi internazionali, fra
i quali spicca la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle libertà fondamentali e il suo sistema giurisdizionale
di tutela degli stessi. Operando strutturalmente attraverso gli strumenti del diritto internazionale, il grado di integrazione risulta di
natura diversa e di portata minore rispetto all'ordinamento sopranazionale dell'UE.
Q La sfera esterna è costituita dall'Organizzazione per la Sicurezza e
la Cooperazione in Europa (OSCE) con l'estensione più ampia ma
anche meno omogenea, preordinata anzi proprio a garantire e guidare il percorso della transizione dell'Europa centrale e orientale, ma
oggi soprattutto dell'Europa balcanica. Essa rappresenta la dimensione meno sviluppata, riconducibile essenzialmente al suo trattato istitutivo e a successivi singoli accordi e pertanto retta, in parte, da norme cogenti di diritto internazionale e in parte ben maggiore da enunciati solo politicamente vincolanti ma di fatto determinanti rispetto
all'effettività della sovranità formale degli Stati.
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Trattandosi dell'ambito meno omogeneo, in alcuni casi, l'appartenenza all'OSCE può venire valutata anche alla stregua di una sorta di
"camera di iniziazione" (con il monitoraggio di elezioni e del trattamento delle minoranze) finalizzata all'adesione al Consiglio d'Europa
(richiedendo la ratifica e l'attuazione dei suoi trattati internazionali)
così come l'appartenenza a quest'ultima costituisce una specie di
"camera di maturazione" rispetto all'adesione all'Unione europea, che
rimane il principale polo d'attrazione dell'intero continente.
Attualmente, si può osservare la via di avvicinamento degli Stati dell'area balcanica che si rivela quindi un processo tendenzialmente lungo, complesso e graduale, con varie fasi intermedie. L'obiettivo della
transizione in atto è quello della crescente compatibilità con le tre sfere "geogiuridiche"dell'Europa.
L'allargamento: i criteri per diventare Stato membro
Come si è visto l'emergente architettura costituzionale del Continente
europeo predetermina già alcuni criteri ai quali gli Stati si devono conformare per partecipare all'organizzazione più ristretta e, dal punto di
vista costituzionale, più omogenea. L'Unione europea disciplina tali
criteri nei propri Trattati istitutivi, prima nell'art. 237 TCE (Trattato
della Comunità europea) e nell'art. O TUE (Trattato del'Unione europea nella versione di Maastricht, 1993), e attualmente nell'art. 49
TUE (versione di Amsterdam, 1999).
L'art. 49 TUE contiene essenzialmente due presupposti per gli Stati
che chiedono l'adesione:
Q La richiesta può essere fatta solo da uno Stato "europeo" in senso geografico. Questo criterio geografico, a prima vista apparentemente semplice e convincente, crea tuttavia più problemi di quanti ne
possa risolvere essendo il Mediterraneo l'unica delimitazione geografica chiara (conseguentemente è stata respinta la candidatura del
Marocco nel 1987), mentre sono molto meno definiti i limiti verso Est
e Sudest: applicando il criterio geografico che ha determinato l'associazione al Consiglio d'Europa in modo simile, non si pone soltanto la
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questione della Turchia (con uno status da paese candidato dal
1999), ma anche quella della Russia (per la quale non esiste tuttavia
nessuna prospettiva concreta), entrambi membri del Consiglio
d'Europa.
Q "Il secondo presupposto è costituito dal rispetto dei principi contenuti in art. 6 (1) TUE (ex F):
1. L'Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e dello
stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri.
Questo comma è espressione di un certo grado di omogeneità politica richiesta per l'adesione, nella forma di un minimo denominatore
comune. Va tuttavia sottolineato che non è richiesta nessuna omogeneità culturale tra gli Stati membri (oppure dai paesi candidati); anzì,
il rispetto delle identità nazionali costituisce uno dei princípi fondamentali dell'Unione europea, art. 6 (3) TUE, ed include perfino le loro
strutture regionali. In conseguenza, all'Unione europea sono attribuiti soltanto pochi poteri (sostanzialmente integrativi) per intervenire
in ambito culturale, cfr. art. 151 TCE.
Finora, nella prassi del quinto allargamento nonché nei rapporti con
gli Stati dei Balcani occidentali, i criteri per l'adesione contenuti nel
diritto primario venivano sintetizzati nei Criteri di Copenaghen
(Consiglio europeo, 1993) che pongono tre condizioni di carattere
politico, economico e giuridico secondo le quali un possibile paese
membro deve …
a) essere una democrazia stabile, che rispetta i diritti umani, il principio dello Stato di diritto e i diritti delle minoranze;
b) adottare un'economia di mercato funzionante;
c) adottare le regole, le norme e le politiche comuni che costituiscono il corpo della legislazione dell'UE.
