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1 | novembre 2012 | narcomafie 25 Dossier Usura 6 54 L’Ilva di Taranto Traffico di rifiuti Kosovo, dove regna l’impunità 61 2 | novembre 2012 | narcomafie numero 11 | novembre 2012 Il giornale è dedicato a Giancarlo Siani simbolo dei giornalisti uccisi dalle mafie Fondatore Luigi Ciotti Direzione Manuela Mareso (direttore responsabile) Livio Pepino (condirettore) Redazione Stefania Bizzarri, Marika Demaria, Davide Pati (Roma), Matteo Zola Comitato scientifico Enzo Ciconte, Mirta Da Pra, Nando dalla Chiesa, Daniela De Crescenzo, Alessandra Dino, Sandro Donati, Lorenzo Frigerio, Tano Grasso, Leopoldo Grosso, Monica Massari, Diego Novelli, Stefania Pellegrini Collaboratori Fabio Anibaldi, Pierpaolo Bollani, Ferdinando Brizzi, Maurizio Campisi, Gian Carlo Caselli, Stefano Caselli, Elena Ciccarello, Rinaldo Del Sordo, Stefano Fantino, Jole Garuti, Andrea Giordano, Gianluca Iazzolino, Piero Innocenti, Alison Jamieson, Alain Labrousse, Bianca La Rocca, Davide Mazzesi, Giovanna Montanaro, Marco Nebiolo, Dino Paternostro, Davide Pecorelli, Antonio Pergolizzi, Osvaldo Pettenati, Guido Piccoli, Francesca Rispoli, Lillo Rizzo, Pierpaolo Romani, Adriana Rossi, Peppe Ruggiero, Paolo Siccardi, Elisa Speretta, Lucia Vastano, Monica Zornetta Progetto grafico Avenida grafica e pubblicità (Mo) Impaginazione Acmos adv In copertina Gavins Photo Fotolito e stampa Giunti Industrie Grafiche S.p.A. 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Il più diffuso è che gli ultimi, gli scarti devono essere lasciati a se stessi perché occuparsi di loro comporta costi che la società della crisi non può affrontare. E l’alibi, in tempi di pensiero unico, diventa un mantra indiscusso e indiscutibile. L’alibi è falso ma la sua ossessiva ripetizione lo trasforma in verità che tranquillizza le coscienze e la politica. L’inganno si fonda su un’affermazione suggestiva: quella secondo cui il welfare costa mentre l’inerzia dello Stato è gratis (anzi è fonte di risparmio). Non è così. Non esistono diritti «che non costano»: la tutela dei diritti classici (dalla proprietà alle libertà individuali) ha determinato nei secoli, senza obiezioni di carattere economico, la predisposizione di apparati costosissimi (i più costosi, compara- tivamente, di ogni Stato), che vanno dalla polizia, alla magistratura, alle prigioni e via seguitando. La questione non è, dunque, l’esistenza delle risorse ma la loro dislocazione. Mentre, sotto la spinta di una crisi economica strutturale, l’emarginazione cresce, la guerra alla povertà – che ha caratterizzato lo Stato sociale – lascia il posto alla guerra ai poveri. Così nella storia sono nati, tra l’altro, il carcere e il manicomio. Prendiamo il carcere. Dal 1986 il numero dei detenuti è in crescita costante; dal 30 giugno 1991 alla stessa data del 2012 è più che raddoppiato. Il 31 luglio 2012 c’erano nei 206 istituti di pena per adulti del Paese 66.009 persone, di cui 2.818 donne e 23.590 stranieri, e due anni prima – antecedentemente agli ultimi interventi legislativi tesi ad allentare la pressione sul carcere – il loro numero era arrivato sino al 68.258. Ad esse, per completare l’area delle persone soggette a misure di privazione della libertà, vanno aggiunti 490 minorenni. Il dato rappresenta la situazione statica, fotografata al 31 luglio di ogni anno. Ma, se si fa riferimento – come più corretto di Livio Pepino e indicativo dei termini della situazione – agli ingressi in carcere nell’anno, essi sono stati, per quanto riguarda gli adulti, 84.641 (dato relativo al 2010). L’incidenza dei detenuti sugli abitanti in un giorno dato è di 11 ogni 10.000 (e, dunque, poco più di uno ogni mille, compresi vecchi e neonati); ma se si fa riferimento al numero degli ingressi annui in area penale l’incidenza cresce a quasi due ogni mille. Se poi si passa dalla quantità alla qualità, poco meno del 50% dei detenuti il 31 dicembre 2005 era ristretto per delitti contro il patrimonio o per violazioni della legge sulla droga e il 14,8% per delitti contro la persona (comprensivi di lesioni e percosse); inoltre 17.469 (pari al 29,34%) erano tossicodipendenti o alcol dipendenti e 19.836 (pari al 33,32%) stranieri. Si tratta di dati noti. Ma meno conosciuto è il fatto che l’aumento del carcere non è determinato dalla crescita della criminalità. Al contrario la curva dell’andamento dei reati e quella delle presenza in carcere, lungi dal coincidere, si divaricano in maniera crescente, posto che queste ultime continuano ad aumentare proprio mentre i reati più gravi e quelli che creano maggior allarme sociale segnano una flessione netta e costante dopo aver avuto il picco massimo, per lo più, nei primi anni Novanta. Il dato è evidente anche per chi non vuol vedere. Ciò che non si affronta sul piano del sociale viene (malamente) governato con lo strumento penale e il carcere diventa un contenitore di poveri e marginali. Un contenitore terribile (se è vero che i suicidi di detenuti, dal 2000 ad oggi, sono stati 717) ma anche costosissimo. Secondo l’elaborazione della associazione “Ristretti Orizzonti”, infatti, negli ultimi dieci anni il sistema penitenziario italiano è costato alle casse dello Stato circa 29 miliardi di euro, con un costo medio giornaliero per ogni singolo detenuto di 138,7 euro (e ciò senza contare i costi della costruzione delle strutture e il valore degli immobili destinati alla custodia). I conti sono presto fatti e dimostrano – pur senza cedere ad automatismi semplificatori – che la repressione costa più della prevenzione e il carcere più degli interventi di sostegno. E non è una consolazione rilevare che accade per le persone ciò che vale per il territorio, dove le spese per la prevenzione continuano ad essere tagliate mentre è sotto gli occhi di tutti che tenere sotto controllo gli argini di un fiume costa molto meno che ricostruire le case e le strade distrutte da un’alluvione (anche a prescindere dai costi umani)… Il discorso si farebbe lungo e ne mancano qui il tempo e lo spazio. Ma una cosa è acquisita: i tagli della spesa sociale non c’entrano nulla – ma proprio nulla – con la crisi. O meglio hanno a che fare con una particolare lettura della crisi: quella secondo cui essa è l’occasione per regolare i conti con l’utopia dell’uguaglianza. Ma questa, appunto, è un’altra storia... 6 | novembre 2012 | narcomafie Rifiuti in Campania Il ricatto della munnezza Faccendieri, bancari, imprenditori senza scupoli: questo il volto dell’“emergenza” rifiuti in Campania. Una storia che “parla” in veneto, fatta di manipolazioni, debiti e raggiri. Al centro dell’inchiesta Enerambiente: vincitrice dell’appalto per la raccolta rifiuti nel capoluogo campano di Roberta Polese 7 | novembre 2012 | narcomafie Quando il fumo denso di diossina si espandeva all’ombra del Vesuvio, quando Napoli soffocava nella morsa dei rifiuti che andavano a fuoco, c’era chi, dall’altra parte dell’Italia, gridava allo scandalo. Era il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, che tuonò duro contro lo scempio che stava avvenendo in Campania: «Se i turisti non vengono da noi è colpa vostra», diceva rivolgendosi ai napoletani, colpevoli, a suo dire, di rovinare l’immagine dell’Italia intera all’estero. Forse Zaia non poteva immaginare che dietro quelle nuvole tossiche accese agli angoli delle strade di Napoli c’era un suo compaesano che, con la collaborazione di una cricca di veneti, avrebbe stretto l’amministrazione Jervolino nella morsa del ricatto, pagato sindacalisti senza scrupoli per aizzare i lavoratori contro il Comune, costringendolo ad accettare condizioni svantaggiose pur di risolvere l’emergenza. L’affaire Enerambiente. Ad alzare il velo sulla gestione dei rifiuti a Napoli tra l’estate e l’autunno del 2010 è stato il nucleo tributario della Guardia di finanza di Napoli, che, lo scorso giugno, ha eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Napoli Isabella Iaselli. Delle 16 persone indagate 11 sono venete. In cella finisce ancora una volta Stefano Gavioli, 55enne veneziano residente a Treviso, a capo di Enerambiente, società che si era aggiudicata l’appalto per il prelievo dei rifiuti nel capoluogo napoletano e in altri comuni campani. In cella con Gavioli, già arrestato per altri business sospetti a Catanzaro, finisce anche sua sorella Maria Chiara, che siede nel Cda di Slia, altra società del gruppo di famiglia. E poi ci sono faccendieri e bancari: il consulente legale veneziano Giancarlo Tonetto (già suo difensore in altri procedimenti penali), i co-amministratori Enrico Prandin (Rovigo), Paolo Bellamio (Padova), il tecnico di Enerambiente Loris Zerbin, il presidente del collegio sindacale della società, il 63enne veneziano Giorgio Zabeo (già sindaco del collegio in Sirma e Slia, altre due aziende veneziane di Gavioli fallite negli ultimi anni), la fida direttrice dell’ufficio finanziario di Enerambiente Stefania Vio, 38enne di Padova. E poi ci sono altre tre figure rilevanti, soprattutto per il tessuto economico del Nordest: sono tre funzionari della Banca di credito cooperativo-Banca del Veneziano, che avrebbero stornato fatture false di Enerambiente e contribuito a traghettare 15 milioni di euro della banca nelle tasche di Gavioli. Si tratta di Alessandro Arzenton, 50enne ex direttore generale della banca (poi dimissionato), Manuela Furlan, 50enne direttrice della filiale dove si appoggiava Enerambiente, e Mario Zavagno, 63enne veneziano responsabile dell’ufficio crediti della sede centrale. Sul fronte meridionale invece finiscono a Poggioreale Giuseppina Totaro, 61enne napoletana co-amministratrice di Enerambiente, Giovanni Faggiano, brindisino, amministratore delegato della società per conto di Gavioli, Vittorio D’Albero, esponente sindacale Fiadel e dipendente in aspettativa della De Vizia spa, e Gaspare Giovanni Alfieri, titolare di una coop che, secondo le accuse, sarebbe stata “comprata” da Gavioli. E poi altre figure marginali, come un imprenditore tedesco e la moglie dell’amministratore delegato Faggiano. Il reato che mette insieme tutti gli arrestati è associazione per delinquere finalizzata, a diverso titolo e con vari ruoli, alla corruzione, estorsione, violenza e minaccia, riciclaggio, bancarotta fraudolenta, falso in bilancio e ricorso abusivo al credito. L’appalto, la società svuotata e le coop. Il business della veneziana Enerambiente a Napoli comincia attorno al 2005, quando si era aggiudicata l’appalto di Asia, la società “in house” del comune di Napoli, per il prelievo dei sacchetti dei rifiuti da destinare a discariche e inceneritori. L’indagine che precede gli arresti non parte dalla Guardia di finanza ma dalla Digos del capoluogo campano. E in prima istanza Enerambiente di Gavioli appare come parte offesa. Era il settembre del 2010 e i dipendenti della Davideco, coop che lavorava per Gavioli, devastano gli uffici di Enerambiente a Napoli. Sono arrabbiati perché dicono che Gavioli non li paga da mesi, e si stava spargendo la voce che il patron veneziano volesse addirittura liberarsi di loro sciogliendo il contratto. In realtà qualcosa di anomalo appare sin dall’inizio. Le indagini rivelano che l’accordo tra la Spa e la cooperativa Davideco, Come ha fatto ad accumulare tutti questi debiti un’azienda che da 5 anni lavora con il settore pubblico e vince appalti in tutta la Campania? 8 | novembre 2012 | narcomafie Mentre i manager si preparano agli incontri ufficiali, ci sono altri funzionari che muovono le pedine dal basso oltre ad essere stabilito per un periodo che andava oltre quello dell’appalto tra Asia ed Enerambiente, prevedeva un compenso di 148mila euro al mese, mentre in concreto venivano fatturati in favore della cooperativa importi di gran lunga superiori (oltre 330mila mensili). A spiegare l’arcano in procura sono Girolamo Scuteri e Salvatore Fiorito, presidenti della coop. I due rivelano un “accordo occulto”, come si legge nell’ordinanza: la cooperativa, in cambio delle commesse ottenute, versava una somma di denaro a Fag Faggiano (amministratore dele delegato di Enerambiente, braccio destro di Gavioli) e a un altro funzionario, i quali provve provvedevano a loro volta a oliare i meccanismi per ottenere un monopolio degli appalti con Asia e l’assenza di controlli sulle concrete modalità di ge gestione che avrebbero precluso il subappalto, sia da parte di Asia che del Comune. Sulla base di queste accuse Faggiano viene arrestato. In carcere dice che fino al 2010 ha lavorato a stretto contatto con Stefano Gavioli e che aveva semplicemente seguito le sue direttive. Faggiano non ci sta infatti a fare la parte di quello che paga da solo. E comincia a scalpitare. In una conversazione registrata in carcere mentre parla con la moglie Monica Dentamauro (accusata di riciclaggio e sottoposta poi ai domiciliari) dice: «Fino a dicembre 2009 quando c’ero io la società era sana, l’avevo detto a Gavioli di farla riempire, poi da agosto 2010 questi hanno fatto un casino ed ora io devo pagare». Faggiano ha capito dove voleva andare a parare il magistrato che lo interrogava: aveva capito, e lo dice alla moglie, che si puntava a quel milione e 400mila euro spesi per fatturazioni mai avvenute. Insomma già all’inizio del 2010 i nodi di Enerambiente cominciano a venire al pettine. I magistrati autorizzano a mettere sotto controllo i telefoni del management dell’azienda veneziana. E nel frattempo la finanza comincia a fare le pulci ai bilanci di Enerambiente. Il 10 marzo 2011 viene deliberato lo scioglimento della spa Enerambiente, che, come prevede la legge, continuerà a proseguire la sua attività aziendale al solo fine di portare a compimento gli appalti in corso di esecuzione. Il 28 marzo Gavioli, il legale Tonetto e un terzo avvocato presentano la richiesta di ammissione al concordato preventivo. È ancora in corso il conflitto di attribuzione tra Napoli e Venezia che ha chiesto il fallimento dell’azienda. Ma ai fini pratici conta un dato fondamentale: la società ha un buco di 50 milioni di euro. “Senza di me la città è finita”. Come ha fatto ad accumulare tutti questi debiti un’azienda che da cinque anni lavora con il settore pubblico e vince appalti in tutta la Campania? Gli investigatori cercano di vederci chiaro. Le fasi più calde di tutta la vicenda avvengono nell’estate del 2010. Il termovalorizzatore di Acerra è rotto, a Terzigno ci sono le rivolte contro gli sversamenti in discarica. Nelle strade di Napoli si accumulano rifiuti, che vanno a fuoco ogni notte, i lavoratori sono arrabbiati. Ma, stando alla Finanza, c’è qualcuno che tiene le fila di tutto, muove gli operai e tiene per la gola il Comune. L’obiettivo di Gavioli è provocare tensione nell’amministrazione locale e costringerla a scendere a patti: lui vuole che Napoli compri mezzi obsoleti a scatola chiusa. «Loro devono comprare i miei camion, senza i miei camion la città è finita, ma io voglio prendere più soldi», dice Gavioli all’imprenditore tedesco che verrà coinvolto nella “sceneggiata” da fare davanti ai funzionari di Asia e del Comune. È il primo ottobre 2011 e, infatti, il giochino viene a galla proprio in quel periodo. Gavioli vuole che Asia compri i suoi mezzi sovrapprezzo in tempi brevissimi, sotto minaccia di mollarli lì con tutte le loro immondizie e revocare il servizio. Napoli non si può permettere di lasciare andare Gavioli, sarebbe il collasso della città, per cui c’è la disponibilità ad accettare, ma prima vorrebbero fare delle perizie. «Non ci provate neanche, altrimenti ci alziamo e ce ne andiamo» risponde il legale Giancarlo Tonetto al termine di un incontro in cui il Comune presenta le sue ragioni. Si compra a scatola chiusa, così vuole Gavioli, stando a quanto ricostruisce la procura. E il veneziano imbastisce anche una recita per far capire ai funzionari di Asia e ai politici che sta facendo sul serio: chiama l’imprenditore tedesco Adolf Lutz (arrestato anche lui) e dice al Comune che se i camion non li comprano loro allora subentrerà il tedesco, e quest’ultimo 9 | novembre 2012 | narcomafie non è intenzionato a proseguire il servizio di raccolta. Qualche giorno prima dell’incontro lo contatta al telefono e lo prepara. Per farsi capire, usa poche parole: «Tu vieni qui con carta intestata, carta ufficiale, come che io venduto a te tutti i camion, io ho bisogno di dire che tu hai comprato i camion, capisci? noi facciamo come commedia». Mentre i manager si preparano agli incontri ufficiali, ci sono altri funzionari che muovono le pedine dal basso. La frase più forte la pronuncia Tonetto al telefono con Pina Totaro, co-amministratice di Enerambiente a Napoli, il braccio operativo di Gavioli in città. La conversazione inizia tra lo stesso Gavioli e la Totaro. Totaro dice a Gavioli che il Comune sta cercando di prendere tempo. Lui le risponde che allora è guerra, ma che «la guerra non la dobbiamo fare noi, la devono fare i dipendenti» quella stessa notte. Poi passa il telefono a Tonetto che si trova nella stanza con lui. La Finanza sta registrando tutto: «Li dobbiamo costringere» e quindi propone di non chiedere subito una risposta facendo fare intanto «un po’ di casino ai nostri questa notte, non bisogna effettuare il prelievo, così domani tratteremo meglio». Totaro a quel punto muove la sua pedina numero uno: il sindacalista “comprato” Vittorio d’Albero. Ecco quindi la strategia: gli operai devono imbufalirsi e i rifiuti devono rimanere sulle strade, così Enerambiente otterrà quello che vuole dal Comune. Vengono manipolate anche le informazioni trasmes- se in Tv. «Il Tg5 darà la notizia che Enerabiente avanza dieci milioni di euro da Asia, e per questo motivo non potremo pagare gli stipendi» dice Totaro a Gavioli, che gli risponde: «Brava Pina, hai fatto bene». Subito dopo Totaro chiama un altro manager di Gavioli, Enrico Prandin, perché blocchi tutti i bonifici in uscita: «abbiamo da fà a sceneggiata» fino a quando non scoppierà la rivolta. E la rivolta è fomentata da D’Albero, sindacalista della Fiadel, che si tiene in contatto non solo con Totaro, ma anche con Stefania Vio, direttore dell’ufficio finanziario di Enerambiente. Intanto dalle casse della società vengono fatti sparire soldi a raffica, attraverso fatture per prestazioni mai erogate. Nel frattempo la banca di credito cooperativo copre, con “coscienza” secondo gli investigatori, flussi di denaro per un totale di 15 milioni di euro, anche attraverso anticipi di fatture false. Per i reati fallimentari è stato anche indagato, in seconda battuta alla fine di luglio, il presidente della federazione delle Bcc venete Amedeo Piva. Sul fronte Napoli intanto i giorni passano, il Comune comincia a muoversi e si muove anche la Finanza. Che nel frattempo scopre altri altarini dell’imprenditore di Venezia. Vent’anni di business, tra arresti e inchieste. È stata proprio la procura di Napoli infatti a trasmettere a quella di Catanzaro, che sta indagando sugli sversamenti illegali nella discarica di Alli. E si scopre che c’è Gavioli anche dietro a quel business. All’inizio del 2011 parte da Catanzaro un ordine di custodia cautelare per reati ambientali e Gavioli va in carcere. In una intercettazione telefonica con Loris Zerbin, l’imprenditore veneziano dice, a proposito del percolato: «Se la vasca si rovescia da un lato è un disastro». Pochi giorni dopo la sorella Maria Chiara, dice a un finanziere che Stefano sta per partire, sta per andare in Canada dove vivono la sua compagna e il figlio e dove lui avrebbe già portato dei soldi. Di qui l’impulso all’arresto della procura calabrese. Ma nemmeno quello è primo guaio di Gavioli. In Veneto il suo è un nome famoso. Come famosi sono gli avvocati che l’hanno seguito in tutte le sue vicende: da Nicola Quaranta, avvocato di “Gianpi” Tarantini al trevi- Ecco la strategia: gli operai devono imbufalirsi e i rifiuti devono rimanere sulle strade, così Enerambiente otterrà quello che vuole dal Comune 10 | novembre 2012 | narcomafie La storia di Gavioli parte da lontano: cominciò negli anni 70 guidando una piccola macchina pulitrice nel petrolchimico di Marghera, fu l’inizio della sua scalata nel mondo dei rifiuti giano Francesco Murgia, che lavora per i Savoia, all’attuale difensore, l’avvocato Gian Piero Biancolella, legale che fu anche al servizio di Callisto Tanzi. La storia di Gavioli parte da lontano: cominciò negli anni 70 guidando una piccola macchina pulitrice nel petrolchimico di Marghera, e da lì iniziò la sua scalata nel mondo dei rifiuti. Nel 1998 compra Sirma, azienda di Marghera che si occupa di tegole, e due anni dopo compra anche i cantieri Tencara, che hanno messo il loro timbro anche sul Moro di Venezia e l’America’s cup. Li vende però nel 2003 e quattro anni dopo abbandona anche Sirma. Nell’ordinanza di custo custodia cautelare emessa da Napoli, e che porta in carcere Gavioli e i suoi collaboratori, si parla anche di tutto il castello di imprese che ruotano attorno all’imprenditore. Società che, secondo la Finanza, vengono fatte nascere, morire (solo formalmente) e che poi ripartono più leggere con i concordati concessi dai tribunali. Tutto legale, fino a prova contraria, ma, come dice l’ordinanza di Napoli, «Enerambiente nasce con un destino segnato». Gavioli sa di essere sul filo di lana. Lo dice in una conver conversazione registrata alla fine del 2011 mentre parla con il suo commercialista Enrico Prandin: «La Guardia di finanza è andata in Sirma», Gavioli: «Chi, quelli di Catanzaro?» Prandin: «No quelli di Napoli», Gavioli: «Avremo tutta la Guardia di finanza d’Italia» Prandin: «Si questi vanno su e giù per noi». La visita in Sirma dei militari non è casuale, perché sembra che anche in quel caso (200 operai lasciati senza lavoro) sia stato messo in piedi lo stesso schema di svuotamento che si suppone si stato utilizzato per Enerambiente. Il meccanismo lo spiega Giovanni Faggiano, l’amministratore delegato che finisce in galera prima di tutti. Parlando con la moglie le spiega: «Lui (Gavioli) tiene debiti pazzeschi a livello personale, quindi lui voleva Enerambiente come cassaforte, capito? Come ha fatto con Slia, l’ha svuotata e poi l’ha buttata a mare, grande figlio di puttana (…) e ha fatto lo stesso con Sirma, anche da Sirma ha prelevato tutto, lui tiene un accertamento fiscale di 36 milioni per Sirma». Enerambiente viene creata nel 2010 dalle ceneri dalla Slia spa: dalla scissione di Slia spa nascono Slia Technologies e Enerambiente: nella prima viene fatta confluire la parte buona della società, nella seconda vengono riversati tutti i debiti. Il 21 dicembre del 2009 Enerambiente incorpora anche la Società meridionale discariche (creata con la sovvenzione della cassa del Mezzogiorno) e la Sirma servizi srl, costituita nel 1991. Tutte le società sono di Gavioli. Secondo la Finanza fusioni e scissioni gli servono solo per riversare i debiti nelle società destinate a morire e mettere da parte i soldi buoni. Sono gli stessi investigatori a descrivere le scissioni come fughe dai debiti. Il binario parallelo in cui corrono Enerambiente, che sta facendo soffocare Napoli nei rifiuti, e Sirma, che lascia a piedi centinaia di operai (e un debito di milioni di euro), viene descritta nei dettagli nell’ordinanza del Gip: «L’operazione di realizzazione di un bidone industriale da parte di Gavioli si compie definitivamente quando il 4 agosto del 2010, davanti al notaio Forte di Treviso, realizza la scissione di Enerambiente e Enertech, con solo centomila euro di capitale sociale». Nella Enertech trasferisce tutte le cose buone di Enerambiente, lasciando a quest’ultima i debiti. In pratica il signor Gavioli dopo aver indebolito una società la spacca in pezzettini e butta a mare la parte debitoria, e mette via la parte buona che sottrae ai creditori stessi. Questa storia si sarebbe ripetuta in Sirma, quando ha sottratto alla società, poi liquidata, il patrimonio immobiliare, e si è ripetuta in Tencara. Un giochino che si riversa sulle spalle delle centinaia di operai che protestano davanti ai cancelli senza lavoro e senza stipendio. Gavioli e gli altri arrestati sono stati tutti ammessi alla misura dei domiciliari dal Tribunale del riesame. Ma, come se non bastasse, a fine luglio si è scoperto un nuovo retroscena: a fare da garante per le fideiussioni presentate da Gavioli a Marano di Napoli, Frattamaggiore, Acerra e in provincia di Brindisi c’è una compagnia assicurativa romena che si chiama City Insurance. Il 27 luglio una sentenza del Tar blocca ogni nuovo contratto alla compagnia, e lo fa in virtù di risultanze dell’Isvap, ovvero l’inconsistenza del patrimonio della società, e delle indagini del Gico di Venezia: City Insurance è collegata a Dionisio Pacquadio, proprietario di Liginvest, società che presentava fideiussioni negli appalti presentati da ditte collegate ai clan Dell’Aquila e Mallardo di Napoli. Ma questa è un’altra storia. 12 | novembre 2012 | narcomafie brevi di mafia Sciacchitano dopo Cisterna alla Dna? Lo scorso 8 novembre il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha nominato come suo numero due il sostituto Giusto Sciacchitano (nella foto, ndr), che succede nel ruolo di procuratore aggiunto ad Alberto Cisterna, il ndr magistrato indagato per corruzione in atti giudiziari a seguito delle accuse di Antonino Lo Giudice, il collaboratore di giustizia autoaccusatosi di essere l’ideatore degli attentati alla Procura di Reggio del 2010. Cisterna è stato prosciolto il 26 novembre: i giudici non hanno creduto alla testimonianza del pentito, che aveva sostenuto l’intervento del magistrato nella scarcerazione di uno dei suoi fratelli in cambio di un “regalo”, lasciando intendere denaro. Cisterna ha sempre sostenuto che i contatti con uno dei Lo Giudice fossero strumentali alla cattura del super ricercato Pasquale Condello. Sulla nomina di Sciacchitano, che deve ancora essere ratificata dal Consiglio superiore della magistratura, è insorto Michele Costa, avvocato, ex assessore a Palermo della giunta Cammarata (Pdl) e figlio del giudice Gaetano Costa, assassinato da Cosa nostra il 6 agosto del 1980. Costa è tornato a sottolineare l’isolamento in cui Sciacchitano aveva lasciato il padre nel maggio 1980, quando, insieme agli altri sostituti della procura di Palermo (ad eccezione di Vincenzo Geraci, come ricordano Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco sul «Fatto Quotidiano»), non solo si rifiutò di convalidare decine di ordini di cattura contro il clan Gambino-Spatola-Inzerillo, ma indicò – fatto sempre smentito dall’interessato – ai giornalisti e agli avvocati dei mafiosi il nome del suo superiore come unico responsabile del provvedimento. Su Sciacchitano pesano anche le testimonianze di Enzo Alessi (un medico che lo vide tra gli invitati a casa di Angelo Siino, sebbene in anni in cui ancora non era noto per essere il “ministro del lavori pubblici” di Totò Riina) e di Massimo Ciancimino, che lo indica come la talpa della procura di Palermo (e per questo Sciacchitano lo ha citato in giudizio) che avrebbe permesso al padre Vito di mettere al riparo parte del patrimonio dalla confisca disposta all’epoca da Giovanni Falcone. Le accuse di Ciancimino nei confronti di Sciacchitano (che portarono all’apertura di un’inchiesta, poi archiviata) riguardavano anche presunti condizionamenti da parte del magistrato sull’inchiesta sul gruppo Gas, società che Vito Ciancimino gestiva proprio con l’ex consuocero di Sciacchitano, Ezio Brancato. Processo Infinito, i boss vogliono i giornalisti in aula “Vogliamo la stampa a seguire il processo”. È stata questa la richiesta avanzata alla Corte da parte delle decine di detenuti accusati di appartenere alla ’ndrangheta, all’apertura del processo di appello in rito abbreviato, e quindi a porte chiuse, per l’inchiesta Infini- to, per la quale il 20 novembre 2011 in primo grado sono state condannate 110 persone su 119 accusate. A fare da portavoce è stato Domenico Lauro, presunto affiliato alla locale di Cormano: «Vogliamo maggiore rispetto per le nostre singole posizioni – ha detto Lauro – e non vogliamo che venga celebrato una sorta di “rito ambrosiano” solo per noi, senza garanzie. Vogliamo i giornalisti perché non abbiamo nulla da nascondere». Una ri- chiesta che lascia pensare, visto che sono decine i giornalisti minacciati da esponenti delle or organizzazioni mafiose nel nostro paese per averne raccontato le vicende criminali. Gli imputati in un primo momento avevano anche minacciato di revocare il mandato ai loro legali, per poi fare marcia indietro «nel rispetto degli avvocati». Per il filone processuale che segue il rito ordinario, invece, il collegio dell’ottava sezione pe- a cura di Manuela Mareso nale presieduto da Maria Luisa Balzarotti lo scorso 6 dicembre ha emesso 40 condanne. Il verdetto, letto nell’aula bunker del carcere di San Vittore, è stato accolto con sdegno da parte dei parenti degli imputati. Tra i condannati, l’ex dirigente della Asl di Pavia, Carlo Chiriaco, accusato di essere il punto di connessione tra la politica e la ’ndrangheta («avrebbe favorito gli interessi economici della ’ndrangheta garantendo appalti pubblici e proponendo varie iniziative immobiliari»), con 13 anni di carcere e pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici; 18 anni per Pino Neri, il “capo dei capi” della Lombardia; 12 anni (più la pena accessoria della inabilitazione all’esercizio di imprese commerciali per dieci anni) per l’imprenditore Ivano Perego. Agricoltura, truffe all’Inps e fondi Ue alla mafia Si chiama “Senza terra” una delle operazioni più eclatanti condotte recentemente dalla Guardia di Finanza in Calabria. Una truffa che passava dalla costituzione di cooperative agricole ad hoc nella provincia di Cosenza (Corigliano Calabro, Rossano, Cassano allo Ionio), con centinaia di lavoratori che svolgevano attività solo sulla carta presso terreni di committenti ignari se non inesistenti; lavoratori che erano disposti ad antici- 13 | novembre 2012 | narcomafie brevi di mafia pare all’organizzazione criminale il denaro necessario a saldare i contributi, per poter poi ricevere l’indennità di disoccupazione, di malattia, maternità e assegni familiari. I 37 arrestati sono imprenditori agricoli, sindacalisti, consulenti del lavoro, commercialisti, amministratori locali, falsi lavoratori e anche un consigliere provinciale, Antonio Carmine Caravetta (Udc), a cui secondo le indagini sarebbe stato promesso sostegno elettorale in cambio di aiuti finalizzati all’ottenimento della tutela previdenziale per i lavoratori. Le organizzazioni criminali sono capaci di truffare anche l’Unione europea, non senza le colpevoli mancanze da parte delle istituzioni. Un articolo di Sergio Rizzo sul «Corriere della Sera» del 19 novembre rileva che dal 2009 al 2012 la Corte dei Conti ha emesso circa 50 sentenze per danno erariale (per un totale di circa 2 milioni di euro) a carico di noti esponenti della criminalità organizzata o di persone sottoposte a misure di polizia, che non erano dunque nella posizione di poter incassare i contributi dell’Agea, l’ente erogatore alle dipendenze del ministero delle Politiche agricole, che non ha effettuato i dovuti controlli. Tra i beneficiari figurano anche Gaetano Riina – il fratello di Totò Riina, boss dei Corleonesi, in carcere dal 1993 – e Giuseppe Spera – fratello di Benedetto Spera, vicino al boss Bernardo Provenzano –, condannati al risarcimento di quanto intascato impropriamente, ma solo per una cifra percentuale proprio perché la condanna ha riconosciuto anche una responsabilità dell’Agea: per Gaetano Riina, in carcere da 4 anni, la condanna d’appello lo costringe a restituire poco più di 25mila euro per gli oltre 40mila che aveva incamerato; 38mila euro è invece la somma calcolata per Giuseppe Spera, che aveva avuto accesso al contributo attraverso un’associazione di categoria e non personalmente come nel caso di Riina. Un asilo troppo vicino al boss Rischia di restare vuoto uno dei due beni confiscati alla mafia nel territorio di Corigliano Calabro – comune in provincia di Cosenza, sciolto per mafia nel giugno del 2011 –, restituito alla collettività grazie alla riconversione in Scuola dell’infanzia. L’entusiasmo registrato dalle autorità locali nel giorno dell’inaugurazione non ha infatti avuto seguito nella quotidianità. Gli spazi ristrutturati all’interno del progetto ministeriale “Più scuola meno mafia” sono rimasti deserti perché, come riportano in una lettera inviata alle istituzioni alcune mamme – alle cui obiezioni non era stato dato spazio nel giorno dell’apertura –, l’allontana- Basilischi: e dopo gli anni 90? Il 30 ottobre la Corte di Appello di Potenza, presieduta dal giudice Vincenzo Autera, ha confermato – con contenuti sconti di pena – la sentenza di primo grado emessa nel dicembre 2007 contro la “famiglia dei Basilischi”, riconoscendola come “associazione a delinquere di stampo mafioso”, e ha confermato 36 delle 38 condanne del primo grado inflitte a esponenti dell’associazione con cui camorra e ’ndrangheta si sono dovute confrontare per i loro interessi in terra lucana. Ventun anni di carcere per Giovanni Luigi Cosentino (nella foto, ndr.) – oggi collaboratore di giustizia – considerato il vertice per sua stessa ammissione: sua anche l’invenzione del rito di affiliazione. I giudici hanno dunque ricostruito nascita e sviluppo dell’organizzazione svelata da Michele Danese, l’uomo che sopravvisse a un agguato che voleva eliminarlo per il suo rifiuto di sfregiare la compagna di Cosentino, sua sorella, che aveva tradito il boss mentre si trovava in carcere. Collaborerà nella ricostruzione anche uno degli autori dell’agguato a Danese, Antonio Cossidente, che fornirà ai magistrati i dettagli di come il boss Cosentino sarebbe poi stato estromesso. Lo storico Nicola Tranfaglia ha commentato: «Per la famiglia lucana è la fine e i personaggi più importanti del clan sono catturati e processati, ma questo è quello che avviene entro la fine degli anni Novanta. E non sappiamo quasi nulla di quello che è avvenuto negli anni successivi. [...] La Basilicata, rimasta per più di un secolo e mezzo fuori da tutte le storie delle mafie, vi è entrata e si può dubitare che dopo l’esperienza degli anni Novanta ne sia uscita». mento di un chilometro della sede dell’asilo, da contrada Fabrizio Piccolo a contrada Fabrizio Grande, comporta difficoltà di trasporto per genitori impiegati per lo più come lavoratori stagionali. Per questo si chiede che il vecchio plesso, dichiarato inadeguato, venga ripristinato. Il caso è attualmente al vaglio della procura e dell’ufficio scolastico provinciale. Indiscrezioni, scrive Domenico Marino su «Avvenire», lasciano trapelare che la vera ragione della mancata frequenza sia dovuta allo status di bene confiscato allo ’ndranghetista Giovanni Battista Vulcano, la cui famiglia ha conservato la proprietà del terreno circostante, dove risiedono anche gli anziani genitori. 