25Dossier Usura

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25Dossier Usura
1 | novembre 2012 | narcomafie
25
Dossier
Usura
6
54
L’Ilva di Taranto
Traffico di rifiuti
Kosovo, dove regna l’impunità
61
2 | novembre 2012 | narcomafie
numero 11 | novembre 2012
Il giornale è dedicato a Giancarlo Siani
simbolo dei giornalisti uccisi dalle mafie
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3 | novembre 2012 | narcomafie
I costi della
mancata
prevenzione
C’è, nelle società contemporanee,
una costante sempre più evidente: il rifiuto degli ultimi. A infastidire la società sana non è più
la miseria ma la sua visibilità (con
la sgradevolezza che, spesso, la
accompagna). Ciò, peraltro, non
può essere decentemente affermato (almeno in una società con
forti radici cattoliche) e ha bisogno
di alibi dicibili. Il più diffuso è
che gli ultimi, gli scarti devono
essere lasciati a se stessi perché
occuparsi di loro comporta costi
che la società della crisi non può
affrontare. E l’alibi, in tempi di
pensiero unico, diventa un mantra indiscusso e indiscutibile.
L’alibi è falso ma la sua ossessiva
ripetizione lo trasforma in verità
che tranquillizza le coscienze e
la politica.
L’inganno si fonda su un’affermazione suggestiva: quella secondo cui il welfare costa mentre l’inerzia dello Stato è gratis
(anzi è fonte di risparmio). Non
è così. Non esistono diritti «che
non costano»: la tutela dei diritti classici (dalla proprietà alle
libertà individuali) ha determinato nei secoli, senza obiezioni
di carattere economico, la predisposizione di apparati costosissimi (i più costosi, compara-
tivamente, di ogni Stato), che
vanno dalla polizia, alla magistratura, alle prigioni e via seguitando. La questione non è,
dunque, l’esistenza delle risorse
ma la loro dislocazione.
Mentre, sotto la spinta di una
crisi economica strutturale,
l’emarginazione cresce, la guerra
alla povertà – che ha caratterizzato lo Stato sociale – lascia il
posto alla guerra ai poveri. Così
nella storia sono nati, tra l’altro,
il carcere e il manicomio. Prendiamo il carcere. Dal 1986 il
numero dei detenuti è in crescita costante; dal 30 giugno 1991
alla stessa data del 2012 è più
che raddoppiato. Il 31 luglio 2012
c’erano nei 206 istituti di pena
per adulti del Paese 66.009 persone, di cui 2.818 donne e 23.590
stranieri, e due anni prima – antecedentemente agli ultimi interventi legislativi tesi ad allentare
la pressione sul carcere – il loro
numero era arrivato sino al
68.258. Ad esse, per completare
l’area delle persone soggette a
misure di privazione della libertà, vanno aggiunti 490 minorenni. Il dato rappresenta la situazione statica, fotografata al 31
luglio di ogni anno. Ma, se si fa
riferimento – come più corretto
di Livio Pepino
e indicativo dei termini della
situazione – agli ingressi in carcere nell’anno, essi sono stati,
per quanto riguarda gli adulti,
84.641 (dato relativo al 2010).
L’incidenza dei detenuti sugli
abitanti in un giorno dato è di
11 ogni 10.000 (e, dunque, poco
più di uno ogni mille, compresi
vecchi e neonati); ma se si fa
riferimento al numero degli ingressi annui in area penale l’incidenza cresce a quasi due ogni
mille. Se poi si passa dalla quantità alla qualità, poco meno del
50% dei detenuti il 31 dicembre
2005 era ristretto per delitti contro il patrimonio o per violazioni della legge sulla droga e il
14,8% per delitti contro la persona (comprensivi di lesioni e
percosse); inoltre 17.469 (pari al
29,34%) erano tossicodipendenti o alcol dipendenti e 19.836
(pari al 33,32%) stranieri.
Si tratta di dati noti. Ma meno
conosciuto è il fatto che l’aumento del carcere non è determinato
dalla crescita della criminalità.
Al contrario la curva dell’andamento dei reati e quella delle
presenza in carcere, lungi dal
coincidere, si divaricano in maniera crescente, posto che queste
ultime continuano ad aumentare proprio mentre i reati più
gravi e quelli che creano maggior
allarme sociale segnano una flessione netta e costante dopo aver
avuto il picco massimo, per lo
più, nei primi anni Novanta. Il
dato è evidente anche per chi
non vuol vedere. Ciò che non si
affronta sul piano del sociale
viene (malamente) governato con
lo strumento penale e il carcere
diventa un contenitore di poveri e marginali. Un contenitore
terribile (se è vero che i suicidi
di detenuti, dal 2000 ad oggi,
sono stati 717) ma anche costosissimo. Secondo l’elaborazione
della associazione “Ristretti Orizzonti”, infatti, negli ultimi dieci
anni il sistema penitenziario italiano è costato alle casse dello
Stato circa 29 miliardi di euro,
con un costo medio giornaliero
per ogni singolo detenuto di 138,7
euro (e ciò senza contare i costi
della costruzione delle strutture
e il valore degli immobili destinati alla custodia). I conti sono
presto fatti e dimostrano – pur
senza cedere ad automatismi
semplificatori – che la repressione costa più della prevenzione
e il carcere più degli interventi
di sostegno. E non è una consolazione rilevare che accade per
le persone ciò che vale per il
territorio, dove le spese per la
prevenzione continuano ad essere tagliate mentre è sotto gli
occhi di tutti che tenere sotto
controllo gli argini di un fiume
costa molto meno che ricostruire le case e le strade distrutte da
un’alluvione (anche a prescindere dai costi umani)…
Il discorso si farebbe lungo e ne
mancano qui il tempo e lo spazio.
Ma una cosa è acquisita: i tagli
della spesa sociale non c’entrano
nulla – ma proprio nulla – con
la crisi. O meglio hanno a che
fare con una particolare lettura
della crisi: quella secondo cui
essa è l’occasione per regolare i
conti con l’utopia dell’uguaglianza. Ma questa, appunto, è un’altra storia...
6 | novembre 2012 | narcomafie
Rifiuti in Campania
Il ricatto della
munnezza
Faccendieri, bancari, imprenditori senza scupoli: questo il
volto dell’“emergenza” rifiuti in Campania. Una storia
che “parla” in veneto, fatta di manipolazioni, debiti e raggiri.
Al centro dell’inchiesta Enerambiente: vincitrice dell’appalto
per la raccolta rifiuti nel capoluogo campano
di Roberta Polese
7 | novembre 2012 | narcomafie
Quando il fumo denso di diossina si espandeva all’ombra
del Vesuvio, quando Napoli
soffocava nella morsa dei rifiuti
che andavano a fuoco, c’era
chi, dall’altra parte dell’Italia, gridava allo scandalo. Era
il presidente della Regione
Veneto Luca Zaia, che tuonò
duro contro lo scempio che
stava avvenendo in Campania:
«Se i turisti non vengono da
noi è colpa vostra», diceva
rivolgendosi ai napoletani,
colpevoli, a suo dire, di rovinare l’immagine dell’Italia
intera all’estero. Forse Zaia
non poteva immaginare che
dietro quelle nuvole tossiche
accese agli angoli delle strade
di Napoli c’era un suo compaesano che, con la collaborazione di una cricca di veneti,
avrebbe stretto l’amministrazione Jervolino nella morsa
del ricatto, pagato sindacalisti
senza scrupoli per aizzare i
lavoratori contro il Comune,
costringendolo ad accettare
condizioni svantaggiose pur
di risolvere l’emergenza.
L’affaire Enerambiente. Ad
alzare il velo sulla gestione
dei rifiuti a Napoli tra l’estate
e l’autunno del 2010 è stato il
nucleo tributario della Guardia di finanza di Napoli, che,
lo scorso giugno, ha eseguito
un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal
gip di Napoli Isabella Iaselli.
Delle 16 persone indagate 11
sono venete. In cella finisce
ancora una volta Stefano Gavioli, 55enne veneziano residente a Treviso, a capo di
Enerambiente, società che si
era aggiudicata l’appalto per
il prelievo dei rifiuti nel capoluogo napoletano e in altri
comuni campani. In cella con
Gavioli, già arrestato per altri
business sospetti a Catanzaro,
finisce anche sua sorella Maria
Chiara, che siede nel Cda di
Slia, altra società del gruppo
di famiglia.
E poi ci sono faccendieri e
bancari: il consulente legale veneziano Giancarlo Tonetto (già suo difensore in
altri procedimenti penali),
i co-amministratori Enrico
Prandin (Rovigo), Paolo Bellamio (Padova), il tecnico di
Enerambiente Loris Zerbin,
il presidente del collegio sindacale della società, il 63enne
veneziano Giorgio Zabeo (già
sindaco del collegio in Sirma
e Slia, altre due aziende veneziane di Gavioli fallite negli
ultimi anni), la fida direttrice
dell’ufficio finanziario di Enerambiente Stefania Vio, 38enne
di Padova. E poi ci sono altre
tre figure rilevanti, soprattutto
per il tessuto economico del
Nordest: sono tre funzionari
della Banca di credito cooperativo-Banca del Veneziano, che
avrebbero stornato fatture false
di Enerambiente e contribuito a traghettare 15 milioni di
euro della banca nelle tasche
di Gavioli. Si tratta di Alessandro Arzenton, 50enne ex
direttore generale della banca
(poi dimissionato), Manuela Furlan, 50enne direttrice
della filiale dove si appoggiava Enerambiente, e Mario
Zavagno, 63enne veneziano
responsabile dell’ufficio crediti
della sede centrale. Sul fronte
meridionale invece finiscono a
Poggioreale Giuseppina Totaro,
61enne napoletana co-amministratrice di Enerambiente,
Giovanni Faggiano, brindisino,
amministratore delegato della
società per conto di Gavioli,
Vittorio D’Albero, esponente
sindacale Fiadel e dipendente
in aspettativa della De Vizia
spa, e Gaspare Giovanni Alfieri, titolare di una coop che,
secondo le accuse, sarebbe
stata “comprata” da Gavioli.