Nel processo di preparazione all'adesione (di cui sotto) la
Commissione verificava e valutava la conformità degli ordinamenti dei
paesi candidati a questi criteri, di seguito brevemente esaminati. Ci si
soffermerà di più sui criteri di carattere politico trattandosi di quei cri- 29 -
teri e princípi che maggiormente permettono di farsi un'idea sull'identità dell'Unione europea stessa.
a) Criteri di carattere politico
Si tratta di principi comuni agli Stati membri, anche se questa formulazione contiene ovviamente una semplificazione considerando le tradizioni diverse nei singoli ordinamenti. Mentre il principio democratico è abbastanza univoco nei suoi contenuti (sostanzialmente la libera
elezione del governo da parte del popolo), meno lo è per quello dello
Stato di diritto (la base comune - astratta - è in particolare la limitazione ed il controllo del potere) riguardo al quale si possono registrare le seguenti differenze tra:
Q Rule of Law (nella concezione del Regno Unito) che accentua il
contenuto formale del principio con i vari checks and balances tra le
istituzioni, e soprattutto con delle garanzie procedurali dell'individuo,
e
Q Rechtsstaat (nella concezione continentale e tedesca) che include
(anche) un contenuto sostanziale nel senso di un ordinamento oggettivo di valori che sono da realizzare e da attuare dai poteri pubblici.
Un compromesso e un collegamento tra questi due concetti sembra
comunque possibile attraverso la formulazione "diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali", anch'essa contenuta all'art. 6 (1) TUE, che
servono sia alla tutela dell'individuo sia alla costituzione di valori (va
ricordata nuovamente l'importanza della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, anche se non ancora diritto vincolante).
Nella prassi del processo di allargamento, la Commissione ha esaminato e valutato la struttura e il funzionamento delle istituzioni legislative, esecutive e giurisdizionali in una combinazione tra i princípi di
una "democrazia parlamentare" e della "separazione di poteri" con particolare attenzione ad un controllo parlamentare effettivo e all'indipendenza del potere giurisdizionale, senza però prescrivere o richiedere
delle strutture istituzionali concrete e particolari (che starebbe peraltro in netto contrasto con il rispetto della diversità che funge da con- 30 -
trappeso alla richiesta di un'omogeneità minima degli Stati). Serie
preoccupazioni per l'attuazione di questi princípi hanno tuttavia portato al rinvio delle trattative con la Slovacchia sotto il governo Meciar,
nel 1997.
Nella formulazione "diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali" sono
incluse le libertà politiche e civili nonché i diritti sociali, culturali ed
economici, ma anche i diritti delle minoranze (esplicitamente menzionate e così accentuate nella formulazione dei criteri di Copenaghen,
ma non espressamente contenute dall'art. 6 TUE). Va osservato che
l'Unione europea, nel 1993, non disponeva ancora di un proprio catalogo dei diritti fondamentali, ma doveva far riferimento al Consiglio
d'Europa e alle Costituzioni degli stessi Stati membri. A causa delle
preoccupazioni per un rafforzamento dei nazionalismi nei nuovi Stati
sovrani con poca esperienza democratica si è subito insistito sulla
creazione di un sistema di tutela effettiva comprendente qualche controllo esterno (attraverso la ratifica dei Trattati internazionali comuni
agli altri Stati membri). Un punto di riferimento importante è costituito dalla Carta europea sociale del 1961 (senza prescrivere dei diritti specifici) alla quale si aggiungerà futuramente la già menzionata
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
Essendo la tutela delle minoranze a livello comunitario poco sviluppata (ad eccezione di strumenti contro la discriminazione), l'Unione
europea, per poter valutare il comportamento dei vari paesi candidati, utilizzò criteri contenuti in accordi e trattati internazionali, soprattutto quelli del Consiglio d'Europa, in particolare la Convenzione quadro sulla tutela delle minoranze (facendo così riferimento alla "seconda sfera" dello spazio costituzionale europeo al quale avevano già aderito tutti i paesi candidati). Di conseguenza, si è posta la fatidica questione dell'applicazione di standard diversi, sia a causa della diversità
degli strumenti usati come criteri, sia per le differenze fra "vecchi"
Stati membri e paesi candidati sotto osservazione. Un ulteriore
rischio si pone dopo il primo maggio con l'entrata dei nuovi Stati
membri: la tutela rischia di risultare minore rispetto al periodo prece- 31 -
dente di continuo monitoraggio e valutazione, visto che questi meccanismi non sono né permanenti né vengono applicati nei confronti
dei "vecchi" Stati membri (ad esempio la Francia o la Grecia). Perché
si dovrebbe continuare allora ad applicarli ai "nuovi" Stati membri una
volta entrati (ad esempio ai paesi baltici o alla Slovacchia)? Con la sorprendente esplicita menzione della tutela delle minoranze tra i valori
dell'art. I-2 del Trattato costituzionale europeo potrebbe attenuarsi
questo rischio, ma la formula dovrà ancora concretizzarsi in meccanismi precisi e necessita di una sua attuazione (inoltre deve prima
entrare in vigore il Trattato costituzionale europeo). Sarà quindi molto interessante vedere se l'allargamento sarà seguito da nuove iniziative dell'Unione in ambito di tutela delle minoranze. Questo sarebbe
molto importante, perché nel passato non sono mancati i casi dove le
libertà fondamentali economiche comunitarie sono entrate in contrasto con il principio della tutela delle minoranze.