14 | novembre 2012 | narcomafie brevi di mafia Mafia e politica ad Altamura Spunta il nome di Mario Stacca, sindaco di Altamura, nell’inchiesta condotta dai pm della Procura di Bari Roberto Pennisi e Desiree Di- geronimo, che sta svelando intrecci tra mafia, politica e imprenditoria. A fare il nome di Stacca è Valerya Hiblova, vedova del boss Bartolomeo Dambrosio (ucciso nel settembre 2010): «A lui si rivolgevano anche carabinieri, finanzieri e politici, come il sindaco Stacca che gli chiese di fargli la campagna elettorale e di procacciargli voti». Secca la replica del primo cittadino: «Non conosco la moglie di Dambrosio e non ho chiesto aiuto a nessuno». Hiblova ha poi sottolineato l’influenza Una nuova struttura della ‘ndrangheta Si chiama “Corona” la struttura intermedia nelle gerarchie ’ndranghetiste finalizzata a custodire e tramandare i valori storici della ’ndrangheta reggina, venuta alla luce a seguito dell’operazione “Saggezza” portata a termine il 13 novembre dai Carabinieri del comando provinciale di Reggio Calabria: 39 arresti tra la Locride e le province di Vibo Valentia, Cosenza e Como. Si ha ora, dopo l’operazione Crimine del luglio 2010, ulteriore conferma del fatto che la ’ndrangheta sia un’organizzazione unitaria, verticistica e che le ’ndrine, ovunque dislocate, restino in contatto tra di loro. La Corona, si evince dalle carte, sapeva molto sull’omicidio di Francesco Fortugno, il vicepresidente del Consiglio della regione Calabria assassinato a Locri il 16 ottobre 2005. Le accuse sono di associazione di tipo mafioso, estorsione, porto abusivo e detenzione di armi, usura, illecita concorrenza volta al condizionamento degli appalti pubblici, minaccia, esercizio abusivo dell’attività di credito, truffa, furto di inerti, intestazione fittizia di beni. A seguire l’inchiesta, il pm Antonio De Bernardo e il procuratore aggiunto Nicola Gratteri (nella foto, ndr.), che ha commentato: «L’inchiesta [...] rende lucidamente uno spaccato di attività criminali che convergono verso un unico obiettivo: un asfissiante controllo del territorio, perseguito anche con il condizionamento dell’elezione degli organismi di governo della comunità montana Aspromonte orientale. Come si evince dalle risultanze investigative [...] tutto doveva passare attraverso accordi garantiti dai capi “locale”. Finanche il taglio dei boschi ed il commercio del legname, i lavori di messa in sicurezza delle fiumare erano pratica che doveva essere affrontata dai capi bastone attraverso i mezzi classici di intimidazione: furti nei cantieri, incendi di autovetture di titolari di imprese». L’operazione è stata condotta in cinque anni di indagini con intercettazioni a tappeto sul territorio: una di queste, inquietanti, lascia presagire una talpa nei vertici dell’antimafia: nei dialoghi trascritti un uomo delle forze dell’ordine dialoga in modo familiare con il boss di Canolo e gli fornisce informazioni riservate, riferite da una terza persona che ha accesso ai dati segreti. Sequestrate quattro imprese per un valore stimato di un milione di euro e individuate cinque “locali” (struttura che organizza la gestione malavitosa in un territorio dove sono presenti più ’ndrine) e le relative figure apicali riferibili alle municipalità di Antonimina (famiglia Romano), Ardore (famiglia Varacalli), Canolo (famiglia Raso), Ciminà (famiglia Nesci) e Cirella di Platì (famiglia Fabiano). del marito anche nel gestire appalti e lottizzazioni, raccontando storie di imprenditori di Altamura in cerca di appoggi. Dambrosio era un boss capace di influenze e lontano dagli stereotipi della criminalità pugliese: secondo la testimonianza della vedova, aveva un codice ereditato dai Siciliani, a cui le aveva confessato di essere appartenuto. Camorra, un patto Chiesa-polizia. L’appello di Sepe ai parroci “I parroci neghino il funerale ai camorristi”. Con questo anatema il cardinale Crescenzio Sepe torna sulla spinosa questione dell’accesso alla Chiesa da parte di affiliati alle organizzazioni criminali. La questura, per ragioni di sicurezza, ha facoltà di vietare le esequie pubbliche, ma anche quelle private andrebbero impedite per la forte valenza sociale che il rito ancora assume. La Curia napoletana ha già delle indicazioni pastorali: i boss non possono fare da padrini a battesimi e cresime, né da testimoni ai matrimoni. Ma non è così immediato capire se una vittima della camorra sia un camorrista: per questo la Chiesa deve confrontarsi con le forze dell’ordine. 15 | novembre 2012 | narcomafie Intervista ad Alessandra Cerreti di Emanuela Zuccalà Essere donna contro la ‘ndrangheta Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo, Giuseppina Pesce: volti e nomi di donne che hanno scelto di denunciare la ’ndrangheta, dopo averla vissuta sulla pelle. Un magistrato ci racconta il lato femminile dell’organizzazione Prima di lei, nessuna donna imputata per fatti di ’ndrangheta aveva osato tradire e raccontare i segreti di famiglia a un magistrato. Ma Giuseppina Pesce, 33 anni, di Rosarno, Calabria tirrenica, figlia del boss Salvatore Pesce, ha guardato negli occhi i propri figli e ha intravisto per loro un futuro diverso. Nonostante mettesse a rischio la propria vita. Di fronte a lei, un’altra donna: Alessandra Cerreti, di Messina, sostituto procuratore alla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria. Raccoglie la deposizione di Giuseppina e porta alla sbarra, nell’inchiesta All Inside, 76 capi e gregari della cosca Pesce: 13 di loro sono già stati giudicati in primo grado, 11 condannati; per altri 63 imputati il processo è in corso al tribunale di Palmi. Cerreti seguiva anche il tragico caso di Maria Concetta Cac- ciola, la testimone di giustizia che non ha retto alle pressioni della famiglia e si è suicidata ingerendo acido muriatico, il 20 agosto 2011. Con il magistrato cerchiamo dunque di comprendere il lato femminile della ’ndrangheta. Donne che fino a oggi sono 16 | novembre 2012 | narcomafie rimaste nell’ombra: si credeva si limitassero a cucinare per i latitanti, senza ricoprire alcun ruolo attivo nell’organizzazione, a differenza delle donne di camorra e di mafia. Oggi, invece, iniziano a emergere nelle cronache per la capacità di ribellarsi a un’organizzazione criminale tra le più potenti al mondo, con un fatturato annuo da 44 miliardi di euro (quanto i pil di Estonia e Slovenia messi insieme) e tentacoli ben radicati anche nel Nord Italia. Dottoressa Cerreti, dei circa 900 collaboratori di giustizia presenti oggi in Italia, solo un centinaio proviene dal crimine calabrese. Si dice che pentirsi in seno alla ‘ndrangheta sia impossibile, per via dei legami familiari che avvinghiano i suoi membri. Qualcosa sta cambiando? Finora in molti sostenevano l’impenetrabilità della ’ndrangheta perché, a differenza di altre mafie, all’interno del crimine calabrese spesso la famiglia mafiosa coincide con quella di sangue. Questo rende più complesso e tortuoso il percorso collaborativo e, nel tempo, ha contribuito a creare il falso mito dell’invincibilità della ’ndrangheta. Invece negli ultimi tre anni sono arrivati i primi collaboratori a sferrare colpi durissimi alle cosche. Che cosa rappresenta il pentimento di una donna, in questo contesto? Le collaborazioni al femminile sono eccezionali sul piano sociale e culturale, prima che su quello giudiziario: non solo spezzano il muro di omertà, ma attestano che le donne possono ribellarsi alla cultura maschilista che permea la mafia calabrese, intaccandone il prestigio criminale. Si dice anche che le donne di ‘ndrangheta, a differenza di quelle di camorra, ricoprano ruoli marginali. Al massimo sono “sorelle d’omertà”, cioè vivandiere dei latitanti. Un altro falso mito? Certo. Svolgono mansioni preziose quando gli uomini di famiglia sono detenuti: portano le “ambasciate” nei colloqui in carcere, garantendo così la sopravvivenza dell’associazione mafiosa e la prosecuzione delle attività criminali a questa ricollegabili, come estorsione e usura. Inoltre sono cassiere della cosca o intestatarie fittizie di beni, ma soprattutto trasmettono ai figli la mentalità e il vincolo mafiosi. È emblematica la “ninna nanna du malandrineddu”, in cui la mamma canta al bimbo: «Cresci in fretta, impugna la pistola per vendicare tuo padre...». Qual è la molla che fa scattare il pentimento in loro? Queste donne vivono la collaborazione con la giustizia 17 | novembre 2012 | narcomafie come un atto d’amore verso i figli, per i quali desiderano un futuro di scelte libere. Non vogliono che i propri ragazzi siano destinati a diventare soldati della cosca e che le ragazze sposino un mafioso, com’è toccato a loro, condannate a un’esistenza scandita dai colloqui in carcere. E spesso hanno come uniche finestre sul mondo internet e i social network: per quanto le si allevi secondo modelli obsoleti, se sono intelligenti e vogliono aprire i loro orizzonti, basta un clic. In questo la ’ndrangheta non può controllarle. A volte intraprendono relazioni sentimentali in rete e, per la prima volta a trent’anni, si ritrovano a essere corteggiate non come le figlie del boss ma come donne qualunque. È comprensibile che esplodano emotivamente. Com’è la vita di una donna di mafia in Calabria? Le collaboratrici dicono che, di norma, a 13 anni la ragazza viene indotta al matrimonio per rinsaldare alleanze mafiose e a 14 mette al mondo il primo figlio. In quella subcultura la donna è un patrimonio: strumento di alleanza tra famiglie, capace di procreazione e di trasmettere ai figli i valori mafiosi. I bambini maneggiano coltelli già a 12 anni, e a 14 la pistola. Ma c’era una donna che mandava il figlio all’oratorio contro il volere del marito, sognando di farlo laureare e dimostrando che, quando la madre vuole spezzare il laccio mafioso, può farcela. Quel bimbo, oggi, vuole diventare carabiniere. Sull’appartenenza mafiosa, alla fine, vince l’essere donna e madre. L’amore per i figli è l’unico sentimento più forte di quello che si prova per il padre, il fratello e il marito. L’unico che consente di superare il vincolo familiare e collaborare con la giustizia, sebbene ciò che queste donne intendono recidere non sia il vincolo affettivo familiare ma soltanto quello mafioso. Un’altra spinta può derivare dalla condanna capitale che alcune di loro hanno sulle spalle: nella ’ndrangheta, l’adultera è infatti punita con la morte. E loro si sentono colpevoli, addirittura meritevoli di morte. Alla domanda: «Scusi, suo marito la tradisce?», rispondono: «Sì, ma lui è un uomo». Hanno assorbito quella subcultura, sentono il loro destino ineluttabile: la collaborazione, in questi casi, è vista come l’unica via di fuga. Perché Giuseppina Pesce si è fidata proprio di Alessandra Cerreti? Queste donne non si fidano subito. Per le ragazze nate in quel contesto, i giudici sono gli “sbirri”: quelli che, quando loro erano piccole, hanno fatto arrestare in piena notte i loro padri e fratelli. Però un magistrato donna può abbattere la barriera del pudore, che in loro è fortissima. Una volta, con un collega, interrogai una collaboratrice reticente sulla sua relazione extraconiugale. Lei mi chiamò in disparte e mi disse: «Io mi vergogno davanti a un giudice uomo. Se vuole lo dico solo a lei». Durante il processo All Inside, alcuni detenuti gridavano dalle gabbie il nome di un suo collega uomo: rifiutavano di interagire con lei perché donna... Per la ’ndrangheta la donna può non rappresentare un interlocutore di pari livello. Capita che i detenuti “sbaglino” il cognome del pm donna, nonostante lo conoscano bene fin dalle indagini, proprio per dimostrare di non riconoscere la sua autorevolezza. Mi era successo anche nel corso dei processi di terrorismo islamico, dei quali mi sono occupata al tribunale di Milano: in quei casi è addirittura accaduto che i detenuti mi voltassero le spalle in aula, costringendomi ad allontanarli. Solo con l’omicidio Fortugno nel 2005 e la strage di Duisburg nel 2007 si sono accesi i riflettori nazionali e internazionali sulla potenza della ‘ndrangheta. Come mai tanto ritardo? La Calabria ha subito un desolante silenzio informativo. Le testate nazionali non hanno una sede qui e gli eventi criminali, tranne quelli eclatanti, sono trattati come beghe calabresi. Invece le recenti inchieste condotte dalla nostra procura insieme a quella di Milano, prima fra tutte l’indagine Crimine, hanno dimostrato che la ’ndrangheta è ben altro rispetto a ciò che si credeva o faceva comodo credere: non un’accozzaglia di bande o di pastori dediti al traffico di droga, bensì una mafia tra le più potenti, con il cuore e il cervello nella provincia di Reggio Calabria e ramificazioni ovunque. 18 | novembre 2012 | narcomafie Perché l’indagine Crimine è una pietra miliare nella lotta alla ‘ndrangheta? Perché ha accertato – e già abbiamo importanti decisioni di primo grado – che la ’ndrangheta ha una struttura unitaria, articolata nei tre mandamenti tirrenico, jonico e Reggio città. Ognuno elegge i propri rappresentanti che a loro volta designano il capocrimine. La ’ndrangheta con coppola e lupara è l’ennesimo falso mito: è vero che resta vincolata a tradizioni patriarcali, e questa coniugazione di riti tribali e modernità è un altro suo punto di forza. Ma c’è anche la ’ndrangheta dei colletti bianchi: oggi i figli dei boss calabresi studiano all’università, sono professionisti. La Commissione parlamentare antimafia, in una sua relazione, la definisce una “mafia liquida”, insinuata ovunque. È esatto. Non c’è solo l’ala militare da sconfiggere, ma le sue commistioni a ogni livello sociale, come le recenti indagini delle Dda di Reggio e di Milano hanno dimostrato: se si trattasse solo di un gruppo di criminali, la ’ndrangheta non sarebbe diventata così temibile. Le indagini Crimine e Infinito hanno messo in luce le sue infiltrazioni in Lombardia, altre inchieste si sono concentrate su Piemonte e Liguria... Non solo: la ’ndrangheta controlla la politica, e dall’interno: se prima era il politico a chiedere voti al boss, oggi è il boss a tentare di far eleggere i propri uomini. Di nuovo: perché ce ne siamo accorti così tardi? Lo Stato italiano, dopo le stragi del 1992, ha concentrato il suo sforzo repressivo in Sicilia. Ciò ha consentito alla ’ndrangheta di espandersi, approfittando di un generale clima di sottovalutazione. A questo va aggiunta la mancata reazione della società civile: nel 2011, dopo le bombe e il bazooka al procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone, la gente calabrese si è spontaneamente riunita sotto gli uffici della procura per manifestare il proprio sostegno ai magistrati. Non era mai accaduto prima. In Calabria l’assenza dello Stato è evidente, a partire dalla Salerno-Reggio, l’eterna incompiuta, “il corpo di reato più lungo d’Italia”... Non condivido: lo Stato in Calabria c’è e credo che l’azione giudiziaria degli ultimi tempi lo abbia dimostrato. È evidente che l’azione repressiva non basta: il resto è compito della politica nazionale e locale. Sì, le indagini del mio ufficio hanno messo in luce che i lavori sulla Salerno-Reggio Calabria sono di esclusivo appannaggio della ’ndrangheta. Siamo però riusciti di recente a ottenere la collaborazione di imprenditori coraggiosi che hanno denunciato i loro aguzzini, consentendoci di arrestarli. Da queste parti si tratta di un enorme passo avanti. Lei ha iniziato la carriera a Milano, per poi venire a Reggio nel 2010. Un caso o una scelta? Presso il tribunale di Milano ho vissuto un’esperienza pro- fessionale e umana eccezionale. Da meridionale, tuttavia, sentivo il dovere di fare di più per la mia terra afflitta dalla criminalità organizzata. È stata una scelta vissuta come un atto doveroso. Sono arrivata qui il 20 gennaio 2010, nel pieno della stagione delle bombe in procura, ma anche di un nuovo impulso nella lotta alla ’ndrangheta: l’allora procuratore Giuseppe Pignatone e il procuratore aggiunto Michele Prestipino avevano compreso che, se la ’ndrangheta è una e forte, per sconfiggerla le forze dell’ordine e le procure d’Italia devono lavorare in squadra, com’è avvenuto con l’indagine Crimine condotta in sintonia tra le procure di Reggio e Milano. I risultati non si sono fatti attendere: 2.297 arresti e due miliardi e 100 milioni di euro di beni sequestrati in soli quattro anni. Quali sono i prossimi passi da compiere? Nel maxi processo a Cosa nostra, i giudici Falcone e Borsellino ottennero una sentenza definitiva che dimostrava che la mafia siciliana esiste. In Calabria non abbiamo una sentenza analoga: a ogni processo dobbiamo dimostrare prima l’esistenza della ’ndrangheta poi l’appartenenza del singolo imputato. Un lavoro immane. Se la sentenza Crimine diverrà definitiva, sancendo l’esistenza e l’unitarietà della ’ndrangheta, il panorama giudiziario cambierà totalmente. Se pensa che la ’ndrangheta è stata inserita nominalmente tra le associazioni mafiose solo con un decreto legge del febbraio 2010, capirà quanto ancora ci sia da fare. 19 | novembre 2012 | narcomafie Trentesimo anniversario Un poliziotto semplice È lungo l’elenco delle vittime di mafia dimenticate. Una di queste è Calogero Zucchetto, giovane e brillante agente di polizia che con il suo lavoro aveva dato fastidio ai boss di Elisa Latella 20 | novembre 2012 | narcomafie Palermo, 14 novembre 1982. Trent’anni fa veniva ucciso a colpi di pistola il poliziotto Calogero Zucchetto, ventisette anni. Erano trascorsi appena due mesi dall’assassinio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, a cui i giornali, per la rilevanza della figura, avevano dedicato pagine intere e i telegiornali ampi servizi. Nei giorni successivi a quel 14 novembre 1982, le cronache siciliane dedicarono invece poco spazio alla morte del giovane agente, sottovalutando i collegamenti con gli eventi precedenti e con il lavoro da lui svolto. In servizio 24 ore al giorno. Zucchetto aveva partecipato alle prime scorte del giudice Falcone, aveva collaborato con il commissario Ninni Cassarà nella squadra mobile di Palermo. In particolare, si occupava della ricerca di latitanti mafiosi, faceva da esca in ambienti mafiosi per riuscire a mettere insieme i pezzi di un puzzle apparentemente incomprensibile, in un periodo in cui non era ancora iniziato il fenomeno del pentitismo. Zucchetto aveva collaborato alla stesura del rapporto “Greco più 161”, che tracciava un quadro della guerra di mafia iniziata nel 1981, dei nuovi assetti delle cosche, segnalando in particolare la crescita esponenziale del clan dei corleonesi guidato da Totò Riina. Come ricostruisce Saverio Lodato nel suo libro Dieci anni di mafia. La guerra che lo Stato non ha saputo vincere, Zucchetto era un poliziotto di strada. «Trascorreva nottate intere nelle discoteche e nelle paninerie palermitane. Aveva ottimi agganci anche nel mondo grigio della prostituzione, delle case di appuntamenti, della sale corse, del mercato ortofrutticolo, punti di riferimento naturali, questi, d’una varia umanità che a Palermo spesso incontra la mafia sul suo cammino». E ancora: «Spesso con il suo vespone, anche quando non era in servizio, se ne andava in giro per i viottoli degli agrumeti di Ciaculli, gli occhi bene aperti a spiare i movimenti degli uomini dell’esercito del boss Michele Greco, soprannominato il papa». La mattina del 28 ottobre proprio da quelle parti, il poliziotto di strada intravede il latitante Salvatore Montalto, poi il killer Pino Greco denominato “scarpuzzedda” e Mario Prestifilippo, altro tiratore scelto. Zucchetto è solo, chiede rinforzi da una cabina telefonica, ma li perde di vista e deve rinunciare alla cattura. Il blitz nella villa del latitante Salvatore Montalto avverrà solo il 7 novembre. Medaglia d’oro al valore civile. Il 14 novembre 1982 era domenica. Zucchetto venne ucciso alle 21 e 25 con cinque colpi di pistola calibro 38. La mafia aveva voluto eliminare l’ultimo anello, quello che non stava in ufficio, ma in strada, dove vedeva e capiva troppo. Lo sapevano i suoi superiori Montana e Cassarà, vittime anni dopo: alle “famiglie” dedite al traffico di eroina certa polizia non piaceva. Gli autori dell’assassinio di Calogero Zucchetto vennero in seguito individuati proprio in Mario Prestifilippo e Pino Greco. Come mandanti furono condannati i componenti della cupola mafiosa: Totò Riina, Bernando Provenzano, Calogero Ganci e altri. A Calogero Zucchetto è stata conferita una medaglia d’oro al valor civile per aver pagato con la vita un’intuizione che aveva precorso i tempi. Una strada a Palermo oggi porta il suo nome. In occasione del 28° anniversario l’associazione dei familiari vittime della mafia ha ricevuto e pubblicato l’affettuosa lettera di un collega. I due erano stati insieme in servizio alla Squadra Mobile di Palermo, nella sezione investigativa di Cassarà. Ecco la frase più significativa di questo ricordo: «L’onestà era la linfa con la quale nutriva il suo comportamento, dettato dalla necessità di riaffermare la legalità in Sicilia. Noi due non avemmo tanto tempo per stare insieme, come invece avevamo in animo di fare… ma l’amicizia che ci legò, anche se per pochi mesi, Cosa nostra non riuscì a togliercela». 21 | novembre 2012 | narcomafie considerato un disvalore. Non avevo neanche più l’auto, che loro stessi mi avevano prima distrutto e poi rubato. Adesso sono a pezzi. Avrei bisogno di lavorare, perché nessuno più viene nel negozio di chi ha denunciato. È come se il colpevole, in tutta questa storia fossi io. Vorrei partecipare alle fiere, per tentare di rimettermi in piedi. Non voglio regali, ma solo un’opportunità da parte dello Stato per lavorare. Così, ho scritto una lettera. Prima al sindaco Orlando e in questi giorni al nuovo presidente della regione Rosario Crocetta. Nella nota chiedo aiuto, e di potere andare alle fiere pubbliche senza pagare, perché soldi non ne ho. Alle istituzioni chiedo solo una possibilità, quella di vivere una vita più dignitosa. A dicembre, sicuramente riceverò lo sfratto, perché non riesco a pagare l’affitto. Intanto, il processo va avanti. Io ho denunciato tre estortori, ma la strada è ancora lunga. Dall’amministrazione di Palermo mi è arrivata risposta. Forse a breve avrò la possibilità di presenziare alle fiere. Però sto ancora aspettando. Non mi arrendo. Partecipo alle manifestazioni, vado nelle scuole a raccontare la mia storia e a dire che denunciare è importante. Altrimenti si è doppiamente vittime». nuoveresistenze resistenze I soldi, però non sono bastati comunque. Gli usurai, legati al clan dei Lo Piccolo di Palermo, cominciano a intimidirmi. Prima erano solo minacce verbali. “Se non paghi ti ammazziamo dicevano”, oppure “Se ci tieni alla tua famiglia comportati bene”. Poi, man mano, tutto è diventato ancor più tragico. Mi hanno sparato due colpi di pistola per strada, mancandomi, fortunatamente. Forse era solo un avvertimento. Una mattina, davanti al cancello di casa, ho trovato il disegno di una sagoma di un uomo trafitto da un coltello. Poi sono arrivate le percosse, mi hanno rotto un braccio. A quel punto ho chiamato il numero verde di un’associazione antiracket e ho raccontato tutto». La telefonata è poi passata alla polizia di Palermo, che ha convinto l’imprenditore siciliano a denunciare tutto. «Ho vissuto e vivo momenti di povertà e solitudine spaventose. Mi sono rivolto alla Caritas per avere da mangiare per me e per la mia famiglia, anche se ho ricevuto 20 mila euro del Fondo Antiusura che mi sono serviti solo a ripianare parte dei debiti che avevo contratto. Così è iniziata la mia solitudine. Amici e parenti mi hanno lasciato solo, come se il colpevole fossi io. Denunciare, in queste zone, viene quasi Storie di chi si ribella ogni giorno «Sono stato per anni vittima di usura e di racket. Poi ho deciso di denunciare». Bernardo è un artigiano ceramista di Palermo. Fino al 1998 ha avuto un piccolo laboratorio con otto dipendenti. «Gli affari andavano bene, ma di artigianato non ci si arricchisce, soprattutto quando lavori la ceramica. Mio malgrado, riuscivo ad andare avanti. Stavo ristrutturando casa, e avevo bisogno di 40 milioni». Bernardo si rivolge allora a un conoscente per il prestito. «Mi viene data subito la somma, ma con il vincolo di pagare due milioni al mese. In poco tempo quel debito è diventato di 120 milioni. Mi erano morti tre figli in cause disastrose, e quello che mi è rimasto in vita soffre di una grave malformazione che richiede cure specifiche e costose. Non ce la facevo più a pagare. Così, sono stato costretto a rivolgermi a un altro usuraio, per pagare il primo. Mi ha fatto un prestito di 15 mila euro, anche quelli destinati a triplicarsi in poco tempo. Non potevo più vivere». Nel 2003 Bernardo decide di vendere quella casa che gli era costata tanto. «Ho preso un appartamento in affitto, dove vivo tutt’ora, che d’inverno diventa invivibile perché ci piove dentro e l’umidità ci entra nelle ossa. di Laura Galesi Denunciare a Palermo Antimafia all’ombra della madonnina di Marika Demaria l’antimafiacivile cosenostre 22 | novembre 2012 | narcomafie Novembre è stato, per la Lombardia, un mese all’insegna dell’antimafia. Al centro delle iniziative i beni confiscati e il loro riutilizzo sociale, concerti, presentazioni di libri, dibattiti, celebrazioni di anniversari. L’adesione è stata massiccia, termometro di una società che non vuole farsi narcotizzare da chi persevera nel dichiarare che “la mafia al Nord non esiste”. Eclatanti, a tal proposito, furono le affermazioni di Letizia Moratti e Gian Valerio Lombardi, nel 2010 rispetti- vamente sindaco e prefetto di Milano, che negavano con forza l’esistenza delle mafie su quei territori. Pochi mesi dopo – la notte tra il 13 e il 14 luglio – si registrarono oltre trecento arresti, frutto della maxi operazione “CrimineInfinito” che ha percorso l’asse Milano-Reggio Calabria. Negare la presenza delle mafie è come negare l’evidenza. Non a caso, lo slogan della prima edizione del Festival dei Beni confiscati alle mafie (organizzato dal Comune di Milano in collaborazione con Libera e l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati) era “La Mafia non esiste”, firmato in corsivo dalla stessa mafia. Tre giorni di eventi culturali ospitati in diciannove immobili confiscati alla criminalità, oltre a tre luoghi ristrutturati ex novo e restituiti alla collettività. Il primo era un ex negozio sito al numero 25 di via Cenisio, assegnato all’Associazione Aldo Perini, che si occupa dell’assistenza ai malati di Sclerosi laterale amiotrofica (Sla). Un appartamento in via Canonica 87 è invece stato affidato alla Fondazione Don Gnocchi al fine di ospitare ragazzi con disabilità, mentre i genitori dei bambini ricoverati presso gli ospedali pediatrici milanesi potranno essere ospitati presso la struttura Pio Istituto di Maternità, alla quale è stato affidato l’appartamento di via Baldinucci 13. Sabato 10 novembre è stata inoltre inaugurata la “Bottega dei sapori e dei saperi” all’interno della quale si possono acquistare i prodotti biologici frutto del lavoro delle cooperative 23 | novembre 2012 | narcomafie sociali che sorgono sui terreni confiscati alle mafie. Una realtà, quella della confisca dei beni alla criminalità organizzata, che è radicata anche in Lombardia: secondo i dati dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati, infatti, questa regione si colloca al quinto posto in Italia per numero di beni confiscati alle mafie, con 807 immobili attualmente confiscati. Nella sola città di Milano si contano circa trecento beni, tra immobili e aziende, sottratti alle mafie. Il primo festival dei beni confiscati alle mafie è stata l’occasione per presentare al pubblico l’ultimo libro di Nando dalla Chiesa e Martina Panzarasa “Buccinasco. La ’ndrangheta al Nord” (Einaudi). La pubblicazione ha scatenato feroci polemiche, che hanno trovato spazio anche sul sito del Comune. Proprio in questa vetrina telematica è stata pubblicata una lettera aperta a firma del sindaco di Buccinasco Giambattista Maiorano, il quale, facendosi portavoce, lamenta il fatto che gli autori del libro hanno fornito un’immagine distorta della cittadina: «Buccinasco non è sinonimo di male – si legge – non basta essere calabresi e neppure portare un cognome compromesso per essere un poco di buono. È questa l’immagine che non condivido e che il libro, malgrado l’intento che si propone, rischia di dare della nostra città». In difesa del sociologo e del libro – che nell’arco di un mese è andato in ristampa – si è schierata anche l’associazione Libera, di cui Nando dalla Chiesa è presidente onorario. In una nota si legge che «non esprimiamo solo solidarietà ma corresponsabilità. Ancora una volta Libera sceglie di stare da una parte precisa, quella di Nando dalla Chiesa e di tutti coloro che si spendono con professionalità e scrupolo per raccontarci i passi giusti per combattere le mafie e costruire percorsi di verità e giustizia». Queste due parole – verità e giustizia – catapultano idealmente in una serie di altri eventi che si sono succeduti a Milano e dintorni a novembre. In particolare, nella settimana dal 19 al 25, si sono svolti dodici incontri organizzati dalle associazioni Libera, Saveria Antiochia Omicron, dalla scuola di formazione politica Antonino Caponnetto e dal Coordinamento delle scuole per la legalità e la cittadinanza attiva. Docenti universitari, magistrati, scrittori hanno tenuto lezioni delineando i contorni sempre più a geometria variabile del fenomeno delle mafie ed offrendo significativi spunti di riflessione ed esempi concreti di contrasto della criminalità organizzata. L’apice di questi incontri si è toccato il 24 novembre, giorno del terzo anniversario della scomparsa e della morte di Lea Garofalo. Proprio in quei giorni era giunta la notizia che in un terreno a San Fruttuoso, a Monza, erano stati ritrovati dei resti carbonizzati di un corpo. L’esame del Dna ha rivelato che si tratta del cadavere di Lea Garofalo: determinante il referto di una radiografia, che combaciava con un’altra in possesso della figlia Denise. La notizia non svuota di brutalità l’efferatezza del delitto, ma fa intravedere una speranza: un funerale e una degna sepoltura per Lea, un luogo dove deporre un fiore alla sua memoria. La vicenda della giovane testimone di giustizia che ha avuto il coraggio di denunciare la ’ndrangheta, la sua famiglia d’origine e i membri della famiglia che aveva cercato di costruirsi segna una pagina importante della lotta alle mafie, una lotta interna, al femminile, dove le donne si sacrificano per il bene dei propri figli, per garantire loro un futuro degno di tale significato. Ma c’è un’altra donna, ancora più giovane, che continua la sua battaglia, sfidando paura e omertà: Denise Cosco, la figlia di Lea Garofalo. A lei, al suo coraggio, alla sua vita sotto protezione sono andati i pensieri delle persone che nel pomeriggio di sabato hanno partecipato alla manifestazione “Le radici del domani” nel corso della quale, davanti alla biblioteca del parco Sempione a Milano, il presidio di Libera intitolato proprio alla memoria della testimone di giustizia, di concerto con l’amministrazione comunale, ha piantato un albero in ricordo di Lea Garofalo. Esattamente lì, dove delle telecamere basculanti di sorveglianza hanno registrato gli ultimi attimi che madre e figlia hanno trascorso insieme, quel 24 novembre 2009. Prima che Carlo Cosco arrivasse per accompagnare Denise dai propri zii, prima che Lea rimanesse da sola a camminare lungo quel marciapiede, prima che Carlo Cosco tornasse per portarla verso il suo tragico destino. Sempre sabato 24, in contemporanea all’evento milanese, a Monza moltissimi cittadini deponevano fiori davanti alla targa posta all’ingresso del cimitero, che recita: “Il Comune di Monza ricorda Lea Garofalo, esempio di madre coraggio, testimone per la legalità”. A poche centinaia di metri, il terreno di San Fruttuoso posto sotto sequestro dai Carabinieri, sul quale si sono consumati gli ultimi atti di quella che ha tutti i contorni di una tragedia greca. dialogo tra antimafia virtuale e antimafia reale a cura di Marcello Ravveduto 24 | novembre 2012 | narcomafie Il papà dei pulcini La forza di internet sta nella pos possibilità di arrivare nei posti più lontani rimanendo davanti ad uno schermo. Così con un click ho soddisfatto la mia curiosità di visualizzare un narcocorrido di cui avevo sentito parlare. Cos’è? Una genere musicale che racconta le storie dei narcos messicani. La canzone è El papa de los pollitos (Il papà dei pulcini, che in gergo sono gli uomini dei cartelli della droga). Il papà, chiaramente, è il boss. Ho tentato di tradurre il testo e, se non ho fatto troppi errori, dovrebbe essere questo: «Levati che mi togli la luce./ O ti muovi o ti sposto./ Tu sai che non scherzo/ ho una pessima reputazione /…/ Sono il papà dei pulcini./ Finché vivo, la piazza/ mi appartiene. Decido io/ qual è l’obiettivo e chi non / è ben disposto con me è morto./ Io non rispetto le gerarchie./ Nemmeno il mio “corno di capra” (in gergo il mitragliatore Ak-47 nda)./ Tu sai che io sono il capo/ E che nessu nessuno può farcela con me./ È meglio che mi si rispetti/ perché i miei uomini sono cattivi./ Basta poco per metterli in moto/ colpiscono chi sbaglia con crudeltà./ Continuo a reclutare gente./ La mia impresa (il narcotraffico) è garantita/ dallo stato di Sinaloa/ …/ Ho i nervi d’acciaio,/ è un’eredità di famiglia./ Non temo nessuno./ Sono cresciuto in stile siciliano/ per questo in qualsiasi campo/ il mio cartello sale sempre più in alto./ Tu sai che sono il capo/ e che non sono molto mansueto./ È meglio che mi si rispetti/ …» Il boss si contraddistingue per la sua reputazione di delinquente pronto ad usare i suoi uomini per colpire con micidiali armi automatiche chiunque, amici e nemici, senza rispetto per le gerarchie interne. Uomini coraggiosi (dove coraggio è sinonimo di crudeltà) la cui valenza risiede nella capacità di scatenare una violenza senza fine, affidata ai colpi mortali del corno di capra. Il narcotraffico è fonte di lavoro per migliaia di persone, divenuto parte integrante dell’economia nazionale, garantita direttamente dai più alti livelli istituzionali («La mia impresa è garantita/ dallo stato di Sinaloa»). Infine il capo, per darsi un tono di superiorità mafiosa, afferma di essere cresciuto in «stile siciliano». Si tratta di uno stereotipo utilizzato per richiamare un contesto criminale, in grado di influire sulla mentalità collettiva attraverso un capillare controllo del territorio, connotato da un potere intimidatorio totalizzante. È evidente che nell’atteggiamento pacchiano e gradasso del protagonista non vi è nulla che possa aderire alla concezione dell’essere mafioso. Ma l’evocazione della Sicilia serve a rafforzare le sue qualità di uomo d’onore. Ciò conferma l’esistenza di una mitologia in cui la mafia rappresenta una specie di empireo criminale in cui possono sedere solo i boss che hanno un incontestabile carisma. Il video è più esplicito delle parole. Nella prima immagine si vede una mano caricare un mitragliatore. Subito dopo, un uomo (Mario Quintero il vocalist dei Los Tucanos de Tijuana) spara raffiche di pallottole verso la telecamera. Le scene si alternano tra la posa da “pappone” del protagonista e la storia di un narcotrafficante di Tijuana, capitale dello stato messicano Bassa California. Lo status symbol è un super Suv in cui si aggira ricevendo fasci di banconote da uomini appostati agli angoli della strada. Tra questi un ragazzo lo tratta con aria di sufficienza come se fosse uno qualsiasi. Il set si sposta nel privé di un night club. Il boss sta discutendo di affari, intorno ad un tavolo da biliardo, con i suoi “pollitos” (si vede una piantina dei cunicoli sotterranei in cui la droga raggiunge gli Usa, eludendo il controllo della dogana). La riunione viene interrotta quando alcuni trascinano dentro il giovane spavaldo che lo aveva ignorato. Gli tira i capelli e lo schiaffeggia. Poi gli infilano il dito indice in una ghigliottina trancia sicari e zac! L’indisponente si accascia al suolo e vien buttato fuori. Come nulla fosse accaduto si brinda e, mentre i narcos sorseggiano champagne, si compiono una serie di regolamenti di conti: un uomo grassoccio colpito da due fucili a canne mozze; due sgherri malmenati nei pressi di un deposito; un politico assassinato all’uscita di un edificio; due cinesi che contrabbandano orologi; altri due trafficanti a cui sottraggono i guadagni. Infine si ode un colpo di pistola e appare il titolo della canzone. Los Tucanes sono uno dei gruppi più famosi del genere, talmente bravi che il procuratore generale di Tijuana li ritiene coinvolti nel narcotraffico. Il teorema applicato dai magistrati è trasparente come l’acqua: se conoscono così bene le avventure dei narcos significa che li conoscono e se li conoscono vuol