E poi altre figure marginali,
come un imprenditore tedesco
e la moglie dell’amministratore
delegato Faggiano. Il reato che
mette insieme tutti gli arrestati
è associazione per delinquere
finalizzata, a diverso titolo e
con vari ruoli, alla corruzione, estorsione, violenza e minaccia, riciclaggio, bancarotta
fraudolenta, falso in bilancio e
ricorso abusivo al credito.
L’appalto, la società svuotata e le coop. Il business
della veneziana Enerambiente
a Napoli comincia attorno al
2005, quando si era aggiudicata
l’appalto di Asia, la società “in
house” del comune di Napoli,
per il prelievo dei sacchetti dei
rifiuti da destinare a discariche e inceneritori. L’indagine
che precede gli arresti non
parte dalla Guardia di finanza
ma dalla Digos del capoluogo
campano. E in prima istanza
Enerambiente di Gavioli appare come parte offesa. Era il
settembre del 2010 e i dipendenti della Davideco, coop che
lavorava per Gavioli, devastano
gli uffici di Enerambiente a
Napoli. Sono arrabbiati perché
dicono che Gavioli non li paga
da mesi, e si stava spargendo
la voce che il patron veneziano
volesse addirittura liberarsi di
loro sciogliendo il contratto. In
realtà qualcosa di anomalo appare sin dall’inizio. Le indagini
rivelano che l’accordo tra la
Spa e la cooperativa Davideco,
Come ha fatto ad
accumulare tutti
questi debiti
un’azienda che
da 5 anni lavora
con il settore
pubblico e vince
appalti in tutta
la Campania?
8 | novembre 2012 | narcomafie
Mentre
i manager
si preparano
agli incontri
ufficiali, ci sono
altri funzionari
che muovono
le pedine
dal basso
oltre ad essere stabilito per
un periodo che andava oltre
quello dell’appalto tra Asia ed
Enerambiente, prevedeva un
compenso di 148mila euro al
mese, mentre in concreto venivano fatturati in favore della
cooperativa importi di gran
lunga superiori (oltre 330mila
mensili). A spiegare l’arcano in procura sono Girolamo
Scuteri e Salvatore Fiorito,
presidenti della coop. I due
rivelano un “accordo occulto”,
come si legge nell’ordinanza:
la cooperativa, in cambio delle
commesse ottenute, versava
una somma di denaro a Fag
Faggiano (amministratore dele
delegato di Enerambiente, braccio
destro di Gavioli) e a un altro
funzionario, i quali provve
provvedevano a loro volta a oliare i
meccanismi per ottenere un
monopolio degli appalti con
Asia e l’assenza di controlli
sulle concrete modalità di ge
gestione che avrebbero precluso
il subappalto, sia da parte di
Asia che del Comune.
Sulla base di queste accuse
Faggiano viene arrestato. In
carcere dice che fino al 2010
ha lavorato a stretto contatto
con Stefano Gavioli e che aveva
semplicemente seguito le sue
direttive. Faggiano non ci sta
infatti a fare la parte di quello
che paga da solo. E comincia
a scalpitare. In una conversazione registrata in carcere
mentre parla con la moglie
Monica Dentamauro (accusata
di riciclaggio e sottoposta poi
ai domiciliari) dice: «Fino a dicembre 2009 quando c’ero io la
società era sana, l’avevo detto
a Gavioli di farla riempire, poi
da agosto 2010 questi hanno
fatto un casino ed ora io devo
pagare». Faggiano ha capito
dove voleva andare a parare il
magistrato che lo interrogava:
aveva capito, e lo dice alla
moglie, che si puntava a quel
milione e 400mila euro spesi
per fatturazioni mai avvenute. Insomma già all’inizio del
2010 i nodi di Enerambiente
cominciano a venire al pettine.
I magistrati autorizzano a mettere sotto controllo i telefoni
del management dell’azienda
veneziana. E nel frattempo la
finanza comincia a fare le pulci
ai bilanci di Enerambiente.
Il 10 marzo 2011 viene deliberato lo scioglimento della
spa Enerambiente, che, come
prevede la legge, continuerà
a proseguire la sua attività
aziendale al solo fine di portare a compimento gli appalti
in corso di esecuzione. Il 28
marzo Gavioli, il legale Tonetto
e un terzo avvocato presentano la richiesta di ammissione
al concordato preventivo. È
ancora in corso il conflitto di
attribuzione tra Napoli e Venezia che ha chiesto il fallimento
dell’azienda. Ma ai fini pratici
conta un dato fondamentale:
la società ha un buco di 50
milioni di euro.
“Senza di me la città è finita”. Come ha fatto ad accumulare tutti questi debiti
un’azienda che da cinque anni
lavora con il settore pubblico e
vince appalti in tutta la Campania? Gli investigatori cercano
di vederci chiaro. Le fasi più
calde di tutta la vicenda avvengono nell’estate del 2010.
Il termovalorizzatore di Acerra
è rotto, a Terzigno ci sono le
rivolte contro gli sversamenti
in discarica. Nelle strade di
Napoli si accumulano rifiuti,
che vanno a fuoco ogni notte,
i lavoratori sono arrabbiati.
Ma, stando alla Finanza, c’è
qualcuno che tiene le fila di
tutto, muove gli operai e tiene
per la gola il Comune. L’obiettivo di Gavioli è provocare
tensione nell’amministrazione
locale e costringerla a scendere
a patti: lui vuole che Napoli
compri mezzi obsoleti a scatola
chiusa.
«Loro devono comprare i miei
camion, senza i miei camion
la città è finita, ma io voglio
prendere più soldi», dice Gavioli all’imprenditore tedesco che verrà coinvolto nella
“sceneggiata” da fare davanti
ai funzionari di Asia e del Comune. È il primo ottobre 2011
e, infatti, il giochino viene a
galla proprio in quel periodo.
Gavioli vuole che Asia compri
i suoi mezzi sovrapprezzo in
tempi brevissimi, sotto minaccia di mollarli lì con tutte le
loro immondizie e revocare
il servizio. Napoli non si può
permettere di lasciare andare
Gavioli, sarebbe il collasso
della città, per cui c’è la disponibilità ad accettare, ma
prima vorrebbero fare delle
perizie. «Non ci provate neanche, altrimenti ci alziamo e ce
ne andiamo» risponde il legale
Giancarlo Tonetto al termine
di un incontro in cui il Comune presenta le sue ragioni. Si
compra a scatola chiusa, così
vuole Gavioli, stando a quanto
ricostruisce la procura. E il
veneziano imbastisce anche
una recita per far capire ai funzionari di Asia e ai politici che
sta facendo sul serio: chiama
l’imprenditore tedesco Adolf
Lutz (arrestato anche lui) e dice
al Comune che se i camion non
li comprano loro allora subentrerà il tedesco, e quest’ultimo
9 | novembre 2012 | narcomafie
non è intenzionato a proseguire
il servizio di raccolta. Qualche
giorno prima dell’incontro lo
contatta al telefono e lo prepara. Per farsi capire, usa poche
parole: «Tu vieni qui con carta
intestata, carta ufficiale, come
che io venduto a te tutti i camion, io ho bisogno di dire
che tu hai comprato i camion,
capisci? noi facciamo come
commedia».
Mentre i manager si preparano
agli incontri ufficiali, ci sono
altri funzionari che muovono
le pedine dal basso. La frase
più forte la pronuncia Tonetto
al telefono con Pina Totaro,
co-amministratice di Enerambiente a Napoli, il braccio
operativo di Gavioli in città.
La conversazione inizia tra
lo stesso Gavioli e la Totaro.
Totaro dice a Gavioli che il
Comune sta cercando di prendere tempo. Lui le risponde
che allora è guerra, ma che
«la guerra non la dobbiamo
fare noi, la devono fare i dipendenti» quella stessa notte.
Poi passa il telefono a Tonetto
che si trova nella stanza con
lui. La Finanza sta registrando
tutto: «Li dobbiamo costringere» e quindi propone di non
chiedere subito una risposta
facendo fare intanto «un po’
di casino ai nostri questa notte,
non bisogna effettuare il prelievo, così domani tratteremo
meglio». Totaro a quel punto
muove la sua pedina numero
uno: il sindacalista “comprato”
Vittorio d’Albero.
Ecco quindi la strategia: gli
operai devono imbufalirsi e
i rifiuti devono rimanere sulle strade, così Enerambiente
otterrà quello che vuole dal
Comune. Vengono manipolate
anche le informazioni trasmes-
se in Tv. «Il Tg5 darà la notizia
che Enerabiente avanza dieci
milioni di euro da Asia, e per
questo motivo non potremo
pagare gli stipendi» dice Totaro
a Gavioli, che gli risponde:
«Brava Pina, hai fatto bene».