L'ultimo criterio di carattere politico sono le "politiche comuni
dell'Unione", e quindi la politica in senso stretto. Esemplare è il caso
dell'adesione di Cipro: con la prospettiva dell'integrazione tutti speravano di poter risolvere le divisioni esistenti fra Nord e Sud, ma non è
stato così e tuttavia Cipro (la parte greca) è stata ammessa all'Unione
Europea. Si ricorda però che anche nel passato le politiche comuni
non sono mai state dei veri ostacoli all'adesione. Così hanno aderito
l'Irlanda, l'Austria e la Finlandia, che in quanto neutrali portavano delle posizioni diverse alle politiche comuni rispetto alla maggioranza
degli Stati membri (che sono allo stesso tempo membro della NATO);
ancora prima l'adesione della Grecia è stata giudicata possibile nonostante il suo conflitto con la Turchia. Ciò dimostra chiaramente che le
politiche comuni vanno valutate con dei parametri esclusivamente
politici costituendo così l'unico "vero" criterio politico; a differenza,
dunque, dei vari princípi comuni - i princípi democratico e dello Stato
di diritto nonché la tutela dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (inclusa la tutela delle minoranze) - che, come appena visto,
richiedono invece un esame approfondito dell'ordinamento giuridico e
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della sua attuazione per una valutazione, trasformandosi quindi da
criteri "politici" in parametri giuridici articolati e concreti.
b) Criteri di carattere economico
Per quanto riguarda i criteri di carattere economico, giuridicamente
essi consistono sostanzialmente nell'obbligo di "adottare un'economia
di mercato funzionante" (art. 4 TCE). Qui non è il luogo per entrare
nel merito della questione; va ricordato che questo criterio pone l'accento soprattutto sulla libera competizione, senza seguire degli
approcci troppo standardizzati. Tuttavia, nel 1997 sono state rinviate le trattative di adesione con la Lituania e la Lettonia (nonché con
la Bulgaria e la Romania), perché questi paesi erano considerati ancora troppo deboli economicamente; poi si è potuto registrare il successivo recupero dei primi due paesi che ha permesso loro di rimanere
tra i paesi candidati più avanzati.
c) Criteri di carattere giuridico
Con i criteri di carattere giuridico si valuta soprattutto la capacità di
ricezione e attuazione delle norme comunitarie vincolanti e la condivisione delle aspirazioni politiche della Comunità come presupposti per
la parità con gli altri Stati membri (tutti i membri godono degli stessi diritti e hanno gli stessi obblighi). Tutta la legislazione comunitaria
(il cd. "acquis comunautaire") comprende ca. 14.000 atti giuridici che
riempiono ca. 80.000 pagine (e creano i famosi problemi di traduzione di cui si può leggere sui giornali). Nell'interesse dei nuovi, ma
anche dei vecchi Stati membri sono comunque previsti dei periodi di
transizione più o meno lunghi in tanti settori. Espressamente previsto è infine la partecipazione all'Unione monetaria come dichiarato
interesse (futuro) dei nuovi Stati membri, da esaminare però solo
successivamente all'adesione (art. 121 TCE).
