Prefazioni - Tecniche Nuove

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Prefazioni - Tecniche Nuove
Prefazioni
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o conosciuto Anna Paola nel settembre del 2005. Ero la
sua insegnante di lettere nella classe IC. Sin da subito
rimasi colpita dai suoi occhi penetranti che mostravano una
profondità e una maturità fuori dal comune e il suo primo
tema di Italiano avvalorò questa mia prima intuizione. Aveva solo undici anni…ma la mano della scrittrice cominciava
sin da allora a tessere preziosi fili di Stella sulla tela del suo
destino.
Sua madre i primi giorni di scuola venne a parlarmi e mi
raccontò della malattia di Anna Paola: la Glicogenosi II. Una
malattia a me sconosciuta e, nonostante le delucidazioni che
la madre mi fornì, non mi resi conto fino in fondo di cosa si
trattasse. Anna Paola in classe non ne parlava mai con nessuno né mostrava segni particolarmente evidenti di un disagio.
Il suo orgoglio e la sua fierezza, a tratti meravigliosamente
austera, celavano agli occhi di molti, quello scricciolo fragile
e delicato che, inconsapevole della sua forza e della sua luce,
serbava timorosamente in sé il suo più grande segreto, la sua
più intima amica.
In questi anni in cui ha frequentato la Scuola Interiore
delle Arti, Anna Paola ha iniziato ad accettare e abbracciare
la sua malattia. Molti inverni hanno attraversato la sua vita,
tante battaglie ha combattuto e continua a combattere ricordandosi sempre, tra una caduta e l’altra, il messaggio fondamentale di questo percorso: accettare se stessa così com’è e
amare la vita in tutti i suoi colori.
La Scuola le ha insegnato a esprimere le sue emozioni, a
fidarsi di sé, a mostrare senza vergogna le sue difficoltà quotidiane e a scoprire, dietro queste, i suoi talenti più profondi.
È stata ed è tuttora un esempio per tutti noi, insegnanti e
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allievi, una maestra di vita che ci ricorda continuamente che
gli ostacoli ci rendono migliori. Nel silenzio del mio cuore,
ogni volta combatto con lei le sue battaglie, le sono e le sarò
sempre vicina, come insegnante e come amica.
Mi auguro con tutta me stessa che questo libro possa essere un monito per ricordare che ogni vita va vissuta appieno,
nonostante le avversità, e possa essere un esempio, un incitamento per tutti gli adolescenti e adulti che si arrendono di
fronte alle difficoltà, per quelli che dicono “non ce la faccio”
e si sentono vittime anziché vincenti perché inconsapevoli
delle enormi potenzialità e tesori che ognuno ha dentro di sé.
Per Anna Paola scrivere e pubblicare la sua storia non è
stato affatto facile. Il lavoro è iniziato come una tesina per
accedere, dopo il percorso triennale della Scuola, all’attestato
di animatore artistico. Nello scriverla ha affrontato tutte le
sue paure, i fantasmi della sua malattia passati, presenti e futuri, le sue vergogne più intime. Più volte ha pensato di non
farcela, di non voler ricordare, di non voler sviscerare fino in
fondo le parti più dolorose di sé.
Una vera guerriera di luce però, sa che non può arrendersi, non è nata per questo.
È andata avanti, ha scelto di pubblicare la sua storia, di
mettersi a nudo davanti a tutto e tutti e di lasciarsi leggere
nell’anima donando al mondo la sua più profonda e intima
essenza.
Con questo libro ci apre lo scrigno del suo più grande segreto, vincendo così la sua ennesima battaglia.
Grazie Anna Paola.
Mariangela di Pasquale
Docente di lettere
Direttrice e insegnante della Scuola Interiore delle Arti
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uello che leggerete in questo libro è tutto vero, ma soprattutto è frutto del sincero lavoro di rielaborazione
della propria coraggiosa e, oserei dire unicamente preziosa,
esperienza di vita. Quando a me, medico, è stato chiesto di
farne la prefazione, ho accettato con piacere, sapendo di non
essere né un letterato, né un divulgatore scientifico. Soltanto
un privilegiato “testimone” di parte della storia di una giovane donna che si autodefinisce, con leggera ironia, “dannatamente meravigliosa”. Una donna che ha generosamente deciso di far conoscere agli altri la sua forte esperienza umana,
fatta di faticose sconfitte, ma anche di luminose vittorie.