Subito dopo Totaro chiama
un altro manager di Gavioli,
Enrico Prandin, perché blocchi tutti i bonifici in uscita:
«abbiamo da fà a sceneggiata»
fino a quando non scoppierà
la rivolta. E la rivolta è fomentata da D’Albero, sindacalista
della Fiadel, che si tiene in
contatto non solo con Totaro,
ma anche con Stefania Vio, direttore dell’ufficio finanziario
di Enerambiente.
Intanto dalle casse della società
vengono fatti sparire soldi a
raffica, attraverso fatture per
prestazioni mai erogate. Nel
frattempo la banca di credito
cooperativo copre, con “coscienza” secondo gli investigatori, flussi di denaro per un
totale di 15 milioni di euro,
anche attraverso anticipi di
fatture false. Per i reati fallimentari è stato anche indagato,
in seconda battuta alla fine
di luglio, il presidente della
federazione delle Bcc venete
Amedeo Piva. Sul fronte Napoli intanto i giorni passano, il
Comune comincia a muoversi
e si muove anche la Finanza.
Che nel frattempo scopre altri
altarini dell’imprenditore di
Venezia.
Vent’anni di business, tra
arresti e inchieste. È stata
proprio la procura di Napoli
infatti a trasmettere a quella di
Catanzaro, che sta indagando
sugli sversamenti illegali nella
discarica di Alli. E si scopre
che c’è Gavioli anche dietro
a quel business. All’inizio del
2011 parte da Catanzaro un
ordine di custodia cautelare per
reati ambientali e Gavioli va in
carcere. In una intercettazione
telefonica con Loris Zerbin,
l’imprenditore veneziano dice,
a proposito del percolato: «Se
la vasca si rovescia da un lato
è un disastro». Pochi giorni
dopo la sorella Maria Chiara,
dice a un finanziere che Stefano
sta per partire, sta per andare
in Canada dove vivono la sua
compagna e il figlio e dove lui
avrebbe già portato dei soldi. Di
qui l’impulso all’arresto della
procura calabrese. Ma nemmeno quello è primo guaio di
Gavioli. In Veneto il suo è un
nome famoso. Come famosi
sono gli avvocati che l’hanno
seguito in tutte le sue vicende:
da Nicola Quaranta, avvocato
di “Gianpi” Tarantini al trevi-
Ecco la strategia:
gli operai devono
imbufalirsi e
i rifiuti devono
rimanere
sulle strade, così
Enerambiente
otterrà quello che
vuole dal Comune
10 | novembre 2012 | narcomafie
La storia
di Gavioli parte
da lontano:
cominciò negli
anni 70 guidando
una piccola
macchina pulitrice
nel petrolchimico
di Marghera,
fu l’inizio
della sua scalata
nel mondo
dei rifiuti
giano Francesco Murgia, che
lavora per i Savoia, all’attuale
difensore, l’avvocato Gian Piero
Biancolella, legale che fu anche
al servizio di Callisto Tanzi.
La storia di Gavioli parte da
lontano: cominciò negli anni 70
guidando una piccola macchina pulitrice nel petrolchimico
di Marghera, e da lì iniziò la
sua scalata nel mondo dei rifiuti. Nel 1998 compra Sirma,
azienda di Marghera che si
occupa di tegole, e due anni
dopo compra anche i cantieri
Tencara, che hanno messo il
loro timbro anche sul Moro di
Venezia e l’America’s cup. Li
vende però nel 2003 e quattro
anni dopo abbandona anche
Sirma. Nell’ordinanza di custo
custodia cautelare emessa da Napoli,
e che porta in carcere Gavioli
e i suoi collaboratori, si parla
anche di tutto il castello di
imprese che ruotano attorno
all’imprenditore. Società che,
secondo la Finanza, vengono
fatte nascere, morire (solo formalmente) e che poi ripartono
più leggere con i concordati
concessi dai tribunali. Tutto
legale, fino a prova contraria,
ma, come dice l’ordinanza di
Napoli, «Enerambiente nasce
con un destino segnato». Gavioli sa di essere sul filo di
lana. Lo dice in una conver
conversazione registrata alla fine del
2011 mentre parla con il suo
commercialista Enrico Prandin: «La Guardia di finanza è
andata in Sirma», Gavioli: «Chi,
quelli di Catanzaro?» Prandin:
«No quelli di Napoli», Gavioli:
«Avremo tutta la Guardia di
finanza d’Italia» Prandin: «Si
questi vanno su e giù per noi».
La visita in Sirma dei militari
non è casuale, perché sembra
che anche in quel caso (200
operai lasciati senza lavoro) sia
stato messo in piedi lo stesso
schema di svuotamento che si
suppone si stato utilizzato per
Enerambiente. Il meccanismo
lo spiega Giovanni Faggiano,
l’amministratore delegato che
finisce in galera prima di tutti.
Parlando con la moglie le spiega: «Lui (Gavioli) tiene debiti
pazzeschi a livello personale,
quindi lui voleva Enerambiente
come cassaforte, capito? Come
ha fatto con Slia, l’ha svuotata e
poi l’ha buttata a mare, grande
figlio di puttana (…) e ha fatto
lo stesso con Sirma, anche da
Sirma ha prelevato tutto, lui
tiene un accertamento fiscale
di 36 milioni per Sirma». Enerambiente viene creata nel 2010
dalle ceneri dalla Slia spa: dalla
scissione di Slia spa nascono
Slia Technologies e Enerambiente: nella prima viene fatta
confluire la parte buona della
società, nella seconda vengono
riversati tutti i debiti. Il 21 dicembre del 2009 Enerambiente incorpora anche la Società
meridionale discariche (creata
con la sovvenzione della cassa
del Mezzogiorno) e la Sirma
servizi srl, costituita nel 1991.
Tutte le società sono di Gavioli.
Secondo la Finanza fusioni e
scissioni gli servono solo per
riversare i debiti nelle società
destinate a morire e mettere
da parte i soldi buoni. Sono gli
stessi investigatori a descrivere le scissioni come fughe dai
debiti. Il binario parallelo in
cui corrono Enerambiente, che
sta facendo soffocare Napoli
nei rifiuti, e Sirma, che lascia a
piedi centinaia di operai (e un
debito di milioni di euro), viene
descritta nei dettagli nell’ordinanza del Gip: «L’operazione
di realizzazione di un bidone
industriale da parte di Gavioli si
compie definitivamente quando
il 4 agosto del 2010, davanti al
notaio Forte di Treviso, realizza
la scissione di Enerambiente e
Enertech, con solo centomila
euro di capitale sociale». Nella Enertech trasferisce tutte le
cose buone di Enerambiente,
lasciando a quest’ultima i debiti.
In pratica il signor Gavioli dopo
aver indebolito una società la
spacca in pezzettini e butta a
mare la parte debitoria, e mette
via la parte buona che sottrae ai
creditori stessi. Questa storia
si sarebbe ripetuta in Sirma,
quando ha sottratto alla società, poi liquidata, il patrimonio
immobiliare, e si è ripetuta in
Tencara. Un giochino che si
riversa sulle spalle delle centinaia di operai che protestano
davanti ai cancelli senza lavoro
e senza stipendio.
Gavioli e gli altri arrestati sono
stati tutti ammessi alla misura
dei domiciliari dal Tribunale del
riesame. Ma, come se non bastasse, a fine luglio si è scoperto
un nuovo retroscena: a fare da
garante per le fideiussioni presentate da Gavioli a Marano di
Napoli, Frattamaggiore, Acerra e
in provincia di Brindisi c’è una
compagnia assicurativa romena
che si chiama City Insurance. Il
27 luglio una sentenza del Tar
blocca ogni nuovo contratto
alla compagnia, e lo fa in virtù
di risultanze dell’Isvap, ovvero
l’inconsistenza del patrimonio
della società, e delle indagini del
Gico di Venezia: City Insurance
è collegata a Dionisio Pacquadio,
proprietario di Liginvest, società che presentava fideiussioni
negli appalti presentati da ditte
collegate ai clan Dell’Aquila e
Mallardo di Napoli.
Ma questa è un’altra storia.
12 | novembre 2012 | narcomafie
brevi di mafia
Sciacchitano dopo Cisterna alla Dna?
Lo scorso 8 novembre il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso ha
nominato come suo numero due il sostituto Giusto Sciacchitano (nella foto,
ndr), che succede nel ruolo di procuratore aggiunto ad Alberto Cisterna, il
ndr
magistrato indagato per corruzione in atti giudiziari a seguito delle accuse
di Antonino Lo Giudice, il collaboratore di giustizia autoaccusatosi di essere
l’ideatore degli attentati alla Procura di Reggio del 2010. Cisterna è stato prosciolto il 26 novembre: i giudici non hanno creduto alla testimonianza del
pentito, che aveva sostenuto l’intervento del magistrato nella scarcerazione
di uno dei suoi fratelli in cambio di un “regalo”, lasciando intendere denaro.
Cisterna ha sempre sostenuto che i contatti con uno dei Lo Giudice fossero strumentali alla
cattura del super ricercato Pasquale Condello.
Sulla nomina di Sciacchitano, che deve ancora essere ratificata dal Consiglio superiore della
magistratura, è insorto Michele Costa, avvocato, ex assessore a Palermo della giunta Cammarata
(Pdl) e figlio del giudice Gaetano Costa, assassinato da Cosa nostra il 6 agosto del 1980.