La procedura di adesione: il processo che ha portato all'allargamento
La procedura di adesione ha inizio con la domanda del paese interes- 33 -
sato. Dopo un parere positivo della Commissione europea sull'inizio
delle trattative e una rispettiva decisione degli Stati membri le trattative sull'adesione possono cominciare. I criteri politici costituiscono
una precondizione assoluta per l'inizio delle trattative, mentre la conformità ai criteri economici e giuridici è un obiettivo da raggiungere
gradualmente fino all'adesione effettiva. Per il raggiungimento di tale
obiettivo vale il principio della differenziazione: in trattative separate
per ogni candidato si valuta il suo progresso individuale nel processo
di transizione e ricezione dell'acquis comunautaire; si tratta di una
costante interazione bilaterale tra dialogo, trattative e monitoraggio
degli obiettivi vincolanti e chiari dell'acquis, suddivisi in 31 capitoli
(con un ruolo tecnico della Commissione sotto la guida della Direzione
generale "Allargamento"). Possono essere accordati limitati periodi di
transizione, ma essi richiedono l'unanimità degli Stati membri.
Pubblicità e trasparenza del processo sono garantite dal continuo
monitoraggio dell'attuazione dell'acquis (nella legislazione del paese
candidato) e da rapporti periodici sul progresso verso l'adesione
(Progress reports) pubblicati dalla Commissione.
Dopo la fine delle trattative e con la soddisfazione dei criteri da parte
del paese candidato, la procedura formale di adesione (prevista dall'art. 49 TUE) si svolge a due livelli:
(a) all'interno delle istituzioni comunitarie è necessario il parere positivo della Commissione (come una specie di certificato di idoneità
"tecnica" del paese candidato), il consenso del Parlamento europeo (a
maggioranza assoluta dei suoi membri) nonché la delibera finale unanime del Consiglio europeo.
(b) Una volta approvata l'adesione da parte dell'Unione, si procede al
Trattato di adesione tra Stati membri e candidato da ratificare da parte di tutti i soggetti coinvolti, sia degli Stati membri (da tutti e individualmente, non è dunque prevista una ratifica "collettiva" da parte
della Comunità stessa, sia del paese candidato). A seconda delle
disposizioni nazionali la procedura nazionale di ratifica di questo trattato internazionale può anche richiedere un referendum.
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Questo processo in due fasi, con la distinzione tra un piano giuridico
comunitario (i rapporti diretti e bilaterali con le istituzioni comunitarie, l'acquis comunautaire, l'approvazione da parte degli organi comunitari) e un piano di diritto internazionale (la ratifica da parte di tutti
gli Stati interessati) dimostra la convivenza e l'integrazione dei due
elementi - comunitario e internazionale - nell'Unione europea e rende
talvolta difficile la comprensione dei meccanismi. Usando il linguaggio
informatico si potrebbe dire che l'Unione europea è ancora "basata su
un sistema operativo", cioè il sistema che fa funzionare il computer,
che segue le regole del diritto internazionale; come programma per
l'utente e più facile da usare si applica una particolare superficie
comunitaria (software), quella definita "sopranazionale" e costituita
dal sistema delle regole stabilite nei trattati. Mentre il software di
applicazione lavora molto bene e facilita il lavoro nell'uso quotidiano,
i problemi sorgono quando si vogliono modificare i suoi princípi (e
quindi: i trattati); questo vale sia per l'approfondimento del Trattato
costituzionale europeo, sia per l'allargamento, cioè l'adesione di nuovi membri. In questi casi non è sufficiente il programma di applicazione, ma si deve ricorrere al sistema operativo (invisibile nella gestione
quotidiana) e dunque far ricorso al diritto internazionale. Dopo l'assenso, sul piano comunitario, gli Stati membri - finora 15, dopo il 1
maggio 25 - devono quindi ratificare tutte le modifiche secondo le
loro - diverse - procedure nazionali, come se si tratasse di un qualsiasi trattato internazionale. È ovvio che questo rende questo processo
molto lento e imprevedibile nei risultati.
Gli effetti dell'allargamento: un primo bilancio
L'adesione di nuovi Stati membri non può mutare l'essenza
dell'Unione, né costituire l'occasione per rinegoziare i trattati istitutivi. Essa comporta adattamenti istituzionali (ad esempio nella composizione degli organi, riguardo alla ponderazione dei voti nei Consigli
ecc.), ma non sono mai previste modifiche fondamentali che possano
mutare gli obiettivi e le politiche dell'Unione. I cambiamenti si sono
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verificati piuttosto prima dell'allargamento e hanno riguardato più i
nuovi Stati membri che l'assetto interno dell'UE. Anzi, una delle motivazioni principali per l'elaborazione di un Trattato costituzionale europeo è stata quella di rendere la struttura istituzionale dell'Unione più
adatta ad un'Unione dei 25, visto che il problema non era stato risolto in maniera soddisfacente né con le modifiche di Amsterdam né con
quelle di Nizza.