dire che sanno dove stanno. Immaginate cosa accadrebbe se un simile teorema fosse applicato ai nostri neomelodici. Ma non pensiamoci queste sono cose che accadono in Messico dove in sei anni (2006-2012) hanno ammazzato 39 cantanti perché a furia di cantare le gesta dei narcos si sono del tutto immedesimati… 25 | novembre 2012 | narcomafie Usura inchiesta La relazione della Direzione nazionale antimafia, il rapporto di Sos impresa, le indagini condotte a ogni latitudine del Paese tracciano drammatici contorni del fenomeno usura. Una piaga che costringe alla chiusura decine di aziende al giorno, mettendo in ginocchio migliaia di famiglie. Eppure le denunce non aumentano. Anzi, lo strozzinaggio gode di ottima salute, come rileva il documentato dossier di Libera che Narcomafie pubblica in questo numero 26 | novembre 2012 | narcomafie Il Bot delle mafie C’è chi la crisi la combatte e c’è, invece, chi la cavalca facendo affari, investendo, controllando il territorio, assumendo personale e prestando soldi. Fiumi di soldi. Tutto e subito, ma con gli interessi, naturalmente. È usura di mafia, quella gestita dalla criminalità organizzata. Clan che, da tempo, hanno capito come fare soldi con i soldi Usura di Peppe Ruggiero Sono ben 54 i clan mafiosi che negli ultimi ventiquattro mesi compaiono nelle inchieste e nelle cronache giudiziarie che riguardano i reati associativi con metodo mafioso finalizzati all’usura. Sono presenti i “soliti noti”, il gotha delle mafie: dai Casalesi al clan D’Alessandro, dal clan Cordì ai Casamonica, dai Cosco alla ‘ndrina dei De Stefano, dai Terracciano ai Fasciani, dai Mancuso ai Parisi, dai Mangialupi al clan della Stidda. E con tassi usurari che cambiano di regione in regione. In Puglia, per esempio, i clan hanno raggiunto il 240% di tassi annui; in Calabria, nel vibonese, i clan hanno un tariffario pari al 257%, nel cosentino e nella locride si scende a 200%. Nelle metropoli si registra il record: a Roma, con tassi anche vicino al 1.500%, che scendono però a 400% a Firenze e a 150% a Milano. I tassi sono altalenanti anche nelle province. I clan nel nord-est padovano chiedono fino al 180% annuo, nel mode- nese tra il 120 e il 150%, mentre ad Aprilia, nel basso Lazio, si è raggiunta la cifra record di 1.075% di tasso annuo. Cifre che ci parlano di soldi, tantissimi soldi e di un giro di affari talmente enorme che quantificarlo con esattezza è impresa pressoché impossibile, anche perché ciò di cui si parla è solo la punta di un’iceberg; è solo quello che si riesce ad intravedere attraverso le denunce e le successive inchieste giudiziarie: rispetto all’enorme portata di questo affare è cronicamente scarso il dato delle denunce, per tanti motivi, figuriamoci ora in tempo di crisi, figuriamoci con l’attuale fame di denaro. «Ritornerei a restituirgli quello che gli ho pagato. Se non fosse stato per loro il mio negozio ora sarebbe sparito», diceva determinato (ma anche arrabbiato con le banche) una vittima dopo aver rimborsato agli emissari del clan D’Alessandro, Castellammare di Stabia, un prestito con il 120% di interessi. Un affare strategico. Tuttavia, nonostante l’enorme sommerso, alcuni dati riferiti ai sequestri operati dalla magistratura in giro per l’Italia ai danni di alcuni clan mafiosi nel corso di importanti inchieste giudiziarie, ci offrono uno spaccato che comunque rende l’idea: oltre 41 milioni di euro al clan Terracciano emigrato in Toscana, circa 100 milioni all’imprenditore usuraio di Sabaudia, Salvatore Di Maio, 70 milioni di euro il tesoro sequestrato al clan Moccia nel napoletano. E ancora oltre 10 milioni di euro al clan Valle Lampada che dalla Calabria hanno messo radici nell’hinterland milanese, circa 7 milioni di euro il tesoretto di usura sequestrato all’ex contrabbandiere Mario Potenza, grazie alle dichiarazioni del boss pentito della camorra napoletana Salvatore Lo Russo; oltre 15 milioni al clan Parisi in Puglia, 5 milioni al clan calabrese Facchineri che operava in Lombardia, oltre 10 milioni il tesoretto del clan dei Casamonica a Roma. Sono alcune istantanee di questo dossier che Libera vuole intitolare “L’usura, il Bot delle mafie”, prendendo l’immagine dei buoni del tesoro dal pm Vincenzo Luberto, che la usò all’indomani dell’operazione “Star price 2”, nella quale, secondo l’accusa, diverse somme di denaro frutto dei proventi dell’usura sarebbero state utilizzate per finanziare alcune attività commerciali. Il tutto per un giro d’affari vicino ai 10 milioni di euro, gestito da tre potenti gruppi mafiosi del cosentino. Un “bot”, quello delle mafie, che è sempre più “delocalizzato”, rispondendo così alla natura strategica di questo affare quando è gestito dalla criminalità organizzata: permette ai clan di entrare silenziosamente in territori vergini dal punto di vista dell’aggressione mafiosa e nello stesso tempo permette di far confluire nell’economia pulita fiumi di soldi sporchi, da riciclare. E dunque i casalesi fanno affari in Veneto e in Toscana, la ’ndrangheta occupa le regioni del Nord Italia – Lombardia, Piemonte ed Emilia –, mentre Cosa nostra rimane legata al suo territorio di origine. Un’usura, quella gestita dalle mafie, che si mostra stabile nelle grandi metropoli, e che negli ultimi anni penetra velocemente e in silenzio nelle ricche città di provincia. Aziende nel mirino. Che siamo davanti a un fenomeno mafioso di entità preoccupante lo dimostrano anche i dati provenienti dalle informazioni Uif (Unità di informazione finanziaria) della Banca d’Italia su segnalazioni di operazioni sospette: solo secondo i riferimenti della Guardia di finanza, a fronte delle oltre 18 mila segnalazioni per le quali nel periodo 2010-2011 si è completato l’approfondimento investigativo, 8.365 (circa il 46%) sono confluite in procedimenti penali aperti presso varie procure per riciclaggio e reimpiego di proventi criminali, usura, abusivismo finanziario, truffa, reati tributari. Insomma, i clan hanno fatto di questa attività un ramo fondamentale della loro impresa, avendo la possibilità di riciclare gli immensi proventi del traffico di droga o del giro delle scommesse, e in tal modo penetrando a fondo nel tessuto dell’economia legale. Nel loro mirino aziende redditizie e attività commerciali floride che in tempo di crisi – anche quelli meglio strutturati – hanno la necessità urgente di accedere a crediti per non perdere commesse e di conseguenza essere tagliati fuori dal mercato. In questi casi solo l’usuraio mafioso può essere in grado di movimentare e rendere disponibili ingenti somme di denaro in breve tempo. E con i soldi, accompagnati da una costante violenza psicologica ma anche fisica, il passo successivo è inevitabile: il prestito ad usura, che da un lato permette al titolare dell’azienda di salvarla (questo è ciò che crede), dall’altro il clan si impossessa di fatto di quell’azienda e di quell’attività economica trasformandola in una propria lavanderia. Con rischi vicini allo zero, perché l’usura, e a maggior ragione quella mafiosa, è un reato che non si denuncia. È un reato che si basa spesso sulla mancata percezione della vittima di essere stritolato in un affare illecito (lui sta solo salvando la sua azienda, anche se a costi un po’ più alti….!), si basa sull’omertà, e su un rapporto vittima-usuraio ma- fioso che segue la dipendenza psicologica, quasi fisica. E per paura, ma talvolta anche per vergogna, difficilmente qualcuno si presenta dinanzi alle forze dell’ordine per denunciare. Questo emerge anche dagli atti di inchieste come “Infinito”, della Dda di Milano, che aveva portato a oltre 170 arresti e a 110 condanne con rito abbreviato, e dove gli investigatori avevano scoperto che oltre al traffico di droga e alla detenzione di armi (kalashnikov, mitragliette Uzi, bombe a mano), l’organizzazione si occupava di usura ed estorsioni nei confronti di imprenditori locali, soprattutto di origini calabresi. Emblematiche le parole del procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccasini. Quasi nessuno ha denunciato le vessazioni, restando in un clima di omertà che ha ostacolato le indagini. Boccassini ha ricordato come di fronte ai «tanti episodi di intimidazione e violenza subiti dagli imprenditori lombardi, questi dicano “noi non abbiamo ricevuto minacce, mentre noi sappiamo dalle indagini che non è così”». «È evidente – ha detto Boccassini – che la classe imprenditoriale ha convenienza a rivolgersi alle organizzazioni criminali piuttosto che allo Stato». Il procuratore aggiunto ha poi ricordato che molte vittime, magari di origine calabrese e gravate da debiti, sono portate a rivolgersi «alle persone sbagliate» per appianare i loro problemi. «Il dato inquietante è che questa situazione permane – ha proseguito Boccassini –; fin quando la classe imprenditoriale nazionale non capirà che stare con lo Stato è più pagante che stare con l’antistato, non penso che il problema si risolverà domani». Usura 27 | novembre 2012 | narcomafie Il bilancio dei cravattari Usura 28 | novembre 2012 | narcomafie Aumenta l’usura dei clan, ma le denunce crollano. Un rapporto di Sos Impresa fotografa il fenomeno di Laura Galesi Capitali dell’usura italiane si confermano Roma e Napoli. Un’usura sommersa, camaleontica, violenta, “mordi e fuggi”, che segna uno scarto incredibile tra le richieste di aiuto e la realtà giudiziaria. Ma le denunce continuano a diminuire, complice la crisi economica. Secondo i dati di Sos Impresa, dal 2010 al 2012 hanno chiuso in Italia circa 450mila aziende commerciali e artigianali. «Una stima prudenziale fa ritenere che almeno un terzo di queste ha cessato la propria attività per grave indebitamento da usura». L’usura incravatta e costringe alla chiusura cinquanta aziende al giorno, e ha bruciato, solo nel 2011, 300mila posti di lavoro. A questo fenomeno si aggiunge quello dell’indebitamento medio delle famiglie. Sono 600 mila gli italiani invischiati in patti usurai, di questi un terzo sono commercianti. Il Lazio e la Campania si confermano le regioni a più alto rischio usura, ma anche le altre, sia del Mezzogiorno che del Nord produttivo, sono state gravemente colpite dal fenomeno. Sono questi dati che fanno comprendere la vastità e la pervasività di un fenomeno che, purtroppo, cresce incontrastato nel silenzio. “Nell’anno che si chiude, al nostro numero verde sono arrivate più di 3.500 richieste di aiuto – spiega Lino Busà presidente di Sos Impresa –, ma paradossalmente le denunce continuano a diminuire, rendendo il reato del tutto invisibile. Secondo i dati della Dia, le denunce sono state solo 230 nel 2011, un risultato che porterebbe a dire che l’usura non esiste. Eppure l’enorme quantità di denaro sequestrato agli usurai, tra l’altro in continuo aumento, ci conferma un fenomeno vasto e pervasivo. Dal 1996, che rappresenta l’anno di introduzione della Legge 108, a oggi, si assiste a un calo sistematico delle denunce. Il numero dei reati segnalati non permette agli studiosi di rilevare l’entità del fenomeno. Prendendo in considerazione l’ultimo triennio, emerge che nel 2009 a fronte di 369 casi di usura si sono verificati 736 arresti, nel 2010 su 228 casi ci sono stati 1.332 arresti, nel 2011 230 casi e 1.223 arresti. Il meccanismo rileva dunque cinque persone arrestate per ogni caso di usura. L’usura di oggi ci appare con un doppio volto da esibire a seconda delle regole da rispettare per la concessione del prestito, delle garanzie richieste, delle tipologie d’approccio: “la faccia pulita e quella sporca”. Per Sos Impresa, l’usura dalla faccia pulita può assumere diverse aspetti. Un primo gruppo è costituito da pseudo- società di intermediazione o di servizi finanziari. «Un fenomeno in espansione che gioca sulla fiducia nutrita da una persona bisognosa nei confronti di una struttura, apparentemente legale e impersonale». I prestiti di queste finte finanziarie non sono mai di grossa entità e i tassi di interesse iniziali sono abbastanza tollerabili, così che il meccanismo di usura o truffa scatta sul tasso di interesse che non è mai scalare, ma fisso, o sull’obbligo di acquisto di altri servizi tanto inutili, quanto onerosi. Un secondo gruppo è costituito da una ristrettissima minoranza di “professionisti insospettabili”. Sono strutture costituite da investitori professionisti, che operano di sponda con alcuni bancari infedeli, dai quali ricevono una clientela selezionata, e intervengono per operazioni superiori a 20 mila euro. Un terzo gruppo è costituito più direttamente da pochi bancari. «Sono loro stessi che, conoscendo le difficoltà economiche del malcapitato, si autopropongono per un prestito personale. Tutti e tre i gruppi hanno una finalità comune: agiscono non solo per lucrare sugli interessi, con la modalità del rinnovo degli assegni, ma puntano a una azione espropriativa. L’obiettivo è svuotare il malcapitato di ogni suo bene e attività economica». L’Italia d’altronde sembrerebbe una Repubblica fondata sul debito. L’ultimo dato, in ordine di tempo, viene dall’Istat. Il 56%, una famiglia su due, si trova in una situazione di crisi economica. Il 38, 4% delle famiglie italiane non saprebbe affrontare un’emergenza il cui costo è superiore a 800 euro e mentre il 46% rinuncia alle vacanze, il 17,9% non usa più il riscaldamento neanche per la casa durante la stagione invernale. In un solo anno, la quota di individui che vivono in famiglie deprivate, ovvero con tre o più sintomi di disagio economico, è salita dal 16 al 22,2%. A livello territoriale, la maggiore concentrazione di famiglie povere è nel Mezzogiorno (22,7% contro 5,2% del centro-nord). La crescita dell’usura mafiosa. Tradizionalmente le organizzazioni mafiose e criminali si sono dedicate solo marginalmente a questo tipo di reato, spesso limitandosi al pizzo. Da qualche anno però le cose sono nettamente cambiate. La criminalità mafiosa è cresciuta acquisendo quote sempre più ampie del mercato del prestito a nero. Dal 2008 al 2011, la presenza dei clan nell’usura è raddoppiata, passando dal 20 al 40 per cento. Questo fenomeno non tralascia le regioni del nord e centro Italia, dove alcune famiglie hanno affinato il sistema di penetrazione al di fuori delle regioni di tradizionale radicamento, che parte dalle condizioni di difficoltà economiche. Sos Impresa ha esaminato i diversi casi di usura dal 2008 al 2011 e ha mostrato come l’usura criminale mafiosa copra zone sempre più ampie di mercato nazionale. Questa forma di usura ha trovato forza anche per il modificarsi del mercato del “prestito a strozzo”. Infatti, cresce da parte delle vittime l’entità di capitale richiesto. Si tratta di somme cospicue che il prestatore di quartiere non è in grado di soddisfare, mentre l’usuraio del clan, spesso il “ragioniere” che gestisce la liquidità derivante dal traffico di droga e dalle scommesse, nel giro di poche ore può rispondere alle richieste più impegnative. «Avevo chiesto 50 mila euro per mantenere in piedi la mia azienda – racconta Antonio, imprenditore campano – . Ero in crisi, e mi sono rivolto a un conoscente. Non sapevo fosse un usuraio. Avrei dovuto restituire la somma a poco a poco, con un piccolo interesse mensile, ma in breve tempo questo debito si è triplicato. A quel punto, non ero più in grado di pagare, loro volevano impossessarsi della mia azienda. Alla fine ho denunciato, ora ho ripreso a lavorare e gli affari lentamente crescono». Mafia Spa è il più grande agente economico del paese. Una holding company, articolata su un network criminale, fortemente intrecciato con la società, l’economia, la politica. Un sistema, in grado di muovere un fatturato che si aggira intorno ai 138 miliardi di euro, con un utile che supera i 78 miliardi al netto di investimenti e accantonamenti. Questi elementi, hanno prodotto un cambio di mentalità. Molti boss non considerano più spregevole questa attività e si forgiano del titolo di usuraio mafiso, colui che interviene a sostegno di chi ha bisogno di somme rilevanti, come possono essere commercianti o imprenditori che hanno la necessità di movimentare notevoli somme per non essere tagliati fuori dal mercato o per non perdere le commesse. «È sotto questo duplice aspetto che l’usura entra nell’interesse mafioso e cioè quello di offrire un servizio funzionale, per accrescere il consenso sociale e per continuare ad affermare un criterio di sovranità nei luoghi in cui agisce, come svolgere una funzione alternativa al riciclaggio, consentendo di costruire legami stabili con settori dell’economia legale”. Acquisire costanti flussi di liquidità, infatti, consente di realizzare quello che, in termini economici, viene definito laundering, riferendosi a quella fase che mira ad allontanare i capitali dalla loro origine illecita, consentendo anche che gli stessi utili possono essere reinvestiti in altre attività. Giustizia tartaruga. Il fenomeno dell’usura, però, resta ancora avvolto nel silenzio. Sono più di 400 le persone assistite da Sos Impresa negli ultimi anni. Si tratta prevalentemente di uomini (le donne che denunciano sono ancora poche, solo il 27%), hanno meno di cinquant’anni e spesso operano nel commercio. L’iter giudiziario, secondo quanto scrive Sos Impresa nel rapporto presentato in occasione del “No Usura Day” del 21 novembre 2012, rappresenta una delle note dolenti del fenomeno usuraio. Solo il 10% delle vittime che denunciano può contare sull’assistenza legale, anche se il più delle volte viene fornita dalle stesse associazioni antiusura presenti sul territorio. Nel 9% dei casi entro due anni dalla denuncia si arriva alla chiusura dell’inchiesta e al rinvio a giudizio dei cravattari, ma più spesso l’indagine si trascina per almeno quattro anni, e circa il 70% viene poi archiviato, trasformando, di fatto l’usura in un reato depenalizzato. “Sono passati ben 16 anni – continua Busà – da quando venne approvata, sulla spinta dell’indignazione popolare, la legge 108/96, e già nel decimo anniversario avevamo chiesto una profonda revisione della normativa, soprattutto in quelle fasi che hanno fallito nel corso del tempo. Questo ci porta a dire che, mentre l’usura diventa sempre più pericolosa, è più complicato fare emergere il reato in tutta la sua gravità. Dobbiamo uscire dall’immobilismo, le vittime non possono più attendere”. Da anni, infatti, è stata depositata in Parlamento una proposta di legge, rimasta nel dimenticatoio. L’appello delle associazioni e fondazioni antiracket e antiusura è allo sforzo comune per trovare un’ampia intesa su un nuovo testo, «altrimenti – dice il presidente – l’unica alternativa, sarà quella di iniziativa popolare, su cui cominceremo a lavorare e raccogliere le firme». Cresce lo spread d’usura. L’usura e il credito illegale sono fenomeni centrali, legati allo stato di benessere del Paese. Nel mercato del credito al nero, infatti, per antonomasia anticiclico, i calcoli degli interessi seguono le vicende economiche e finanziarie. La faccia nera della crisi emerge dal quotidiano con la crescita spropositata di “Compro oro”, una sorta di crocevia di attività illegali, compresi i prestiti a tassi usurai, così come emerso dall’operazione Fort Knox dello scorso novembre, coordinata dalla Procura di Arezzo. La guardia di finanza, infatti ha smantellato un’organizzazione con base in Svizzera, che si occupava di riciclaggio, frode fiscale, nonché esercizio abusivo del commercio dell’oro. Una vicenda che ha visto 118 indagati in 11 regioni italiane tra cui Lombardia, Toscana, Puglia, Campania e Sicilia. Nel mirino delle fiamme gialle di Arezzo e Napoli sono finiti i negozi specializzati “Compro oro”, gioellerie, comprese 23 società del distretto orafo di Arezzo. Un sistema che ha portato, in un solo anno, a 163 milioni di euro di scambi tra oro e denaro realizzati dal gruppo organizzato. Sovraindebitamento e usura, insomma, stanno diventando quotidiani negli strati sociali, rendendo rischiosa l’attività della piccola impresa commerciale e dell’artigianato di vicinato dei ceti più poveri. Questo meccanismo però, negli ultimi anni si rivolge anche a quei soggetti che un tempo venivano considerati immuni dall’usura. La classe media, infatti, rappresenta quella vasta area di sovraindebitamento che spesso sfocia nel girone dantesco del mercato clandestino del denaro, nel quale il “prestito a strozzo” è la sua componente patologica distruttiva di vite e di futuro. La condanna parte dalla identificazione sociale di essere un “cattivo pagatore”, fino a essere emarginato dal sistema del credito legale e finire in quello illegale. Usura 29 | novembre 2012 | narcomafie Usura 30 | novembre 2012 | narcomafie Viaggio dove i soldi sparano più delle lupare Attraversare l’Italia incontrando un pezzo di Paese che quotidianamente è strozzato nell’economia, nei rapporti sociali, nella vita delle persone dall’usura mafiosa. Un viaggio che non fa tappa solo nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa: gli affari non conoscono confini geografici, si fanno indistintamente in tutto il territorio nazionale. Anzi, è soprattutto a causa dell’usura che non esistono più territori che possano davvero considerarsi immuni dalla presenza mafiosa di Peppe Ruggiero 31 | novembre 2012 | narcomafie acquistano una valenza diversa, nel senso che non costituiscono solo lo strumento per accumulare rapidamente liquidità da distribuire tra gli affiliati, ma si pongono come mezzo per incrementare le risorse finanziarie destinate all’attività usuraria e – in definitiva – consentono al clan di fagocitare l’impresa che è costretta a ricorrere a queste perverse forme di finanziamento. Ci spostiamo di pochi chilometri. Hinterland napoletano. Terra di camorra. Molti commercianti di Afragola vengono sottoposti a usura dal clan Moccia, che riscuote i suoi crediti attraverso condotte estorsive, riuscendo pure – imponendo la negoziazione di assegni – a riciclare denaro. Non diversa la situazione in provincia di Avellino dove sia il clan Pagnozzi (a San Martino Valle Caudina) sia il clan Cava, insieme agli ultimi affiliati liberi del clan Russo di Nola (a Roccarainola) sono impegnati nell’esercizio dell’attività usuraria verso imprenditori poi costretti con minacce di tipo mafioso a restituire interessi calcolati a tassi elevatissimi. A sud del capoluogo, e soprattutto nella piana del Sele, epigoni dello “storico” clan Marandino si erano distinti in passato per azioni criminose orientate a condizionare l’andamento della produzione e della distribuzione di prodotti agricoli e lattiero caseari: come più di un’indagine ha dimostrato, le fenomenologie prevalenti si presentano con manifestazioni di attività estorsive connesse a pratiche usurarie. Anche nel Battipagliese, con silenti e non meno insidiose condotte di usura, soggetti ricollegabili al risalente gruppo criminale dei cosidetti “Garibaldi” – che vide protagonisti vari appartenenti alla famiglia camorrista dei Nigro – hanno tartassato attività di imprenditori in condizioni di difficoltà economica e finanziaria. La camorra delocalizza in Veneto. Una camorra campana specializzata nella “delocalizzazione”, con destinazione Veneto. Si fa riferimento – si legge nella relazione della Direzione nazionale antimafia – a un procedimento penale per il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso finalizzata alla commissione di reati di estorsione, usura, sequestro di persona, detenzione di armi e altro, ai danni di circa un centinaio di vittime, soprattutto persone svolgenti attività imprenditoriale in diversi centri della regione e nel limitrofo Trentino. L’attività di indagine si è svolta tra il settembre del 2010 e il marzo del 2011, e al suo esito il gip di Venezia, nell’aprile 2011, ha emesso ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 27 indagati, 25 dei quali accusati del delitto associativo, per avere fatto parte dell’associazione per delinquere di stampo mafioso, collegata al cosiddetto “clan dei casalesi”, in cui i singoli associati si avvalevano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà da esso derivante per commettere delitti di ogni genere e principalmente delitti di usura, estorsione, Usura Campania, nel nome di Iovine. L’usura permette ai clan di controllare il territorio soltanto con i soldi; silenziosamente, non più con il clamore delle lupare. In Campania, secondo l’ultima Relazione annuale della Direzione nazionale antimafia, la dislocazione dei clan camorristici che si muovono in questa direzione è varia. La fama dei leader storici è ancora spesa nell’ambito del mercato criminale. Ad esempio, coloro che sono legati al boss dei casalesi, Antonio Iovine, continuano a muoversi sul terreno dell’usura e delle correlate estorsioni, nonostante il loro capo sia stato arrestato verso la fine del 2010. Uno degli affiliati non esita a minacciare la vittima con queste parole: «Non pensare che adesso che è stato arrestato Iovine Antonio non c’è più nessuno che faccia le sue veci. Tu i soldi ce li devi dare…». Talvolta si sono registrate modalità estorsive più particolari, come a Castellammare di Stabia, dove si è accertato che in taluni casi il clan D’Alessandro ha operato anche su input di esponenti della politica locale. Senza trascurare, infine, le estorsioni realizzate per conseguire i profitti di prestiti usurari. Si tratta di un fenomeno che naturalmente non può che incrementarsi in periodi di crisi economica, quando i finanziamenti erogabili mediante i normali canali di credito diventano più difficili, e di conseguenza anche il mercato del credito viene a essere inquinato dalle organizzazioni camorristiche. In tali ipotesi, le estorsioni Usura 32 | novembre 2012 | narcomafie detenzione e porto di armi, danneggiamenti, sequestro di persona, esercizio abusivo dell’attività finanziaria, falsi in scritture private, nonché per acquisire il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni e per realizzare vantaggi e profitti ingiusti e per finanziare persone detenute in Campania, e, fra l’altro allestendo ed esercitando abusivamente a Padova un’attività di intermediazione finanziaria e di riscossione di crediti; assoggettando a usura oltre 50 imprenditori operanti nel distretto di Venezia e taluni altri nelle limitrofe regioni e anche in Sardegna; compiendo nei confronti di molti di essi atti di estorsione per costringerli a versare i ratei usurari ovvero a cedere, a un prezzo di gran lunga inferiore al reale, le loro aziende, le partecipazioni societarie, beni immobili e mobili; impossessandosi, attraverso l’attività usuraria, delle aziende dei debitori sottoposti ad usura e dei beni commerciati o prodotti dalle stesse, o anche trasferendone la titolarità ad imprese intestate a propri sodali, ed infine anche appropriandosi delle società delle vittime intestandole agli associati. Il gruppo criminale in questione era promanazione della più potente organizzazione criminale campana, appunto il “clan dei casalesi”, segno questo di quella strategia di “delocalizzazione” di cui fin qui ripetutamente si è detto, e che può rappresentare il sintomo di una più ampia strategia se lo si rapporta al dato, anch’esso già posto in evidenza, dell’assenza in quel territorio di altri insediamenti di diversa matrice mafiosa. A rafforzare questa impressione è il fatto che la descrizione delle modalità di svolgimento dell’azione delittuosa fanno ben comprendere come si siano esportate nel territorio veneto tattiche criminali del tutto corrispondenti a quelle poste in essere nel territorio di origine del “clan dei casalesi”. In pratica, gli indagati non si sono posti alcuna remora nel compiere atti di intimidazione (aggressioni, percosse, lesioni, sequestri di persona anche a scopo di estorsione, sottrazione di beni e documenti) anche con uso di armi, allo scopo di seminare il terrore e di diffondere l’omertà. Non c’è solo la finanza. È stata smentita così la convinzione che si è andata formando nel passato, secondo cui nel Nord-Italia i sodalizi criminali del meridione avessero cura di modulare le loro manifestazioni alla diversa realtà territoriale, operando, cioè, soprattutto sul terreno economico finanziario attraverso gli investimenti dei cospicui proventi delle attività criminose svolte altrove. Colpisce, ancora, l’elevato numero di imprenditori coinvolti in un così breve periodo, indice della pervasività del sodalizio. Ed ancor di più il silenzio delle vittime, quasi vedessero dei salvatori nei loro aguzzini, al punto che gli inquirenti hanno dovuto far ricorso a strumenti di infiltrazione per sfondare il muro dell’omertà. E si confermano, ancora e infine, le mire imprendito- riali della camorra, attraverso l’acquisizione di imprese preesistenti che, piuttosto che morire per decozione, continuano a esistere sotto una diversa regia. L’organizzazione attenzionata costituisce l’evoluzione criminale di una società di vigilanza e sicurezza (con oggetto sociale esteso alla riscossione crediti), che, costituitasi nel settembre del 2009 a Padova, aveva iniziato un’attività di concessione di prestiti usurari, prevalentemente rivolgendosi ad imprenditori del nord-est in difficoltà finanziaria, con l’applicazione di tassi di interesse mensili oscillanti tra il 10 ed il 15%. Proprio grazie all’attività collaterale di riscossione crediti, fin dal dicembre del 2009, la società in questione aveva cominciato a rilevare le pendenze creditorie delle sue vittime (spesso, infatti, gli imprenditori si rivolgevano alla struttura per problemi di liquidità dovuti ai ritardi di pagamento da parte dei clienti), sia per riscuotere i debiti, sia per individuare altri imprenditori in difficoltà finanziarie cui erogare prestiti usurari. In poco tempo, la società aveva la sua attività criminale, riuscendo a rilevare, già nei primi tre mesi dell’indagine, un centinaio di posizioni usurarie. La documentazione raccolta dagli inquirenti ha consentito di ricostruire nei dettagli la tecnica utilizzata dall’associazione criminale per infiltrarsi nel tessuto imprenditoriale del Veneto, per poi propagarsi nelle regioni limitrofe (Friuli, Trentino, Emilia Romagna). Infatti, fin dal gennaio del 2010, la società aveva promosso campagne pubblicitarie su giornali ed emittenti televisive locali del Veneto e dell’Emilia Romagna, proponendo servizi di riscossione crediti e di finanziamento senza garanzie. Attraverso la concessione di finanziamenti ad altissimo tasso d’interesse, con ratei mensili di rimborso, nonché praticando l’attività estorsiva per il conseguimento delle pretese usurarie, l’organizzazione criminale aveva acquisito dalle sue vittime non solo una rilevante quantità di denaro liquido, ma anche quote societarie e i crediti verso i clienti, alcuni dei quali in difficoltà economiche. I debitori degli usurati, a loro volta, erano sottoposti a condotte estorsive ovvero avevano ricevuto la proposta di essere finanziati dalla società, ovviamente con tassi usurari elevati. L’attività espansiva del gruppo è stata poi favorita dal ruolo di alcuni intermediari che, pur estranei per provenienza alla matrice camorristica della società, sono stati assorbiti subito e a pieno titolo nel reato associativo e hanno agito nella veste di procacciatori di vittime da sottoporre ad usura o, in qualche raro caso, agendo in proprio, ma con fondi messi a disposizione dall’associazione criminale e, con il supporto di questa, nell’attività di riscossione forzosa in caso di insoluti o ritardi di pagamento. In tale ottica, le dinamiche delittuose hanno ottenuto una rapidissima espansione del volume di affari e, conseguentemente, del corrispettivo guadagno netto (favorito dall’imposizione del pagamento degli interessi con frequenza mensile cosi da massimizzare lo sfruttamento illegale nel minor tempo possibile), che veniva immediatamente trasferito in Campania, utilizzando conti correnti postali, e qui riscossi con numerosissimi prelevamenti in contanti. L’organizzazione criminale, a seguito della mancata riscossione del denaro contante preteso (circostanza spesso materialmente impossibile, considerati gli elevati tassi d’interesse praticati e lo stato di difficoltà finanziaria degli imprenditori vittima), è riuscita a ottenere l’intestazione di quote societarie, ovvero dell’intero capitale sociale delle società finanziate, cosicché sono state trasferite in poco tempo nelle disponibilità degli associati e dei loro prestanome decine di società commerciali. Infine, l’indagine ha messo in luce un fenomeno usurario, all’interno del quale molte vittime, pur perfettamente coscienti di introdursi in un circuito perverso e senza vie di uscita, avevano assunto tale decisione, perché oggettivamente costrette dalla consapevolezza della impossibilità di ottenere gli indispensabili finanziamenti dal circuito bancario. Puglia, pacchetti “all inclusive”. Dalla Campania, passando per il Nord-est, arriviamo in Puglia. Nell’ottobre 2010 venivano eseguite 26 ordinanze cautelari (operazione “Bocciulo”) nei confronti di persone appartenenti al clan Parisi, operante a Bari, e accusate di associazione per delinquere finalizzata all’usura, alla commissione di estorsioni, riciclaggio ed esercizio abusivo del credito. Le indagini hanno avuto inizio nel febbraio del 2008 sulla base di una denuncia presentata da un imprenditore barese operante nel settore della ristorazione, dopo tre anni di vessazioni, minacce e danneggiamenti: era stato costretto a pagare in tre anni tassi usurari annuali che oscillavano dal 120 al 240% e poi a vendere una delle attività (un esercizio commerciale attivo nel settore della ristorazione) e le due auto di proprietà. Gli sviluppi investigativi facevano emergere le rilevanti dimensioni della rete delle vittime del racket usurario: imprenditori e commercianti, ma anche persone dedite al gioco d’azzardo, che venivano “reclutate” nei circoli privati (a Modugno, in particolare) con promesse di grandi vincite nei casinò d’Oltreadriatico. Venivano proposti loro pacchetti viaggio “all inclusive” verso Slovenia, Croazia, San Pietroburgo e Cipro: vitto e soggiorno gratuiti in esclusivi alberghi con il solo impegno di comprare al casinò fiches per 5 mila euro. Vito Parisi guadagnava 200 euro per ogni “turista” inviato, oltre al 10% delle perdite da gioco. Oltre all’esecuzione delle 26 ordinanze di custodia cautelare, sono stati sequestrati agli indagati beni per un valore complessivo di 15 milioni di euro. Sempre nell’ambito pugliese, nella città di Taranto è risultata ancora una volta attiva e Usura 33 | novembre 2012 | narcomafie Usura 34 | novembre 2012 | narcomafie “vivace” la consorteria degli Scarci, che da sempre estende i suoi interessi anche in Basilicata, e in modo particolare nel Metapontino, a Policoro e Scanzano Ionico. Agli esponenti di vertice del clan – Francesco Scarci, i suoi fratelli Andrea e Giuseppe, i loro rispettivi figli Michele e Salvatore – e altri sette soggetti appartenenti al clan sono state applicate dal Gip presso il tribunale di Lecce (il 27 settembre 2011, successivamente al periodo in esame, nel procedimento cosiddetto Octopus) misure cautelari personali coercitive per i reati di associazione di tipo mafioso, trasferimento fraudolento di valori, atti di concorrenza con violenza e minaccia, estorsione e usura commesse con metodo mafioso e con finalità di agevolazione mafiosa, nonché detenzione illegale di esplosivo: quest’ultimo reato, gravemente allarmante, sia per le caratteristiche dell’esplosivo, sia per la quantità, sia per l’uso che se ne sarebbe potuto fare (che non si è riusciti ad accertare), si riferisce al ritrovamento nella disponibilità del gruppo criminale in questione di ben 50 kg di esplosivo a elevato potenziale tipo Goma (dello stesso tipo di quello utilizzato per l’attentato alla stazione di Madrid), occultato in un fondo rustico sulla via Porto Mercantile di Taranto (in zona cittadina, densamente abitata). Sicilia, da vittime a reclutatori. In Sicilia, il ricorso