Costa è tornato a sottolineare l’isolamento in cui Sciacchitano aveva lasciato il padre nel maggio
1980, quando, insieme agli altri sostituti della procura di Palermo (ad eccezione di Vincenzo
Geraci, come ricordano Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco sul «Fatto Quotidiano»), non solo
si rifiutò di convalidare decine di ordini di cattura contro il clan Gambino-Spatola-Inzerillo, ma
indicò – fatto sempre smentito dall’interessato – ai giornalisti e agli avvocati dei mafiosi il nome
del suo superiore come unico responsabile del provvedimento.
Su Sciacchitano pesano anche le testimonianze di Enzo Alessi (un medico che lo vide tra gli
invitati a casa di Angelo Siino, sebbene in anni in cui ancora non era noto per essere il “ministro
del lavori pubblici” di Totò Riina) e di Massimo Ciancimino, che lo indica come la talpa della
procura di Palermo (e per questo Sciacchitano lo ha citato in giudizio) che avrebbe permesso al
padre Vito di mettere al riparo parte del patrimonio dalla confisca disposta all’epoca da Giovanni
Falcone. Le accuse di Ciancimino nei confronti di Sciacchitano (che portarono all’apertura di
un’inchiesta, poi archiviata) riguardavano anche presunti condizionamenti da parte del magistrato
sull’inchiesta sul gruppo Gas, società che Vito Ciancimino gestiva proprio con l’ex consuocero
di Sciacchitano, Ezio Brancato.
Processo Infinito,
i boss vogliono
i giornalisti in aula
“Vogliamo la stampa a seguire
il processo”. È stata questa la
richiesta avanzata alla Corte
da parte delle decine di detenuti accusati di appartenere
alla ’ndrangheta, all’apertura
del processo di appello in rito
abbreviato, e quindi a porte
chiuse, per l’inchiesta Infini-
to, per la quale il 20 novembre
2011 in primo grado sono state
condannate 110 persone su 119
accusate. A fare da portavoce è
stato Domenico Lauro, presunto
affiliato alla locale di Cormano:
«Vogliamo maggiore rispetto per
le nostre singole posizioni – ha
detto Lauro – e non vogliamo
che venga celebrato una sorta
di “rito ambrosiano” solo per
noi, senza garanzie. Vogliamo i
giornalisti perché non abbiamo
nulla da nascondere». Una ri-
chiesta che lascia pensare, visto
che sono decine i giornalisti
minacciati da esponenti delle or
organizzazioni mafiose nel nostro
paese per averne raccontato le
vicende criminali. Gli imputati
in un primo momento avevano
anche minacciato di revocare il
mandato ai loro legali, per poi
fare marcia indietro «nel rispetto
degli avvocati».
Per il filone processuale che
segue il rito ordinario, invece, il
collegio dell’ottava sezione pe-
a cura di Manuela Mareso
nale presieduto da Maria Luisa
Balzarotti lo scorso 6 dicembre
ha emesso 40 condanne. Il verdetto, letto nell’aula bunker del
carcere di San Vittore, è stato
accolto con sdegno da parte dei
parenti degli imputati.
Tra i condannati, l’ex dirigente
della Asl di Pavia, Carlo Chiriaco, accusato di essere il punto
di connessione tra la politica
e la ’ndrangheta («avrebbe favorito gli interessi economici
della ’ndrangheta garantendo
appalti pubblici e proponendo
varie iniziative immobiliari»),
con 13 anni di carcere e pena
accessoria dell’interdizione
perpetua dai pubblici uffici;
18 anni per Pino Neri, il “capo
dei capi” della Lombardia; 12
anni (più la pena accessoria
della inabilitazione all’esercizio di imprese commerciali per
dieci anni) per l’imprenditore
Ivano Perego.
Agricoltura, truffe
all’Inps e fondi Ue
alla mafia
Si chiama “Senza terra” una
delle operazioni più eclatanti
condotte recentemente dalla
Guardia di Finanza in Calabria. Una truffa che passava
dalla costituzione di cooperative agricole ad hoc nella provincia di Cosenza (Corigliano
Calabro, Rossano, Cassano
allo Ionio), con centinaia di
lavoratori che svolgevano attività solo sulla carta presso
terreni di committenti ignari
se non inesistenti; lavoratori
che erano disposti ad antici-
13 | novembre 2012 | narcomafie
brevi di mafia
pare all’organizzazione criminale il denaro necessario a
saldare i contributi, per poter
poi ricevere l’indennità di
disoccupazione, di malattia,
maternità e assegni familiari.
I 37 arrestati sono imprenditori agricoli, sindacalisti,
consulenti del lavoro, commercialisti, amministratori
locali, falsi lavoratori e anche
un consigliere provinciale,
Antonio Carmine Caravetta
(Udc), a cui secondo le indagini sarebbe stato promesso
sostegno elettorale in cambio
di aiuti finalizzati all’ottenimento della tutela previdenziale per i lavoratori.
Le organizzazioni criminali
sono capaci di truffare anche
l’Unione europea, non senza le
colpevoli mancanze da parte
delle istituzioni. Un articolo
di Sergio Rizzo sul «Corriere
della Sera» del 19 novembre
rileva che dal 2009 al 2012
la Corte dei Conti ha emesso
circa 50 sentenze per danno
erariale (per un totale di circa
2 milioni di euro) a carico di
noti esponenti della criminalità organizzata o di persone
sottoposte a misure di polizia,
che non erano dunque nella
posizione di poter incassare
i contributi dell’Agea, l’ente erogatore alle dipendenze
del ministero delle Politiche
agricole, che non ha effettuato
i dovuti controlli. Tra i beneficiari figurano anche Gaetano Riina – il fratello di Totò
Riina, boss dei Corleonesi, in
carcere dal 1993 – e Giuseppe
Spera – fratello di Benedetto
Spera, vicino al boss Bernardo
Provenzano –, condannati al
risarcimento di quanto intascato impropriamente, ma
solo per una cifra percentuale
proprio perché la condanna
ha riconosciuto anche una
responsabilità dell’Agea: per
Gaetano Riina, in carcere da
4 anni, la condanna d’appello
lo costringe a restituire poco
più di 25mila euro per gli oltre
40mila che aveva incamerato;
38mila euro è invece la somma
calcolata per Giuseppe Spera,
che aveva avuto accesso al
contributo attraverso un’associazione di categoria e non
personalmente come nel caso
di Riina.
Un asilo troppo
vicino al boss
Rischia di restare vuoto uno
dei due beni confiscati alla
mafia nel territorio di Corigliano Calabro – comune in
provincia di Cosenza, sciolto
per mafia nel giugno del 2011
–, restituito alla collettività
grazie alla riconversione in
Scuola dell’infanzia. L’entusiasmo registrato dalle autorità
locali nel giorno dell’inaugurazione non ha infatti avuto
seguito nella quotidianità. Gli
spazi ristrutturati all’interno
del progetto ministeriale “Più
scuola meno mafia” sono rimasti deserti perché, come
riportano in una lettera inviata
alle istituzioni alcune mamme
– alle cui obiezioni non era
stato dato spazio nel giorno
dell’apertura –, l’allontana-
Basilischi:
e dopo gli anni 90?
Il 30 ottobre la Corte di Appello di Potenza,
presieduta dal giudice Vincenzo Autera, ha
confermato – con contenuti sconti di pena – la
sentenza di primo grado emessa nel dicembre
2007 contro la “famiglia dei Basilischi”, riconoscendola come “associazione a delinquere
di stampo mafioso”, e ha confermato 36 delle
38 condanne del primo grado inflitte a esponenti dell’associazione con cui camorra e ’ndrangheta si sono dovute
confrontare per i loro interessi in terra lucana. Ventun anni
di carcere per Giovanni Luigi Cosentino (nella foto, ndr.) –
oggi collaboratore di giustizia – considerato il vertice per
sua stessa ammissione: sua anche l’invenzione del rito di
affiliazione. I giudici hanno dunque ricostruito nascita e
sviluppo dell’organizzazione svelata da Michele Danese,
l’uomo che sopravvisse a un agguato che voleva eliminarlo
per il suo rifiuto di sfregiare la compagna di Cosentino, sua
sorella, che aveva tradito il boss mentre si trovava in carcere. Collaborerà nella ricostruzione anche uno degli autori
dell’agguato a Danese, Antonio Cossidente, che fornirà ai
magistrati i dettagli di come il boss Cosentino sarebbe poi
stato estromesso. Lo storico Nicola Tranfaglia ha commentato:
«Per la famiglia lucana è la fine e i personaggi più importanti
del clan sono catturati e processati, ma questo è quello che
avviene entro la fine degli anni Novanta. E non sappiamo
quasi nulla di quello che è avvenuto negli anni successivi.
[...] La Basilicata, rimasta per più di un secolo e mezzo fuori
da tutte le storie delle mafie, vi è entrata e si può dubitare che
dopo l’esperienza degli anni Novanta ne sia uscita».
mento di un chilometro della
sede dell’asilo, da contrada
Fabrizio Piccolo a contrada
Fabrizio Grande, comporta
difficoltà di trasporto per genitori impiegati per lo più
come lavoratori stagionali. Per
questo si chiede che il vecchio
plesso, dichiarato inadeguato,
venga ripristinato.