Leggendo poi con attenzione i trattati di adesione si comprende che
il 1 maggio 2004 non cambia sostanzialmente la situazione, almeno
dal punto di vista strutturale. Per quanto riguarda le istituzioni, esse
vengono semplicemente ampliate per includere i 10 nuovi Stati membri: così sono stati aggiunti 10 nuovi commissari alla Commissione
(senza dicastero fino alla nomina della nuova Commissione in novembre), il Consiglio europeo è ora composto da 25 Capi di Stato e di
Governo, e in giugno si votano 730 deputati per il Parlamento europeo (circa cento deputati in più rispetto alla composizione fino all'allargamento, 626 deputati), la Corte di Giustizia avrà 25 giudici, mentre per quanto riguarda gli ulteriori cambiamenti causati immediatamente dall'allargamento va nuovamente ricordato che il 1 maggio
segna solo il momento ufficiale e formale dell'adesione dei nuovi membri, sia perché alcune regole erano già applicate da tempo, sia perché
il processo non è ancora concluso in tutti i punti. In particolare:
Q le regole di libertà comunitaria si applicano dal 1 maggio alle merci, ma non alle persone.
Q Per periodi transitori differenziati (dai 5 ai 12 anni a seconda dei
settori) saranno in vigore regole limitative della libertà di stabilimento dei nuovi cittadini, dell'acquisto di terreni e dell'introduzione dell'euro (che dunque oggi non è più la moneta della maggioranza dei
Paesi, ma solo di 12 su 25).
Q Nessuna limitazione si applica per le imprese (ma questo valeva
già da tempo).
Q E non c'è nessuna novità immediata per il diritto di stabilimento
dei nuovi cittadini, che sarà limitato (quindi uguale a prima) per altri
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7 anni. I vecchi Stati membri hanno potuto stabilire ciascuno per proprio conto regole sull'immigrazione dai nuovi paesi: molti l'hanno fatto per tempo (specie Gran Bretagna e Irlanda), garantendosi fin da
subito l'immigrazione più qualificata. Altri, soprattutto l'Italia, non
hanno voluto aprire subito le loro frontiere.
Tutto sommato, c'è da constatare che l'allargamento ha certamente
prodotto una maggiore complessità della normativa comunitaria: si
pensi soltanto alle menzionate disposizioni transitorie che sono 256
in totale (suddivise su 14 dei 31 capitoli delle trattative con i 10 nuovi membri)! Inoltre è aumentata notevolmente l'eterogeneità nella
sostanza, a causa del maggiore dislivello economico e della divergenza negli interessi, soprattutto riguardanti la politica estera, ma anche
le politiche agrarie ecc. La probabile conseguenza è un corrispondente aumento dei conflitti fra gli Stati membri da risolvere politicamente, soprattutto dal Consiglio europeo. Inoltre, i trattati di adesione
non hanno né voluto né potuto affrontare o risolvere le questioni istituzionali più importanti rimaste aperte dopo le Conferenze intergovernative di Amsterdam e Nizza.
Il necessario approfondimento: il Trattato costituzionale europeo
Per facilitare il funzionamento delle istituzioni in un'Europa dei 25, inizialmente la riforma delle strutture istituzionali era pensata come il
presupposto necessario per far funzionare la macchina comunitaria
dopo l'allargamento. Adesso sembra vero il contrario - i nuovi Stati
sono stati accolti senza prima adottare una riforma istituzionale e
strutturale - e c'è quindi il rischio di un rallentamento nell'approfondimento del processo di integrazione.
I lavori della Convenzione che si sono svolti con la partecipazione dei
nuovi Stati membri (allora erano ancora paesi candidati) hanno prodotto una bozza di un Trattato costituzionale europeo che, dopo trattative insistenti ma pazienti della Presidenza irlandese, è stata approvata dal Consiglio europeo il 18 giugno del 2004 ed è caratterizzata
dai seguenti elementi principali:
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Q innanzitutto da una razionalizzazione dell'esistente cercando di
rendere più chiara e trasparente la struttura: la prima parte raccoglie
tutte le disposizioni fondamentali di carattere "costituzionale" in un
documento breve (solo 54 articoli); la seconda parte contiene la Carta
europea dei diritti fondamentali; la terza - e più lunga - parte riporta
le disposizioni più tecniche e dettagliate sulle competenze e sul funzionamento dell'Unione (342 articoli), la maggior parte dei quali già
presenti negli attuali Trattati istitutivi.
Q Poche sono le innovazioni in ambito istituzionale nella prima parte: ci sarà un Presidente del Consiglio europeo (per dare più continuità al posto dell'attuale Presidenza a rotazione ogni sei mesi), un
Ministro per gli Affari esteri che sarà allo stesso tempo VicePresidente della Commissione (per dare maggiore visibilità alla
Politica Estera e di Sicurezza Comune dell'Unione) e, infine, un
Presidente della Commissione proposto dal Consiglio ma eletto dal
Parlamento.