a condotte delittuose di tipo usurario da parte di qualificati sodalizi criminali è stato attestato da numerose operazioni di polizia, che hanno anche dimostrato come si sia tentato di instaurare un ciclo criminoso autoalimentante, all’interno del quale le iniziali vittime erano costrette a divenire reclutatori di nuovi “clienti” in sofferenza finanziaria. A tale proposito, si ricordano i riscontri dell’operazione denominata “Brillantina”, nella quale personale della squadra mobile di Messina e del commissariato Messina sud, il 10 gennaio 2011, eseguiva un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal gip del locale tribunale, nei confronti di 7 persone e la misura cautelare degli arresti domiciliari per un altro indagato, perché appartenenti a una organizzazione criminale, che operava nel capoluogo messinese, dedita, principalmente, all’usura e, occasionalmente, all’estorsione. Tra gli indagati, si segnala la significativa presenza di un noto esponente di spicco della criminalità organizzata del cosiddetto “clan Mangialupi”. L’indagine traeva spunto dalla segnalazione, ricevuta dal personale del commissariato di polizia di Stato di Messina nord, di un’estorsione posta in essere da uno degli indagati, in danno di un giovane istruttore di nuoto. Le susseguenti indagini tecniche consentivano di accertare il coinvolgimento, nelle fattispecie dei reati, di tutti gli indagati, ma anche dei comportamenti assunti da talune vittime, che diventavano, a loro volta, intermediari e garanti delle soluzioni debitorie di altri “clienti”, in cambio di trattamenti di favore nella soluzione dei propri debiti. Il principale indagato riceveva quotidianamente, presso il suo studio, le sue vittime, concedendo prestiti usurari ed incassando i relativi crediti, intrattenendo anche relazioni sessuali con numerose donne, che venivano filmate all’insaputa delle medesime. I filmati venivano successivamente utilizzati a fini di ricatto. In quelle circostanza, venivano trovati significativi elementi di riscontro nelle dichiarazioni rese da talune delle vittime, che infrangevano il muro dell’omertà, rivelando la natura usuraria dei rapporti intercorsi e veniva rinvenuto un imponente materiale cartaceo, riconducibile a un’ampia e sistematica attività illecita, comprendente sia l’usura sia, verosimilmente, falsi e truffe. Emilia, impronte mafiose. Risaliamo la Penisola e ritorniamo al Nord. Altra operazione di rilievo, portata a termine nel mese di febbraio 2011, è quella denominata “Vulcano”, nella quale i carabinieri del Ros eseguivano un provvedimento di fermo, emesso dalla Dda di Bologna, nei confronti di 10 persone responsabili di avere promosso, costituito diretto e, comunque, partecipato a un’associazione per delinquere armata di tipo mafioso, operante nella Repubblica di San Marino e lungo la riviera romagnola. Tale sodalizio, caratterizzato dalla forza di intimidazione del vincolo associativo e dalle conseguenti condizioni di assoggettamento e di omertà, era finalizzato al controllo economico di attività e alla commissione di una indefinita serie di delitti, fra i quali la detenzione di armi, le estorsioni, le minacce, le lesioni personali, l’usura ed altri reati contro il patrimonio. I gravi indizi di colpevolezza sono stati ritenuti sussistenti sulla scorta delle dichiarazioni rese dalle vittime dei reati e delle attività tecniche, evidenziando anche che un altro gruppo criminale si era poi sostituito al precedente nella gestione delle attività usurarie ed estorsive. In sintesi, le investigazioni hanno consentito di identificare sul territorio una pluralità di soggetti dediti al crimine, sostanzialmente riconducibili a tre gruppi malavitosi apparentemente distinti. L’identificazione dei suddetti gruppi e la loro qualificazione secondo la mappa criminale del napoletano, luogo di provenienza geografica degli indagati, hanno consentito di ricostruire la filiazione degli indagati dal clan dei “casalesi” e dal clan “Mariniello” di Acerra. L’impronta “mafiosa” delle condotte degli indagati si concretizza non solo per la qualificazione dei gruppi criminali e per la tipica finalità di «acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e il controllo di attività economiche», ma anche per la chiarezza dei riscontri investigativi sulle condotte estorsive poste in essere, desunte dalle dichiarazioni delle vittime, dalle attività tecniche e dai servizi di osservazione e pedinamento espletati, che, in più occasioni, hanno evidenziato la presenza di persone giunte dal napoletano per la consumazione di minacce e violenze. Lombardia, denunciare fa paura. Spostiamoci più su, ci fermiamo in Lombardia. È stata denominata operazione Black Hawks, coordinata dal colonnello Marco Menegazzo, comandante del Gico della Guardia di finanza. Ha portato all’arresto di 23 persone accusate a vario titolo e in alcuni casi con l’aggravante del metodo mafioso, di riciclaggio, usura, estorsione, truffa, corruzione, sostituzione di persona, trasferimento fraudolento di valori, associazione a delinquere, furto aggravato e ricettazione. E con il sequestro di beni mobili e immobili per un valore di 5 milioni di euro. Arrestati due cugini Facchineri, Vincenzo già in carcere e Giuseppe, entrambi esponenti di un clan arrivato in Lombardia negli anni 80 e con solidi rapporti con i Bellocco e i Pesce. Una montagna di soldi da reinvestire nell’economia legale, prestiti a tassi usurai fino al 20 per cento, riciclaggio in appartamenti e auto di lusso, con il potere intimidatorio della ’ndrangheta verso chi non si piegava alla volontà dei clan. «Prendo una denuncia per estorsione io perché vado e lo massacro...», minaccia in un’intercettazione del 10 settembre 2008 Vincenzo Facchineri, a capo dell’organizzazione insieme al cugino Giuseppe. «Io stasera vado alla casa e scasso a tutti e due, prima spacco il figlio e poi spacco il padre e poi vediamo come esce la macchina dopo due minuti». I due cugini Facchineri, con altri sei membri dell’organizzazione, gestivano i prestiti a tassi altissimi, poi terrorizzavano gli imprenditori che non riuscivano a pagare. Dall’indagine, coordinata dal pm Giuseppe D’Amico, è emerso anche che i mediatori erano spesso proprio le vittime. Infatti, chi agiva per conto della famiglia calabrese dei Facchineri, Orlando Purita e Gianluca Giovannini, erano loro stessi vittime dei componenti della ‘ndrina. Se tardavano nei pagamenti erano botte da orbi. I cugini Facchineri, Vincenzo e Giuseppe, prestavano denaro ai due mediatori con un tasso d’interesse usurario del 15% al mese. A loro volta, Purita e Giovannini si rifacevano effettuando prestiti a terzi con un tasso del 20% e truffando alcuni imprenditori del settore nautico. In uno degli episodi di usura riportati nell’ordinanza, Purita e Giovannini si facevano dare e promettere dal cliente indicato come «l’amico del vecchietto», in corrispettivo del prestito di 40 mila euro, interessi del 20% mensile. E, per riscuotere, era sufficiente fare i nomi dei cugini Facchineri, appartenenti alla ’ndrangheta. Metodi del terrore confermati da un altro imprenditore che racconta agli uomini del Nucleo di polizia tributaria e del Gico di essere tornato a casa, una sera, di aver trovato i Facchineri e di essere stato «sequestrato due giorni, chiuso in un garage a Baggio, e riempito di botte». «Eppure – spiegano i comandanti della tributaria Vincenzo Tomei e Usura 35 | novembre 2012 | narcomafie 36 | novembre 2012 | narcomafie Usura del Gico Marco Menegazzo – nessuno di questi imprenditori ha denunciato. È un aspetto molto preoccupante». Calabria, gli squali della locride. Sono richieste pesantissime quelle con cui il sostituto procuratore della Dda di Reggio Calabria, Antonio De Bernardo, ha concluso la propria requisitoria al processo Shark (letteralmente squali, ma nel gergo di New York il termine indica i “cravattari”), che si è svolto con rito ordinario presso il tribunale di Locri lo scorso 22 ottobre. Al di là di due assoluzioni piene da ogni tipo di accusa, chieste dal pm per i fratelli Giuseppe e Leonardo Zucco, la pubblica accusa ha chiesto più di un secolo di carcere per capi, gregari e personaggi della cosca Cordì, accusati a vario titolo di associazione a delinquere di stampo mafioso, detenzione, porto d’armi, estorsione, procurata inosservanza della pena, assistenza agli associati, usura, attività finanziaria abusiva e riciclaggio. Ventidue anni e 9mila euro di multa sono stati chiesti per Gerardo Guastella, 16 anni per Salvatore Cordì, 16 anni e 50mila euro di multa per Antonio Bonavita, 14 anni e 40mila euro di multa per Rocco Aversa, 7 anni e 3mila euro di multa per Vincenzo Cecere, 7 anni per Fabio Modafferi, 6 anni per Francesco Tedesco e 4 anni per Luca Leonardo Bonfitto. Per Rocco Iennaro invece è stata chiesta l’assoluzione per 416 bis ma 8 anni e 20mila euro di multa per riciclaggio, mentre per Franco Maiorana è stata invocata l’assoluzione per il reato di esercizio abusivo del credito ma 9 anni per usura e associazione mafiosa. Sei sono invece gli anni di reclusione che il pm De Bernardo ha invocato per Pasquale D’Ettore, ex dirigente del Locri Calcio, accusato di essere la testa di legno dei Cordì negli anni in cui il clan gestiva la società. Il sostituto ha inoltre accusato di falsa testimonianza, chiedendo l’immediata trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica, per alcuni soggetti sfilati sul banco dei testimoni nel corso delle udienze. Si tratta in molti casi di vittime dei Cordì e dei loro emissari che di fronte ai giudici hanno sempre negato o ridimensionato le pressioni del clan. Ad aprire una breccia nel regno di sopraffazione e omertà imposto dai Cordì su Locri, erano state al contrario proprio le denunce di due imprenditori finiti nella morsa dell’usura, Rocco Rispoli e Luca Rodinò, le cui rivelazioni hanno permesso ad inquirenti e investigatori di ricostruire la rete del potente clan della Locride. Per Rocco Rispoli, rimasto senza lavoro, il Comune di Locri ha deliberato di assumerlo alle proprie dipendenze equiparandolo alle vittime della mafia. L’inchiesta prende il via nel settembre del 2009 su disposizione della Dda di Reggio Calabria che porta all’arresto di 25 persone appartenenti al clan Cordì di Locri. I fermi sono stati eseguiti dai Carabinieri della compagnia di Locri e del Nucleo Investigativo del comando provinciale di Reggio Cala- bria, dalla squadra mobile di Reggio Calabria e dal commissariato di Siderno. Le accuse nei confronti degli arrestati riguardano l’associazione per delinquere di tipo mafioso, con l’aggravante dell’essere l’associazione armata, finalizzata alla commissione di estorsioni, usura e armi. Le indagini hanno evidenziato una pluralità di atti a contenuto intimidatorio, commessi con l’utilizzo di armi e, soprattutto, sull’attività di usura. Particolare rilevanza è stata la collaborazione prestata dalle vittime. Nell’ordinanza di misura cautelare del Gip Carlo Alberto si analizza il complesso quadro criminale emerso a conclusione di una lunga attività d’indagine che si è concentrata sul particolare fenomeno dell’usura nella Locride, area che, come altre realtà ad altissima penetrazione della criminalità organizzata, vede gestire questo importante settore economico-criminale direttamente da soggetti già condannati per associazione di tipo mafioso. Si legge nell’ordinanza: «In un quadro locale di estrema desolazione sociale ed economica, l’aspetto fondamentale di questa indagine è sicuramente costituito da una novità molto positiva per questa realtà: due soggetti vittima dell’usura hanno denunciato i loro usurai! Due cittadini hanno avuto fiducia nei carabinieri di Locri e nella Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, denunciando, per la prima volta, i loro strozzini, ben sapendoli appartenere alle pericolosissime consorterie criminali locali. Tali denun- la prima volta che mio cognato si trovava in tale situazione. Poi invece mio suocero parlandomi mi ha convinto di salvare almeno mia cognata cercando di recuperare gli assegni della sorella che il fratello si era preso. A questo punto mia cognata si recava presso la stazione Carabinieri di Locri dove formalizzava la sottrazione degli assegni da parte del fratello. Ricordo che si era recata alla stazione circa due settimane dopo le riunioni che avevamo avuto. Quindi con tale denuncia in mano mi recavo dai creditori, che per la maggior parte conoscevo per il mio lavoro e per i rapporti sociali, al fine di recuperare gli assegni di mia cognata ed uno di mio suocero, al quale mio cognato lo aveva sottratto senza avvertirlo. Prima di andare da queste persone avevamo cercato di organizzarci in famiglia per recuperare i soldi per sanare le situazioni più critiche: in particolare mia cognata Maria Carmela mi avrebbe dato le entrate del negozio, mentre mio suocero avrebbe fatto un mutuo sulla casa dove abito io, e avrebbe recuperato dei soldi da amici fidati. A questo punto sono andato da Guastella Gerardo per recuperare un assegno di 6.250 euro, poi da Floccari Ennio per due assegni, una di 3.300 euro ed uno di 10.500 euro, poi da Cecere Vincenzo per quattro assegni per un totale di 25.000 euro. Preciso che non mi è chiara la situazione del Cecere in quanto non sono in grado di stabilire se vi è usura da parte sua oppure lui fa da tramite per delle altre persone.(..) Poi un altro debito l’ho sanato con gente di Africo, in particolare Criaco Leo, il quale fa il calciatore; nel 1999-2000 ha giocato nel Locri ed attualmente so che gioca nella Villese. Il fratello Bruno è titolare di una ricevitoria di Enalotto e Totocalcio a Bianco. Con il Criaco ho avuto l’incontro a Locri organizzato da mio cognato Alessandro, il quale mi ha detto che un suo amico mi avrebbe chiamato per incontrare il Criaco in parola. Infatti, qualche tempo dopo sono stato chiamato da tale Maiorana Antonio per andare a casa sua per incontrare il Criaco Leo. L’incontro a casa del Maiorana era dovuto al fatto che il Criaco, che all’epoca giocava a calcio nella Rosarnese, passava da casa Maiorana per prendere il cognato, tale Leveque Dino, cosicché è stato organizzato l’incontro. Nella circostanza ero da solo con il Criaco Leo davanti casa Maiorana; al Criaco ho rappresentato che gli assegni che lui aveva ricevuto da mio cognato Alessandro erano stati denunciati da mia cognata Maria Carmela e pertanto egli non avrebbe potuto incassarli. Il Criaco non mi ha restituito subito gli assegni in quanto egli mi ha detto che non era l’interessato ma solo un tramite di altra persona, della quale non mi ha mai fatto il nome. Comunque ogni volta che riuscivo a coprire l’importo dell’assegno il Criaco me ne restituiva uno. La somma complessiva che mio cognato doveva restituire al Criaco si aggirava sui 37.000 euro. Ancora oggi con al Criaco dovrei restituire 9.500 euro, in quanto gli avevo consegnato un assegno di 6.000 euro dato a mio cognato Alessandro da un suo amico, tale Ascioti Vincenzo di Locri.(..) Per quanto riguarda il tasso di interesse e le modalità di consegna del danaro posso dire che tutte le persone da me nominate nel presente verbale incassavano il 10% di interesse al mese ad eccezione di Guastella Gerardo il quale pretendeva il 15%. Il prestito e gli interessi venivano così pagati: se alla fine del mese mio cognato aveva la possibilità di sanare il prestito doveva consegnare il prestito più l’interesse, altrimenti alla scadenza del mese solamente l’interesse. Al fine di aiutare mio cognato Alessandro sono stato costretto ad impegnarmi al pagamento dei Usura «Sono soggetto al reato di usura da parte di alcuni soggetti di Locri, dei quali nel corso del presente verbale riferirò i nomi. I fatti hanno avuto inizio l’1 marzo 2003, ricordo con esattezza la data in quanto è il compleanno di mia moglie. In tale data sono venuto a conoscenza della situazione economica di mio cognato Carabetta Alessandro, fratello di mia moglie; quella mattina il Carabetta si è presentato nel mio ufficio in Via Marconi n. 19, mio ex ufficio, per dirmi che si trovava in grossissime difficoltà in quanto aveva contratto un debito enorme con delle persone, mettendo nei guai la sorella Maria Carmela ed il padre Ercole. Io sono rimasto sorpresa di quanto dettomi e gli ho raccomandato di non dire niente in famiglia in quanto avremmo ragionato con più calma sulla situazione. Egli invece all’ora di pranzo ha riferito tutto ai suoi genitori ed alla sorella Maria Carmela. Io ero a casa mia e sono stato chiamato perché mio suocero si era sentito male. Arrivato a casa dei miei suoceri subito dopo giungeva il dottor Rulli, medico di famiglia, che ha prestato le cure del caso a mio suocero, il quale si era sentito male in conseguenza di quanto mio cognato gli aveva detto. Non era la prima volta che mio cognato versava in condizioni economiche disastrate; infatti già altre due volte si era trovato in tale situazione. Nei giorni successivi ho avuto degli incontri con i miei suoceri e mio cognato per chiarire la sua situazione debitoria in maniera definitiva e chiara. Infatti ci siamo messi a tavolino ed abbiamo scritto su un foglio di carta tutti i debiti che mio cognato aveva accumulato nel tempo.(..) Alla fine in tale riunione vista la somma di debiti che aveva accumulato, circa euro 262.000 (duecentosessantaduemila), avevamo deciso io e mia moglie di non impegnarci a sanare tale debito, in quanto non era nelle nostre possibilità, ed anche perché non era La denuncia di Luca Rodinò 37 | novembre 2012 | narcomafie Usura 38 | novembre 2012 | narcomafie debiti e di conseguenza le persone vengono da me per riscuotere. Cosicché ho dovuto contrarre dei debiti ad usura per sanare la situazione chiedendo in prestito i soldi a Floccari Ennio varie volte ed attualmente ho accumulato un debito di 24.000 euro che avrei dovuto dare in un’unica soluzione il 30 aprile 2005. Alla scadenza ho incontrato il Floccari per dirgli che non avevo possibilità di pagare alla scadenza e di lasciarmi qualche giorno in più (…). Alle successive 18.30 sono andato a casa del Floccari Ennio in contrada Lucifero, esattamente in un palazzo posto sul lato destro della strada in terra battuta dopo il negozio dei mobili della famiglia Floccari. Ad aspettarmi c’era Floccari Ennio ed il fratello Silvio ed appena arrivato Ennio mi ha chiesto subito i soldi ed io ho risposto che non li aveva al che egli mi ha aggredito colpendomi con calci, pugni e con un bastone, dicendo che egli doveva dare i soldi ad altre persone e che di conseguenza li pretendevano da lui. Alla fine mi ha intimato di portargli i soldi entro le ore 21.00 dello stesso giorno sempre a casa, minacciando la mia famiglia di sicure ripercussioni. A questo punto interveniva il Floccari Silvio dicendo che se il fratello avrebbe avuto dei problemi egli avrebbe ucciso me ed anche qualcuno della mia famiglia. Logicamente io non mi sono presentato all’appuntamento anche perché non avevo i soldi. Alle ore 10.00 circa del giorno seguente il Floccari Ennio mi ha chiamato sul cellulare dimostrandosi contrariato per il mancato appuntamento della sera precedente, intimandomi di andare a casa sua per le 13.00 di quel giorno, ovvero di sabato 7, cosa che io non ho fatto. Tuttavia c’è andato un mio parente Rodinò Bruno per cercare di prendere del tempo con il Floccari Ennio. Il Rodinò Bruno mi ha riferito del comportamento contrariato da parte del Floccari, il quale ha detto che la situazione è gravissima e che voleva i soldi entro sabato prossimo. (…) Devo riferire di un episodio verificatosi tra luglio ed agosto del 2004, allorquando avevo contratto un debito iniziale di circa 5.000 euro con Guastella Gerardo ed in tale periodo non riuscivo a pagare il dovuto e pertanto gli interessi aumentavano del 15%. Un giorno mi trovavo nel mio ufficio di via Cosmano n. 87, nel quale mi trovo attualmente, ed il Guastella si presentava di sera intorno alle ore 20.00 per riscuotere dopo tanti rinvii che avevo fatto. Lui insisteva ed io per tutta risposta gli dicevo che si poteva prendere la macchina, una Citroen Picasso targata BH920BW, intestata a mia moglie Carabetta Roberta. Il Guastella accettava subito la proposta e si prendeva le chiavi, dicendomi che avrebbe tenuto la macchina a garanzia del saldo debito. Subito arrivava la figlia minore per portare la macchina, che veniva parcheggiata davanti la casa del Guastella. (...) Qualche tempo dopo per sanare il debito con il Guastella ho deciso di fargli il passaggio di proprietà della macchina, avvenuto presso lo studio del notaio D.ssa Clara Fazio di Siderno. Il passaggio di proprietà è stato fatto a nome di Audino Simona di Locri. Per quanto riguarda il debito che ho con Cecere Vincenzo devo specificare che il Criaco mi ha chiesto ad inizio anno 2004 di fargli un lavoro a casa della sorella poiché essa si doveva sposare. Io che nell’estate del 2003 avevo emesso delle cambiali a favore del fratello del Criaco Leo, delle quali alcune ho saldato ma delle altre dovevo ancora saldare, gli dicevo che non ero in grado di fare questi lavori, ma che tuttavia gli avrei trovato una ditta in grado di fare tali lavori. Infatti chiedevo al Cecere di fare i lavori ed egli sistemava l’abitazione della sorella del Criaco per dei lavori che equivalevano a 25000 euro. Tuttavia il Criaco pagava al Cecere solamente 13.500 euro e gli diceva che i restanti glieli avrei dati io in quanto ero suo debitore. Il Cecere non sapendo come giustificare il mancato pagamento dei lavori alla moglie in quanto aveva problemi familiari, si è impegnato con delle persone di cui io non conosco il nome a ricevere del denaro; tuttavia mi diceva che gli interessi li avrei dovuti pagare io. Non riuscendo a sostenere la spesa degli interessi del 10% gli chiedevo di poter pagare in un’unica soluzione tutta la somma e le persone creditrici gli riferivano che la somma totale con gli interessi non pagati era di 15000 euro da pagare entro il 30 aprile. Tuttavia a tale data non riuscivo a saldare tale debito pertanto chiedevo al Cecere di protrarre la data di scadenza e queste persone per spostare la data del pagamento dichiaravano che era necessario pagare altri 1000 euro. Il 4 maggio il Cecere si trovava nuovamente con queste persone per spostare ulteriormente il pagamento ma questi, dopo averlo minacciato con la pistola, per quanto riferitomi dal Cecere, gli dicevano che doveva pagare immediatamente almeno 1500 euro. Il Cecere si presentava quindi a casa mia alle ore 20.10 e piangendo mi diceva che per le ore 20.30 doveva portargli i soldi richiesti. Quindi con un giro di telefonate riuscivamo a recuperare i 1500 euro». Che lei sappia ci sono altre persone sotto usura? Sì, ve ne sono parecchie. In particolare so che sono sotto usura: Cecere Vincenzo, Gallo Renato, che gestisce un’impresa edile in Locri, Aligi Santo, che vende computer all’uscita di Locri Nord, direzione Siderno, Ascioti Vincenzo, che faceva l’imbianchino, Tecnicon s.r.l. nella persona di La Greca Vincenzo, il quale è siciliano di Cammarata della provincia di Agrigento, che va da Bonavita Antonio, che lavora nella forestale, a chiedere soldi. Poi so di Careri Francesco, che vendeva macchine Opel, Procopio Francesco, che potrebbe essere uscito da questo problema con i suoi parenti Circosta, anche perché ha venduto il palazzo dove si trova la filiale della Poste nelle vicinanze del distributore Esso; poi Cinanni Santo, che aveva una pizzeria, che faceva angolo in piazza Portosalvo con il passaggio a livello, in Siderno che recentemente ha venduto. Custureri Paolo, che vende materiale di rivestimenti ed ha il negozio nelle vicinanze del semaforo che si trova a nord di Locri, che ha debiti con Floccari e Bonavita Antonio ma che talvolta gli incassa gli assegni e poi gli restituisce i soldi. La stessa operazione la fa con i Floccari, Iennaro Rocco che penso sia il titolare dell’agenzia immobiliare la Piramide che si trova sopra il pizzeria “Mister Fantasy”. Poi sotto usura vi è Cusato Paolo che aveva un supermercato in piazza stazione e che ora non so se è riuscito a pagare i debiti». Ma non finisce qui. Si legge nell’ordinanza: «L’assenza di ogni cautela da parte degli usurai o mediatori usurai che dir si voglia, tanto da “negoziare” l’attività delittuosa proprio all’interno degli stabili ove abitano o addirittura all’interno degli uffici o delle attività commerciali delle vittime, induce a ritenere che costoro sono ben consapevoli di poter vantare una capacità di persuasione nei confronti degli usurati che non può trarre nutrimento se non dai sentimenti di assoggettamento ed intimidazione che derivano, nella realtà in cui le vicende sopra descritte vivono, dai legami con le consorterie mafiose che gli indagati possiedono e che si fanno sicuramente forza intimidatrice con la loro appartenenza». ce, unite alla costante opera di monitoraggio svolta da questa Polizia Giudiziaria, attraverso le varie articolazioni dell’Arma dei carabinieri, nel tessuto sociale della città di Locri, consentono oggi di tracciare con estrema chiarezza un’allarmante quadro del fenomeno delittuoso. In questi abitati tristemente conosciuti alla ribalta nazionale quali culla di una cultura mafiosa globalmente esportata, una serie di fattori di svantaggio economico uniti ad una profonda arretratezza culturale fanno si che il ricorso al prestito usuraio, erogato spesso a tassi di interesse che, come si vedrà, superano il 200 % annuo (con casi del 20% mensile), sia tuttora una pratica assai diffusa e, per alcune fasce sociali, addirittura l’unica via di accesso al credito. La piaga dell’usura si sposa in questa terra “difficile” con una radicata cultura dell’omertà e con un’atavica diffidenza nelle istituzioni statali, ragion per cui – ed in assoluta controtendenza con il trend nazionale – le denunce sono qui un evento del tutto sporadico: le due denunce acquisite dai carabinieri di Locri rappresentano, nel panorama sociale della Locride, una vera novità, ma costituiscono un segnale positivo che, incoraggiato, potrà sicuramente dare maggiori risultati nella lotta contro la criminalità organizzata. La mancanza di denunce ha, per anni, lasciato il campo del tutto libero agli usurai, molti dei quali svolgono oramai da decenni questa “professione” al punto tale di aver con la stessa accumulato ingentissimi capitali. Si sa che l’usura, fenomeno di grande allarme sociale, altera il mercato incidendo in maniera significativa sia sulla libertà di impresa sia sulla libera concorrenza”. Nelle carte dell’inchiesta si osserva un tipo di usura particolare, cosiddetta di secondo livello, gestita direttamente dalla ‘ndrangheta: un tipo di usura che interessa le imprese e che mira alla proprietà dell’azienda stessa. Non vi è alcun dubbio di mettere in discussione l’esistenza di un “locale” della ’ndrangheta operante nella città di Locri e dell’esistenza di due gruppi criminali contrapposti. Infatti, con le numerosissime operazioni di polizia e le conseguenti condanne emesse dalla magistratura nei vari livelli di giudizio, veniva affermata, senza ombra di dubbio e in maniera inconfutabile, l’esistenza a Locri di due cosche avverse, aventi struttura essenzialmente familiare e fra loro in contrapposizione a volte pacifica altre volte, invece, incandescente. In particolare, tali sentenze delineavano con esattezza le cosche Cordì e Cataldo, individuando gli esponenti di tali famiglie nei capostipite Cordì Antonio e Cataldo Giuseppe quali reggenti di sodalizi capaci di controllare e di gestire sul territorio le più lucrose attività illecite. Leggiamo ancora nell’ordinanza: «Il ciclo dell’usura ’ndranghetista utilizza il “prestito” iniziale come strumento di accesso alla proprietà dell’impresa da cui far transitare poi denaro riciclato: dal prestito iniziale Usura 39 | novembre 2012 | narcomafie Usura 40 | novembre 2012 | narcomafie si passa, infatti, al condizionamento della vita dell’impresa attraverso l’imposizione di fornitori e servizi, fino alla creazione indotta di uno stato di crisi dovuta all’insolvenza di chi era in debito con l’azienda stessa. Una volta entrati in possesso dell’azienda il meccanismo si interrompe per ripetersi in altre realtà imprenditoriali. È proprio questo il caso dell’usurato Rocco Rispoli il quale è proprietario di una struttura agrituristica dal forte richiamo turistico nella medioevale città di Gerace, azienda peraltro molto conosciuta nella Locride, che di sicuro fa gola alle cosche locali e che è chiaramente finita nel mirino degli usurai che la stanno prosciugando». Com’è ormai noto, una delle maggiori problematiche che impegnano quotidianamente le cosche mafiose calabresi è quella connessa al riciclaggio di ingenti somme di denaro provenienti dalle illecite attività dalle stesse praticate, in special modo le somme provenienti dal traffico di sostanze stupefacenti e dalle estorsioni. Uno dei mezzi maggiormente utilizzati dalle consorterie mafiose per ripulire il denaro così illecitamente guadagnato è quello di prestare soldi a piccoli imprenditori e privati cittadini che versano in difficoltà economiche, ad interessi esorbitanti. Così facendo le organizzazioni criminali conseguono il duplice vantaggio di impiegare in modo redditizio i proventi di altre attività delittuose e di penetrare e controllare ulteriormente il tessuto economico e sociale della zona di influenza. L’in- chiesta “Shark” ha consentito di accertare come questa cosca mafiosa sia stata particolarmente attiva nel settore dell’usura e dell’esercizio abusivo del credito, attività decisamente redditizie e poste in essere con le consuete modalità violente e intimidatorie. Dalle carte dell’inchiesta si rileva come l’attività usuraria si connetta agli altri reati della consorteria, confermando come l’usura sia uno dei metodi più invasivi attraverso i quali le organizzazioni criminali riescono a penetrare i gangli vitali della società civile, soffocando il libero mercato e condizionando il sistema economico del territorio di Locri. Effetto “a cascata”. Altro dato saliente emerso dalle investigazioni è rappresentato, poi, dalla peculiare posizione di coloro che, vittime di usura da parte degli esponenti delle consorterie mafiose sopra menzionati, a loro volta si ritrovano a prestare somme di denaro a terzi, applicando anch’essi elevati tassi usurari; tali soggetti nella duplice veste di usurato e di usuraio, pressati dalla esigenza di soddisfare le esose pretese dei loro più pericolosi creditori, finiscono con l’adottarne il metodo, applicando ai loro debitori gli stessi criteri di calcolo degli interessi e spesso ricorrendo alle stesse tecniche di “persuasione” per la riscossione dei crediti (per lo più, minacce di morte), così generando una sorta di effetto “a cascata” a tutto vantaggio delle organizzazioni criminali che, a fronte di un limitato investimento iniziale, si ri- trovano al proprio servizio un disperato esercito di frenetici procacciatori di danaro che garantisce alla consorteria un flusso costante di contanti o assegni. Le attività delittuose in trattazione vengono svolte con le modalità intimidatorie tipiche delle consorterie mafiose. Il più delle volte è la stessa caratura criminale dell’usuraio, la sua nota appartenenza o vicinanza alle organizzazioni criminali, i suoi precedenti giudiziari vissuti al fianco di noti esponenti mafiosi, a costituire un primo elemento di intimidazione e a far sì che l’usurato, consapevole degli enormi rischi cui si espone, sia sollecito nei pagamenti e, quindi, nella ricerca delle somme necessarie a versare almeno la rata di interessi. Questo effetto intimidatorio viene molto spesso ulteriormente amplificato dall’usuraio, il quale lascia intendere alla vittima che tutto, o parte del denaro prestato, provenga da soggetti sovraordinati nella gerarchia criminale e, quindi, ancor più pericolosi. Non di rado, poi, la vittima viene indotta a pagare mediante minacce esplicite o simboliche di morte, ovvero mediante percosse. Importante il passaggio evidenziato dell’ordinanza di misura cautelare dove si legge che gli accertamenti investigativi vengono supportati da una dettagliata denuncia formalizzata il 12 maggio 2005 da Luca Rodinò (vedi box p. 37), che indicava dettagliatamente episodi e personaggi tutti gravitanti nell’ambito delle criminalità organizzata locale. 