Il caso è attualmente al vaglio
della procura e dell’ufficio
scolastico provinciale. Indiscrezioni, scrive Domenico
Marino su «Avvenire», lasciano trapelare che la vera ragione della mancata frequenza
sia dovuta allo status di bene
confiscato allo ’ndranghetista
Giovanni Battista Vulcano, la
cui famiglia ha conservato la
proprietà del terreno circostante, dove risiedono anche
gli anziani genitori.
14 | novembre 2012 | narcomafie
brevi di mafia
Mafia e politica
ad Altamura
Spunta il nome di Mario
Stacca, sindaco di Altamura,
nell’inchiesta condotta dai
pm della Procura di Bari
Roberto Pennisi e Desiree Di-
geronimo, che sta svelando
intrecci tra mafia, politica
e imprenditoria.
A fare il nome di Stacca è
Valerya Hiblova, vedova del
boss Bartolomeo Dambrosio
(ucciso nel settembre 2010):
«A lui si rivolgevano anche carabinieri, finanzieri
e politici, come il sindaco
Stacca che gli chiese di fargli
la campagna elettorale e di
procacciargli voti». Secca la
replica del primo cittadino:
«Non conosco la moglie di
Dambrosio e non ho chiesto
aiuto a nessuno». Hiblova ha
poi sottolineato l’influenza
Una nuova struttura della ‘ndrangheta
Si chiama “Corona” la struttura intermedia nelle gerarchie ’ndranghetiste finalizzata a custodire e tramandare i valori storici della
’ndrangheta reggina, venuta alla luce a seguito dell’operazione “Saggezza” portata a termine il 13 novembre dai Carabinieri del comando
provinciale di Reggio Calabria: 39 arresti tra la Locride e le province
di Vibo Valentia, Cosenza e Como. Si ha ora, dopo l’operazione Crimine del luglio 2010, ulteriore conferma del fatto che la ’ndrangheta sia un’organizzazione unitaria, verticistica e che le ’ndrine, ovunque dislocate, restino in contatto tra di loro.
La Corona, si evince dalle carte, sapeva molto sull’omicidio di Francesco Fortugno, il vicepresidente del Consiglio della regione Calabria
assassinato a Locri il 16 ottobre 2005.
Le accuse sono di associazione di tipo mafioso, estorsione, porto abusivo e detenzione
di armi, usura, illecita concorrenza volta al condizionamento degli appalti pubblici,
minaccia, esercizio abusivo dell’attività di credito, truffa, furto di inerti, intestazione
fittizia di beni. A seguire l’inchiesta, il pm Antonio De Bernardo e il procuratore aggiunto Nicola Gratteri (nella foto, ndr.), che ha commentato: «L’inchiesta [...] rende lucidamente uno spaccato di attività criminali che convergono verso un unico obiettivo: un
asfissiante controllo del territorio, perseguito anche con il condizionamento dell’elezione degli organismi di governo della comunità montana Aspromonte orientale. Come si
evince dalle risultanze investigative [...] tutto doveva passare attraverso accordi garantiti dai capi “locale”. Finanche il taglio dei boschi ed il commercio del legname, i lavori
di messa in sicurezza delle fiumare erano pratica che doveva essere affrontata dai capi
bastone attraverso i mezzi classici di intimidazione: furti nei cantieri, incendi di autovetture di titolari di imprese».
L’operazione è stata condotta in cinque anni di indagini con intercettazioni a tappeto sul
territorio: una di queste, inquietanti, lascia presagire una talpa nei vertici dell’antimafia:
nei dialoghi trascritti un uomo delle forze dell’ordine dialoga in modo familiare con il
boss di Canolo e gli fornisce informazioni riservate, riferite da una terza persona che ha
accesso ai dati segreti. Sequestrate quattro imprese per un valore stimato di un milione
di euro e individuate cinque “locali” (struttura che organizza la gestione malavitosa in
un territorio dove sono presenti più ’ndrine) e le relative figure apicali riferibili alle
municipalità di Antonimina (famiglia Romano), Ardore (famiglia Varacalli), Canolo (famiglia Raso), Ciminà (famiglia Nesci) e Cirella di Platì (famiglia Fabiano).
del marito anche nel gestire
appalti e lottizzazioni, raccontando storie di imprenditori di Altamura in cerca
di appoggi. Dambrosio era
un boss capace di influenze
e lontano dagli stereotipi
della criminalità pugliese:
secondo la testimonianza
della vedova, aveva un codice ereditato dai Siciliani,
a cui le aveva confessato di
essere appartenuto.
Camorra,
un patto
Chiesa-polizia.
L’appello di Sepe
ai parroci
“I parroci neghino il funerale ai camorristi”. Con
questo anatema il cardinale
Crescenzio Sepe torna sulla
spinosa questione dell’accesso alla Chiesa da parte di
affiliati alle organizzazioni
criminali. La questura, per
ragioni di sicurezza, ha facoltà di vietare le esequie
pubbliche, ma anche quelle
private andrebbero impedite per la forte valenza
sociale che il rito ancora
assume. La Curia napoletana ha già delle indicazioni pastorali: i boss non
possono fare da padrini
a battesimi e cresime, né
da testimoni ai matrimoni.
Ma non è così immediato
capire se una vittima della
camorra sia un camorrista:
per questo la Chiesa deve
confrontarsi con le forze
dell’ordine.
15 | novembre 2012 | narcomafie
Intervista ad Alessandra Cerreti di Emanuela Zuccalà
Essere donna
contro la ‘ndrangheta
Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo, Giuseppina Pesce: volti e nomi di donne
che hanno scelto di denunciare la ’ndrangheta, dopo averla vissuta sulla pelle.
Un magistrato ci racconta il lato femminile dell’organizzazione
Prima di lei, nessuna donna
imputata per fatti di ’ndrangheta aveva osato tradire e raccontare i segreti di famiglia a
un magistrato. Ma Giuseppina
Pesce, 33 anni, di Rosarno, Calabria tirrenica, figlia del boss
Salvatore Pesce, ha guardato
negli occhi i propri figli e ha
intravisto per loro un futuro
diverso. Nonostante mettesse
a rischio la propria vita. Di
fronte a lei, un’altra donna:
Alessandra Cerreti, di Messina,
sostituto procuratore alla Direzione distrettuale antimafia
di Reggio Calabria. Raccoglie
la deposizione di Giuseppina e
porta alla sbarra, nell’inchiesta
All Inside, 76 capi e gregari
della cosca Pesce: 13 di loro
sono già stati giudicati in primo
grado, 11 condannati; per altri
63 imputati il processo è in
corso al tribunale di Palmi.
Cerreti seguiva anche il tragico
caso di Maria Concetta Cac-
ciola, la testimone di giustizia
che non ha retto alle pressioni
della famiglia e si è suicidata
ingerendo acido muriatico, il
20 agosto 2011.
Con il magistrato cerchiamo
dunque di comprendere il lato
femminile della ’ndrangheta.
Donne che fino a oggi sono
16 | novembre 2012 | narcomafie
rimaste nell’ombra: si credeva
si limitassero a cucinare per i
latitanti, senza ricoprire alcun
ruolo attivo nell’organizzazione, a differenza delle donne di
camorra e di mafia. Oggi, invece, iniziano a emergere nelle
cronache per la capacità di
ribellarsi a un’organizzazione
criminale tra le più potenti al
mondo, con un fatturato annuo
da 44 miliardi di euro (quanto i
pil di Estonia e Slovenia messi
insieme) e tentacoli ben radicati anche nel Nord Italia.
Dottoressa Cerreti, dei circa
900 collaboratori di giustizia
presenti oggi in Italia, solo un
centinaio proviene dal crimine
calabrese. Si dice che pentirsi
in seno alla ‘ndrangheta sia
impossibile, per via dei legami
familiari che avvinghiano i
suoi membri. Qualcosa sta
cambiando?
Finora in molti sostenevano
l’impenetrabilità della ’ndrangheta perché, a differenza di
altre mafie, all’interno del
crimine calabrese spesso la
famiglia mafiosa coincide con
quella di sangue. Questo rende
più complesso e tortuoso il
percorso collaborativo e, nel
tempo, ha contribuito a creare
il falso mito dell’invincibilità
della ’ndrangheta. Invece negli
ultimi tre anni sono arrivati i
primi collaboratori a sferrare
colpi durissimi alle cosche.
Che cosa rappresenta il pentimento di una donna, in questo
contesto?
Le collaborazioni al femminile sono eccezionali sul piano
sociale e culturale, prima che
su quello giudiziario: non solo
spezzano il muro di omertà,
ma attestano che le donne
possono ribellarsi alla cultura maschilista che permea la
mafia calabrese, intaccandone
il prestigio criminale.
Si dice anche che le donne di
‘ndrangheta, a differenza di
quelle di camorra, ricoprano
ruoli marginali. Al massimo
sono “sorelle d’omertà”, cioè
vivandiere dei latitanti. Un
altro falso mito?
Certo. Svolgono mansioni preziose quando gli uomini di
famiglia sono detenuti: portano
le “ambasciate” nei colloqui
in carcere, garantendo così la
sopravvivenza dell’associazione mafiosa e la prosecuzione
delle attività criminali a questa
ricollegabili, come estorsione
e usura. Inoltre sono cassiere
della cosca o intestatarie fittizie di beni, ma soprattutto
trasmettono ai figli la mentalità e il vincolo mafiosi. È
emblematica la “ninna nanna
du malandrineddu”, in cui la
mamma canta al bimbo: «Cresci in fretta, impugna la pistola
per vendicare tuo padre...».