Ho conosciuto la giovane autrice di questo intenso e bel
libro quando lei era ancora bambina undicenne, in un momento molto difficile della sua vita che io e miei collaboratori
non dimenticheremo mai. Dirigo il reparto di Pneumologia
all’Ospedale Universitario di Cattinara a Trieste e, il giorno in
cui dovevamo incontrarla per la prima volta, insieme con medici e infermieri, scrutavamo il cielo preoccupati. Era un giorno in cui il telegiornale avrebbe puntualmente riferito che “a
Trieste soffia la bora”, come succede tutte le volte che il caratteristico vento settentrionale raggiunge velocità superiori a
cento kilometri orari. Ma non si trattava di una bora qualsiasi,
bensì della “bora nera”, la versione peggiore, caratterizzata
oltre che da forte vento freddo, da nuvole scure e pioggia.
Proprio quel giorno aspettavamo lei, una bambina in gravi
condizioni che doveva essere trasferita in elicottero al nostro
reparto dalla Rianimazione dell’Ospedale di Rimini. L’arrivo
era previsto in mattinata, ma l’ostilità meteorologica aveva
costretto l’elicottero ad atterrare a circa cinquanta kilometri
prima, all’aeroporto di Ronchi di Legionari, invece che sulla
piazzola di atterraggio dell’Ospedale. Il tempo dell’attesa per
il suo arrivo sembrava non passare mai. Come scrive la giovane autrice, nel nostro reparto ospedaliero non erano mai stati
ricoverati pazienti così giovani e quindi quel giorno eravamo
giustamente preoccupati non solo per la “bora nera”.
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La settimana prima, era venuto a trovarmi in Ospedale
l’amico e collega Bruno Bembi, esperto di malattie da accumulo lisosomiale, che mi aveva pregato di accogliere una sua
piccola paziente affetta da malattia di Pompe. Era stata ricoverata in Rianimazione in seguito a una grave polmonite e
non si riusciva a staccarla dal respiratore artificiale cui era
collegata, tramite un foro in trachea, detto tracheostomia, 24
ore su 24. In termini medici quando il paziente è totalmente
dipendente dal ventilatore meccanico artificiale e non si riesce a staccarlo, neanche per poco tempo, si parla di difficoltà
di svezzamento dalla ventilazione meccanica. Avevamo già
svezzato da tracheostomia e da ventilazione artificiale altri
pazienti neuromuscolari e in particolare altre persone con
la stessa malattia di Pompe, mai così giovani. Sinceramente
avrei preferito affidare a un Centro pediatrico la bambina e
avevo pertanto chiesto al collega Bembi: “Scusa, ma perché
non la fai trasferire in un servizio per bambini?”. La sua risposta mi aveva messo con le spalle al muro: “Non puoi dirmi
di no. Ho chiesto al nostro Ospedale, ma non se la sentono
di prenderla perché non hanno esperienza di pazienti neuromuscolari con difficoltà di svezzamento. Tu invece ne hai
tirati fuori tanti e cerchi nel possibile di chiudere la tracheostomia. Per favore cerchiamo di mettercela tutta. I genitori
disperati si fidano solo di me e la bambina è molto provata”.
Guardandomi negli occhi mi convinse ad accettare e a
mia volta convinsi il personale ad accogliere in una stanza
singola quella giovanissima paziente con la sua mamma. Nel
libro è descritto molto bene lo stato d’animo di tutti e anche le difficoltà affrontate, a una a una, poi superate. Vorrei
solo soffermarmi sull’episodio riportato nel libro, della telefonata da me ricevuta mentre ero all’aeroporto di Istanbul.