41 | novembre 2012 | narcomafie Il tesoro scippato di Peppe Ruggiero In seguito alle dichiarazioni del pentito boss della camorra Salvatore Lo Russo, la Direzione investigativa antimafia scopre un tesoro di oltre 7 milioni di euro in contanti appartenente all’ex contrabbandiere degli anni di Zaza-Mazzarella, l’usuraio Mario Potenza, morto per problemi cardiaci il 25 gennaio 2012 all’età di 83 anni. La banca dell’usura aveva le sue casseforti dietro le mura di un anonimo appartamento popolare al vico Storto al Pallonetto a Santa Lucia a Napoli. Mura maestre imbottite di denaro contante. Un’intera giornata di lavoro a picconate da parte degli uomini della Dia a caccia del tesoro. Quando gli investigatori a tarda sera finiscono di contare, il bottino ammonta a cinque milioni 537mila trecento euro, banconote da cin- quecento euro, oltre a 284 mila 830 euro in assegni ancora da incassare. Quelli a scadenza posticipata firmati dalle vittime. Da sommare ai due milioni di euro trovati all’interno di una valigia a casa del figlio dell’usuraio Salvatore, al settimo piano dello stesso palazzo. Più o meno le stesse logiche di occultamento che ritroviamo di recente sulle labbra di un mafioso all’inizio della sua collaborazione: «Se lo Stato mi volta le spalle, ho dove andare ad attingere. E non certamente in Banca». Cifre che neanche le sedi centrali degli istituti di credito hanno disponibili nell’immediatezza, ma che invece aveva il signore dell’usura. Il blitz delle forze dell’ordine, infatti, conferma la credibilità del boss pentito di Miano Salvatore Lo Russo. È stato lui a indicare ai pm dell’antimafia Sergio Amato ed Enrica Parascandolo il tesoro dell’ usura. «Tempo fa – racconta Lo Russo ai magistrati – due miei cugini avevano bisogno di denaro. Così li mandai da Mario Potenza ‘o chiacchiarone. Era molto conosciuto come usuraio perché faceva prestiti di cifre molto importanti. Grosse quantità di denaro consegnate in pochi giorni e con buoni tassi di interesse. A differenza di tanti altri non prendeva più dell’uno e mezzo, il due per cento sul prestito». Insomma, un “usuraio onesto”. Che però aveva accumulato un patrimonio in contanti. Nel luglio del 2011, a due mesi dal ritrovamento del tesoretto di Santa Lucia, gli uomini della Dia si sono presentati in alcuni tra i più noti e frequentati ristoranti e Usura Come si può evincere dalle carte delle inchieste e dai sequestri delle forze dell’ordine, nel corso degli anni si è formato un vero e proprio “tesoro”: il capitale sociale della Banca dell’usura. Una banca che ha filiali a Napoli, in terra di Calabria, nella Capitale, nel nord Italia e in Puglia. E non si tratta solo di soldi liquidi ma, soprattutto, di proprietà immobiliari, società di capitali, ville di lusso, fuoristrada Usura 42 | novembre 2012 | narcomafie pub partenopei per notificare il sequestro preventivo delle attività commerciali. Locali che sarebbero stati aperti e portati avanti, anche e soprattutto con i soldi messi a disposizione dalla famiglia Potenza, ritenuti gli usurai del Pallonetto Santa Lucia, e dal boss, oggi collaboratore di giustizia, Salvatore Lo Russo. Nella lista nera dei 17 esercizi tra cui locali della catena di “Pizza Margherita”, luoghi rinomati lungo il lungomare liberato di via Caracciolo e gestiti – secondo l’ accusa – da rampanti manager che non hanno esitato a tirare dentro anche usurai e camorristi. Il vecchio usuraio del Pallonetto aveva però un piccolo difetto: gli piaceva raccontare tutto quello che gli succedeva. Lui parlava, e le forze dell’ordine intercettavano. E parlava di storie di usura. Di soldi portati all’estero. Almeno 15 milioni in Svizzera sequestrati grazie alla cooperazione della Procura federale di Lugano. Il ritratto dell’anziano del Pallonetto che emerge dalle numerose intercettazioni ambientali è quello di un uomo attaccato al denaro più che alla libertà personale e alla vita stessa. Dai numerosi colloqui tra l’ottantenne ex contrabbandiere e i suoi familiari si apprende innanzitutto che l’uomo, nonostante fosse ai domiciliari, usciva di casa per incontrare e minacciare le persone alle quali aveva prestato denaro. Ma soprattutto, come sottolinea nell’ordinanza il gip Maria Vittoria Foschini, emerge che per Potenza i soldi erano la cosa più importante; purché avesse riavuto il suo denaro, l’usuraio sarebbe stato disposto a rimanere in carcere per anni. «Mi facevo 8 anni di carcere – dice ad esempio in uno dei colloqui intercettati – basta che mi rimanevano i soldi! Perché tu da carcerato esci; come muori carcerato, così devi morire anche fuori! Però basta che mi rimangono i soldi». Di lì a poco, Potenza ribadisce il concetto e spiega che, per lui in passato come ora per i figli, la vita in carcere è stata addirittura comoda e piacevole: «Finché non mi tocchi i soldi, carceratemi. Sette mesi, 8 mesi, un anno... stiamo a posto! Perché se hai i soldi e sei carcerato, rimane solo la libertà, poi c’hai tutto! Il primo pensiero che non hai è per la tua famiglia: la famiglia tiene i soldi, mangia. Io, quando stavo carcerato parevo ‘nu magrebino». L’anziano ex contrabbandiere non sospettava di essere intercettato. Parlando con la nuora Antonella, ragionava sul fatto che, se fossero state piazzate delle cimici, lui e i suoi familiari avrebbero rischiato grosso: «Se stavamo sotto, per quello che io ho detto qua sopra qua, dovevano fare altri sei processi». Era ai domiciliari, Potenza, ma continuava a rincorrere il denaro prestato, minacciando e insultando i suoi “clienti”. Roma, città aperta all’usura. Il 13 luglio 2011 il giudice per le indagini preliminari di Roma Tommaso Picazio emette l’ordinanza di custodia cautelare in carcere in un luogo di cura per Giuseppe De Tomasi, 74 anni, ex boss della mala romana vicino alla Banda della Magliana, e per altre dieci persone, tra cui i due figli (Arianna e Carlo Alberto) e la moglie Anna Maria Rossi. Per alcuni ci sono gli arresti domiciliari. La richiesta di arresto è arrivata dal procuratore aggiunto antimafia Giancarlo Capaldo e dai sostituti Simona Maisto e Francesco Minisci. De Tomasi, detto “Sergione”, è accusato di aver messo in piedi un giro di usura da centinaia di migliaia di euro, che ha coinvolto commercianti, ex carabinieri, imprenditori. Due anni di indagini della Squadra mobile di Roma per l’operazione denominata “Luna nel pozzo” hanno portato all’arresto cautelare di undici persone, con le accuse a vario titolo di usura, riciclaggio, ricettazione, estorsione, esercizio abusivo del credito. In pratica De Tomasi aveva messo in piedi un gruppo criminale a conduzione familiare, nel quale i figli, la moglie, il genero e l’ex fidanzata del figlio avevano dei ruoli precisi e funzionali. Praticavano tassi di usura che andavano fino al 150 per cento all’anno. Alcune persone del gruppo erano poi dedite al “recupero crediti”, con minacce verbali e atti intimidatori. Una holding familiare in cui tutti avevano un ruolo preciso: dai semplici “autisti’’ a coloro i quali erano destinati a riscuotere le somme dalle vittime. Una sorta di gruppo criminale tra congiunti basato su un imponente giro di usura e la gestione di sale da gioco. “Familiare’’ anche il nascondiglio di parte del tesoro della banda: un cuscino dove sono stati trovati 30mila euro. Ma il patrimonio per quanto intestato a una rete di prestanome, parla chiaro: le indagini, durate quasi due anni, hanno permesso di ricostruire l’impressionante 43 | novembre 2012 | narcomafie smaltimento dei rifiuti, fruttavano diversi milioni di euro all’anno. Le società avevano sede sulla via Nomentana, a Fonte Nuova, dove la polizia ha posto i sigilli. Se c’è una banda, nella storia criminale capitolina, che ha davvero meritato la definizione di “clan”, sono loro, i Casamonica. Famiglie di Sinti, gli zingari abruzzesi cristiani, ormai stanziali, imparentati, da sempre, con la famiglia Di Silvio e, occasionalmente, con altre dinastie rom come i Cena e i De Rosa, unite da un viluppo indissolubile di matrimoni e interessi comuni. L’ultimo censimento del clan, fatto da Vittorio Rizzi, ex capo della squadra mobile di Roma, parla di almeno un migliaio di affiliati. Un impero che ha i suoi capisaldi tradizionali nelle zone a sud est della capitale: Romagnina, Anagnina, Porta Furba, Tuscolano e giù, verso sud, fino a Frascati. Orgogliosi della loro indipendenza, i Casamonica stringono alleanze operative ma solo da pari a pari: il carattere rissoso e guascone dei sinti impedisce ogni forma di sudditanza. Da almeno cinque anni, secondo polizia e carabinieri, i Casamonica sono diventati il braccio armato dei più grossi usurai romani. Enrico Nicoletti, l’ex cassiere della Magliana, aveva inaugurato un innovativo sistema di scambio: due creditori recalcitranti ceduti agli uomini del clan in cambio di uno docile e pronto a pagare le rate dei prestiti. Perché quando arrivano loro, i Casamonica, non c’è scampo: si paga e basta, niente scuse e niente dilazioni. Lo sa bene Vittorio, il nome è ovviamente di fantasia, ma la persona no. Quella è reale, come reale è l’aggressione usuraia subita dai Casamonica. Quando lo incontriamo due anni fa è spaventato, non sa più come pagare e vuole solo fuggire. Di denunciarli non vuole neanche sentire parlare. Milioni di assegni in bianco. Dalla Capitale all’agro pontino la distanza è breve. Ma i soldi aumentano. Per “aiutare” colleghi in difficoltà prestava soldi a un tasso del 50 per cento. Aveva accumulato una ricchezza notevole, tanto che la Finanza, lo scorso maggio, gli ha sequestrato 150 immobili per un valore complessivo di oltre 100 milioni di euro, tra cui hotel e centri sportivi, e una Jaguar XJ220, prodotta in soli 281 esemplari, del valore di mezzo milione di euro. Nicola Di Maio, destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari eseguita dalla Guardia di Finanza di Napoli contestualmente a un decreto di sequestro del Tribunale di Nola (Na), aveva in cassaforte assegni circolari e bancari emessi senza data, ed in alcuni casi anche senza l’indicazione del beneficiario, per un valore di oltre 2 milioni e mezzo di euro. Il 74enne custodiva anche numerosissimi documenti riguardo a una cinquantina di rapporti di natura commerciale, tutti garantiti da cambiali, metodo diffuso tra gli usurai. Di Maio è finito nel mirino degli investigatori dopo la denuncia di una delle sue tante vittime, in gran parte imprenditori del settore autotrasporti, che ha deciso di ribellarsi dopo aver accumulato, in tempi brevissi- Usura giro di affari che ruotava prevalentemente intorno alla famiglia di Giuseppe De Tomasi, detto “Sergione”, che si può quantificare in movimenti di denaro per oltre 100mila euro a settimana. Sequestro di 10 immobili, 9 società, 12 automezzi e 3 circoli dove si praticava il gioco d’azzardo. 10 auto di gran lusso, 3 circoli ricreativi. I conti correnti sequestrati sono 21 oltre allle quote azionarie di 10 società. Condannato nel 2002 con sentenza definitiva a 3 anni e 3 mesi per associazione a delinquere, De Tomasi non è mai stato uno che spara, la sua arma è il libretto degli assegni, il suo campo d’azione gli investimenti, l’usura, il riciclaggio. E sempre nella Capitale dominano i Casamonica. Un valore complessivo di beni sequestrati che sfiora i 10 milioni di euro e un volume di affari annuale delle società, anche queste sequestrate, di circa 40 milioni di euro. E poi 15 aziende e quote di 34 società, oltre al sequestro di 165 conti correnti, auto di lusso, ville e appartamenti. È un patrimonio da capogiro quello posta sotto sequestro dalla divisione anticrimine della questura di Roma nel marzo del 2010. Un patrimonio creato per ripulire denaro illecito del clan frutto di usura. L’operazione, chiamata dagli agenti dell’anticrimine “Crime Contact”, era partita da alcuni accertamenti patrimoniali. Tutte le persone coinvolte nell’inchiesta si erano dichiarate nullatenenti, mentre il giro di affari fatto di attività di consulenze, forniture e gestione per i supermercati, servizi di pulizia e raccolta e Usura 44 | novembre 2012 | narcomafie mi, un debito di circa 600mila euro a fronte dell’acquisto di autoveicoli. L’imprenditore, vessato dai tassi di interesse sul prestito chiesto al 74enne, si è rivolto alle forze dell’ordine, denunciandolo. A quel punto gli inquirenti hanno avviato immediatamente le indagini, durate quasi due anni, nei confronti di Di Maio, noto imprenditore con svariati interessi commerciali, tra i quali la vendita di autoveicoli industriali e le speculazioni immobiliari, che risultava avere un patrimonio sproporzionato rispetto al reddito dichiarato. Le indagini, coordinate dal procuratore della Repubblica del tribunale di Nola, Paolo Mancuso, hanno anche permesso, grazie alle testimonianze rese dagli stessi imprenditori vessati, di risalire al metodo usato da Di Maio, che applicava interessi usurai anche sugli stessi interessi già maturati sul debito accumulato dalle sue vittime. Di Maio, grazie all’illecito arricchimento, ed al numero di vittime cadute nella sua ‘rete’, era riuscito ad accumulare un patrimonio di dimensioni spropositate, per un valore che supera i 100 milioni di euro, con beni intestati anche alla moglie e alla figlia, disseminati in Campania e nel Lazio dove, a Sabaudia, il 74enne aveva un centro sportivo, oltre a quello posseduto a Marigliano, nel napoletano. L’imprenditore usuraio Di Maio viene anche citato nelle pagine della relazione della Direzione nazionale antimafia del 2010: «Va ricordato che nell’ottobre 2010 è stato disposto il sequestro anticipato dei beni riconducibili a Di Maio Salvatore: immobili, esercizi commerciali, quote di partecipazione in società per 30 milioni di euro. Il provvedimento, che muove dal presupposto che il Di Maio sia uno dei prestanome del clan Cava di Quindici (Av), evidenzia come lo stesso sia dedito ad usura, turbativa d’asta ed estorsioni in collegamento con esponenti della criminalità organizzata». Beni per un valore di 41 milioni di euro tra società, immobili, yacht, conti correnti e persino cavalli: questo il tesoro del clan camorristico Terracciano. Nel febbraio del 2012, le fiamme gialle fiorentine hanno sottoposto a sequestro i seguenti beni: 44 società, 31 immobili (sparsi sul territorio nazionale, di cui 21 nella sola Toscana), 31 autoveicoli, 1 yacht di lusso, 17 cavalli, 67 rapporti finanziari, 2 cassette di sicurezza. Un clan della camorra che ha operato per anni in Toscana, ha spadroneggiato nel settore dei locali notturni acquisendoli con metodi mafiosi, ha gestito bische clandestine, ma soprattutto ha prestato denaro a usura praticando tassi fino al 1.000% e terrorizzando gli imprenditori finiti nella spirale dei debiti, realizzando colossali profitti. Il sequestro è stato disposto in via preventiva per sottrarre disponibilità economica a soggetti indiziati di appartenere al clan, che avevano un tenore di vita sproporzionato rispetto ai redditi dichiarati. Sono 71 le persone intestatarie dei beni finiti nel mirino delle Fiamme gialle, tra cui 8 membri del clan: i fratelli Carlo e Giacomo Terracciano, i figli di quest’ultimo Francesco e Antonio, oltre a Francesco Lo Ioco, residente in Sicilia, Michele di Tommaso, in Basilicata, e gli imprenditori Alberto Paolo Mancin e Paolo Posillico, entrambi di Prato. Il gruppo si avvaleva poi di 63 tra familiari e prestanome, attraverso cui cercava di impedire la riconducibilità del patrimonio all’organizzazione criminale. Esemplare il caso di una donna della famiglia dei Terracciano: dichiarava al fisco 3mila euro di reddito, ma era proprietaria di uno yacht da 300mila e in un solo anno aveva movimentato denaro per oltre un milione di euro. In Toscana, per la precisione a Prato, i Terracciano, già affiliati alla nuova camorra organizzata del boss Raffaele Cutulo, si sono trasferiti dalla Campania nel 1991. Usura a tasso agevolato. Il 20 luglio del 2011, gli investigatori della Guardia di finanza sequestrano il tesoro di quelli che sono ritenuti gli usurai più influenti della città di Palermo, con decine di clienti che fanno la fila per essere ricevuti. Sono i fratelli Giuseppe e Maurizio Sanfilippo, 59 e 51 anni, originari del villaggio Santa Rosalia: accusati di aver inventato l’usura col tasso agevolato, il 2-3% al mese. Così i Sanfilippo avrebbero conquistato persino pensionati e casalinghe in cerca di facili crediti per mandare avanti la famiglia. I finanzieri del comando provinciale di Palermo hanno intercettato per mesi i due fratelli e poi hanno convocato in caserma le loro vittime, ma solo in tre hanno collaborato. Due imprenditori in crisi e una casalinga che aveva bisogno di 20mila euro per gli studi universitari dei figli. Ma non sono bastate tre denunce per una richiesta di misura cautelare. I pm Dario Scaletta e Marco Verzera hanno però disposto il sequestro preventivo dell’ impero economico dei due fratelli. E il gip Fernando Sestito ha convalidato il provvedimento. Così, i finanzieri hanno fatto scattare i sigilli a un patrimonio da 7 milioni di euro, costituito da 18 immobili (tra ville, appartamenti, locali commerciali, magazzini e garage), 11 automobili di lusso (soprattutto berline e suv), quattro moto e 16 conti correnti contenenti oltre 115mila euro. Contro i due fratelli ci sono ora i racconti sofferti di tre vittime. In realtà, le denunce erano molte di più, ma poi è accaduto l’ irreparabile. Una delle vittime, che ai finanzieri aveva negato persino l’evidenza delle intercettazioni, avrebbe avvertito i Sanfilippo delle indagini in corso. E a quel punto sarebbe scattata un’opera di persuasione: i due fratelli avrebbero contattato i loro clienti, ma senza maniere forti. In cambio del silenzio, avrebbero offerto addirittura di abbonare alcuni debiti, restituendo degli assegni consegnati a garanzia. Così l’offerta ha convinto molte vittime a ritrattare la denuncia: «Abbiamo avuto solo dei prestiti leciti, niente altro», dicono. Ma la ritrattazione a catena non ha impedito il sequestro dei beni, che può scattare anche per un solo episodio. L’ inchiesta prosegue. imprenditori, un titolare di un’officina di auto ricambi e due meccanici, che avevano chiesto ciascuno un prestito di 200mila euro. Avrebbero dovuto restituire i soldi con un interesse del 70%, altrimenti il “Toro”, lo strozzino, Giuseppe Rubini, 50 anni, arrestato dalla guardia di finanza nel marzo del 2011 nell’ operazione “Belfagor” sarebbe passato ai fatti. «Se non mi dai i soldi, ti spezzo» gridava l’ usuraio ai debitori. Troppa la sproporzione tra i redditi dichiarati e il tenore di vita. Così, dopo lunghi accertamenti patrimoniali, i militari del nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza di Bari, in collaborazione con lo Scico di Roma, hanno sequestrato beni immobili, rapporti finanziari, polizze assicurative e gioielli riconducibili a Rubini. Un patrimonio di oltre 7 milioni di euro. Il provvedimento di sequestro è stato emesso dal tribunale di Bari, sezione per le misure di prevenzione in applicazione della normativa antimafia. Rubini è finito nel blitz che il 2 marzo 2011 smascherò il clan dell’ usura che operava al quartiere Libertà di Bari: furono arrestati in cinque tra cui il boss Giuseppe Mercante per i reati di usura, estorsione, riciclaggio e ricettazione. Rubini agiva però fuori dal clan: prestava denaro pretendendo interessi usurai sino al 70 per cento su base annua e minacciava di morte le sue vittime. “Se non mi dai i soldi ti spezzo”. “Se divento cattivo, sono capace di tutto”. La minaccia non aveva bisogno di spiegazioni. Lo sapevano bene i tre Quando l’aguzzino è un tuo fan. C’era anche l’attore Vincenzo Barbetta, protagonista del film “Un camorrista perbene”, tra i 55 arrestati dalla squadra mobile napoletana su mandato della Dda avvenuto nel luglio del 2010. Nell’atto di accusa risultano tutti collegati al clan Moccia di Afragola. Immobili, ditte di abbigliamento, autolavaggi e atelier di abiti da sposa e anche una scuola di danza: un totale di 70 milioni di euro sottratti alla camorra dal sequestro ordinato dalla magistratura. Beni acquistati con i proventi del credito usurario, una delle attività più praticate dai Moccia. Barbetta era solo uno dei tanti che orbitavano intorno all’ organizzazione messa sotto pesanti accuse dagli investigatori. Un gruppo, quello dei Moccia di Afragola, molto presente sulla scena della camorra negli anni Novanta, e che ora tiene un profilo basso, ma conserva il potere con ogni mezzo. Spietati, crudeli, non si facevano scrupolo di sottoporre a violenze di ogni genere le donne che non pagavano gli usurai. Come nel caso di Caterina, una giovane donna costretta per tre volte ad avere rapporti sessuali con Antonio Iorio, che, dopo un prestito, le imponeva una rata di 500 euro. Non potendo onorare il debito, doveva sottostare alla violenza. Danni anche alla cantante neomelodica Cinzia Oscar, che aveva come impresario proprio l’attore Barbetta: in questo caso gli usurai del clan Moccia, invece della somma di denaro “dovuta”, si fecero consegnare dalla Oscar un furgone che valeva molto di più. Ironia della sorte, gli aguzzini della cantante erano anche suoi fan e andavano a caccia dei biglietti dei suoi spettacoli. Usura 45 | novembre 2012 | narcomafie 46 | novembre 2012 | narcomafie Il “galateo” degli strozzini Ventilate minacce, violente promesse di morte, ritorsioni su membri della famiglia. Dalle inchieste sull’usura mafiosa è possibile stilare una sorta di “galateo” dei cravattari Usura di Peppe Ruggiero «Non ti permettere più di riattaccarmi il telefono in faccia perché dove ti trovo, ti spacco la testa con la mazza, hai capito?». Minacce emergono dalle intercettazioni telefoniche dell’operazione “Diamante” con cui il Gico della Guardia di finanza di Firenze ha arrestato cinque persone, due campani legati al clan Bidognetti dei Casalesi, e tre toscani, con le accuse di usura ed estorsione. All’altro capo del filo c’è una delle vittime dell’usura che cerca di sviare il discorso: «Senti, vieniti a prendere la macchina», si sente l’accento toscano. E l’altro, con chiaro accento campano, insiste con le minacce per riavere i soldi prestati a tassi d’interesse che potevano arrivare al 405%. «La macchina? Io voglio i soldi non la macchina, perché dove ti incontro ti spacco la testa con la mazza. Vabbuò senti a me ... subito dopo le feste sto a Firenze». E la vittima, chiaramente impaurita, acconsente a vedere il suo usurario: «Quando vieni a Firenze tu mi chiami, e dove sono, sono, io vengo». «Dobbiamo parlare io e te perché i fiorentini mi hanno fatto due p... che stanno scoppiando – dice il campano alludendo ai complici trovati nel capoluogo toscano –. Tutta questa banda di m.... che hai conosciuto tu. Le mie palle non ce la fanno più a portarvi a cavallo. Ti giuro su mia figlia devo venire a spaccare le corna a quattro o cinque persone a Firenze». Anche un’altra telefonata evidenzia il tenore con cui gli usurai del clan dei Casalesi intimidivano imprenditori e privati toscani in difficoltà. «Invece di fare le tue cose mettiti in pari con le persone, invece di creare disagio agli altri! Hai capito?», si sente dire in una telefonata intercettata. E un’altra vittima del clan fiancheggiatore dei Casalesi prova a dire: «Ma io ho già parlato con chi deve avere. Ho già parlato con loro ieri mattina». «No – dice l’usuraio – mi hanno chiamato e mi hanno detto che hai preso tempo ancora». Poi ancora minacce: «A te quando ti piglio ti faccio vedere; poi vai a chiamare i carabinieri, vai a chiamare chi ti pare, va bene?». Sequestri e sevizie. In un articolo di «Repubblica», edizione Roma, a firma Massimo Lugli, dell’ottobre del 2011, si racconta la storia di due imprenditori caduti nelle mani di una coppia di usurai, due fratelli di 24 e 28 anni, Sergio e Andrea Gioacchini, arrestati dagli agenti di Vittorio Rizzi, ex capo della mobile e di Antonio Franco, dirigente del commissariato di Ostia, con una sfilza di imputazioni che vanno dall’usura al sequestro, dalle lesioni alla rapina. Una storia atroce dove una delle vittime, in particolare, è stata massacrata di botte e terrorizzata. Lo hanno sequestrato, picchiato, umiliato, torturato davanti alla sua giovane compagna. Gli hanno bruciato la pelle del torace con un accendino, gli hanno trapassato la mano destra con un lungo coltello per poi disinfettare e bendare sommariamente la ferita, senza nemmeno permettergli di andare al pronto soccorso. L’hanno costretto a presentarsi in banca, gli hanno svuotato i conti e le cassette di sicurezza, l’hanno rapinato di tutti i preziosi 47 | novembre 2012 | narcomafie Come terrorizzare le vittime. Nel galateo c’è anche chi fa un corso accelerato per usurai. I consigli arrivano da Mario Potenza, ex contrabbandiere degli anni di Zaza-Mazzarella. Dopo l’arresto dei figli Bruno e Salvatore, che prima lo aiutavano nel “recupero crediti”, Potenza si trova a dover rimpiazzarli. Si rivolge così a un vicino di casa, Raffaele Terminiello, anch’egli arrestato nell’ambito dell’inchiesta della Direzione investigativa antimafia del gennaio 2012. A lui fa addirittura delle lezioni, una sorta di corso accelerato per usurai: gli spiega come terrorizzare le vittime, incitandolo a non mostrare per loro alcuna pietà. «Acchiappalo per i capelli come ti dico io! Piglialo malamente a questa latrina. Digli: ha detto lo zio (lo stesso Potenza, ndr) che stanno ridendo sopra i morti... digli che se viene lo zio vi schiatta la faccia!». E ancora: «Ha detto il nonno, ha detto lo zio: se si scoccia si fa 4 anni di carcere, se viene lì ti salta addosso». «Ancora pensi che io vengo a casa tua, non mi faccio vedere né da tua figlia né da tua moglie, io voglio l’uomo, non sono come quei luridi strozzini». Usuraio e gentiluomo. C’è anche questo nel “galateo” del perfetto usuraio. Le minacce erano destinate solo al debitore. Fuori le donne e fuori la famiglia. Perché gli usurai del clan Mercante Diomede erano «persone oneste e ragionevoli». Si definivano così al telefono con le loro vittime. «Puoi stare sicuro – dice al telefono l’usuraio Leonardo Fortunato ad un imprenditore a cui aveva prestato dei soldi – se tu mi lasci con tua moglie e lasci i soldi nel letto, stai sicuro che io non la tocco, a me mi ammirano tutti per sto fatto». Sono conversazioni tra “uomini d’onore” quelle che si leggono nelle 170 pagine di ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip del tribunale di Bari Michele Parisi per l’operazione antiusura “Belfagor” della Guardia di finanza di Bari. A finire in manette sono stati cinque presunti affiliati al clan MercanteDiomede. Primo fra tutti il boss Giuseppe Mercante, detto “Pinuccio il drogato”, pluripregiudicato di 57 anni che recentemente aveva finito di scontare in carcere una condanna di due anni per contrabbando di sigarette. L’usuraio sembra il tuo miglior amico. Le udienze del processo «Infinito», nato dall’omonima inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Milano che nel 2010 spedì in carcere 160 persone in Lombardia, offrono un inquietante spaccato. Sfilano di fronte ai giudici e al pubblico ministero Alessandra Dolci, le vittime dell’usura. È il caso di Emma Beluzzi, anziana di Mornico, che per anni ha gestito in paese una trattoria, che portava il suo nome. Tramite il figlio Giovanni Giacomelli conosce anche lei «il signor Mimmo», Domenico Pio, di Montebello Jonico, che secondo la Dda è un noto usuraio della «locale» di Desio, in Brianza, dove per locale si intende il nucleo territoriale di base della ’ndrangheta. Nel 2008 la trattoria è in difficoltà, «avevo i rappresentanti da pagare, ho chiesto i soldi a mio figlio che non li aveva e mi ha detto di rivolgermi al Mimmo... Lui mi ha dato cinquemila euro. Gli altri ad andare a 11 mila li ha avuti lui (il figlio, ndr) per pagare la macchina». I pm contestano quest’ultima parte della deposizione. L’anziana afferma ripetutamente in udienza, in contraddizione con le prime deposizioni ai carabinieri di Desio, di aver ottenuto cinquemila euro e di averne ridati 11.400 per coprire anche un prestito ricevuto dal figlio per acquistare un’auto. L’accusa sostiene che i seimila euro di differenza rappresentano Usura che aveva e perfino della tessera di un centro commerciale. Tutto comincia quando l’imprenditore cinquantenne che gestisce, tra l’altro, il luna park dell’Eur, alcune agenzie immobiliari e diverse altre attività, si trova ad avere urgentemente bisogno di contante. Una dipendente lo indirizza dai due fratelli che hanno qualche precedente penale. L’uomo ottiene un prestito di 50 mila euro a un interesse capestro del 10% mensile. Sta di fatto che la somma da restituire cresce ogni mese in più e l’uomo si ritrova debitore di una cifra che oscilla tra i 560 mila e gli 800 mila euro visto che gli interessi si sommano al debito e vengono ricalcolati a ogni scadenza mancata. A questo punto entra in scena il secondo imprenditore, un uomo di origine sarda che vive ad Anzio. I due stabiliscono un accordo: un ristorante di via Benedetto Croce in cambio di alcuni appartamenti nella cittadina del litorale. Una manovra che dovrebbe garantire un po’ di ossigeno a entrambi ma che, per qualche motivo, fallisce. A quel punto, l’imprenditore di Anzio diventa il bersaglio degli usurai. Per dieci giorni l’uomo, dopo le torture e con le mani bendate, accompagnerà i suoi aguzzini in banca, da un notaio per la cessione di un terreno all’Infernetto. Poi, finalmente, le due vittime trovano il coraggio di sporgere denuncia. L’interesse finale, la mafia Usura 48 | novembre 2012 | narcomafie I tratti sono quelli dell’usura di sempre. I silenzi, l’omertà, la complicità delle vittime; e poi la violenza, che prima ancora di passare sul piano fisico è sottomissione e pressione psicologica. Con ritorsioni sulle persone ma anche sulle cose. Dall’indagine “Ultimate” condotta qualche anno fa dalla Dda di Potenza e che scoperchiava il pentolone di un calcio aggredito e controllato da un clan mafioso del posto che faceva capo al boss Antonio Cossidente, viene fuori – secondo l’accusa – un rapporto usuraio gestito da un commercialista, Aldo Fanizzi, indicato dalla procura come “il ragioniere del clan”. A un suo compare a cui dà istruzioni su come recuperare il credito da un commerciante dice: «gli ho fatto un piacere, te lo posso dire tranquillamente… Dice: Aldo, vedi, devo fare un servizio, fammi un assegno di mille e cinquecento euro. Va bene, io gli faccio l’assegno, è arrivato pure alla Banca due mesi fa, a ottobre. Oggi, domani e dopodomani, … lo telefono, non risponde al telefono… Lo dobbiamo recuperare… Lui ha pure una Fiat Uno, questo signore! Eventualmente ci prendiamo la macchina, non c’è problema». Come dire: cambiano le regioni, cambiano i volti, cambiano le cifre ma le modalità di recupero si assomigliano sempre di più! L’usura di sempre insomma. Ma con una sola variante, un interesse aggiunto, che fa la differenza: le mafie. Se a gestire l’usura sono i clan, allora cambia tutto; ogni cosa si amplifica e diventa tutto più difficile: con loro l’usura non cammina mai da sola, è sempre crocevia di mille altri affari sporchi, non ultimi il riciclaggio e le scommesse. Con le mafie i soldi scorrono in mille rivoli tra finanziarie, prestanomi e società similari, e più i soldi camminano e più diventa difficile individuarli. Con le mafie non è solo questione di aggressione alla piccola economia familiare, ma è un’intera economia che viene dopata, con ricadute facilmente immaginabili – nell’era della globalizzazione – sui sistemi produttivi, sui mercati, sulla finanza. Con le mafie hanno vita dura anche gli strozzini, quelli che hanno sempre agito in proprio, e anche le loro vittime: i primi, perché in tempi di crisi non disponendo anch’essi di liquidità, sono costretti a rivolgersi agli unici che danno soldi, tanti e subito, i clan; i secondi perché sono costretti a pagare interessi che comprendono anche quelli che i loro carnefici devono pagare al clan finanziatore. Con le mafie, infine, aumenta l’omertà, perché se comunemente non si denuncia per vergogna, con loro non si denuncia per paura, e perché dinanzi alle scarcerazioni dei carnefici una cosa è incontrare per strada, il giorno dopo, il classico cravattaro, e una cosa è incontrare l’affiliato del clan. I fotogrammi sparsi riportati in questo dossier, che per forza di cose e per la natura stessa del fenomeno, non poteva essere esaustivo, ci dicono di un Paese strozzato. Ce lo dicono le tante inchieste della magistratura, ma ce lo dicono anche le tante vittime che in questi anni abbiamo incontrato negli otto sportelli “Sos Giustizia” di Libera, sparsi per l’Italia. Ascoltarli, sostenerli, accompagnarli alla denuncia è importante; accompagnarli durante i processi perché non si ritrovino da soli faccia a faccia con quei clan che gli hanno tolto tutto, è importante; ma non è sufficiente. Anche sul fronte dell’usura mafiosa, anzi, soprattutto sul fronte dell’usura mafiosa, non possiamo camminare e muoverci da soli ma c’è bisogno di un lavoro d’insieme che ci veda protagonisti con altri attori importanti, dalle istituzioni allo stesso sistema bancario: perché non c’è nessun patto di stabilità che tenga dinanzi all’urgenza di denaro di tanti imprenditori che lavorando con il pubblico vivono da un lato il danno di ritardati pagamenti perché quel “patto” non sblocca ciò che gli è dovuto, e dall’altro la beffa di banche che non intendono aspettare quei ritardi. I clan intercettano quel segmento di disperazione e rispondono subito e in contanti. Come dire: confiscare i beni ai mafiosi, ma fare anche di tutto perché i mafiosi non entrino in possesso di quei beni. in realtà il tasso d’usura, superiore al 100 per cento. Tanto che la stessa anziana ammette «di aver chiesto al Mimmo» di poter versare con un po’ di ritardo la terza rata per saldare il prestito, ottenendo una risposta negativa: «Emma ti voglio bene – risponde il calabrese – ma in questo momento io non posso aiutarti». L’usuraio se la prende solo con la donna, non con il figlio. In un’intercettazione telefonica, che i magistrati leggono in aula, si delinea ancora di più la verità. «Signora io non voglio farle del male – passa a dare del lei, Domenico Pio –. Al limite do tutto all’avvocato e le faccio fallire il locale. Non voglio farle certe porcherie, però deve capire in quale m... mi ha messo suo figlio». Ancora su «Repubblica» Roma dell’11 gennaio un articolo di Massimo Favale fotografa un’altra sfaccettatura del galateo dell’usuraio. Si legge nell’articolo «che l’usuraio sembra il tuo migliore amico, sembra l’unico amico che hai, l’unico che ti aiuta. Quello a cui puoi chiedere 20 euro il venerdì, per andare a comprare il latte. Solo che poi, il lunedì gliene devi restituire 100. E se non lo fai, allora cominciano i guai». E i guai, per Fausto Bernardini, ex presidente di un’associazione sportiva a Roma, arrivano sotto forma di minacce, aggressioni verbali e fisiche, paura. Oltre, ovviamente, ai tanti soldi versati: 300mila euro, a fronte di un prestito iniziale di 10mila. Storie comuni delle vittime di usura. «Una sera si presentano a casa. Mi appendono fisicamente al cancello, intimandomi di pagare entro il giorno dopo oppure mi avrebbero spezzato le gambe e rapito mia figlia». Quando l’economia è in crisi, esplode l’usura Una raccolta di interviste a personalità impegnate sul piano sociale e istituzionale contro racket e usura. “Contrappunto in tempo di crisi”, pubblicato da Solidaria, è il titolo scelto dai curatori Giovanni Abbagnato e Salvatore Cernigliaro per dar voce agli aspetti più complessi e meno conosciuti di due fenomeni in espansione, che stanno mettendo in ginocchio la vita di troppe persone. Per gentile concessione degli autori e della casa editrice, ne pubblichiamo un estratto intervista a Dario Scaletta di Angelo Meli Usura 49 | novembre 2012 | narcomafie Usura 50 | novembre 2012 | narcomafie Il racket e l’usura proliferano in tempi di crisi. Ci sono pochi soldi, le banche stringono i cordoni della borsa, chiedono maggiori garanzie, si fanno più diffidenti. E l’usuraio è lì, con la sua disponibilità immediata di denaro contante, più affabile del solito, meno strozzino. Disposto ad agevolare l’imprenditore in difficoltà anche a costi contenuti, sino a fare diventare la vittima «grata» per l’assistenza ricevuta. Una vittima che non denunzierà mai se non messo veramente alle strette. Lo scenario è disegnato dal sostituto procuratore della Repubblica della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, Dario Scaletta, da anni sul fronte della lotta a racket e usura. Nato a Palermo, ma originario di Trabia, ha studiato e si è laureato in Giurisprudenza a Palermo. Entrato in magistratura nel 2002, dal 2004 lavora alla Procura e dal 2009 è in Dda, alla scuola di Roberto Scarpinato, nel gruppo «Mafia ed economia»; dal 2012 fa parte del Consiglio Giudiziario presso la Corte di Appello di Palermo. Formazione internazionale, studi specialisti in Nord Europa e Stati Uniti, negli anni ha rafforzato le sue competenze nell’aggressione patrimoniale alla criminalità organizzata. Sue le indagini tra le tante, quelle che hanno portato alla confisca del patrimonio di Aiello Michele il re delle clinica Villa Santa Teresa, di Badalamenti Gaetano, e alla condanna di numerosi usurari come Gino l’Americano, Tutrone Fabio, Basile Marcello, Orlando Salvatore. Come sono cambiati vittima e usuraio negli ultimi anni? Diciamo che apparentemente non è cambiato niente o meglio il fenomeno si è ulteriormente aggravato. Perché di fronte alle difficoltà economiche attuali il ricorso al credito ordinario, al credito bancario in particolare, si è reso sempre più arduo, più difficile. Sia perché gli istituti di credito hanno irrigidito i criteri e i parametri per affidare i nuovi clienti sia perché nello stesso tempo i clienti hanno sempre maggiori difficoltà ad offrire delle garanzie adeguate per ottenere questi finanziamenti. Con la conseguenza che il ricorso al credito ad usura si è reso molto più diffuso e questo sulla base di due aspetti: il primo legato alle grosse disponibilità di liquidità da parte del crimine organizzato (in una situazione di particolare difficoltà economica il ricorso al mercato illegale si è ulteriormente accresciuto), il secondo aspetto è dato dalla strategia commerciale attuata da diversi usurai. Una delle ultime indagini su due storici usurari originari del Villaggio Santa Rosalia, abbiamo verificato una cosa stranissima che ha una sua logica imprenditoriale: hanno applicato dei tassi di usura proprio minimi, cioè poco sopra la soglia di usura. Questo che cosa ha consentito? La possibilità, per esempio, di concedere dei prestiti a tassi, diciamo, quasi agevolati, quasi più convenienti di quelli che potrebbero applicare gli istituti di credito, creando un meccanismo perverso: l’usurato si sente quasi gratificato, perché trova chiuse le porte degli istituti di credito e, invece, trova disponibili queste persone che danno anche senza garanzia. Ultimamente abbiamo notato che non sempre vengono più dati in pegno gli assegni post datati, in quanto il credito è garantito dal prestigio criminale dell’usuraio. Così diffuso, così consolidato, tanto da rendere le vittime grate e pronte a pagare: sanno che nel momento in cui non riscuotono periodicamente le rate dei prestiti, gli usurai non concedono più prestiti e gli usurati non hanno più la possibilità