Qual è la molla che fa scattare
il pentimento in loro?
Queste donne vivono la collaborazione con la giustizia
17 | novembre 2012 | narcomafie
come un atto d’amore verso
i figli, per i quali desiderano
un futuro di scelte libere. Non
vogliono che i propri ragazzi
siano destinati a diventare soldati della cosca e che le ragazze sposino un mafioso, com’è
toccato a loro, condannate
a un’esistenza scandita dai
colloqui in carcere. E spesso
hanno come uniche finestre
sul mondo internet e i social
network: per quanto le si allevi secondo modelli obsoleti,
se sono intelligenti e vogliono
aprire i loro orizzonti, basta
un clic. In questo la ’ndrangheta non può controllarle. A
volte intraprendono relazioni
sentimentali in rete e, per la
prima volta a trent’anni, si
ritrovano a essere corteggiate
non come le figlie del boss
ma come donne qualunque. È
comprensibile che esplodano
emotivamente.
Com’è la vita di una donna
di mafia in Calabria?
Le collaboratrici dicono che,
di norma, a 13 anni la ragazza viene indotta al matrimonio per rinsaldare alleanze mafiose e a 14 mette
al mondo il primo figlio. In
quella subcultura la donna è
un patrimonio: strumento di
alleanza tra famiglie, capace
di procreazione e di trasmettere ai figli i valori mafiosi. I
bambini maneggiano coltelli
già a 12 anni, e a 14 la pistola. Ma c’era una donna che
mandava il figlio all’oratorio
contro il volere del marito,
sognando di farlo laureare e
dimostrando che, quando la
madre vuole spezzare il laccio
mafioso, può farcela. Quel
bimbo, oggi, vuole diventare
carabiniere.
Sull’appartenenza mafiosa,
alla fine, vince l’essere donna
e madre.
L’amore per i figli è l’unico
sentimento più forte di quello
che si prova per il padre, il
fratello e il marito. L’unico
che consente di superare il
vincolo familiare e collaborare
con la giustizia, sebbene ciò
che queste donne intendono
recidere non sia il vincolo
affettivo familiare ma soltanto quello mafioso. Un’altra
spinta può derivare dalla condanna capitale che alcune di
loro hanno sulle spalle: nella
’ndrangheta, l’adultera è infatti punita con la morte. E loro
si sentono colpevoli, addirittura meritevoli di morte. Alla
domanda: «Scusi, suo marito
la tradisce?», rispondono: «Sì,
ma lui è un uomo». Hanno
assorbito quella subcultura,
sentono il loro destino ineluttabile: la collaborazione,
in questi casi, è vista come
l’unica via di fuga.
Perché Giuseppina Pesce si è
fidata proprio di Alessandra
Cerreti?
Queste donne non si fidano
subito. Per le ragazze nate in
quel contesto, i giudici sono
gli “sbirri”: quelli che, quando loro erano piccole, hanno
fatto arrestare in piena notte
i loro padri e fratelli. Però
un magistrato donna può
abbattere la barriera del pudore, che in loro è fortissima.
Una volta, con un collega,
interrogai una collaboratrice
reticente sulla sua relazione
extraconiugale. Lei mi chiamò in disparte e mi disse:
«Io mi vergogno davanti a
un giudice uomo. Se vuole
lo dico solo a lei».
Durante il processo All Inside, alcuni detenuti gridavano
dalle gabbie il nome di un
suo collega uomo: rifiutavano di interagire con lei
perché donna...
Per la ’ndrangheta la donna può
non rappresentare un interlocutore di pari livello. Capita
che i detenuti “sbaglino” il
cognome del pm donna, nonostante lo conoscano bene
fin dalle indagini, proprio per
dimostrare di non riconoscere
la sua autorevolezza. Mi era
successo anche nel corso dei
processi di terrorismo islamico,
dei quali mi sono occupata al
tribunale di Milano: in quei
casi è addirittura accaduto che
i detenuti mi voltassero le spalle in aula, costringendomi ad
allontanarli.
Solo con l’omicidio Fortugno nel 2005 e la strage di
Duisburg nel 2007 si sono
accesi i riflettori nazionali e
internazionali sulla potenza
della ‘ndrangheta. Come mai
tanto ritardo?
La Calabria ha subito un desolante silenzio informativo. Le
testate nazionali non hanno una
sede qui e gli eventi criminali,
tranne quelli eclatanti, sono
trattati come beghe calabresi. Invece le recenti inchieste
condotte dalla nostra procura
insieme a quella di Milano,
prima fra tutte l’indagine Crimine, hanno dimostrato che la
’ndrangheta è ben altro rispetto
a ciò che si credeva o faceva
comodo credere: non un’accozzaglia di bande o di pastori
dediti al traffico di droga, bensì
una mafia tra le più potenti,
con il cuore e il cervello nella
provincia di Reggio Calabria e
ramificazioni ovunque.
18 | novembre 2012 | narcomafie
Perché l’indagine Crimine è
una pietra miliare nella lotta
alla ‘ndrangheta?
Perché ha accertato – e già
abbiamo importanti decisioni di primo grado – che la
’ndrangheta ha una struttura unitaria, articolata nei tre
mandamenti tirrenico, jonico
e Reggio città. Ognuno elegge
i propri rappresentanti che a
loro volta designano il capocrimine. La ’ndrangheta con
coppola e lupara è l’ennesimo
falso mito: è vero che resta
vincolata a tradizioni patriarcali, e questa coniugazione di
riti tribali e modernità è un
altro suo punto di forza. Ma
c’è anche la ’ndrangheta dei
colletti bianchi: oggi i figli
dei boss calabresi studiano
all’università, sono professionisti.
La Commissione parlamentare antimafia, in una sua
relazione, la definisce una
“mafia liquida”, insinuata
ovunque.
È esatto. Non c’è solo l’ala
militare da sconfiggere, ma
le sue commistioni a ogni
livello sociale, come le recenti indagini delle Dda di
Reggio e di Milano hanno
dimostrato: se si trattasse solo
di un gruppo di criminali,
la ’ndrangheta non sarebbe
diventata così temibile. Le
indagini Crimine e Infinito
hanno messo in luce le sue infiltrazioni in Lombardia, altre
inchieste si sono concentrate
su Piemonte e Liguria... Non
solo: la ’ndrangheta controlla
la politica, e dall’interno: se
prima era il politico a chiedere voti al boss, oggi è il
boss a tentare di far eleggere
i propri uomini.
Di nuovo: perché ce ne siamo
accorti così tardi?
Lo Stato italiano, dopo le stragi
del 1992, ha concentrato il suo
sforzo repressivo in Sicilia. Ciò
ha consentito alla ’ndrangheta
di espandersi, approfittando di
un generale clima di sottovalutazione. A questo va aggiunta la
mancata reazione della società
civile: nel 2011, dopo le bombe e il bazooka al procuratore
di Reggio Calabria Giuseppe
Pignatone, la gente calabrese
si è spontaneamente riunita
sotto gli uffici della procura
per manifestare il proprio sostegno ai magistrati. Non era
mai accaduto prima.
In Calabria l’assenza dello
Stato è evidente, a partire
dalla Salerno-Reggio, l’eterna
incompiuta, “il corpo di reato
più lungo d’Italia”...
Non condivido: lo Stato in Calabria c’è e credo che l’azione
giudiziaria degli ultimi tempi
lo abbia dimostrato. È evidente
che l’azione repressiva non
basta: il resto è compito della
politica nazionale e locale. Sì,
le indagini del mio ufficio hanno messo in luce che i lavori
sulla Salerno-Reggio Calabria
sono di esclusivo appannaggio
della ’ndrangheta. Siamo però
riusciti di recente a ottenere la
collaborazione di imprenditori
coraggiosi che hanno denunciato i loro aguzzini, consentendoci di arrestarli. Da queste
parti si tratta di un enorme
passo avanti.
Lei ha iniziato la carriera a
Milano, per poi venire a Reggio nel 2010. Un caso o una
scelta?
Presso il tribunale di Milano
ho vissuto un’esperienza pro-
fessionale e umana eccezionale. Da meridionale, tuttavia,
sentivo il dovere di fare di più
per la mia terra afflitta dalla
criminalità organizzata. È stata
una scelta vissuta come un atto
doveroso. Sono arrivata qui
il 20 gennaio 2010, nel pieno della stagione delle bombe
in procura, ma anche di un
nuovo impulso nella lotta alla
’ndrangheta: l’allora procuratore Giuseppe Pignatone e il
procuratore aggiunto Michele
Prestipino avevano compreso
che, se la ’ndrangheta è una e
forte, per sconfiggerla le forze
dell’ordine e le procure d’Italia
devono lavorare in squadra,
com’è avvenuto con l’indagine
Crimine condotta in sintonia
tra le procure di Reggio e Milano. I risultati non si sono
fatti attendere: 2.297 arresti e
due miliardi e 100 milioni di
euro di beni sequestrati in soli
quattro anni.
Quali sono i prossimi passi
da compiere?
Nel maxi processo a Cosa nostra, i giudici Falcone e Borsellino ottennero una sentenza
definitiva che dimostrava che
la mafia siciliana esiste. In Calabria non abbiamo una sentenza analoga: a ogni processo
dobbiamo dimostrare prima
l’esistenza della ’ndrangheta
poi l’appartenenza del singolo
imputato. Un lavoro immane.