Mi trovavo lì perché ero stato invitato dalla Società Scientifica Pneumologica Turca al loro Congresso Nazionale per
una relazione proprio sui problemi respiratori delle malattie
neuromuscolari. Ero da poco atterrato, arrivavo da Roma ed
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ero in attesa del volo interno che mi avrebbe portato ad Antalya, quando squillò il cellulare dall’Italia. Mi chiamavano
dal reparto, dicendomi che la piccola paziente, che sembrava
migliorare nei giorni precedenti, era stata male quella notte
e il medico di guardia l’avrebbe fatta re-intubare con nuovo
trasferimento in Rianimazione. Chiesi informazioni mediche più dettagliate per capire cosa stava succedendo, nel timore che qualcosa di non necessario compromettesse tutto
il faticoso lavoro fatto fino ad allora. Un nuovo ricovero in
Rianimazione con ulteriore intubazione, non solo avrebbe
portato indietro l’orologio del recupero respiratorio e motorio, ma avrebbe rischiato di influire pesantemente sull’equilibrio psicologico e fisico della giovane paziente contribuendo
a renderla, in seguito, più gravemente disabile, ossia meno
autonoma al momento della dimissione.
Mi chiesi più volte in quel poco tempo: la decisione di
“metterla in sicurezza” con l’intubazione e il passaggio in Rianimazione era motivata da giusti timori del medico di guardia o c’erano scelte alternative migliori? Dopo aver parlato
con gli infermieri e con la mamma capii che la bambina era
soprattutto spaventata. Durante la ventilazione non invasiva
le era passata aria nello stomaco e sentiva dolore, ma non
era successo nulla di grave e irreparabile. La polmonite era
ormai superata e non c’erano segni di una regressione in tal
senso. Il problema che a volte non tutti i medici considerano
è che in un malato neuromuscolare, dopo un grave episodio
di insufficienza respiratoria acuta, le forze possono essere recuperate solo molto lentamente, anche se tutte le cure sono
corrette. L’immobilizzazione obbligata a letto, come succede
in una persona intubata e ventilata, contrasta la faticosa ripresa di autonomia motoria nel paziente con malattia neuromuscolare e ogni perdita di movimento rispetto a prima può
essere vissuta come un’irreparabile sconfitta.
D’altro canto, il medico non particolarmente esperto può
considerare con pessimismo clinico le possibilità di ripresa
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di un paziente che si muove con difficoltà o ancora peggio
fa uso di carrozzina, soprattutto se non lo conosceva precedentemente. Nel caso di Anna Paola poi, era facile prevedere
che una seconda intubazione e ricovero in Rianimazione con
eventuale sedazione farmacologica avrebbe solo peggiorato
la sua situazione muscolare e psicologica. Era il caso di rischiare questo soltanto perché il medico di guardia si sarebbe
sentito più sicuro, dato che il problema era un po’ di aria
nel pancino? Certamente no. Nonostante mancasse solo un
quarto d’ora alla partenza del mio volo aereo successivo, ce
la misi tutta per convincere la madre che l’unica strada percorribile era quella di resistere con la ventilazione non invasiva. Ma era necessaria tutta la collaborazione di Anna Paola,
e soltanto la mamma poteva ottenerla. Io, dall’aeroporto di
Istanbul, non potevo fare di più.
Quanto è successo dopo lo spiega Anna Paola nel libro. Il
“miracolo” di cui parla lo ha compiuto soprattutto lei che,
in poche settimane, è cresciuta dentro e fuori, portando nel
nostro reparto tra personale e malati una contagiosa allegria
e un vento d’ottimismo. Negli anni successivi, insieme al dr.
Bembi, ho continuato a seguire Anna Paola tra difficoltà e
progressi che l’hanno portata a diventare una giovane donna
capace di accettare i propri limiti fino al punto di farli diventare forza per conoscere meglio se stessa e gli altri, con
l’appoggio sempre discreto e affettuoso della sua famiglia.
Leggere in questo libro le sue concrete fatiche quotidiane e
le risorse trovate dentro di sé per superarle, mi ha veramente fatto bene. Così, spero che anche altri lettori, lasciandosi
interrogare dalla profondità di questa giovane scrittrice, possano essere aiutati a capire la differenza tra gli pseudo-limiti
“autoindotti” da un diffuso vittimismo e quelli fisicamente
reali di tante persone che ci vivono accanto.
Dott. Marco Confalonieri
Direttore del reparto di Pneumologia
dell’Ospedale Universitario Cattinara (Trieste)
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PREFAZIONI
Camminare su percorsi al limite, volare con la forza dei nostri
sogni, scoprire l’amore e gli occhi di chi ci sta vicino è quello
che faremo caro scricciolo e tu sai che sempre ce la faremo.
Dott. Bruno Bembi
Direttore del Centro di Coordinamento Regionale Malattie
Rare di Udine
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