di continuare a sopravvivere. Ormai la vera garanzia è la violenza? Ma anche la violenta crisi che ha prosciugato le casse delle imprese. Siamo arrivati al punto che, in alcuni casi, i commercianti chiedevano prestiti per pagare la luce del negozio, per potere fare la spesa al supermercato. Parliamo di prestiti di 200-300 euro a settimana, roba veramente minima. In un’altra indagine abbiamo visto che persone, apparentemente della “Palermo bene”, professionisti, commercianti che giravano in Land Rover, andavano in vacanza in Sardegna, poi ricorrevano al prestito usuraio per le spese correnti. Qual è stato l’effetto di questo atteggiamento di “apertura” da parte degli usurai? Una contrazione del fenomeno delle denunce. Perché, ovviamente, nel momento in cui questa sindrome di Stoccolma risulta ulteriormente accentuata, perché si vede nell’usuraio il proprio benefattore, che applica addirittura il 2% mensile contro una media del 10%, non si ha più coraggio di denunciarlo. Manca la rabbia dello sfruttato contro lo sfruttatore. Nella media i tassi sono del 120% annuo. Nel caso specifico di questi due grossi usurai, veniva applicato il 2% mensile, tassi ritenuti irrisori dalle vittime beneficiarie. Come si possono superare le criticità che hanno portato al calo delle denunce? Una cosa è certa: per contrastare l’usura ci vuole il contributo della persona offesa, soltanto in casi eccezionali siamo riusciti a dimostrare la sussistenza della condotta usuraia a prescindere dalla collaborazione dell’offeso. E in un caso, messo con le spalle al muro, è stato costretto ad ammettere, ma ha ammesso solo il prestito che avevamo accertato grazie ad un’intercettazione dove era concordato tasso, entità del prestito e durata. La difficoltà e la semplicità della contestazione del delitto di usura sussiste nel fatto che è un reato “matematico”, nel senso che per la sua realizzazione necessitano tre elementi: entità del tasso, entità del prestito e durata. Se hai questi tre elementi la prova del reato è raggiunta e la responsabilità penale è una conseguenza inevitabile. Ma se manca uno di questi tre elementi ogni tentativo di contestare il reato è vano. Se il prestito dura un mese, il tasso avrà una certa entità, se dura tre mesi il tasso avrà un’altra entità. Il meccanismo è che molto spesso i prestiti non sono a lunga scadenza, si determina un periodo di uno-due mesi, massimo tre mesi, alla scadenza del quale si provvede o alla restituzione dell’intero capitale o nella maggior parte dei casi a un rinnovo. Al terzo mese si pagano solo gli interessi, la parte relativa al rinnovo. Una vera propria novazione del prestito, la costituzione di un nuovo rapporto e la corresponsione dei soli interessi. Quanto ci vuole a individuare e determinare un caso di usura? Il fattore tempo è un’altra criticità che è emersa anche sotto il profilo del contrasto al fenomeno dell’usura dal punto di vista patrimoniale. In sei mesi bisogna concludere le indagini con una richiesta di misura cautelare personale e reale, altrimenti si perde il fattore sorpresa. L’usura è un reato per il quale è possibile utilizzare le intercettazioni telefoniche e ambientali, ma non rientrando tra i reati di cui all’articolo 51 comma 3 bis c.p.p., alla scadenza dei sei mesi è obbligatoria la comunicazione alla persona sottoposta ad indagine della richiesta di proroga: se si vuole lavorare sotto traccia si ha un periodo limitato di sei mesi, altrimenti devi comunicare l’avviso di proroga. In tal modo l’usuraio viene a conoscenza di indagini che lo riguardano, potrà in tal modo mettere al sicuro i suoi beni traferendoli a terzi in buona fede, potrà contattare le vittime concordando la versione da fornire agli investigatori, potrà inquinare e distruggere le prove del reato. In sei mesi è necessario riuscire ad avviare un’attività di carattere tecnico, individuare o quanto meno incominciare ad avere un’idea dei potenziali clienti-vittime di usura. Una regola certa è che l’usuraio non ha solo un cliente ma una pluralità di clienti e che il cliente non ha solo un usuraio ma una pluralità di usurai. Quando si mette sotto intercettazione una persona offesa si conosce il panorama dei suoi fornitori, queste sono regole derivate dall’esperienza. In questi sei mesi individuiamo gli usurai, le potenziali persone offese, dopo di che avviamo una serie di indagini di carattere anche patrimoniale in modo tale che prima della comunicazione dell’avviso di proroga delle indagini preliminari riusciamo ad ottenere l’arresto in flagranza di reato dell’usuraio e, aggredendolo anche dal punto di vista patrimoniale, sottoponiamo a sequestro tutto il suo patrimonio immobiliare e mobiliare. Alla luce della previsione normativa di cui all’art. 12 sexies del D.L. n. 306/1992 è possibile nei confronti dei soggetti condannati per il delitto di usura ottenere la confisca di tutto il loro patrimonio, direttamente a loro intestato e indirettamente intestato a familiari o terzi intestatari fittizi, che risulti sproporzionato rispetto alle proprie disponibilità e\o alla loro attività economica. Con la conseguenza ulteriore che in seguito all’arresto dell’usurario e al sequestro del suo patrimonio è più facile, anche attraverso il risalto mediatico dato al risultato delle indagini, che le altre vittime si sentano più disponibili ad ammettere di avere ricevuto dei prestiti a condizioni usurarie. Non c’è modo di annullare gli effetti dell’azione di aggressione patrimoniale? Un’altra criticità che abbiamo riscontrato, soprattutto nel contrasto di carattere patrimoniale, è che gli usurai cominciano ad attivare dei meccanismi per cercare di superare la sproporzione attraverso, per esempio, il ricorso alle vincite al Totocalcio o al Lotto. Si tratta anche di centinaia di migliaia di euro, valori questi che, accreditati sui propri conti corrente, vanno in qualche modo a compensare le loro disponibilità. Risulta particolarmente difficile contestare che gli usurai Usura 51 | novembre 2012 | narcomafie 52 | novembre 2012 | narcomafie Usura hanno effettivamente svolto quel tipo di scommessa in quanto la ricevuta è un titolo al portatore, pertanto, non è possibile ricollegare il possessore dello scontrino con colui che aveva fatto effettivamente la scommessa. Si dovrebbe trovare il modo di registrare ogni giocata in modo da avere certezza tra lo scommettitore e il beneficiario finale della vincita. In un caso, comunque, attraverso attività di carattere tecnico, è stato possibile verificare come il rivenditore avesse contattato l’usuraio, informandolo della ingente vincita. In seguito l’usuraio in persona aveva contattato il vincitore offrendo in contanti la somma maggiorata di due mila euro. Chi non accetta soldi subito? All’usuraio si può contestare anche l’esercizio abusivo del credito? Per contestare l’esercizio abusivo del credito è necessario individuare diversi clienti. In alcuni casi, non solo quando è impossibile contestare l’usura perché non si riesce a dimostrare il superamento della soglia nell’applicazione del tasso d’interesse, unitamente al delitto di usura viene contestato anche l’esercizio abusivo del credito; ciò, tuttavia, presuppone che l’attività di finanziamento sia non episodica e isolata ma continuata e diffusa. Ma il fenomeno nuovo è quello dell’usura bancaria. Cioè la possibilità di contestare l’usura agli istituti di credito quando applicano un tasso di interesse superiore al tasso soglia. Il problema si è posto con riguardo alla individuazione degli oneri che l’utente sopporta per l’utilizzo del credito e che devono considerarsi rilevanti ai fini della determinazione del tasso usurario. La questione si è in particolare posta con riferimento alla commissione di massimo scoperto che, secondo le istruzioni della Banca d’Italia non dovevano essere prese in considerazione a tal uopo. La Suprema Corte ha di recente avuto modo di confermare e ribadire che indipendentemente dalle istruzioni e direttive dell’organo di vigilanza, stante il chiaro tenore letterale dell’art. 644 c.p., ai fini della determinazione del tasso usurario devono considerarsi rilevanti tutti gli oneri che l’utente ha sopportato in relazione all’utilizzo del credito. Con la conseguenza che agli organi di vertice dell’istituto di credito deve essere ascritta la responsabilità penale per il delitto di usura. Infatti, ha precisato la Corte di cassazione (Cass. Pen. n. 46669 del 2011 Sez. II) che, sul piano dell’elemento psicologico, i dirigenti degli istituti di credito non potessero essere scusati adducendo un errore riferibile al calcolo dell’ammontare degli interessi trattandosi di una interpretazione che, oltre ad essere nota all’ambiente bancario, non presenta in sé particolari difficoltà. Il carattere dirompente di tali considerazioni è dato dal fatto che accertato il superamento del tasso con riguardo ad uno specifico rapporto, attesa l’applicazione diffusa e seriale delle medesime condizioni contrattuali a tutti i clienti, la configurazione del delitto di usura assume dimensioni esponenziali. Come si può incentivare/costringere/convincere a denunciare l’usura? Come nella corruzione il pubblico ufficiale con il privato han- no interessi in comune, anche nell’usura la denuncia è molto difficile. Molto spesso ci si arriva quando si è alle estreme conseguenze. Va anche considerato che molto spesso l’usurato non è una persona specchiata, bisogna valutare con attenzione e riscontrare attentamente quello che dice e non prendere tutto per buono. E il rapporto con la mafia? Molto spesso Cosa nostra tollera la condotta usuraia, non partecipa in prima persona, però sicuramente in quest’ultimo periodo c’è una maggiore interconnessione perché in un momento in cui l’attività economica langue, le occasioni di investimento per Cosa nostra sono sempre più ridotte. Così l’enorme liquidità che deriva dal traffico di stupefacenti e l’attività estortiva viene in alcuni casi reinvestita attraverso il mercato usuraio: il capitale viene pulito e remunerato perché si ha un immediato guadagno derivante dalla riscossione degli interessi. È un’attività «sicura»: le vittime sono costrette a pagare o comunque pagano. Non c’è concorrenza tra usurai storici e usurai della mafia? No, la mafia usa la rete degli «sportelli», vale a dire, gli usurai storici. La gente conosce l’usuraio sotto casa e di lui si fida. Nei vari quartieri si sa chi presta denaro a usura. Quindi anche il mafioso che vuole fare questo reinvestimento si rivolge all’usuraio il quale ha esperienza, conoscenza del territorio, autorevolezza. Dispone degli strumenti necessari, tecnici e normativi, per contrastare l’usura efficacemente? Nel campo dell’usura gli strumenti sono adeguati, soprattutto alla luce delle ultime modifiche legislative. Puntiamo soprattutto al profilo patrimoniale: quando l’usuraio viene ristretto nelle patrie galere ha finito di lavorare, è già una punizione. Inoltre, siccome si tratta di una tipica forma di manifestazione di reato che si caratterizza per la sua spiccata dimensione economica, una sanzione effettiva ed efficace è quella di contrastare l’usuraio sul piano economico e patrimoniale, quindi potere confiscare i beni, mobili e immobili, il denaro, i titoli, le eventuali attività commerciali frutto dei proventi dell’usura. E devo dire che ultimamente con le riforme sull’anagrafe dei conti correnti, si è fatto un notevole passo in avanti: si ha la possibilità in tempo reale di conoscere tutti i rapporti di credito facenti capo all’usuraio. Ormai abbiamo accesso a tutta una serie di banche dati: anagrafe tributaria all’agenzia delle entrate, agenzia del demanio, camera di commercio. Con un clic abbiamo la possibilità di individuare le disponibilità immobiliari, i conti correnti, le società, le partecipazioni, tutti gli acquisti degli ultimi anni. Questo ci consente in un periodo di tempo molto breve di avere un quadro della situazione che ci consente di fare questa duplice aggressione personale e patrimoniale che costituisce lo strumento più efficace di contrasto. Quando la vittima di usura vede l’usuraio dietro le sbarre e con tutto il patrimonio sequestrato, acquisisce molta fiducia nei confronti dell’attività giudiziaria e delle forze di polizia e quindi si rende maggiormente disponibile a denunciare o a confermare gli elementi. Che pene rischia l’usuraio? Noi siamo riusciti a ottenere in 7-8 casi anche pene di 4-5 anni. Se c’è l’aggravante mafiosa raddoppia, però è difficile contestare l’aggravante mafiosa. È più semplice la contestazione dell’usura in concorso con il delitto di estorsione, si rischiano sino a 8 anni di carcere. A volte l’usuraio utilizza violenza o minaccia per ottenere il pagamento delle proprie quote e scatta anche l’estorsione. L’aggravante mafiosa è difficile perché non è facile dimostrare che quell’attività usuraia venga effettuata nell’interesse dell’organizzazione. In qualche caso si è visto che l’attività usuraia era effettuata nell’interesse di un mafioso, però poi c’è il problema di dimostrare che è fatta non tanto nell’interesse del singolo in sé quanto piuttosto nell’interesse dell’organizzazione criminale. Ricorda storie emblematiche? Qualcuno che si è redento, ha smesso di fare l’usuraio, o vittime che hanno denunciato per spirito civico? Ricordo un usuraio, un imprenditore della «Palermo bene», che faceva il commerciante e che viveva molto al di sopra delle sue possibilità. Che quotidianamente andava a riscuotere, aveva una famiglia, due figli e dall’oggi al domani si è trovato catapultato in galera, forse neanche lui se ne rendeva pienamente conto che era un usuraio. È stato condannato a 4 anni, un periodo di detenzione domiciliare e, infine, dopo essere stato affidato in prova ai servizi sociali, ha ricominciato a lavorare onestamente. C’è chi invece ha continuato a fare l’usuraio nonostante le denunce e gli arresti. In un’intercettazione abbiamo sentito: «È da 30 anni che faccio questa vita e non mi era mai successo niente. Creare un impero e finire». Era un usuraio storico del quartiere Capo, il famoso Gino l’americano, soprannominato “mister 10%”. È stato condannato insieme alla moglie perché, pur essendo in carcere riusciva a dare indicazioni dicendo dove bisognava andare, quanto bisognava ricevere. C’è, poi, il caso di un’assicuratrice che ha denunziato non so quanti usurai, una quindicina, confermando l’assunto secondo cui chi si rivolge a un usuraio si rivolge a una pluralità di usurai. Loro sono stati condannati e la signora continua a svolgere regolarmente la sua attività imprenditoriale. “Contrappunto in tempo di crisi”, a cura di Giovanni Abbagnato e Salvatore Cernigliaro. Contributi di Emanuela Alaimo, Fausto Maria Amato, Francesco Appari, Lino Busà, Gianni Barbacetto, Maria Corrao, Maurizio De Lucia, Rosa Frammartino, Barbara Giangravè, Claudio Gittardi, Sebastiano Gulisano, Caterina Massei, Angelo Meli, Riccardo Milano, Rosanna Montalto, Antonio Nicaso, Chiara Pracchi, Marcello Ravveduto, Vito Rinaudo, Isaia Sales, Umberto Santino, Dario Scaletta, Loredana Schirò, Antonio Specchia, Luca Squeri, Lorena Tantillo. Il volume è reperibile online sul sito www.solidariaweb.org/ vetrina-online.html Usura 53 | novembre 2012 | narcomafie altarisoluzione 54 | novembre 2012 | narcomafie Taranto resiste L’Ilva di Taranto rappresenta uno dei maggiori complessi industriali per la lavorazione dell’acciaio in Europa. Lo stabilimento siderurgico, grande due volte e mezzo la città, sorge a ridosso del quartiere Tamburi e a pochi chilometri dal centro cittadino. Già nei primi anni 80, l’Organizzazione mondiale della sanità definì Taranto una città a grande rischio ambientale. Le analisi dell’Istituto superiore di sanità relative al periodo 2003-2008 sull’area intorno allo stabilimento confermano un aumento della mortalità del 10% rispetto a quella attesa, con un incremento dei tumori del 30% rispetto alla media nazionale. I quartieri più colpiti sono Tamburi – nel quale in ogni appartamento c’è almeno un malato di cancro – e Paolo VI, costruito alla fine degli anni 60 per ospitare gli operai dell’Ilva. Al problema inquinamento in questi quartieri si aggiunge l’alto tasso di disoccupazione, che ha portato ad un Foto e testo di Marika Puicher 55 | novembre 2012 | narcomafie 56 | novembre 2012 | narcomafie incremento dello spaccio e della delinquenza. Il dramma della disoccupazione ha fatto sì che per anni la maggior parte dei cittadini tarantini fosse costretta a scegliere tra la vita e una prospettiva lavorativa, tacendo di fronte allo scempio ambientale. Ma a fronte di una città più remissiva e impaurita c’è anche una Taranto coraggiosa e che resiste, composta da pochi ma tenaci ambientalisti, allevatori, artisti e semplici cittadini, che da anni si battono per riqualificare la città e denunciare il forte inquinamento ambientale prodotto dalle fabbriche della zona. Una lotta durata più di vent’anni che solo recentemente ha portato riscontri, contribuendo all’avvio di un’indagine da parte del tribunale di Taranto che il 26 luglio 2012 ha predisposto il sequestro senza facoltà d’uso dell’intera area a caldo dello stabilimento siderurgico. Il 30 novembre però è stato approvato dal Governo il decreto legge “Salva Ilva”, che permette la ripresa dell’attività produttiva e commerciale, sospendendo i provvedimenti di sequestro della magistratura. Il decreto prevederebbe, in concomitanza al proseguimento della produzione, una graduale messa a norma dell’impianto secondo le direttive europee e istituisce inoltre un garante per vigilare sull’attuazione degli adempimenti di bonifica. Il timore per molti è che questo sia solo un provvedimento di facciata, l’ennesima presa in giro, per permettere all’azienda di continuare a produrre e quindi di conseguenza ad inquinare indisturbata, schierandosi ancora una volta dalla parte della logica del profitto a discapito della vita dei cittadini di Taranto. altarisoluzione 57 | novembre 2012 | narcomafie rassegna stampa internazionale a cura di Stefania Bizzarri 58 | novembre 2012 | narcomafie Cannabis made in Europe Lisbona Sviluppo delle droghe sintetiche, calo dei consumi di cocaina ed eroina e trasforma trasformazione del Vecchio continente in terra produttrice di cannabis: sono queste le ultime tenden tendenze rilevate dall’ dall’Osservatorio Europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Oedt) e pubblicate nel rapporto an annuale divulgato lo scorso otto ottobre. L’Osservatorio sottolinea come sia difficile controlla controllare le sostanze sintetiche e la scarsa informazione sui rischi dell’assunzione da parte dei consumatori. Nel 2012 sono state scoperte 50 nuovi tipi di droghe, la maggior parte di queste ha effetti simili a quelli della cocaina. Altri prodotti molto in voga sono i cannabinoidi di sintesi come la spice. Il business gira soprattutto su Internet: l’Oedt ha registrato 693 siti che vendono sostanze presentate come legali, contro i 170 del 2010. Ma l’evoluzione “maggiore” si è avuta nel mercato della cannabis. La tendenza generale è rimpiazzare le importazioni e vendere pertanto la cannabis coltivata in Europa. È sufficiente entrare in un coffee-shop dei Paesi Bassi per constatarlo: si produce e si vende in più locali. Il Marocco dovrebbe cominciare a preoccuparsi, avvertono gli autori del rapporto... Eln, possibili negoziati Bogotà Anche l’Esercito di liberazione nazionale (Eln) – secondo gruppo guerrigliero della Colombia con circa 2.500 combattenti – è pronto ad avviare “dialoghi esplorativi” con il governo in vista della possibile apertura di un negoziato di pace. In una “lettera aperta” pubblicata in Internet, l’Eln ha annunciato di aver formato una delegazione incaricata di stabilire contatti preliminari con l’amministrazione di Juan Manuel Santos. Il movimento armato ha ricordato, così come hanno fatto le più note Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc), che è stato lo stesso governo «a rendere manifesto il proprio interesse affinché anche l’Eln intraprenda un processo di dialogo per la ricerca della pace». Su questa strada «l’Eln è impegnato per una soluzione politica intesa come costruzione collettiva della nazione, come processo democratico sociale, politico, economico e culturale che tenga conto dei cambiamenti di cui il paese ha bisogno». L’annuncio dell’Eln è giunto con l’avvicinarsi dell’avvio vero e proprio dei colloqui di pace tra governo e Farc, cominciato il 15 novembre all’Avana. Primo punto in agenda il problema della terra, un tema – secondo l’Eln – «che richiede la partecipazione del movimento contadino e agrario, dei movimenti regionali e ambientali». 59 | novembre 2012 | narcomafie La selva Maya minacciata dai narcos Città del Guatemala È una vasta foresta vergine nel nord del Guatemala: un santuario di 2,1 milioni di ettari che copre il 19% della superficie del paese e rappresenta il 60% delle aree protette. È questo il cuore della riserva degli indigeni Maya e la dimora di eccezionali e rare specie animali sottoposte non solo alle minacce ordinarie delle regioni tropicali, come l’abbattimento illegale di alberi, incendi e bracconaggio. Questa regione è diventata zona ideale per i trafficanti di droga. Gli enti incaricati alla protezione sono in prima linea nel denunciare episodi come la costruzione di piste di atterraggio abusive da parte dei cartelli messicani per movimentare cocaina; o di immense aziende agricole da parte delle gang del Salvador con lo scopo di ripulire denaro sporco; o il disboscamento ad opera delle mafie cinesi impegnate a rivendere legname pregiato sui mercati asiatici. Il risultato è che in pochi anni la foresta è stata quasi dimezzata. I primi segnali della presenza criminale, soprattutto nella metà occidentale (confinante con il Messico), risalgono a dieci anni or sono. Secondo Roan McNab, direttore del programma dell’Ong Wildlife conservation society (Wcs) in Guatemala, i cartelli operano in un clima di “totale impunità” poiché le forze dell’esercito e di polizia sono insufficienti. I proprietari delle aziende di allevamento di bestiame hanno costruito decine di piste di atterraggio di cui una è soprannominata “aeroporto internazionale” con decine di aerei abbandonati. Per descrivere questo fenomeno i Guatemaltechi utilizzano il neologismo narcoganadería, formato a partire dalla parola droga e allevamento di bestiame. La criminalità organizzata infatti ripulisce il denaro investendo nell’allevamento di capi da macellare, la cui carne è poi rivenduta nei mercati messicani. Al momento la coalizione internazionale che lotta per preservare il cuore della riserva ha registrato qualche risultato. Grazie al suo programma di preservazione si sono salvate dall’estinzione alcune specie animali ed è stata potenziata la presenza di forze civili e militari, ma è la lotta di Davide contro Golia. Kosovo, anno zero Bruxelles «L’Ue stroncata sulla missione in Kosovo», commenta «Le Figaro» dopo la pubblicazione di un rapporto della Corte dei conti europea sulla gestione della crisi kosovara da parte dell’Unione. La Corte sottolinea «il contributo modesto alle capacità della polizia del Kosovo», gli “scarsi progressi” nella lotta al crimine organizzato e alla corruzione e le difficoltà di coordinamento tra la Com- missione europea ed Eulex, la missione civile destinata a promuovere lo stato di diritto in Kosovo. In sintesi il bilancio parla di «inefficacia degli aiuti europei, sperpero finanziario e evidente mancanza di mezzi umani». Tuttavia, ricorda «Le Figaro», sulla carta l’Ue non ha risparmiato le energie per sostenere lo stato di diritto a Pristina. I kosovari sono in cima alla lista di tutte le categorie di aiuti europei. Bruxelles ha condotto due grosse operazioni, una affidata alla Commissione con un’assistenza finanziaria tradizionale ma rafforzata, l’altra diretta dal braccio diplomatico dell’Ue: la missione Eulex, incaricata tra le altre cose di gestire elementi delicati come la polizia, la giustizia e le dogane. Secondo la Frankfurter Allgemeine Zeitung, il giudizio impietoso della Corte dei conti non ha nulla di sorprendente. Tutti gli sforzi internazionali di state building danno luogo agli stessi fenomeni. Innanzitutto la presenza di esperti stranieri modifica radicalmente la situazione economica sul posto, che si tratti del Kosovo o dell’Afghanistan. Inoltre si assiste alla nascita di uno strato di privilegiati e profittatori – dagli autisti agli uomini d’affari, passando per gli interpreti – che hanno tutto l’interesse a prolungare la situazione di necessità in cui si trova il paese. Senza contare le frizioni tra le organizzazioni pubbliche e private o gli scontri con le realtà locali. Tuttavia sarebbe giusto che la Corte dei conti, oltre a evidenziare queste mancanze, indicasse una via per rimediare. Perché sostenere che queste missioni non dovevano essere avviate non è e non può essere una soluzione. Amnesty, è crisi di ideali? Londra È crisi dentro Amnesty International, l’Ong che da oltre mezzo secolo si batte contro la pena di morte e la tortura. Il consiglio dei membri, riunito a metà ottobre nel quartier generale dell’organizzazione a Londra, ha deciso di votare la sfiducia alla propria leadership, accusata di aver “perso di vista gli obiettivi” dell’organizzazione. Una crisi che “minaccia la stessa esistenza” dell’Ong. In veste ufficiale il problema riguarda una riorganizzazione strutturale dell’associazione, con il taglio di una ventina di posti dei 700 esistenti. Ma la questione “reale” è più profonda ed è stata definita una “battaglia per l’anima” del movimento per i diritti umani. Il consiglio dei membri ha detto di non credere più nell’operato del segretario generale, Salil Shetty, e dei suoi collaboratori più stretti. Accuse cui i vertici hanno replicato, sostenendo, da un lato che i membri hanno presentato un quadro “inaccurato” e difendendo, dall’altro, il “processo di rinnovamento” dell’Ong, che prevede una riduzione dei dipendenti della sede centrale di Londra e un rafforzamento delle sedi regionali. 60 | novembre 2012 | narcomafie Sudamerica, nasce la classe media? Washington Nell’ultimo decennio l’America Latina e i Caraibi hanno visto raddoppiare il numero di persone che hanno fatto il loro ingresso nella classe media: un risultato che gli economisti considerano “storico” in una regione tra le più disuguali del pianeta. Secondo un rapporto della Banca Mondiale, nel 2009, gli appartenenti alla classe media – categoria in cui sono incluse persone che vivono con una somma tra i 10 e i 50 dollari al giorno – sono arrivati a 152 milioni, il 50% in più rispetto al 2003. Per Kim Yong Kim, presidente della Bm, il dato dimostra che «politiche che promuovono in modo congiunto la crescita economica e l’espansione delle opportunità per i più vulnerabili si traducono in prosperità» per milioni di persone. Anche se i governi della regione «devono fare ancora molto» per risolvere i problemi sociali – un latinoamericano su tre vive in povertà – i dati raccolti secondo Kim «sono motivo di soddisfazione». Tra i fattori di sviluppo più evidenti, il rapporto inserisce il miglioramento dell’istruzione, l’aumento dei posti di lavoro formali e l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro. Rilevanti restano le differenze tra i paesi: il Brasile da solo raccoglie il 40% dei nuovi appartenenti alla classe media; in Colombia il 54% della popolazione ha visto aumentare il reddito tra il 1992 e il 2008, in Messico il 17% dei cittadini ha fatto il proprio ingresso nella classe media tra il 2000 e il 2010. Occorre tuttavia prestare attenzione alla cosiddetta “classe vulnerabile”, nella quale la Bm include chi vive con una somma tra i quattro e i 10 dollari al giorno. Si tratta del 38% della popolazione globale della regione che resta relegata in un “limbo” tra poveri e persone con sufficienti entrate economiche. Russia, il consumo di eroina Mosca Ogni anno dall’Afghanistan arrivano circa 30 tonnellate di eroina ha affermato recentemente lo “zar antidroga” russo Sergei Ivanov in un’intervista alla radio Ekho Moskvy. Più volte Mosca ha accusato gli Stati Uniti di non impegnarsi a sufficienza per schiacciare il narcotraffico. L’Afghanistan produce oltre il 90% dell’eroina mondiale. Una buona parte va verso nord, arrivando in Russia che – spiega Ivanov – non è un paese di transito, ma di consumo. Ivanov ha aggiunto che «l’ammontare (dell’eroina) è di circa 30 tonnellate» all’anno, che vanno a sommarsi alle droghe sintetiche in arrivo dall’Europa. In precedenza, Ivanov aveva rivelato che 8,5 milioni di russi usano narcotici regolarmente o sporadicamente e 18,5 milioni hanno provato droghe almeno una volta nella loro vita. I morti per droga in Russia sono 100mila all’anno. Crescono papaveri Vienna Le coltivazioni di papavero da oppio in Afghanistan hanno coperto 154mila ettari nel 2012, il 18% in più rispetto al 131mila registrati l’anno precedente, secondo l’Opium Survey 2012 Afghanistan, pubblicato il 20 novembre dal ministero della Lotta alla droga afghano (Mcn) e l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (Unodc). Tuttavia, poiché le malattie delle piante e il cattivo tempo avevano danneggiato le colture, la produzione di oppio potenziale è calata del 36% nello stesso periodo da 5.800 a 3.700 tonnellate. «Gli alti prezzi dell’oppio sono stati il fattore principale che ha portato all’aumento della coltivazione di oppio – ha detto il direttore esecutivo dell’Unodc, Yury Fedotov –. Quest’ultimo chiede uno sforzo costante da parte del governo afghano e degli attori internazionali per affrontare la coltivazione illecita con un approccio equilibrato delle misure di attuazione per lo sviluppo e il diritto». Quest’anno la coltivazione è stata concentrata per il 95% nelle province meridionali e occidentali, dove l’instabilità e la criminalità organizzata sono ben presenti: 72 % in Hilmand, Kandahar, Uruzgan, Day Kundi e Zabul province del sud, e il 23% a Farah, Hirat e Nimroz a ovest. Ciò conferma il legame tra l’instabilità politica e la coltivazione di oppio già evidenziata dal nel 2007. Nel 2012 il prezzo ai “produttori” per l’oppio è rimasto ad un livello relativamente alto di 196 dollari al kg, questo continua a fornire un forte incentivo per gli agricoltori ad avviare o riprendere la coltivazione del papavero nella prossima stagione. Come conseguenza delle rese basse nella coltivazione, il reddito lordo medio di oppio per ettaro si è ridotto del 57% dai 10.700 dollari del 2011 a 4.600 nel 2012. 