Se la sentenza Crimine diverrà
definitiva, sancendo l’esistenza
e l’unitarietà della ’ndrangheta,
il panorama giudiziario cambierà totalmente. Se pensa che
la ’ndrangheta è stata inserita
nominalmente tra le associazioni mafiose solo con un decreto
legge del febbraio 2010, capirà
quanto ancora ci sia da fare.
19 | novembre 2012 | narcomafie
Trentesimo anniversario
Un poliziotto
semplice
È lungo l’elenco delle vittime di mafia dimenticate. Una di
queste è Calogero Zucchetto, giovane e brillante agente di
polizia che con il suo lavoro aveva dato fastidio ai boss
di Elisa Latella
20 | novembre 2012 | narcomafie
Palermo, 14 novembre 1982.
Trent’anni fa veniva ucciso a
colpi di pistola il poliziotto
Calogero Zucchetto, ventisette
anni. Erano trascorsi appena
due mesi dall’assassinio del
generale Carlo Alberto dalla
Chiesa, a cui i giornali, per la
rilevanza della figura, avevano
dedicato pagine intere e i telegiornali ampi servizi. Nei giorni
successivi a quel 14 novembre
1982, le cronache siciliane dedicarono invece poco spazio
alla morte del giovane agente,
sottovalutando i collegamenti
con gli eventi precedenti e con
il lavoro da lui svolto.
In servizio 24 ore al giorno.
Zucchetto aveva partecipato
alle prime scorte del giudice
Falcone, aveva collaborato con
il commissario Ninni Cassarà
nella squadra mobile di Palermo. In particolare, si occupava
della ricerca di latitanti mafiosi, faceva da esca in ambienti
mafiosi per riuscire a mettere
insieme i pezzi di un puzzle
apparentemente incomprensibile, in un periodo in cui non
era ancora iniziato il fenomeno
del pentitismo. Zucchetto aveva collaborato alla stesura del
rapporto “Greco più 161”, che
tracciava un quadro della guerra di mafia iniziata nel 1981,
dei nuovi assetti delle cosche,
segnalando in particolare la
crescita esponenziale del clan
dei corleonesi guidato da Totò
Riina. Come ricostruisce Saverio Lodato nel suo libro Dieci
anni di mafia. La guerra che lo
Stato non ha saputo vincere,
Zucchetto era un poliziotto di
strada. «Trascorreva nottate
intere nelle discoteche e nelle
paninerie palermitane. Aveva
ottimi agganci anche nel mondo grigio della prostituzione,
delle case di appuntamenti,
della sale corse, del mercato
ortofrutticolo, punti di riferimento naturali, questi, d’una
varia umanità che a Palermo
spesso incontra la mafia sul
suo cammino». E ancora:
«Spesso con il suo vespone,
anche quando non era in servizio, se ne andava in giro per
i viottoli degli agrumeti di
Ciaculli, gli occhi bene aperti a spiare i movimenti degli
uomini dell’esercito del boss
Michele Greco, soprannominato il papa». La mattina del
28 ottobre proprio da quelle
parti, il poliziotto di strada
intravede il latitante Salvatore
Montalto, poi il killer Pino
Greco denominato “scarpuzzedda” e Mario Prestifilippo,
altro tiratore scelto. Zucchetto
è solo, chiede rinforzi da una
cabina telefonica, ma li perde
di vista e deve rinunciare alla
cattura. Il blitz nella villa del
latitante Salvatore Montalto
avverrà solo il 7 novembre.
Medaglia d’oro al valore civile. Il 14 novembre 1982 era
domenica. Zucchetto venne
ucciso alle 21 e 25 con cinque
colpi di pistola calibro 38. La
mafia aveva voluto eliminare
l’ultimo anello, quello che
non stava in ufficio, ma in
strada, dove vedeva e capiva
troppo. Lo sapevano i suoi
superiori Montana e Cassarà,
vittime anni dopo: alle “famiglie” dedite al traffico di eroina certa polizia non piaceva.
Gli autori dell’assassinio di
Calogero Zucchetto vennero
in seguito individuati proprio
in Mario Prestifilippo e Pino
Greco. Come mandanti furono condannati i componenti
della cupola mafiosa: Totò
Riina, Bernando Provenzano, Calogero Ganci e altri. A
Calogero Zucchetto è stata
conferita una medaglia d’oro
al valor civile per aver pagato
con la vita un’intuizione che
aveva precorso i tempi. Una
strada a Palermo oggi porta
il suo nome.
In occasione del 28° anniversario l’associazione dei familiari
vittime della mafia ha ricevuto
e pubblicato l’affettuosa lettera di un collega. I due erano
stati insieme in servizio alla
Squadra Mobile di Palermo,
nella sezione investigativa di
Cassarà. Ecco la frase più significativa di questo ricordo:
«L’onestà era la linfa con la
quale nutriva il suo comportamento, dettato dalla necessità
di riaffermare la legalità in
Sicilia. Noi due non avemmo
tanto tempo per stare insieme, come invece avevamo in
animo di fare… ma l’amicizia
che ci legò, anche se per pochi
mesi, Cosa nostra non riuscì a
togliercela».
21 | novembre 2012 | narcomafie
considerato un disvalore. Non
avevo neanche più l’auto, che
loro stessi mi avevano prima
distrutto e poi rubato. Adesso
sono a pezzi. Avrei bisogno
di lavorare, perché nessuno
più viene nel negozio di chi
ha denunciato. È come se il
colpevole, in tutta questa storia
fossi io. Vorrei partecipare alle
fiere, per tentare di rimettermi
in piedi. Non voglio regali, ma
solo un’opportunità da parte
dello Stato per lavorare. Così,
ho scritto una lettera. Prima
al sindaco Orlando e in questi
giorni al nuovo presidente della
regione Rosario Crocetta. Nella
nota chiedo aiuto, e di potere
andare alle fiere pubbliche senza pagare, perché soldi non ne
ho. Alle istituzioni chiedo solo
una possibilità, quella di vivere
una vita più dignitosa. A dicembre, sicuramente riceverò lo
sfratto, perché non riesco a pagare l’affitto. Intanto, il processo
va avanti. Io ho denunciato tre
estortori, ma la strada è ancora
lunga. Dall’amministrazione di
Palermo mi è arrivata risposta.
Forse a breve avrò la possibilità
di presenziare alle fiere. Però
sto ancora aspettando. Non mi
arrendo. Partecipo alle manifestazioni, vado nelle scuole a
raccontare la mia storia e a dire
che denunciare è importante.
Altrimenti si è doppiamente
vittime».
nuoveresistenze
resistenze
I soldi, però non sono bastati
comunque. Gli usurai, legati al
clan dei Lo Piccolo di Palermo,
cominciano a intimidirmi. Prima erano solo minacce verbali.
“Se non paghi ti ammazziamo
dicevano”, oppure “Se ci tieni
alla tua famiglia comportati
bene”. Poi, man mano, tutto è
diventato ancor più tragico. Mi
hanno sparato due colpi di pistola per strada, mancandomi,
fortunatamente. Forse era solo
un avvertimento. Una mattina,
davanti al cancello di casa,
ho trovato il disegno di una
sagoma di un uomo trafitto da
un coltello. Poi sono arrivate
le percosse, mi hanno rotto
un braccio. A quel punto ho
chiamato il numero verde di
un’associazione antiracket e ho
raccontato tutto». La telefonata
è poi passata alla polizia di
Palermo, che ha convinto l’imprenditore siciliano a denunciare tutto. «Ho vissuto e vivo
momenti di povertà e solitudine
spaventose. Mi sono rivolto alla
Caritas per avere da mangiare
per me e per la mia famiglia,
anche se ho ricevuto 20 mila
euro del Fondo Antiusura che
mi sono serviti solo a ripianare parte dei debiti che avevo
contratto. Così è iniziata la mia
solitudine. Amici e parenti mi
hanno lasciato solo, come se il
colpevole fossi io. Denunciare,
in queste zone, viene quasi
Storie di chi si ribella ogni giorno
«Sono stato per anni vittima di
usura e di racket. Poi ho deciso
di denunciare». Bernardo è un
artigiano ceramista di Palermo. Fino al 1998 ha avuto un
piccolo laboratorio con otto
dipendenti. «Gli affari andavano bene, ma di artigianato non
ci si arricchisce, soprattutto
quando lavori la ceramica. Mio
malgrado, riuscivo ad andare
avanti. Stavo ristrutturando
casa, e avevo bisogno di 40
milioni». Bernardo si rivolge
allora a un conoscente per il
prestito. «Mi viene data subito
la somma, ma con il vincolo
di pagare due milioni al mese.
In poco tempo quel debito è
diventato di 120 milioni. Mi
erano morti tre figli in cause
disastrose, e quello che mi è
rimasto in vita soffre di una grave malformazione che richiede
cure specifiche e costose. Non
ce la facevo più a pagare. Così,
sono stato costretto a rivolgermi
a un altro usuraio, per pagare
il primo. Mi ha fatto un prestito di 15 mila euro, anche
quelli destinati a triplicarsi
in poco tempo. Non potevo
più vivere». Nel 2003 Bernardo decide di vendere quella
casa che gli era costata tanto.