Q Con l'introduzione della Carta europea dei diritti fondamentali
come parte II del Trattato costituzionale, essa acquisisce il valore vincolante finora mancante.
Q Sotto il titolo "valori dell'Unione" l'art. 2 "costituzionalizza" i criteri di Copenaghen (includendo - su iniziativa della Presidenza italiana
sorprendentemente accolta - anche i diritti "degli appartenenti alle
minoranze"), mentre l'art. 3 contiene un elenco degli "obiettivi
dell'Unione".
Tre questioni principali avevano bloccato fino alla fine il dibattito sul
Trattato costituzionale provocando il fallimento del vertice a Bruxelles
nel dicembre 2003 sotto la Presidenza italiana ed il conseguente rinvio di una decisione alla successiva Presidenza irlandese: il futuro
numero dei Commissari e la composizione della Commissione (ci sara
ancora un Commissario per paese?), la ponderazione dei voti degli
Stati all'interno del Consiglio dei Ministri e l'estensione della maggioranza qualificata al posto dell'unanimità per ulteriori aree di politica
dell'Unione. Il Trattato costituzionale nella versione approvata il 18
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giugno 2004 a Dublino prevede ora che solo dal 2014 sarà ridotta la
composizione della Commissione rinunciando alla rappresentanza di
ogni Stato membro e riducendo i commissari a 17 (in un'UE con 25
Stati membri), art. I-25. Dal 2009 si introdurrà il requisito di una
doppia maggioranza per il Consiglio al posto della ponderazione dei
voti attuale: oltre al 55% degli Stati membri (attualmente 15) necessari per approvare una decisione, i loro voti dovranno anche rappresentare almeno il 65% della popolazione dell'Unione (art. I-24), che
significa che né i tre grandi Stati membri possono da soli bloccare una
decisione (ci vorranno almeno quattro Stati), né i 10 nuovi membri
insieme potranno porre un veto. Infine saranno estese le aree per il
voto a maggioranza limitando quindi l'unanimità all'ambito della tassazione e, parzialmente, alla politica sociale nonché alla politica comune estera e di sicurezza, oltre a delle decisioni riguardo al bilancio
dell'Unione e alla revisione del Trattato costituzionale stesso.
Osservazioni conclusive: approfondimento difficile e futuri allargamenti
Attualmente quindi, il problema più serio, quello istituzionale, non è
risolto, né probabilmente lo sarà soddisfacentemente con il Trattato
costituzionale. Nonostante la sua approvazione avvenuta in giugno,
sembra però allontanarsi la prospettiva dell'effettiva ratifica ed entrata in vigore (si pensi soprattutto all'annunciato referendum in Gran
Bretagna e in altri Stati membri ormai più euroscettici). In secondo
luogo, il Trattato costituzionale risolverà alcuni problemi istituzionali
di governo, ma non quello più grave delle politiche (soprattutto quello più costoso delle politiche agrarie).
Considerando le difficoltà da aspettarsi nel processo di ratifica in alcuni dei 25 Stati membri, non c'è però motivo di essere solo pessimisti:
non va dimenticato che storicamente anche i fallimenti costituzionali
hanno dato spesso inizio ad una nuova era di integrazione europea
costringendo a pensare ad alternative; persino la Comunità economica stessa è nata dopo il fallimento del progetto più ambizioso di una
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Comunità politica e di difesa europea. Nello stesso modo anche l'eventuale fallimento del Trattato costituzionale potrebbe dare inizio ad
una fase alternativa, necessariamente caratterizzata da una maggiore
differenziazione.
Per la verità, la differenziazione è già normale oggi, guardando soprattutto gli accordi di Schengen e l'area dell'Euro, entrambi forme di integrazione avvanzata alle quali non partecipano tutti gli Stati membri.
In futuro, in particolare nell'ipotesi di una mancata ratifica del Trattato
costituzionale da parte di tutti gli Stati membri, potrebbero aggiungersi la politica estera e di sicurezza, la politica degli affari interni e
della giustizia come aree di maggiore differenziazione. Sarebbe quindi auspicabile un approccio sistematico e anche degli strumenti efficaci che permettano una tale differenziazione e forme di sperimentazione di collaborazioni avanzate senza però escludere la possibilità di
seguire più tardi per altri Stati membri. Tuttavia, il Trattato non dà
delle risposte specifiche a riguardo.