61 | novembre 2012 | narcomafie Rapporti Ue-Pristina Kosovo, la legge dell’impunità L’indipendenza del neostato è una realtà consolidata, ma diritti e legalità sono ancora avulsi dal contesto kosovaro. Eulex e la “comunità internazionale” non hanno profuso gli sforzi necessari a garantire equità, imparzialità e giustizia per quei popoli. E Bruxelles sembra non accorgersene foto e testo di Matteo Tacconi 62 | novembre 2012 | narcomafie I primi ministri, Hashim Thaci e Ivica Dacic, si sono incontrati sotto l’egida dell’Ue. L’obiettivo è cercare compromessi nei territori contesi. È tutto un bluff o c’è qualche prospettiva di collaborazione? Alla vigilia del 17 febbraio del 2008, giorno in cui il Parlamento del Kosovo proclamò unilateralmente il distacco dalla Serbia, c’erano tanti faldoni ingombranti sul tavolo. Nessuno li ha archiviati. Si discute ancora, senza soluzioni, dell’assetto delle province settentrionali. Sono quelle a maggioranza serba (nel resto del paese l’etnia albanese è totalitaria) e lì è Belgrado a esercitare il controllo, tramite le cosiddette istituzioni parallele: banche, valuta, scuole, uffici pubblici, polizia. Il “conflitto congelato” a Mitrovica – la città simbolo delle divisioni, metà albanese e metà serba (cfr. box p.66) – e nei comuni limitrofi del nord impedisce al Kosovo di esercitare la piena sovranità sul proprio territorio e si riverbera negativamente sul processo dei riconoscimenti internazionali. Nel momento in cui «Narcomafie» va in stampa sono 91 i membri dell’Onu che hanno allacciato relazioni diplomatiche con Pristina: meno della metà dei 193 totali. Fino a che punto – questo si chiedono i giuristi – si può parlare di Stato? Come prima, più di prima. Il problema dei riconoscimenti si manifesta pure in Europa. Cinque paesi comunitari (Slovacchia, Grecia, Romania, Cipro e Spagna), temendo che la questione kosovara possa ripercuotersi all’interno dei propri confini o alimentare i rispettivi autonomismi, non hanno ancora stabilito rapporti di alto profilo con il governo di Pristina. C’è comunque una novità. Pristina e Belgrado hanno recentemente attivato negoziati diretti. I rispettivi primi ministri, Hashim Thaci e Ivica Dacic, si sono in- contrati sotto l’egida dell’Ue. L’obiettivo è cercare compromessi pragmatici sugli aspetti dell’economia, dei trasporti e della vita quotidiana nei territori contesi. È tutto un bluff o c’è qualche prospettiva di collaborazione? Al momento, sul campo, non cambia nulla. Il quadro complessivo resta precario anche sul fronte dell’economia. Il tasso dei senza lavoro, sebbene in assenza di statistiche certe, lambisce il 45%. Tra i più penalizzati figurano i giovani, che rappresentano la principale componente demografica dello stato balcanico. Stando alle cifre diffuse nel 2010 dalla Kosovo stability initiative, think tank con sede a Pristina, la disoccupazione tra i ragazzi con età inferiore ai 25 anni sarebbe addirittura pari al 73%. Il fracasso economico dipende in parte dalla storia (il Kosovo era la regione più povera dell’ex Jugoslavia), in parte dalla guerra del 1998-1999 con la Serbia. Ma incide anche, eccome se incide, il mancato afflusso di investimenti dall’estero, volano principale della crescita in ogni processo di transizione. Dal 2007 al 2010, ha riportato lo scorso febbraio la Camera di commercio americana del Kosovo (AmCham) citando ricerche della Banca mondiale, gli investimenti diretti sono calati del 30%, passando da 603 a 413 milioni di dollari l’anno. Secondo la stessa AmCham la contrazione è dovuta a due cause concomitanti: la crisi globale e «l’inabilità delle istituzioni di Pristina di conquistare la fiducia degli investitori stranieri». La vecchia guardia. Nei mesi che hanno preceduto l’indipendenza del 2008 fioccarono articoli e inchieste su traffici di droga, contrabbando di armi, contraffazione, riciclaggio e altre attività a forte tasso illecito. Nonché sulla spartizione in stile mafioso del territorio, operata dagli esponenti delle varie consorterie criminali del Kosovo, alcuni dei quali fortemente inseriti nel sistema politico-amministrativo, se non addirittura eletti nelle istituzioni o titolari di cariche importanti. Da allora, anche in merito a queste problematiche, non è cambiato granché. La collusione o sovrapposizione tra mafie e politica, i traffici (droga, armi, esseri umani e beni contraf contraffatti) e la corruzione endemica dominano ancora la scena, a quanto pare. Non passa giorno, poi, senza che si parli delle tante inchieste giudiziarie in corso legate ai misfatti del passato, come alle vicende torbide del presente. Sia le une sia le altre vedono tra i principali protagonisti gli ex esponenti dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck), la guerriglia che combatté la Serbia nel biennio 1998-1999 e che in parte si approvvigionò di armi e soldi attraverso attività illecite. Oggi quei signori siedono in Parlamento, hanno cariche di governo, presiedono agenzie statali. Sono la classe dirigente. Dalla mimetica al doppiopetto. Il caso più noto, tra quelli che vedono coinvolti ex militi dell’Uck, è senza dubbio quello di Hashim Thaci, ex portavoce dell’Uck, numero uno del Partito democratico del Kosovo (Pdk) e attuale primo ministro. Thaci è al centro dello scandalo sugli organi espiantati, al tempo della guerra, dai corpi dei prigionieri giustiziati dall’Uck. Erano prevalentemente di etnia serba. Fu Carla Del Ponte, 63 | novembre 2012 | narcomafie ex procuratore capo del Tribunale per i crimini nell’ex Jugoslavia, con sede all’Aja, a scoperchiare la pentola. Ne parlò in “La caccia”, libro di memorie sulla sua lunga permanenza in Olanda (1999-2007). Tre anni più tardi la commissione appositamente istituita dal Consiglio d’Europa, presieduta dallo svizzero Dick Marty e incaricata di indagare sulla vicenda, arrivò a ipotizzare nel suo rapporto finale che Hashim Thaci e il gruppo della Drenica, uno delle più influenti costole della guerriglia albanese, fossero i protagonisti di molte delle operazioni criminali di cui l’Uck si macchiò durante il conflitto. Inclusa quella del traffico di organi, il cui schema – questa grosso modo la ricostruzione – prevedeva l’uccisione di serbi e di esponenti di altre minoranze, il trasporto dei cadaveri oltre confine in Albania, l’espianto degli organi e la loro successiva messa in commercio sul mercato nero. Al rapporto Marty, che comunque non aveva valore legale, è seguita l’apertura di un’inchiesta vera e propria, condotta da Eulex, la missione civile dell’Unione Europea in Kosovo. È composta da circa 2mila persone, tra magistrati, poliziotti, funzionari, consulenti. A queste vanno aggiunti circa mille impiegati locali. Tra i compiti di Eulex, oltre all’ordine pubblico e alla supervisione sullo stato di diritto, figura anche l’amministrazione della giustizia. In particolare, i magistrati e i giudici inquadrati nella missione gestiscono quelle inchieste e quei processi sensibili, con imputati eccellenti e temi spinosissimi, che i tribunali locali avrebbero difficoltà a condurre e celebrare. Eppure sembra che Eulex abbia il freno a mano tirato e che non riesca a scavare fino in fondo. Il nodo del Kosovo è proprio l’incapacità o la mancata volontà di procedere contro i potenti. C’è chi scomoda una parola pesante, ma non così impropria, almeno a giudicare dagli eventi in corso. La parola è impunità e la tesi è che Eulex e in senso lato la cosiddetta comunità internazionale (presente a Pristina con numerose missioni) non abbiano profuso gli sforzi necessari a garantire, in Kosovo, equità, imparzialità e giustizia. Il caso del traffico di organi è emblematico, dicono gli analisti. Gli inquirenti europei, autorizzati da Tirana a cercare prove anche in territorio albanese, non hanno ancora raccolto indizi eclatanti e Hashim Thaci non è neanche iscritto nel registro degli indagati. Molti dicono che prima o poi il caso verrà archiviato. Non se ne farà nulla, com’è successo in altre situazioni che hanno sfiorato la reputazione di ex comandanti dell’Uck. In Kosovo molti pensano che anche Fatmir Limaj dribblerà, alla fine, le insidie giudiziarie che gli sono piombate addosso negli ultimissimi tempi. Uomo chiave del gruppo della Drenica, ex ministro dei Trasporti. Dicastero chiave, questo. In tutti i sensi. Vuoi perché il Kosovo non ha infrastrutture e si sa, le elezioni e il consenso si vincono anche stendendo asfalto. Vuoi perché in Kosovo, con tutta la corruzione che c’è, le strade sono il settore dove si può lucrare di più. Ebbene, il 16 novembre Limaj è stato formalmente accusato dai magistrati di Eulex. Insieme a lui sono state incriminate sette persone: i due fratelli Florim e Demir, il suo ex capo di gabinetto Endrit Shala e altri collaboratori dell’epoca in cui era ministro. Avrebbero manipolato gare d’appalto, dato e ricevuto mazzette. Limaj, inoltre, è indagato anche per non aver dichiarato i finanziamenti elettorali ricevuti quando, correva l’anno 2007, corse per la carica di sindaco di Pristina. Ma, si diceva, tutto questo trambusto tribunalizio non porterà a nulla. Questa è almeno la convinzione dei più. D’altronde Limaj, uomo di potere e relazioni, è con-siderato un pesce troppo grosso per essere condannato. Senza contare che è già uscito vinci-tore da due processi, entrambi fondati sull’accusa di crimini di guerra. Il primo celebrato presso il Tribunale dell’Onu per l’ex Jugoslavia, con sede dell’Aja. Limaj fu prosciolto nel 2005 e la sentenza di primo grado fu confermata in appello due anni più tardi. Il secondo processo, istruito e celebrato a Pristina, sempre su vicende relative al conflitto, è finito lo scorso mag-gio. Nella stessa maniera. Ci si chiede se il prossimo a mettersi alle spalle le accuse sarà Nazmi Mustafi, altro nome eccellente finito sott’inchiesta. È stato arrestato all’inizio di aprile con le accuse di corruzione e di estorsione. Il che suona davvero paradossale, perché l’uomo, fino all’arresto, è stato a capo dell’Agenzia governativa istituita allo scopo di lottare contro la corruzione. Mustafi, che non ha militato nell’Uck, ma che è comunque legato a Thaci, almeno così si dice, è stato poi formalmente incriminato a fine luglio. I magistrati di Eulex ritengono che abbia chiesto denaro a individui “torchiati” dall’agenzia che lui stesso dirigeva. Il caso del traffico di organi è emblematico. Molti dicono che prima o poi verrà archiviato. Com’è successo in altre situazioni che hanno sfiorato la reputazione di ex comandanti dell’Uck «Quel cemento sulla terra degli sfollati» 64 | novembre 2012 | narcomafie Intervista a Massimo Moratti di M.T. A ogni conflitto, un’ondata di profughi. Gente che, a causa della guerra, delle persecuzioni e dell’insicurezza si rifugia all’estero oppure – è il caso delle Internally Displaced Persons (Idps) – cerca riparo all’interno del proprio paese, in territori dove non tuonano i cannoni. Anche in Kosovo, all’epoca della guerra, è andata così. Ci fu dapprima la partenza degli albanesi, vessati dalle forze serbe. Poi, quando la Nato costrinse Slobodan Milosevic alla resa, nel 1999, la situazione si capovolse. Gli albanesi, che rappresentano il 90% della popolazione complessiva del paese, tornarono in massa. In diversi casi si vendicarono dei torti subiti in precedenza. Le forze di peacekeeping e la comunità internazionale, in quei frangenti di vero e proprio vuoto legale, non riuscirono a impedire il controesodo. I serbi e le altre minoranze della regione (ashkali, egiziani, turchi), nonché alcuni albanesi tacciati di collaborazionismo, se ne andarono. Meglio, dovettero andarsene. «A oggi molti di loro non sono ancora rientrati in possesso dei loro beni. Lo scenario non è così roseo come lo descrivono gli organismi internazionali», assicura Massimo Moratti, che vanta una pluriennale esperienza in materia di rifugiati e sfollati nei Balcani e che da qualche tempo si occupa proprio dei diritti di queste persone con il progetto Further Support to Refugees and IDPs in Serbia (www.pravnapomoc.org). È finanziato dall’Ue e ne beneficia l’Ufficio per il Kosovo i Metohija, agenzia che, nella scorsa legislatura, aveva rango ministeriale. «In particolare – spiega Moratti a «Narcomafie» – è la situazione dei terreni a essere più complicata. In tutti questi anni c’è stato in Kosovo un vero e proprio boom edilizio. Strisce di terra un tempo completamente vuote sono oggi piene di case e uffici, magazzini e motel, pompe di benzina e autolavaggi. Per fare un esempio, ai lati della strada che collega Pristina a Skopje, la capitale macedone, fino a qualche anno fa non c’era nulla. Adesso è una colata di cemento continua. Dove voglio arrivare? Al fatto che molte di queste costruzioni sono state realizzate illegalmente sui terreni degli sfollati, mentre gli sfollati erano via». Com’è potuto accadere tutto questo? Occorre tornare indietro nel tempo. Alla fine del conflitto. «Nel 1999- 2000 la comunità internazionale creò l’Housing Property Directorate, un’agenzia che metteva in piedi dei meccanismi utili a garantire il diritto a rientrare in possesso dei propri beni immobili per tutti i rifugiati e gli sfollati. Quest’agenzia aveva competenza sulle case e sugli appartamenti. Nulla venne stabilito, invece, a riguardo dei terreni o sulle proprietà commerciali. È così che di fatto s’è venuto a creare un vacuum e in assenza di precise disposizioni è scoppiata la bolla dell’abusivismo edilizio». La faccenda è davvero difficile da sbrogliare. Perché i terreni sono stati violati con il cemento e perché ci sono problemi di ordine burocraticopolitico. «L’Housing Property Directorate è confluito nel 2006 nella Kosovo Property Agency, che ha la competenza anche sui terreni. Il problema, tuttavia, è che delle 40mila istanze sollevate dai reali proprietari soltanto quelle meno “sensibili” sono state trattate. Le dispute regolate sono, in gran parte, quelle riguardanti appezzamenti non cementificati. I casi legati a quelli sui quali s’è costruito non sono stati ancora aperti o si registrano manomissioni e ritardi», specifica Moratti. Quale sarebbe la causa di questi insabbiamenti? La politica, fondamentalmente. Il punto è che le dispute sulla proprietà, nel momento in cui salta fuori che i “palazzinari” sono esponenti della classe dirigente o personaggi con ottime protezioni, non vengono gestite come andrebbero gestite. «Questi casi rognosi non vengono presi in considerazione, ho sentito dire. In Kosovo, in generale, vige un clima di impunità che lo rende un caso sui generis. In tutta la regione, alla fine di ogni guerra, è sempre scattato l’approccio “caccio il nemico e gli prendo la casa”, corollario delle teorie sulla pulizia etnica. Anche in Bosnia il canovaccio fu questo. I musulmani occuparono le proprietà degli sfollati serbi, i serbi quelle dei profughi musulmani, i croati quelle degli altri due gruppi nazionali e così via, fino a tornare all’inizio di questo balletto. All’epoca, però, la comunità internazionale puntò a imporre il rispetto di certi principi e delle leggi. Se qualche pezzo grosso occupava l’abitazione o il terreno altrui, gli si faceva capire che non poteva farlo e costui se ne andava. In Kosovo, invece, il messaggio che si sta dando è che la legge può essere violata». Il tema della cultura dell’impunità è stato toccato più e più volte, in questi anni. Puntualmente, in ogni occasione, s’è puntato l’indice contro la comunità internazionale e le sue due missioni civili: Unmik e Eulex. A trazione Onu la prima, dispiegata dall’Ue la seconda. Molti analisti hanno spiegato che i vertici delle due missioni, quando una vicenda un po’ losca vede indagato un alto esponente della classe dirigente di Pristina, evitano di andare fino in fondo a livello inquirente e giudicante (entrambe hanno competenze giudiziarie). «Questa difficoltà a confrontarsi con i poteri forti, nonché a scontrarcisi, quando questo si rende necessario, è un po’ una delle cartine di tornasole del Kosovo. Detto questo devo dire che noi di Further Support to Refugees and Idps in Serbia abbiamo avuto un’esperienza il più delle volte positiva, quando abbiamo sollevato dei casi presso i giudici di Eulex, proprio perché ci si appella alla loro competenza professionale», rimarca Moratti, ricordando una storia di successo, riguardante però non un terreno, ma un’abitazione. «Una signora scappò da Prizren nel 1999, lasciando la palazzina di cui era proprietaria. Che ancora, tuttavia, doveva essere completata. Era stato realizzato, all’epoca, solo il primo piano. Ebbene, un albanese ha occupato l’edificio e sopra il primo piano ce ne ha costruiti altri cinque, affittando i lotti persino a dipendenti delle amministrazioni internazionali. Abbiamo chiesto a Eulex di prendere in mano il caso e la 65 | novembre 2012 | narcomafie decisione è stata quella di rimuovere i piani costruiti durante l’assenza della legittima titolare dell’edificio, malgrado l’occupante abbia sollevato un polverone e minacciato a destra e manca, dimostrando appunto questa tendenza a sentirsi al di sopra della legge». Ma questa è una delle storie positive. Ce ne sono tante altre che vedono come potenziali protagonisti personaggi di spessore del sistema politico-economico del Kosovo. In queste occasioni la giustizia non fa completamente il suo corso, volendo essere eufemistici. Non solo: c’è sempre stato un problema di identificabilità dei soggetti nei confronti dei quali fare causa. «Molti Idps che hanno perso la casa perché questa è stata occupata o distrutta hanno citato in giudizio Kfor (le forze di peacekeeping a guida Nato) o Unmik o le allora autorità di fatto, sotto stretto controllo dell’Uck (Esercito di liberazione del Kosovo)», la guerriglia albanese che imbracciò le armi contro Belgrado e che da più parti viene accusata di avere sovrapposto lotta armata e traffici criminali. Molti degli ex guerriglieri sono oggi esponenti della classe dirigente del paese. «I tribunali – così chiosa Moratti – non hanno quasi mai accolto i loro ricorsi, spiegando che il personale di Kfor e Unmik è coperto da immunità diplomatica, mentre le autorità di fatto, sebbene avessero una struttura tale da configurarle come un soggetto politico-militare pienamente identificabile, vengono considerate dalle toghe come un’entità non legalmente costituita. La causa, così, non parte. Chi l’ha attivata è costretto a pagare le spese: quattrocento, cinquecento euro. Non pochi soldi, se comparati al tenore di vita di queste persone. La beffa è che non solo queste persone non vengono compensate per la perdita delle loro proprietà, ma vengono anche di fatto “multate” per averci provato. E ce ne sono circa 18.000 di questi casi». La strana morte di Dino Asanaj. L’hanno trovato morto, nella sua abitazione di Pristina, il 14 giugno scorso. Sulle prime s’è parlato di omicidio. Poi l’autopsia ha rivelato che Dino Asanaj, dal 2008 capo dell’Agenzia governativa per le privatizzazioni (Pak), si sarebbe suicidato. Il suo corpo era sfregiato da una dozzina di ferite da coltello da cucina che, sanguinando lentamente ma inesorabilmente, avrebbero portato al decesso. Eppure questa versione è stata messa in dubbio dal governo di Pristina, il quale, volendo vederci più chiaro, ha chiesto l’aiuto degli esperti dell’Fbi. Aiuto accordato. Dino Asanaj, d’altronde, era anche cittadino americano. Negli Stati Uniti aveva vissuto per vent’anni e aveva tra l’altro prestato servizio, al tempo della guerra in Kosovo, come rappresentante e portavoce della causa dell’Uck. Le indagini degli americani, mentre «Narcomafie» va in tipografia, non sono ancora terminate. Il caso Asanaj tiene banco. Il fatto è che la morte del funzionario governativo, ex consigliere di Hashim Thaci e regista dell’International Village, esclusivo complesso di villette alle porte di Pristina dove risiedono diplomatici, imprenditori e politici, presenta un’infinità di ombre. Troppe. Asanaj era finito sott’inchiesta all’inizio dell’anno. Su di lui gravava il sospetto di corruzione. Secondo gli inquirenti avrebbe chiesto quattro milioni di euro all’imprenditore Remzi Ejupi, che detiene il 20% delle quote azionarie del Grand Hotel di Pristina, il più famoso albergo della capitale kosovara. La tesi dei responsabili dell’indagine, si deduce da un articolo pubbli- cato dal sito «SE Times» (www. setimes.com), dedicato all’area balcanica, è che quei quattro milioni avrebbero costituito una sorta di condizione per non intervenire sugli affari del Grand Hotel, privatizzato nel 2006 e oggetto di tanti interessi, tra cui quello del tycoon e politico Behgjet Pacolli. La struttura che Asanaj dirigeva può, secondo la legge kosovara e secondo quanto riferito sempre dal «SE Times», congelare le attività di aziende che hanno partecipato a processi di privatizzazione, se queste non rispettano i parametri fissati (posti di lavoro creati, investimento complessivo e via dicendo). Remzi Ejupi, nel momento in cui la notizia dell’inchiesta a carico di Asanaj è divenuta di dominio pubblico, dopo un articolo del giornale «Koha Ditore» pubblicato a inizio giugno, ha confermato che l’ex direttore dell’Agenzia per le privatizzazioni lo avrebbe ricattato chiedendogli l’ingente somma. Asanaj, da parte sua, ha negato. Pochi giorni dopo è stato trovato senza vita, in casa sua. Accanto al cadavere è stata rinvenuta una lettera, con calligrafia a lui attribuibile, secondo i periti. C’erano scritte queste parole: «Remzi Ejupi, il giornale «Zeri» e Abdurrahman Konjufca hanno rovinato la mia vita e quindi ho deciso di applicare la legge agendo in questo modo». Per la cronaca, il giornale «Zeri» appartiene a Ejupi e Abdurrahman Konjufca è un imprenditore che ha rilevato un impianto industriale situato a Lipjan e deputato alla produzione di carne di pollo. La lettera è criptica. Non fa che alimentare le già numerose domande che questa storia ha sollevato. Ejupi era per caso pronto a lanciare una campagna stampa contro Asanaj? Quale sarebbe il ruolo di Abdurrahman Konjufca? Considerati gli interessi di Asanaj e di Ejupi nel mattone, è possibile intravedere sullo sfondo una lotta per l’accaparramento delle risorse edilizie del Kosovo? Che significa «applicare la legge agendo in questo modo»? Forse è la prova del suicidio? Perché, allora, il governo del Kosovo ha chiesto all’Fbi di fare luce sulle cause della morte di Asanaj, dimostrando di non fidarsi dei medici legali kosovari? Questo caso può fare luce su quello che dai più è ritenuto il grande guazzabuglio delle privatizzazioni? Le indagini non hanno portato a risultati e non è possibile formulare risposte. I kosovari, che reclamano sempre più insistentemente verità, dovranno aspettare. Sperando che anche stavolta non arrivi la solita fumata nera. Intanto, la classe politica s’è spaccata. Il presidente del Parlamento, Jakup Krasniqi, fedelissimo di Thaci, ha proposto di congelare, finché non si sarà fatta la verità sul caso Asanaj e sulle altre vicende di corruzione, i processi con cui lo stato sta dismettendo le ultime quote pubbliche nel Grand Hotel, nelle miniere di Trepca e in Post-Telecom (dove potrebbe entrare l’ex segretario di Stato americano Madeleine Albright). Altri politici si sono opposti fermamente all’iniziativa di Krasniqi, dicendo che il meccanismo della privatizzazione è ormai in moto e non ha senso fermarlo. 2014, via da Pristina. Quindici giugno 2014. È il giorno in cui Eulex sbaraccherà definitivamente, lasciando il Kosovo. La decisione, arrivata lo scorso 66 | novembre 2012 | narcomafie La smobilitazione da parte di Eulex è la logica conseguenza della scelta di conferire al Kosovo la piena sovranità agosto, è il frutto di un negoziato tra le autorità di Pristina e Catherine Ashton, responsabile della politica estera dell’Unione Europea. La smobilitazione da parte di Eulex sarà progressiva. Sono state stabilite le tre diverse fasi – settembre 2012-marzo 2013; marzo-settembre 2013; settembre 2013-giugno 2014 –, durante le quali la missione verrà diluita e il governo kosovaro prenderà possesso della piena titolarità di funzioni che, fino a oggi, sono rimaste nel portafoglio di Eulex. Tutto questo è la logica conseguenza della scelta di conferire al Kosovo la piena sovranità, intrapresa il 2 luglio dall’International Steering Group (Isg) for Kosovo, drappello di 25 Stati che ha monitorato l’andamento delle cose a Pristina e dintorni, dall’indipendenza a oggi. In altri termini, la seduta dell’Isg ha stabilito che è venuto il momento di porre fine al principio di “sovranità controllata” (secondo qualcuno è una versione edulcorata del concetto di protettorato) finora rimasto in vigore sulla base del piano Ahtisaari, la road map che ha scortato il Kosovo nell’epoca post indipendenza. La domanda a questo punto è con tutta l’instabilità che c’è in Kosovo è proprio necessario togliere le tende adesso? Il paese non ha compiuto progressi così notevoli. Anzi. La corruzione è all’ordine del giorno. Gli affari criminali non segnano battute d’arresto. Ci sono in corso inchieste importanti, che toccano personaggi di primo piano. Forse a Bruxelles pensano che il Kosovo è diventato ormai una causa persa e che quindi tanto vale andarsene? Si spera di no, ovviamente. Mitrovica, nulla è cambiato Mitrovica, il punto più sensibile del paese e forse di tutta la penisola balcanica. Una città divisa, spaccata come una mela. Una città divisa e fortemente infiltrata dalla criminalità, tanto serba quanto albanese. Era così prima dell’indipendenza, va così oggi. Con l’aggravante che le mafie non risentono dei dissapori politici tra le due etnie, ma cooperano senza porsi grossi problemi. Gli scontri del luglio 2011 lungo il confine e la situazione ingarbugliata che permane anche adesso lungo le frontiere lo dimostrano. Tutto è cominciato dopo che il gover governo di Pristina, l’estate scorsa, inviò unità speciali di polizia alle dogane del nord, ufficialmente allo scopo di imporre il rispetto dell’embargo sui prodotti serbi stabilito dal governo kosovaro e aggirato grazie all’indulgenza dei funzionari serbi (sono loro a controllare i varchi). In realtà l’intento, secondo gli analisti, era quello di prendere il controllo delle frontiere. La reazione della minoranza serba, comunque, lo impedì. Furono erette barricate (alcune sono ancora lì a sbarrare la strada) e ingaggiati scontri con la polizia kosovare e le forze Kfor, il contingente internazionale di peacekeeping. A scatenare l’indignazione serba fu il risentimento storico nei confronti di Pristina e il rifiuto di farsi integrare, che significherebbe anche la perdita dei notevoli vantaggi economici (a partire dagli stipendi più alti) offerti da Belgrado. Ma avrebbe giocato un ruolo anche Zvonko Veselinovic, presunto mafioso locale. Sarebbe stato lui, secondo Kfor e i magistrati internazionali che operano in Kosovo, a mobilitare i connazionali, in quanto l’embargo imposto da Pristina danneggerebbe i suoi affari, principalmente legati al contrabbando di carburante. Veselinovic, secondo diplomatici, giudici internazionali e polizia kosovara, ha fatto soldi a palate importando benzina dalla Serbia senza pagare dazi e rivendendola a prezzo scontato in Kosovo. La sua fortuna la deve alla situazione fluida alle frontiere e al fatto che esse sono controllate dalle autorità serbo-kosovare, con cui l’uomo avrebbe ottimi agganci. Il tentativo di applicare regole chiare ai valichi doganali tra Kosovo e Serbia, così, avrebbe messo in discussione tutto il suo patrimonio, secondo quanto riportato l’ottobre scorso dal «New York Times». Da qui l’impegno a sostenere la causa serba, pagando addirittura la gente affinché andasse a respingere le incursioni della polizia kosovara e a rendere inapplicabile l’embargo sui beni importati dalla Ser Serbia, per giunta dando filo da torcere alle forze Kfor, che hanno cercato più volte di rimuovere le barricate. Senza successo. In una di queste occasioni sono stati feriti cinquanta militari del contingente. Il comando Kfor ritiene che dietro l’attacco ci sia proprio Veselinovic, con la sua grana. Tre sono le ultime notizie che lo riguardano. La prima è l’arresto, avvenuto a dicembre in Serbia, con l’accusa di produzione e trasporto di armi e materiali esplosivi. Nell’occasione è stato ammanettato pure il fratello Zarko. La seconda, del 22 maggio, è la per perquisizione della sua abitazione di Doljane, abitato non distante da Mitrovica. I residenti, che lo considerano un benefattore, hanno protestato vivamente e cercato di impedire che i poliziotti inquadranti in Eulex (la missione civile europea in Kosovo) svolgessero l’operazione. La terza non riguarda Veselinovic personalmente, ma i suoi presunti soci in affari albanesi, a conferma del fatto che il crimine trascende le questioni etniche e le relative inimicizie. Tre di loro, a giugno, sono stati messi agli arresti domiciliari. Altre tre hanno scontato trenta giorni di reclusione. Tra costoro figura Mentor Beqiri, già citato nell’articolo del «New York Times» e ritenuto il principale contatto di Veselinovic, con cui avrebbe creato una catena di stazioni di benzina dove rivendere il carburante importato illegalmente dalla Serbia. Beqiri era già stato arrestato nel 2006, nel 2007 e nel 2009. Ogni volta con l’accusa di evasione fiscale e ogni volta rilasciato in assenza di prove. 67 | novembre 2012 | narcomafie Il mercato degli allucinogeni sintetici Tulipani, cavalli e cuori: droghe d’autore Rappresentano un mercato florido e sempre più appetibile per la criminalità organizzata. Difficile catalogarle: la variazione molecolare della loro struttura chimica rende infatti le “designer drugs” estremamente mutevoli. E ora si cerca di correre ai ripari di Piero Innocenti 68 | novembre 2012 | narcomafie Tra il 2009 e il 2010 sono state inserite nelle “tabelle” allegate alla legge sugli stupefacenti molte sostanze, ma è solo da poco più di un anno che si registra una maggiore attenzione alle droghe di origine sintetica I sequestri avvenuti lo scorso ottobre a Milano e Roma, rispettivamente di tre litri di cloridrato di metamfetamina con circa 300 grammi della stessa sostanza in cristalli e di un paio di chilogrammi di amfetamine (quantitativi di tutto rilievo), hanno fatto riaccendere i riflettori sul traffico delle droghe prodotte in laboratorio. Dando uno sguardo ai dati statistici degli ultimi anni (Direzione centrale per i servizi antidroga del Dipartimento della Pubblica sicurezza), sebbene in Italia, sino ad oggi, non sia mai stato individuato un laboratorio in cui tali droghe vengono “disegnate”, lo spaccio è decisamente fiorente. Molecole di ultima generazione. Se i sequestri di stupefacenti, in generale, rappresentano, ai fini di un’analisi strategica, un importante indicatore della tendenza del consumo quando si prenda in esame un’adeguata serie temporale, sembrerebbe che negli ultimi anni il mercato degli allucinogeni sintetici sia sostanzialmente stabile e appetibile per la criminalità. Dal gennaio 2008 all’ottobre 2012, il contrasto al traffico di droghe sintetiche svolto dalle forze di polizia ha portato alla denuncia alle procure della Repubblica di 1.677 persone, di cui 1.227 in stato di arresto. Consistente il quantitativo globale di amfetamine e metamfetamine intercettato: oltre 200 kg e più di 230mila pasticche. Solo in questi primi nove mesi, 18.927 le dosi/ compresse sequestrate (nel 2011 furono 16.573) e poco più di 38 kg di amfetamine (39 kg nel 2011, con i sequestri più rilevanti in Lombardia con 16,8 kg, seguita dal Lazio con 15 kg e dall’Emilia Romagna con 2,71 kg). Limitatamente al 2012, le persone denunciate sono state 330 di cui 270 arrestate in flagranza di spaccio. Dal gennaio 2000 ad ottobre 2012 sono state tolte dal mercato illecito ben 3.066.308 pasticche di amfetamine, con il picco dei sequestri nel 2000 (579.349 compresse). Atteso che la repressione nel settore del nar narcotraffico, per quanto sia innegabile e lodevole l’impegno della forze di sicurezza, comporta una percentuale piuttosto bassa dei sequestri (si stima dell’ordine del 15-20%) rispetto al volume totale di droghe immesso sui mercati, se ne deve dedurre che il mercato delle “designer drugs” (o “droghe d’autore”) è ancora piuttosto florido. Oltretutto il profilo “tabellare” di tali sostanze è oggetto di continui aggiornamenti (attraverso il Sistema nazionale di allerta precoce attivato presso il Dipartimento politiche antidroga della presidenza del Consiglio dei ministri), in conseguenza delle ricorrenti rilevazioni della presenza sul mercato illecito di nuove molecole di sintesi che presentano varianti, anche modeste, rispetto alla struttura chimica di quelle già note. Tra il 2009 e il 2010 sono state inserite nelle “tabelle” allegate alla legge sugli stupefacenti molte sostanze, ma è solo da poco più di un anno che si è registrata una maggiore attenzione alle droghe di origine sintetica. Sono, infatti, dell’11 maggio e del 29 dicembre 2011 i due decreti del ministero della Salute che hanno proibito il gruppo dei cannabinoidi sintetici del gruppo Jwh (dal nome dell’inventore, il chimico John W. Huffmann) e di altre sostanze di “ultima generazione” quali il “butilone” e l’AM-694. Fonti qualificate sanitarie riferiscono che ogni molecola ad effetto stupefacente può essere sintetizzata in centinaia di intermedi di reazione. In relazione a questa “elasticità” del prodotto, il cui dosaggio e la stessa composizione chimica sono ampiamente variabili, il riconoscimento della durata e della tipologia degli effetti sono effettuati dallo stesso compratore in modo semplice, attraverso i simboli, i caratteristici logo impressi sulle pasticche (ad es.il quadrifoglio, il tulipano, il cavallo, il cammello, il dollaro, il cuore e moltissimi altri). Il bacino di utenza è quello giovane, di età scolare, il cui modello di consumo presenta le caratteristiche della occasionalità e instabilità. Il Sud non apprezza? C’è, poi, una evidente differenziazione del livello di consumo per area geografica da cui risulta che il Centro-Sud è meno interessato al fenomeno e ciò, probabilmente, in relazione a fattori ambientali, di tipo culturale, ma anche alla maggiore offerta, a livello locale, di altre sostanze, quali la cannabis e i suoi derivati. In effetti, con riferimento al periodo 2009/2011 e ai primi nove mesi del 2012, si rileva che, mentre in Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte i sequestri di pasticche di amfetamine sono stati dell’ordine di diverse migliaia e di alcune decine di chilogrammi di sostanza in polvere, nel Sud Italia i quantitativi intercettati sono davvero modesti: in Calabria solo 8 pasticche e 10 grammi in polvere; in Basilicata 101 compresse; in Molise 39 compresse e 100 grammi in polvere; in Puglia 313 pasticche e 260 grammi in polvere; in Abruzzo 10 grammi in polvere. 69 | novembre 2012 | narcomafie colpito quest’estate anche la repubblica del Tatarstan, un tempo modello di pacifica convivenza tra musulmani e cristiani. Sembra così prendere forma il disegno eversivo di Umarov, che l’anno scorso incitava i suoi mujaheddin a spingersi a nord sino alla regione del Volga per portarvi la jihad. Il presidente russo Putin ha sempre temuto un possibile “effetto domino”. Già nel 2000 era convinto che, se il Daghestan fosse stato travolto dall’estremismo, tutto il Caucaso del Nord avrebbe rischiato la separazione dalla federazione (peraltro auspicata dalle istanze nazionalistiche assai diffuse tra la popolazione russa), gettando nell’instabilità persino territori lontani come il Tatarstan. Le attuali operazioni antiterrorismo vengono giustificate con l’esigenza di riportare ordine nella regione prima che vi si svolgano i giochi olimpici invernali del 2014 – a Sochi, sul Mar Nero, nella provincia di Krasnodar – ma la posta in gioco è assai più alta: la Russia non può permettersi di lasciare nell’instabilità il suo fronte meridionale. A sudovest del Caucaso settentrionale c’è la Georgia (ostile al governo di Mosca). E al di sotto di quest’ultima vi è la Turchia, e con essa l’area d’influenza dei Paesi Nato e delle forze militari Usa. Non va infine dimenticato che se riserve di petrolio – limitate ma di elevata qualità – sono presenti in Cecenia, è invece assai più ricca e promettente la quota russa estrattiva sul Mar Caspio, soprattutto grazie al Daghestan, che vi si affaccia con 400 chilometri di costa. criminalità e dintorni soprattutto grazie ad un vero e proprio esercito personale. Il salafismo armato, però, non è stato sradicato neppure qui: in agosto attentatori suicidi sono tornati a colpire a Grozny. Anche in Inguscezia si succedono attentati e controffensive delle forze di sicurezza. A fine luglio, nel paese di Galashky, tre ribelli, tra cui vi sarebbero stati i due fratelli e comandanti islamisti Avdorkhanov (uno di essi, Zaurbek, è stato un luogotenente di Doku Umarov, l’inafferrabile capo dei guerriglieri e sedicente “emiro” del Caucaso del Nord, forse nascosto appunto in Inguscezia) sarebbero rimasti vittime dell’esplosione accidentale dell’ordigno che stavano preparando. All’inizio di agosto, però, Kadyrov ha attribuito il merito dell’uccisione dei tre militanti alla polizia cecena, che avrebbe effettuato un’incursione a Galashky. La presunta operazione fuori giurisdizione ha acceso una rovente polemica tra Yunus-Bek Yevkurov, presidente inguscio, e Kadyrov, che lo ha accusato di non fare abbastanza per combattere il terrorismo, minacciandolo di rimettere in questione i confini con l’Inguscezia, al fine di salvaguar salvaguardare la Cecenia dalle incursioni ribelli. Attentati contro polizia e militari sono all’ordine del giorno anche in Cabardino-Balcaria, dove l’uccisione di un poliziotto, all’inizio di questo mese, a Baksan, ha scatenato massicce operazioni antiterrorismo. A quasi un migliaio di chilometri dalla regione caucasica, in direzione nordest, attentati attribuiti ad estremisti islamici salafiti hanno cronachesommerse Nel corso di un incontro gover governativo tenutosi a Mosca a metà ottobre, il presidente russo Vladimir Putin ha affermato che nei mesi precedenti, nel Caucaso del Nord, «479 banditi erano stati arrestati, 313 terroristi uccisi in battaglia, e tra essi 43 dei loro comandanti». Soltanto alcuni giorni dopo tale annuncio, il comitato nazionale antiterrorismo russo comunicava che nuove, massicce operazioni delle forze di sicurezza in Cecenia, Daghestan ed Inguscezia avevano portato all’uccisione di 49 ribelli e alla distruzione di 90 loro basi. Simili, trionfalistici proclami, volti a rassicurare l’opinione pubblica sul mantenimento dell’ordine nelle repubbliche nordcaucasiche, trasmettono piuttosto l’impressione che l’offensiva dei gruppi armati islamisti stia aumentando, e che una parte significativa del Caucaso del Nord stia sfuggendo al controllo delle autorità federali. In Daghestan, lo scorso mese, le truppe russe sono ricorse al supporto aereo, ai tiri d’artiglieria su zone boschive e all’utilizzo di veicoli corazzati per contrastare i ribelli. Già questa primavera 25 mila militari russi di stanza in Cecenia erano stati trasferiti nella vicina repubblica daghestana per combattervi le bande di guerriglieri. In questi territori aumentano anche i rapimenti (25 casi nel periodo gennaio-settembre 2012): la popolazione locale è convinta che buona parte di essi sia stata portata a termine da membri delle stesse forze di sicurezza. La vicina Cecenia è invece controllata con pugno di ferro dal presidente Ramzan Kadyrov di Andrea Giordano Sochi non può attendere 70 | novembre 2012 | narcomafie Napoli illegal tour Segnali di Guido Piccoli, foto di No Comment Non è né la prima e nemmeno l’unica offerta del genere. A Chicago, come a Medellín o a Palermo vengono proposte visite guidate nei luoghi dove vissero e agirono personaggi come Al Capone, Escobar, Riina e altri mafiosi. Gli scopi sono spesso diversi: si va dal fine sinceramente cronachistico o commemorativo a quello più banalmente commerciale. Di comune, ci sono quasi sempre le polemiche generate. E le polemiche sono infuriate anche a Napoli, dopo che l’associazione No Comment, che dal 1999 fa dell’immagine il suo principale veicolo informativo, ha invitato cittadini e istituzioni, compreso il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri, al “Naples illegal tour”, una passeggiata di un paio d’ore nel centro cittadino per prendere visione di quelli che sono definiti «i luoghi cult dell’illegalità diffusa e della disubbidienza incivile generalizzata». Qualche giornale ha bollato l’iniziativa come scandalistica, perché si porterebbero a spasso i turisti per farli «assistere addirittura a un crimine (dallo scippo alla sparatoria) senza intervenire», creando di fatto una specie di «lunapark criminale». Un lettore ha sostenuto che «sono finiti i tempi raccontati da Nanni Loy nel film Pacco, paccotto e contropaccotto ed è ora di smetterla con queste iniziative di finto folklore». Il responsabile del progetto sotto accusa, che si è dato il soprannome di Tony Laruspa, oltre a rigettare qualunque sospetto di lucro («le uniche persone che accompagniamo sono i volontari interessati al progetto di fotografia sociale, il tour turistico l’ha inventato la stampa, il corso è completamente gratuito»), sostiene