Per tutti questi motivi l'obiettivo di una Costituzione "semplice" e breve, auspicato da tanti, non era né possibile né desiderabile (perfino
Jack Straw, il Ministro degli Affari esteri britannico, che all'inizio dei
lavori della Convenzione aveva chiesto una "Costituzione su un foglio
A 4" ha ridimensionato le sue aspettative dichiarandosi soddisfatto
dell'elaborato approvato). L'Unione europea non è uno Stato (né lo
sarà tra breve), ma rimane una comunità sovranazionale con delle
regole proprie riguardo all'ordinamento internazionale e con forti
interdipendenze con gli ordinamenti degli Stati membri. Per le questioni fondamentali, essa continua ad essere ancorata nel diritto
internazionale, come dimostrato ancora una volta dalla necessità di
una ratifica "esterna" nei casi esaminati dell'allargamento e dell'approfondimento; il Trattato costituzionale non ha modificato questa esigenza nemmeno riguardo alla terza parte più tecnica.
Dopo l'allargamento e l'auspicabile prossimo passo di approfondimento con l'entrata in vigore del Trattato costituzionale, c'è quindi pericolo di indigestione e la necessità di una lunga fase di consolidamento
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e di assestamento? Si dovrà vedere. Tutto dipenderà dall'esito del
processo di ratifica.
Il processo di integrazione sarà difficilmente concluso: già oggi esistono, oltre agli Stati membri (vecchi e nuovi), almeno tre categorie
diverse di rapporti con l'UE (con varie sottocategorie ed eccezioni)
che si stanno intensificando:
Q i paesi candidati a diventare membri: Bulgaria e Romania per cui
è stata fissata l'entrata nel 2007, e la Turchia, per ora ancora senza
trattative sull'adesione, ma con alcuni trattamenti privilegiati.
Q I paesi associati dei Balcani occidentali ai quali è stata fatta la promessa irreversibile della prospettiva di adesione. L'approccio regionale inizialmente seguito nei confronti di questi Stati si sta attualmente
trasformando in un approccio più individualizzato che riflette le capacità e i progressi diversi di questi paesi, con la Croazia come capofila
più vicina al raggiungimento dello status di candidato.
Q Inoltre è stato creato intorno all'Unione il "Wider Europe"
(l'Europa allargata) come una specie di "circolo di amici" o di buon
vicinato comprendendo attualmente il Marocco, la Bielorussia, la
Russia, l'Ucraina, la Moldova ed Israele (in questo modo si è ripreso
il modello dei cerchi concentrici sperimentato dalla NATO e del "partneriato per la pace").
L'allargamento appena conclusosi può fungere da "modello" anche per
il futuro, in particolare per l'integrazione dei Balcani occidentali?
Mentre la procedura in atto per Romania e Bulgaria sta seguendo
esattamente lo schema sopra descritto, ai Balcani occidentali si applica una strategia diversa con il processo di stabilizzazione e di adesione. Gli strumenti paralleli adottati sono, a livello regionale, il Patto di
Stabilità, e per i singoli paesi gli Stabilisation and Association
Agreements nell'ambito dello Stabilisation and Association Process
guidato dall'Unione Europea. Come parametri e per misurare i progressi fatti durante il lungo cammino, si applicano nuovamente i criteri di Copenhagen che in tal modo assumono carattere vincolante:
essi, infatti, stabiliscono i gradini da salire nelle varie fasi del proces- 41 -
so di avvicinamento incontrando però dei limiti più forti per motivi di
una maggiore distanza di tali Stati a causa della trasformazione economica, sociale e costituzionale, dei conflitti nonché della debolezza
delle loro strutture istituzionali. Per sostenere il processo di avvicinamento degli Stati dell'area balcanica saranno quindi necessari più tempo per la ricostruzione e la creazione dei presupposti per l'adesione
nonché ulteriori strumenti specifici di assistenza tecnica e finanziaria.
Tornando alla questione dell'equilibrio fra allargamento e approfondimento e considerando le divergenze negli interessi e presupposti
degli Stati membri (aumentate dopo il recente allargamento), una sua
realizzazione sembra possibile soltanto acettando un maggiore grado
di differenziazione che tuttavia, almeno in parte, è già realtà.
Certamente questo va a scapito dell'omogeneità, soprattutto verso
l'esterno, ma sembra necessario per conservare il consenso dei membri e per evitare situazioni di blocco. Un utilizzo mirato degli strumenti di integrazione differenziata dovrebbe quindi essere la conseguenza
per il ri-orientamento strategico del processo di integrazione europea.
Maggiore differenziazione sembra la ricetta necessaria per mantenere
l'efficacia interna senza rinunciare alla prospettiva complessiva europea; altrimenti si rischia di cadere nella "trappola" della formazione
statuale con i suoi presupposti di omogeneità che rende probabile un
fallimento di fronte alla contemporaneità di consolidamento interno e
sfida esterna. Maggiore differenziazione non rende certamente più
semplice il quadro complessivo, ma corrisponde probabilmente
meglio sia agli interessi dei membri sia alla scelta costituzionale iniziale fatta dai fondatori negli anni cinquanta: il "metodo funzionale". Il
successo di questo metodo sta soprattutto nell'essere riuscito ad
integrare l'economia senza richiedere a pari passo l'unificazione politica. Con il suo approccio innovativo di organizzazione del potere politico, l'Unione non dovrebbe cedere alla tentazione di seguire i vecchi
modelli di formazione statuale del XVIII secolo basati sull'omogeneità
e sull'esclusività: a differenza di allora, oggi ci stiamo faticosamente
abituando a lealtà ed identità diverse ma complementari nei confron- 42 -
ti di comunità politiche e giuridiche diverse a più livelli di governo. Né
l'attuale allargamento né il Trattato costituzionale segnano dunque la
fine del processo di integrazione.
Reynoud Dehousse ci insegna: L'Europa non è una cattedrale rinascimentale che segue il disegno unico di un singolo architetto geniale,
ma piuttosto una cattedrale medievale, costruita pazientemente da
generazioni di artigiani con i vari materiali disponibili e in reazione alle
esigenze sentite nei diversi periodi: l'impressione di una scarsa coerenza del progetto risulta probabilmente da questo, nonostante la sua
funzionalità e i grandi traguardi già raggiunti in pochi decenni.
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Riferimenti bibliografici:
Dehousse, Reynoud (2000), Rediscovering Functionalism. Jean
Monnet Working Paper (Symposium: responses to Joschka Fischer),
Harvard Law School 2000:
www.jeanmonnetprogram.org/papers/07/00
Ott, Andrea e Inglis, Kirstyn (a cura di) (2004), Handbook on
European Enlargement. A Commentary on the Enlargement Process,
TMC Asser Press, The Hague
Toniatti, Roberto (2000), Los derechos del pluralismo cultural en la
nueva Europa, Revista Vasca De Administracion Publica
Ziller, Jaques (2004), La nuova Costituzione europea, 2° edizione, Il
Mulino, Bologna
I Trattati e il progetto di Costituzione europea sono reperibili nel sito
ufficiale dell'Unione europea:
http://europa.eu.int/eur-lex/it/search/search_treaties.html
Sito web "Allargamento" della Commissione europea (incl. Rapporti
sullo stato della preparazione dei candidati):
http://europa.eu.int/comm/enlargement/index_it.html
L'avvenire dell'Unione europea - dibattito:
http://europa.eu.int/futurum/index_it.htm
Testo provvisorio del progetto di Costituzione:
http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/costituzione_eu/
cos_it.pdf
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COLLANA "QUADERNI DEL CDE"
1. La tutela delle minoranze etnico-linguistiche in relazione alla rappresentanza politica:
un'analisi comparata
2. Le professioni turistiche nell'ottica comunitaria
3. Euro: una sfida per la pubblica amministrazione
4. L'accesso ai documenti amministrativi nella prospettiva comunitaria
5. Cooperative, associazioni e mutue nelle normative e nelle politiche della comunità europea
6. Accesso alle fonti informative comunitarie
7. Opportunità di cofinanziamento comunitario nel settore dell'ambiente
8. Documento elettronico e firma digitale
9. Gioventù - il programma Europeo per l'educazione non formale e la mobilità internazionale
10. La Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea
11. Programma comunitario "Cultura 2000"
12. Disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato
13. Il sistema degli aiuti di Stato nella politica di concorrenza dell'Unione Europea
14. La produzione della normativa comunitaria
15. Il nuovo Programma Quadro dell'Unione Europea per la ricerca
16. La concorrenza nei servizi pubblici di trasporto
17. Il Libro Bianco sulla Governance Europea: nuove prospettive comunitarie dell'autonomia
trentina
18. L'Unione Europea e la "questione regionale". Quali orientamenti nella Convenzione per
una Costituzione europea?
19. Le politiche europee in materia di cooperazione con i paesi terzi: processi, prospettive,
opportunità (in corso di pubblicazione)
20. Il futuro dell'Unione europea dopo il V allargamento
Le pubblicazioni sono disponibili su Internet al seguente indirizzo:
http://www.provincia.tn.it/cde, oppure si possono richiedere a:
Provincia Autonoma di Trento,
Centro di Documentazione Europea, via Romagnosi, 9
38100 Trento, tel. 0461/495087-88, fax 0461/495095, mailto: [email protected]
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