che l’unico scopo dell’iniziativa è quello di far conoscere una realtà sotto gli occhi di tutti, ma dimen- 71 | novembre 2012 | narcomafie ticata e spesso negata da ogni autorità cittadina e nazionale. «È come se l’avessimo protocollata. D’ora in poi, nessuno potrà più dire di non sapere», spiega Tony Laruspa, ricordando che i territori sotto i riflettori, almeno per ora, non sono i palcoscenici privilegiati dalla cronaca nera che comprendono, ad esempio, Secondigliano e Scampia (che il libro e il film “Gomorra” hanno fatto conoscere nel mondo) e nemmeno i disastrati agglomerati orientali di S.Giovanni a Teduccio e Ponticelli, teatro di parecchi omicidi, ma anche di varie scorribande razziste e diversi episodi di barbarie sociale: tutti comunque tanto periferici e malfamati da essere considerati e da risultare “off-limits” non solo per qualunque straniero, ma anche per una gran parte dei napoletani. Ad essere prima visitate e poi, magari, raccontate per immagini e telegrafiche didascalie sono invece tre differenti piazze del centro storico che i turisti normalmente percorrono, in quanto vicine alla stazione ferroviaria o ad alcuni dei più famosi monumenti o chiese della città. Il cosiddetto “Illegal tour” è infatti collegato ad un’altra iniziativa di No Comment, un corso di “fotografia sociale” on the road (www. fotografiasociale.it ) iniziato nel 2006 e rivolto ai giovani residenti e anche agli studenti universitari con un duplice scopo: insegnare loro l’arte fotografica offrendo una possibilità occupazionale, ma anche contribuendo alla conservazione della memoria storica dei quartieri, attraverso le interviste con gli anziani o la testimo- nianza degli antichi mestieri in via d’estinzione. «È stato durante queste lezioni on the road che abbiamo notato la presenza, sempre più numerosa, di un particolare tipo di turisti: per lo più giovani, spesso soli o in coppia, comunque mai a gruppi, vestiti in maniera sobria, che per fotografare preferiscono usare molto discretamente i telefonini. Non sono affatto degli osservatori sprovveduti, anzi danno l’impressione di saper bene cosa vedere e come muoversi senza dare nell’occhio», dice Tony Laruspa. Secondo lui i “travellers of the reality” – qualche migliaio tra italiani e stranieri, soprattutto tedeschi e spagnoli – aumentano continuamente. «Tra le persone che abbiamo conosciuto quest’anno ci sono due studenti parigini di architettura, Joe Lawton, un fotografo di New York, una docente di lingue proveniente dalla Svizzera e due ragazze di San Pietroburgo. Anche il progetto di Illegal Tour è nato parlando con un’epistemologa svizzera», racconta Tony. Accusati di diffondere una cattiva immagine di Napoli o, peggio, di magnificare l’illegalità, quelli di No Comment sostengono di limitarsi a fare denunce circostanziate e documentate dell’inettitudine istituzionale, anche in tema ambientale. Ottenendo, talvolta, qualche risultato. Come ad esempio, la rimozione di animali in putrefazione e immondizia dalla vasca della Fontana del Formiello, gioiello architettonico risalente al 1573 di Porta Capuana, oppure lo smantellamento di un accampamento di clochard provenienti dall’Est europeo sorto sulle aiuole del Maschio Angioino, ad un centinaio di metri dal Palazzo San Giacomo, sede del municipio, e a poche decine di metri dalle banchine degli aliscafi e delle navi da crociera. Oppure, dopo anni, la collocazione di cestini dell’immondizia o la rimozione di alberi secchi e pericolanti, nel cuore del centro antico. Spesso, le denunce si riducono a prese d’atto di un crimine non solo impunito, ma anche presumibilmente ignorato dalle autorità, come la distruzione, ad opera dei vandali, delle teste della cosiddetta Fontana di Masaniello, nel bel mezzo di piazza Mercato, oppure l’aggressione quotidiana, ad opera di baby gang, delle badanti provenienti dall’Est europeo che si ritrovano soprattutto in piazza Enrico De Nicola, o dello stato di abbandono di giardini e luoghi di interesse storico. «Chi ci critica interpreta la sofferenza civile della denuncia con lo scandalismo fine a se stesso», dicono quelli di No Comment, decisi a continuare nonostante gli scarsi risultati delle loro denunce. Portano ad esempio piazza Mancini, di fronte alla stazione Centrale, storico luogo di partenza di quasi tutti i cortei cittadini, all’ombra della statua di Garibaldi, consumata dalla ruggine e dagli escrementi dei piccioni, ripulita in occasione dei 150 anni dell’unità d’Italia. Un paio d’anni fa, la giunta diretta da Rosa Russo Jervolino fece sgomberare lo storico mercatino che l’occupava in gran parte, superando una strenua resistenza dei commercianti, per lo più abusivi, per fare spazio ad un parcheggio. Adesso la piazza è subappaltata da coloro che governano il territorio (clan e sottoclan camorristici) per lo più a maghrebini che vendono merce contraffatta, dando vita al rituale quotidiano di ripiegamenti e riconquiste degli spazi con le squadre di polizia municipale. Quindi, Segnali 72 | novembre 2012 | narcomafie dove c’era un mercato, più o meno stabile sebbene in parte illegale, adesso c’è un caos più apparente che reale, in quanto asservito alle granitiche leggi della camorra. Come in altre zone considerate dall’Illegal tour, c’è un’assegnazione precisa degli spazi. Da una parte le bancarelle vere e proprie, da un’altra lo spazio dove agiscono i cosiddetti “paccottari”, impegnati a rifilare agli ingenui di turno, con la tecnica dello scambio delle buste dopo un finto allarme riguardo l’arrivo delle “guardie”, dalle finte stecche di sigarette a improbabili cellulari e tablet. E ancora, i tavolini dove una squadra formata da almeno una mezza dozzina di persone truffa l’isolato sprovveduto con il gioco delle tre carte e magari lo spazio per qualche prostituta diurna. Isole d’illegalità dove sono tollerati furti con destrezza (spesso con l’utilizzo di lunghe pinze chirurgiche), ma non scippi o rapine che danneggerebbero il commercio. Paragonata alla perfetta organizzazione criminale risulta imbarazzante l’assenza o la manifesta incapacità delle au- torità. «Per dimostrarlo, basti questo dato: la domenica successiva alla notizia dei nostri tour, controllando uno dei luoghi prescelti, il Borgo San Antonio, detto O’ Buvero, abbiamo notato che invece le bancarelle utilizzate per la vendita delle sigarette di contrabbando fossero passate da 23 a 33. Un terzo in più», dice Tony, che ricorda come sia difficile spiegare, soprattutto agli stranieri, le ragioni dell’inerzia istituzionale, oltretutto nel capoluogo di una regione che, negli ultimi 25 anni, ha dato i natali a ben sei ministri degli Interni su quattordici. È quindi legittima la domanda formulata nel foglio che promuove l’Illegal Tour: «È soltanto la cronica inefficienza dei governi locali o sotto sotto c’è una misteriosa ragion di Stato?». La risposta non è facile. Secondo quelli di No Comment all’origine c’è l’impotenza delle istituzioni che, non avendo nient’altro da offrire in termine di occupazione, appaltano l’amministrazione del territorio, al di là dei fiumi di retorica, a chi dimostra di poterlo e saperlo controllare, cioè alla malavita. «Ci sareb- bero altre strade, ma richiederebbero progetti per il lavoro, investimenti per la riqualificazione dei quartieri e comunque sarebbero successivi al riconoscimento della realtà per quella che è, senza fronzoli, decorazioni o omissioni. Quello che vediamo è tutt’altro: invece di mettere le basi per una trasformazione della realtà, si fa di tutto per nasconderla o per camuffarla con la politica dei Grandi Eventi (dall’America’s Cup alla Coppa Davis per non parlare dei vari Forum internazionali), che possono al massimo affascinare per un breve lasso di tempo, proprio come un arcobaleno, la città lasciandola comunque tristemente immutata. Il vero grande evento per gli ostaggi della Malanapoli sarebbero vivibilità e una convivenza civile ordinaria. Insomma, la normalità», conclude Tony Laruspa. Non a caso, il prossimo progetto dell’associazione ha un titolo che è tutto un programma, “Il senso del senso civico”. Soprattutto a Napoli, la speranza continua a rivelarsi l’ultima a morire. 75 | novembre 2012 | narcomafie Riciclaggio, sorridono le mafie di Emilio Fabio Torsello Di riciclaggio si parla spesso, ma quasi mai si entra nello specifico del reato: come avviene, quali vantaggi apporta alla criminalità organizzata e come lo si può contrastare. Per capire che cosa si intenda per “riciclaggio” e quali siano gli strumenti per contrastarlo, Giuffré editore ha pubblicato un volume monografico dal titolo Il riciclaggio del denaro, a cura dell’avvocato Ermanno Cappa e del professor Luigi Domenico Cerqua, presidente di Sezione della Corte d’Appello di Milano. Tra gli autori anche l’ex Procuratore nazionale antimafia, Pierluigi Vigna (scomparso il 28 settembre 2012, ndr), e l’avvocato Giorgio Ambrosoli. È proprio Vigna a fare il punto sul reato e sui modi con cui le mafie riciclano denaro, spesso con la compiacenza di imprenditori taglieggiati. Secondo l’ex procuratore, infatti, il reato del riciclaggio è andato ampliandosi negli anni. Dal vecchio contrabbando di tabacco lavorato di quasi mezzo secolo fa, si è passati al traffico di stupefacenti, di armi, di rifiuti, oltre ai proventi delle estorsioni, di tangenti e usura, del traffico di esseri umani. Un fiume di denaro immesso e “ripulito” nell’economia legale, pari al 10% del Pil italiano. Basti pensare che il fatturato delle organizzazioni criminali nostrane si aggira tra i 180 e i 200 miliardi di euro l’anno, «buona parte dei quali – scrive Vigna – destinata ad essere investita nell’economia legale è oggetto di riciclaggio». Il riciclaggio, inoltre, è transnazionale e segue le merci: tabacchi, stupefacenti, armi, rifiuti, prodotti contraffatti. Anche le mafie sono ormai globalizzate. A una tale pervasività mondiale – sottolinea Vigna – non corrisponde un’altrettanta omogeneità sul fronte legislativo: ogni paese fa a modo suo e ci sono Stati in cui le leggi vengono fatte applicare, altri in cui invece si chiude un occhio. Le banconote di grosso taglio. «Dalle elaborazioni effettuate sui dati pubblicati dalla Banca Centrale Europea nel 2009 – ricorda l’ex Procuratore – è emerso che le banconote da 500 euro rappresentavano, in valore, il 35% della circolazione di euro, con una domanda in forte crescita fin dal 2002, anno in cui fu introdotta la nostra divisa. In ambito nazionale, l’analisi della distribuzione territoriale della domanda di banconote da 500 euro delle banche presso le filiali della Banca d’Italia mostra una significativa concentrazione in alcune province limitrofe a Paesi a legislazione fiscale e antiriciclaggio non stringenti». Si tratta di una richiesta generalizzata: secondo quanto emerso dall’Agenzia inglese sul crimine organizzato, nel Regno Unito il 50% della domanda di banconote da 500 euro verrebbe da organizzazioni criminali. Nascondere le banconote di grosso calibro per portarle all’estero è facile. Basta un pacchetto di sigarette: arrotolate, possono entrarci pezzi da 500 euro per un valore complessivo di 20mila euro. Una valigetta, invece, può arrivare a nascondere anche sei milioni di euro. Dai 31 miliardi del 2002, le banconote da 500 euro sono passate «all’odierno ammontare di 284 miliardi», precisa Vigna. Gli effetti sull’economia legale. Tra i principali effetti del fenomeno del riciclaggio, la distorsione dell’economia legale e la creazione di monopoli e oligopoli. I principali settori in cui vengono reinvestiti i proventi frutto di operazioni illecite sono l’edilizia, il commercio, gli appalti pubblici, l’abbigliamento, il mercato alimentare, l’industria dello svago e del lusso, il turismo e la ristorazione, le strutture sanitarie e lo smaltimento (legale) dei rifiuti. L’impresa mafiosa. Alla base del riciclaggio “inserito” nell’economia legale, l’impresa mafiosa. Nel primo dopoguerra si trattava di aziende guidate da criminali che si imponevano sul mercato con lo “stile” proprio delle mafie. Una situazione facilmente individuabile che non avrebbe però potuto reggere a lungo, grazie anche alla legge sulla confisca Ermanno Cappa, Luigi Domenico Cerqua (a cura di) Il riciclaggio del Denaro Giuffré Editore pagine 392 euro 46,00 76 | novembre 2012 | narcomafie dei beni. Si è così sviluppata la seconda tipologia di impresa mafiosa, dove la criminalità non gestisce direttamente né ha la titolarità formale dell’azienda ma “si limita” a esercitare per via mediata la sua influenza. In questo secondo caso tutto è in apparenza pulito. Una terza tipologia di impresa funzionale al riciclaggio, invece, è quella “a partecipazione mafiosa” e alla quale – scrive Vigna – si riferisce la descrizione dell’ associazione di tipo mafioso quando il Legislatore individua, tra le altre sue finalità, quella di «acquistare in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche». In quest’ultima tipologia di impresa «il titolare formale – spiega Vigna – non è un prestanome, ma rappresenta anche i propri interessi. L’esponente mafioso può associarsi a un altro imprenditore attraverso l’interposizione di un prestanome oppure in modo diretto, ma non formalizzato, costituendo una società di fatto. In entrambi i casi la presenza degli interessi mafiosi resta celata all’esterno. La relazione societaria si fonda sulla parola, senza alcun documento che attesti il rapporto di compartecipazione del mafioso all’impresa […] alla forza del documento si sostituisce quella della mafia». Rapporti mafia-impresa. Diversi, secondo alcune analisi convalidate dalle risultanze di indagine, sono poi i rapporti che nascono tra le diverse imprese e le mafie. Il primo è di concorrenza, con l’impresa legale che subisce la concorrenza dell’azienda criminale: «Questo rapporto – scrive Vigna – si concretizza ad esempio in una autolimitazione rispetto a possibili progetti di investimento che lo stesso imprenditore legale si impone per non turbare equilibri mafiosi o per non esporsi a possibili appetiti del gruppo criminale». Il secondo rapporto è di “protezione-estorsione”, altrimenti noto come “pizzo”. C’è poi il rapporto di convivenza: ad esempio, non si partecipa a gare di appalti pubblici. Il terzo rapporto è di scambio: ferma restando l’autonomia delle due imprese, avvengono reciproci scambi di favori. Il quarto rapporto è di “collaborazione associativa”: l’impresa legale subappalta lavori all’impresa mafiosa. Clamoroso il caso della Parmalat che prima del “crac”aveva affidato la distribuzione dei propri prodotti nel casertano a clan dei Casalesi. L’ultimo rapporto è di “compartecipazione”: si tratta dell’impresa a partecipazione mafiosa. Su tutte queste tipologie, grava come un macigno l’enorme disponibilità economica di denaro in capo alle imprese mafiose. Se infatti nell’economia legale i ru- Nessuno può abbassare la guardia La situazione italiana sul fronte della legislazione antiriciclaggio come si pone nel panorama internazionale? La legislazione speciale italiana non ha nulla da invidiare alle altre legislazioni, europee ed extra-europee. Anzi, la prima legge antiriciclaggio italiana risale al 1991 (legge n. 197-1991), precisamente nel luglio ‘91 e, trattandosi di legge di conversione di un decreto risalente a maggio 1991, prese vigore, appunto, dal mese di maggio di quell’anno. Orbene, la prima direttiva comunitaria antiriciclaggio (91/308/Cee) fu emanata a giugno 1991 e, pertanto, risulta evidente che la prima legge italiana è precedente alla prima direttiva comunitaria in argomento. L’impianto generale della legge (oggi, il decreto legislativo n. 231 del 2007, di recepimento della 3 ˆ direttiva comunitaria 2005/60/Cee) è conforme ai migliori standard internazionali ed offre talune punte avanzate: ad esempio nella definizione molto ampia di riciclaggio stabilita all’art. 2. Certo la legge da sola non basta: sono gli uomini che la applicano, che fanno la differenza. D’altra parte, vi sono nazioni “chiacchierate”, che malgrado la bassa reputazione (giusta o ingiusta che sia) dal punto di vista della prevenzione al riciclaggio, sono munite di leggi formalmente irreprensibili: si pensi alla Repubblica di San Marino, che, con buona pace per i detrattori, dispone da alcuni anni di una legge antiriciclaggio di tutto rispetto. Tornando all’Italia, va precisato che la disciplina del contrasto al riciclaggio è contenuta non soltanto nella relativa legge speciale (di cui si parla tanto), bensì anche nel Codice penale (artt. 648-bis e 648-ter). Qui le criticità non mancano e, da questo punto di vista, ci troviamo purtroppo in una posizione di retroguardia rispetto a molti altri paesi. In che termini? In base al Codice penale italiano, il riciclaggio si configura come reato che presuppone necessariamente la consumazione di un altro reato: prima commetto una rapina, poi devo ripulire questo denaro per renderlo spendibile e, quindi, lo riciclo: si tratta di due momenti differenti, che il Codice tratta in maniera nettamente separata. In pratica, chi commette la rapina (e chi concorre nella commissione di quest’ultima) non è punito per il riciclaggio del denaro rapinato, bensì soltanto per la rapina. È il cosiddetto “privilegio di auto-riciclaggio”, una incongruenza del nostro Codice criticata da più parti. Ancor più criticata se solo si consideri che talvolta il riciclaggio è punito più gravemente rispetto al reato presupposto, talché, colui il quale è preso con le mani nel sacco a riciclare, spesso, ha paradossalmente interesse ad autodenunciarsi quale autore o “concorrente” del reato-presupposto, per ottenere una riduzione di pena. Si tratta di un’incongruenza che penalizza non poco l’efficacia della repressione del riciclaggio. Varie sono le proposte di riforma del Codice penale finalizzate a recidere questa incongruenza. Spero che ciò avvenga presto. Le mafie riciclano ovunque perché il riciclaggio dei proventi dell’attività criminosa costituisce un elemento irrinunciabile di sopravvivenza: senza riciclaggio, le mafie non sarebbero in grado di spendere i quattrini e le utilità realizzate attraverso la propria attività criminale. Indubbiamente la mafie, forti di una “professionalità” sorprendente, utilizzano i canali maggiormente fluidi e per esse rassicuranti, ponendo in essere, spesso, operazioni transnazionali comportanti uno scarrozzare di quattrini fra vari Stati, allo scopo evidente di far perdere le tracce dei trasferimenti. Va da sé, inoltre, che posta la stretta connessione fra il riciclaggio del denaro e l’evasione fiscale, gli arcinoti “paradisi fiscali” costituiscono una meta, perlomeno di passaggio, pressoché obbligata. La normativa italiana di contrasto al riciclaggio: quali i punti deboli? La normativa antiriciclaggio italiana, come tutte le leggi, non è scevra di criticità. Tanto per citarne una 77 | novembre 2012 | narcomafie binetti del credito sono chiusi, le mafie possono attingere a bacini di denari praticamente sconfinati: alle aziende lontane dal panorama criminale, invece, in mancanza di una protezione da parte dello Stato, non restano molte possibilità di sopravvivenza. L’intermediario finanziario. Per arginare il fenomeno del riciclaggio, è stata di recente introdotta la responsabilità degli intermediari finanziari, chiamati a segnalare le operazioni sospette. «La norma in esame – scrive nel volume Umberto Ambrosoli – ha introdotto una prospettiva di portata fondamentale, trasformando l’intermediario da garante del cliente a controllore e sostanziale ausiliario della manciata, vale la pena di considerare, prima di tutto, che l’impianto generale della norma si fonda sostanzialmente sul principio della c.d. collaborazione attiva dei destinatari (banche, finanziarie, fiduciarie, Poste, professionisti etc.) chiamati, fra l’altro, a segnalare alla Uif, l’Unità di informazione finanziaria istituita presso la Banca d’Italia, le operazioni sospette di riciclaggio. È evidente che un sistema che faccia perno su un meccanismo di mero sospetto è di per se stesso debole: il sospetto è un fatto psicologico imperscrutabile, tanto che la legge, almeno in linea di principio, rivelandosi assolutamente “diabolica” la prova che il sospetto vi sia o non vi sia nella mente del soggetto tenuto alla segnalazione, non sanziona penalmente la mancata segnalazione di operazione “sospetta”, ma la sanziona soltanto in via amministrativa. Vi sono poi varie incongruenze di tipo tecnico, che riguardano la formulazione delle norme, spesso di difficile interpretazione, a scapito dell’efficacia delle stesse. Vi è altresì una certa asimmetria fra il dovere di collaborazione dei desti- Giustizia». E intervistato da «Narcomafie», Ambrosoli specifica: «Dimensione e complessità dei rapporti nell’ambito dei quali azioni di riciclaggio possono avere luogo, non deve stupire che lo Stato chieda aiuto a chi di quei rapporti, in piena fisiologia, è tipicamente artefice. L’affidare ai professionisti una parte di responsabilità nel contrasto al riciclaggio non è dunque altro che responsabilizzazione». Ma tra le possibili soluzioni per ostacolare il riciclaggio attraverso la tracciabilità, quella di far pagare anche cifre minime attraverso canali elettronici. Una via teorica che però, secondo Ambrosoli, ancora non è praticabile. «Il pagamento elettronico – spiega – ha dei costi che troppi utenti – anche potenziali – vivono come eccessivo, non sempre a torto. Certamente, intervenendo a riguardo, la politica potrebbe ottenere il risultato di meglio contrastare “il nero” (troppo radicato nelle abitudini del Paese, così come di altre economie)». Ad oggi contro il riciclaggio servono solo ed esclusivamente i controlli e le risorse per far applicare leggi e norme che pure esistono (vedi l’intervista box sotto, ndr.), ma che troppo spesso sono armi di un esercito povero di uomini e mezzi. Per tacer delle mafie che continuano a “ripulire” denaro e capitali frutto di operazioni illecite. Per la criminalità la crisi economica è solo un’occasione. natari delle norme e l’attività delle autorità inquirenti e di polizia, attività quasi sempre coperta dal segreto. Vi è infine un certo abbandono degli operatori i quali, ad esempio, dopo avere segnalato come sospetto un cliente, faticano ad operare con lui, o a chiudere il rapporto, in assenza di istruzioni precise da parte degli inquirenti. Insomma, la legge è perfettibile; tuttavia è necessaria e irrinunciabile. fia, con un fatturato di 150 miliardi di euro la “holding del riciclaggio” è la prima azienda del Paese, davanti – ad esempio – a un colosso come Eni. Con ciò, non credo – non voglio credere – che la criminalità organizzata si sia impossessata dell’impresa Italiana. Certo è che, con la forza finanziaria perversa di cui dispone, dobbiamo considerare l’impresa criminale come il più temibile competitor dell’impresa legale e quindi, in ultima analisi, come il peggior nemico dell’economia legale. Nessuno può abbassare la guardia. Quanto, mediante il riciclaggio, la criminalità organizzata è ormai entrata nel sistema legale? Temo vi sia già entrata in maniera consistente. La criminalità organizzata ricicla a più non posso: varie sono le stime in circolazione e secondo le più accreditate (Banca d’Italia, Procura antimafia) ogni giorno, soltanto in Italia, vengono riciclati 400 milioni di euro: una “industria” che rappresenta il 10% del Pil. Le segnalazioni di operazioni sospette di cui si è detto, peraltro, sono indubbiamente uno strumento utile (oltreché necessario) e danno luogo ogni anno ad investigazioni, processi e condanne non da poco. Secondo il Procuratore Antima- Nuove forme di riciclaggio: Money Transfer e Compro Oro. Due piani diversi per diverse entità di denaro riciclato? Sì, i due piani sono diversi, ma lo sono soltanto dal punto di vista delle singole strutture organizzative e delle singole quantità relative alle operazioni svolte. Al di là di ciò, credo che il riciclaggio vada considerato unitariamente come un fenomeno di inquinamento degli affari, dell’economia, della democrazia e della civiltà, da contrastare senza cedimenti. 78 | novembre 2012 | narcomafie “La Battaglia contro la mafia” Una, Letizia, è una delle più apprezzate fotografe a livello internazionale. Negli anni in cui la mafia ha insanguinato la Sicilia, era sempre in prima linea, immortalando momenti drammatici e cruenti della storia italiana contemporacontempora nea, dagli anni di piombo ai giorni nostri. L’altra, Michela, è una giovane professionista SHARE le segnalazioni del mese a cura di Marika Demaria raccolta fotografica del settore della fotografia. Entrambe palermitane. Con lo stesso cognome: Battaglia. I loro lavori, rispettivamente “Il dolore della battaglia” e “Topografia della memoria”, raccontano luoghi, nomi e volti di una Palermo, di una Sicilia degli anni 80 e 90. Un prezioso cofanetto il cui contenuto, ha nei mesi scorsi dato vita anche a una mostra fotografica. Due i volumi racchiusi all’interno del cofanetto: all’interno della prima pubblicazione ritroviamo gli scatti più belli della fotoreporter palermitana, mentre nella seconda i luoghi degli eccidi, della Palermo degli anni 80 e 90, sono descritti con dovizia di particolari. Letizia Battaglia e Michela Battaglia, “Storie di mafia” Postcart Edizioni, 2012 raccolta iconografica Museo della ‘ndrangheta, il libro Più di 400 pagine per raccontare, in maniera documentata, con scritti e fotografie, l’ultimo qua quadriennio della storia calabrese. Le attività delle Procure anti antimafia e Direzione distrettuale antimafia reggine, la presenza e il radicamento della ’ndran ’ndrangheta nella provincia di Reggio, la strategia della violenza e del consenso. E ancora: l’economia della mafia liquida, la zona gri grigia, i latitanti e i collaboratori di giustizia. Capitoli scritti da chi la lotta alla ’ndrangheta l’ha vis vis- suta e la vive in prima persona, come magistrato, rappresentante delle forze dell’ordine, amministratore pubblico. La prefazione è affidata al già presidente della Commissione parlamentare antimafia Francesco Forgione, mentre il docente universitario Enzo Ciconte cura le conclusioni. L’ultimo capitolo è dedicato all’“Altra città”: come la Calabria, Reggio in particolare, ha deciso di ribellarsi al giogo mafioso, impegnandosi anche come società civile. Claudio La Camera, ricerca iconografica e foto di Adriano Sapone, Libro bianco sulla ‘ndrangheta ‘ndrangheta, Aracne editrice, 2012 79 | novembre 2012 | narcomafie libri “Storia di una 11 vite per testimone il giornalismo di giustizia” «Chi ha in mano il testimone ha teatro Entra in scena la lotta alla mafia «Finché la mafia esiste bisogna parlarne, discuterne, reagire. Il silenzio è l’ossigeno grazie al quale i sistemi criminali si riorganizzano e la pericolosissima simbiosi di mafia, economia e potere si rafforza. I silenzi di oggi siamo destinati a pagarli duramente domani». Così Pietro Grasso, nel suo “Per non morire di mafia”, incitava i lettori a occuparsi della lotta alle mafie, che non deve essere un dovere di qualcuno, ma di tutti. La sua biografia viene riproposta in versione teatrale da Sebastiano Lo Monaco, già applaudito interprete al debutto della pièce. Per informazioni: www.teatrocarcano.com Nel 1991 Cosa nostra le uccise il marito Nicola, boss di Partanna, lasciandola vedova con una bambina piccola da crescere e una cognata, Rita, da proteggere, da tenere per mano per affrontare insieme una nuova vita, per fidarsi insieme di un magistrato, Paolo Borsellino. Il 26 luglio 1992 Rita Atria si toglierà la vita a soli 17 anni, a una settimana di distanza dalla strage di Via d’Amelio. A combattere questa battaglia rimane solo lei, Piera Aiello. Per la prima volta, la sua storia raccontata a quattro mani con il giornalista Umberto Lucentini, già autore di “Paolo Borsellino. Il valore di una vita”, la biografia autorizzata del magistrato ucciso il 19 luglio 1992. una grave responsabilità: non perderlo, non farlo cadere, essere degno dello sforzo del compagno che glielo ha passato, anzi, tentare di fare meglio». Nella prefazione scritta da Salvo Vitale il senso di un progetto promosso da Navarra editore: 11 giornalisti contemporanei raccontano tratti inediti di chi ha pagato con la vita l’amore per la verità. Le royalties saranno devolute alla rivista «Casablanca». Vivere Napoli Un racconto realistico e crudo, uno squarcio della vita di quartiere, in una città come Napoli. Poco più di cento pagine per descrivere con ritmo, con lo stile di appunti di vita annotati sul diario personale, storie di camorristi, tossicodipenden- AA. VV. Passaggio di testimone Navarra editore, 2012 ti, prostitute. Il protagonista è un giovane trentenne che, dopo essere partito per “cercare fortuna” al Nord, decide, vedendo le proprie aspettative deluse, di ritornare a Napoli, scegliendo la periferia. Con un finale a sorpresa. Antonio Montanaro, Rabbia e camorra, Round Robin, 2012 “Va in onda la camorra” Piera Aiello e Umberto Lucentini, “Maledetta mafia” Edizioni San Paolo, 2012 In Campania si contano 77 televisioni e 165 radio locali registrate. Un “bottino” che non può non far gola alla camorra e ai suoi accoliti, costituito da finanziamenti pubblici – 12 milioni di euro annui –, spot elettorali, posti di lavoro. Da tradursi in consenso sociale e “pulizia” del denaro sporco. Le prefazioni sono firmate da Giommaria Monti, direttore di «Left», e da Amato Lamberti, scomparso poco dopo la pubblicazione del libro-inchiesta. Alessandro De Pascale Telecamorra Lantana, 2012 80 | novembre 2012 | narcomafie Lampedusa, vietato morire Nell’indifferenza mediatica (quasi) generale Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, ha dichiarato che il cimitero locale dei “senza nome” (i migranti) è pieno e, quindi, non si sa più dove collocare le bare di quei poveracci che non ce l’hanno fatta, da vivi, a raggiungere la “terra promessa”. Triste e mortificante la riflessione del sindaco: «Sono sempre più convinta che la politica europea sull’immigrazione consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente». Considerazione ancor di più umiliante e amara se si riflette sulla importante presenza di personalità del mondo cattolico nel governo “tecnico” e, comunque, in un governo dove non c’è più l’ingombro di quei politici leghisti che tanta parte hanno avuto, in un recente passato, nella creazione artificiale della paura e dell’odio verso gli “invasori”. Una notizia brutta che si aggiunge alle molte altre che ancora caratterizzano quel mondo di disperati, uomini, donne e bambini, che arrivano dalle nostre parti per un’accoglienza e una solidarietà spesso carenti. Il fenomeno migratorio, d’altronde, non diminuisce affatto, anzi. Né possono essere confrontati (magari per far contenti quei politici che hanno strumentalizzato l’immigrazione e che vedono “nero” dappertutto), i dati (diminuiti) sugli “arrivi” del 2012 soltanto con quelli del 2011, quando si registrò il picco degli sbarchi a causa delle guerre e rivolte (alcune, apparentemente, risolte, altre attenuate e altre ancora in svolgimento), in diversi paesi del nord Africa. di Piero Innocenti Dal primo gennaio di quest’anno al primo novembre, le forze di polizia, nei consueti servizi di controllo sul territorio nazionale, hanno rintracciato 30.583 stranieri “irregolari” e di questi 10.850 sono quelli “sbarcati” sulle coste o, comunque, soccorsi in mare. Dei 30.853 ne sono stati rimpatriati effettivamente 15.602 attraverso le procedure previste dalla legge (respinti alla frontiera, respinti dai questori, espulsi dal prefetto con accompagnamento alla frontiera, espulsi su provvedimento della magistratura, riammessi nei paesi di provenienza). Per i rimanenti 14.891, il rimpatrio non c’è stato in quanto sono stati “inottemperanti”: all’ordine del questore; all’intimazione del prefetto; all’ordine del questore con la denuncia alla magistratura per la sanzione pecuniaria conseguente (non ci sono notizie di sanzioni inflitte dal giudice di pace che siano state pagate). Anche dal confronto con i dati degli sbarchi nel 2010, si vede chiaramente come i flussi nel corrente anno continuino ad interessare l’Italia in modo consistente. La conferma che le “drastiche” misure legislative (alcune illegittime) ed operative (inopportune e ingiuste) adottate dal ministro dell’Interno del tempo, il leghista Maroni, non siano servite a nulla se non a far morire, in mare o nelle carceri libiche, centinaia di migranti. Infatti, se nel 2010 a Lampedusa, Linosa e Lampione, i migranti sbarcati erano stati “soltanto” 459, nel 2012, alla data del 10 novembre, sono stati ben 3.792. Analogamente per gli altri “approdi” siciliani quando nel 2010 furono 805 e nel 2012 ben 2.934. Le cose non sono andate diversamente sulle coste pugliesi (1.513 sbarcati nel 2010, contro i 2.393 del 2012) e su quelle calabresi (1.280 nel 2010 e 1.727 nel 2012), con stranieri di origine prevalentemente afghana, irachena e iraniana, spinti a raggiungere queste coste per la recrudescenza dei conflitti che stanno devastando quei Paesi. Il sindaco di Lampedusa – che, giustamente, sottolinea come la morte in mare dei migranti «debba essere per l’Europa motivo di vergogna e di disonore» – fa riferimento all’impiego, per i soccorsi nei tratti di mare vicino alle coste libiche, delle “velocissime motovedette” regalate a Gheddafi dal nostro Governo nel 2009/2010. La realtà, anche qui, è avvilente. Sin dall’aprile 2012, l’ambasciata italiana a Tripoli, dopo un incontro con il capo delle Capitanerie di Porto della Libia, comunicava al nostro ministero dell’Interno le «difficoltà a riprendere i pattugliamenti delle coste in quanto delle sei motovedette donate a suo tempo dall’Italia ne restano quattro, non operative (sic!), per il cui ripristino occorrerebbe, tra l’altro, una fornitura urgente di almeno 15 pezzi di ricambio». Da allora non si sono avute più notizie di pattugliamenti “congiunti” in mare nelle rispettive acque territoriali secondo il protocollo tecnico operativo del 2009 firmato dai Capi delle Polizie italiana e libica. Questa è la drammatica e vergognosa realtà. Destinata, purtroppo, a non cambiare nonostante le belle e ripetute dichiarazioni pubbliche dei nostri governanti. numero 11 | 2012 | 3 euro Mensile | Anno XX | Poste italiane S.p.A | SPED. IN A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1 DCB | To. ISSN 1127-9117 numero 11 | 2012 IL CALO DELLE DENUNCE, L’ASCESA DELLA CRIMINALITà ORGANIZZATA NELLE MAGLIE DELL’USURA SOMMARIO 3 | L’EDITORIALE I costi della mancata prevenzione di Livio Pepino 6 | RIFIUTI IN CAMPANIA Il ricatto della munnezza di Roberta Polese 12 | I GIORNI DELLA CIVETTA Brevi di mafia a cura di Manuela Mareso 15 | INTERVISTA AD ALESSANDRA CERRETI Essere donna contro la ’ndrangheta di Emanuela Zuccalà 19 | TRENTESIMO ANNIVERSARIO Un poliziotto semplice di Elisa Latella 21 | NUOVE RESISTENZE Denunciare a Palermo di Laura Galesi 22 | COSE NOSTRE Antimafia all’ombra della madonnina di Marika Demaria 24 | STROZZATECI TUTTI Il papà dei pulcini di Marcello Ravveduto 35 | DOSSIER USURA Il bot delle mafie di Peppe Ruggiero Il bilancio dei cravattari di Laura Galesi Viaggio dove i soldi sparano più della lupara di P. P. Il tesoro scippato di P. P. Il galateo degli strozzini di P. P. Quando l’economia è in crisi, esplode l’usura intervista a Dario Scaletta di Angelo Meli 54| ALTARISOLUZIONE Taranto resiste testo e foto di Marika Puicher 58 | OCCIDENTI Rassegna stampa internazionale a cura di Stefania Bizzarri 61 | RAPPORTI UE-PRISTINA Kosovo, la legge dell’impunità di Matteo Tacconi 69 | CRONACHE SOMMERSE Sochi non può attendere di Andrea Giordano 72 | SEGNALI Napoli illegal tour di Guido Piccoli 75 | SEGNALIBRO Riciclaggio, sorridono le mafie di Emilio Fabio Torsello 78 | SHARE Le segnalazioni del mese a cura di Marika Demaria 80 | L’OPINIONE Lampedusa, vietato morire di Piero Innocenti