«Ho preso un appartamento
in affitto, dove vivo tutt’ora,
che d’inverno diventa invivibile perché ci piove dentro e
l’umidità ci entra nelle ossa.
di Laura Galesi
Denunciare
a Palermo
Antimafia
all’ombra della
madonnina
di Marika Demaria
l’antimafiacivile
cosenostre
22 | novembre 2012 | narcomafie
Novembre è stato, per la Lombardia, un mese all’insegna
dell’antimafia. Al centro delle
iniziative i beni confiscati e il
loro riutilizzo sociale, concerti,
presentazioni di libri, dibattiti,
celebrazioni di anniversari.
L’adesione è stata massiccia,
termometro di una società che
non vuole farsi narcotizzare
da chi persevera nel dichiarare che “la mafia al Nord non
esiste”. Eclatanti, a tal proposito, furono le affermazioni di
Letizia Moratti e Gian Valerio
Lombardi, nel 2010 rispetti-
vamente sindaco e prefetto
di Milano, che negavano con
forza l’esistenza delle mafie
su quei territori. Pochi mesi
dopo – la notte tra il 13 e il 14
luglio – si registrarono oltre
trecento arresti, frutto della
maxi operazione “CrimineInfinito” che ha percorso l’asse
Milano-Reggio Calabria.
Negare la presenza delle mafie è come negare l’evidenza.
Non a caso, lo slogan della
prima edizione del Festival
dei Beni confiscati alle mafie
(organizzato dal Comune di
Milano in collaborazione con
Libera e l’Agenzia nazionale
per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati
e confiscati) era “La Mafia non
esiste”, firmato in corsivo dalla
stessa mafia.
Tre giorni di eventi culturali
ospitati in diciannove immobili
confiscati alla criminalità, oltre
a tre luoghi ristrutturati ex novo
e restituiti alla collettività. Il
primo era un ex negozio sito al
numero 25 di via Cenisio, assegnato all’Associazione Aldo
Perini, che si occupa dell’assistenza ai malati di Sclerosi
laterale amiotrofica (Sla). Un
appartamento in via Canonica 87 è invece stato affidato
alla Fondazione Don Gnocchi
al fine di ospitare ragazzi con
disabilità, mentre i genitori
dei bambini ricoverati presso
gli ospedali pediatrici milanesi potranno essere ospitati
presso la struttura Pio Istituto
di Maternità, alla quale è stato
affidato l’appartamento di via
Baldinucci 13.
Sabato 10 novembre è stata inoltre inaugurata la “Bottega dei
sapori e dei saperi” all’interno
della quale si possono acquistare i prodotti biologici frutto
del lavoro delle cooperative
23 | novembre 2012 | narcomafie
sociali che sorgono sui terreni
confiscati alle mafie. Una realtà,
quella della confisca dei beni
alla criminalità organizzata, che
è radicata anche in Lombardia:
secondo i dati dell’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e
la destinazione dei beni sequestrati e confiscati, infatti, questa
regione si colloca al quinto
posto in Italia per numero di
beni confiscati alle mafie, con
807 immobili attualmente confiscati. Nella sola città di Milano
si contano circa trecento beni,
tra immobili e aziende, sottratti
alle mafie.
Il primo festival dei beni confiscati alle mafie è stata l’occasione per presentare al pubblico
l’ultimo libro di Nando dalla
Chiesa e Martina Panzarasa
“Buccinasco. La ’ndrangheta
al Nord” (Einaudi). La pubblicazione ha scatenato feroci
polemiche, che hanno trovato
spazio anche sul sito del Comune. Proprio in questa vetrina
telematica è stata pubblicata
una lettera aperta a firma del
sindaco di Buccinasco Giambattista Maiorano, il quale, facendosi portavoce, lamenta il fatto
che gli autori del libro hanno
fornito un’immagine distorta
della cittadina: «Buccinasco
non è sinonimo di male – si legge – non basta essere calabresi
e neppure portare un cognome
compromesso per essere un
poco di buono. È questa l’immagine che non condivido e
che il libro, malgrado l’intento
che si propone, rischia di dare
della nostra città».
In difesa del sociologo e del
libro – che nell’arco di un
mese è andato in ristampa – si
è schierata anche l’associazione Libera, di cui Nando dalla
Chiesa è presidente onorario.
In una nota si legge che «non
esprimiamo solo solidarietà
ma corresponsabilità. Ancora
una volta Libera sceglie di stare
da una parte precisa, quella di
Nando dalla Chiesa e di tutti
coloro che si spendono con
professionalità e scrupolo per
raccontarci i passi giusti per
combattere le mafie e costruire
percorsi di verità e giustizia».
Queste due parole – verità e
giustizia – catapultano idealmente in una serie di altri
eventi che si sono succeduti a
Milano e dintorni a novembre.
In particolare, nella settimana
dal 19 al 25, si sono svolti
dodici incontri organizzati
dalle associazioni Libera, Saveria Antiochia Omicron, dalla
scuola di formazione politica
Antonino Caponnetto e dal
Coordinamento delle scuole
per la legalità e la cittadinanza
attiva. Docenti universitari,
magistrati, scrittori hanno tenuto lezioni delineando i contorni sempre più a geometria
variabile del fenomeno delle
mafie ed offrendo significativi
spunti di riflessione ed esempi concreti di contrasto della
criminalità organizzata.
L’apice di questi incontri si è
toccato il 24 novembre, giorno
del terzo anniversario della
scomparsa e della morte di
Lea Garofalo.
Proprio in quei giorni era giunta la notizia che in un terreno a
San Fruttuoso, a Monza, erano
stati ritrovati dei resti carbonizzati di un corpo. L’esame
del Dna ha rivelato che si tratta
del cadavere di Lea Garofalo:
determinante il referto di una
radiografia, che combaciava
con un’altra in possesso della
figlia Denise. La notizia non
svuota di brutalità l’efferatezza
del delitto, ma fa intravedere
una speranza: un funerale e
una degna sepoltura per Lea,
un luogo dove deporre un fiore
alla sua memoria. La vicenda
della giovane testimone di giustizia che ha avuto il coraggio
di denunciare la ’ndrangheta,
la sua famiglia d’origine e i
membri della famiglia che aveva cercato di costruirsi segna
una pagina importante della
lotta alle mafie, una lotta interna, al femminile, dove le donne
si sacrificano per il bene dei
propri figli, per garantire loro
un futuro degno di tale significato. Ma c’è un’altra donna,
ancora più giovane, che continua la sua battaglia, sfidando
paura e omertà: Denise Cosco,
la figlia di Lea Garofalo.
A lei, al suo coraggio, alla sua
vita sotto protezione sono andati i pensieri delle persone
che nel pomeriggio di sabato
hanno partecipato alla manifestazione “Le radici del domani” nel corso della quale, davanti alla biblioteca del parco
Sempione a Milano, il presidio
di Libera intitolato proprio
alla memoria della testimone
di giustizia, di concerto con
l’amministrazione comunale,
ha piantato un albero in ricordo
di Lea Garofalo. Esattamente
lì, dove delle telecamere basculanti di sorveglianza hanno
registrato gli ultimi attimi che
madre e figlia hanno trascorso
insieme, quel 24 novembre
2009. Prima che Carlo Cosco
arrivasse per accompagnare
Denise dai propri zii, prima
che Lea rimanesse da sola a
camminare lungo quel marciapiede, prima che Carlo Cosco
tornasse per portarla verso il
suo tragico destino.
Sempre sabato 24, in contemporanea all’evento milanese,
a Monza moltissimi cittadini
deponevano fiori davanti alla
targa posta all’ingresso del
cimitero, che recita: “Il Comune di Monza ricorda Lea
Garofalo, esempio di madre
coraggio, testimone per la legalità”. A poche centinaia di
metri, il terreno di San Fruttuoso posto sotto sequestro
dai Carabinieri, sul quale si
sono consumati gli ultimi atti
di quella che ha tutti i contorni di una tragedia greca.
dialogo tra antimafia virtuale e antimafia reale
a cura di Marcello Ravveduto
24 | novembre 2012 | narcomafie
Il papà dei pulcini
La forza di internet sta nella pos
possibilità di arrivare nei posti più
lontani rimanendo davanti ad
uno schermo. Così con un click
ho soddisfatto la mia curiosità di
visualizzare un narcocorrido di
cui avevo sentito parlare. Cos’è?
Una genere musicale che racconta
le storie dei narcos messicani. La
canzone è El papa de los pollitos (Il
papà dei pulcini, che in gergo sono
gli uomini dei cartelli della droga).
Il papà, chiaramente, è il boss. Ho
tentato di tradurre il testo e, se non
ho fatto troppi errori, dovrebbe
essere questo: «Levati che mi togli
la luce./ O ti muovi o ti sposto./
Tu sai che non scherzo/ ho una
pessima reputazione /…/ Sono il
papà dei pulcini./ Finché vivo, la
piazza/ mi appartiene. Decido io/
qual è l’obiettivo e chi non / è ben
disposto con me è morto./ Io non
rispetto le gerarchie./ Nemmeno il
mio “corno di capra” (in gergo il
mitragliatore Ak-47 nda)./ Tu sai
che io sono il capo/ E che nessu
nessuno può farcela con me./ È meglio
che mi si rispetti/ perché i miei
uomini sono cattivi./ Basta poco
per metterli in moto/ colpiscono
chi sbaglia con crudeltà./
Continuo a reclutare gente./ La mia
impresa (il narcotraffico) è garantita/ dallo stato di Sinaloa/ …/
Ho i nervi d’acciaio,/ è un’eredità
di famiglia./ Non temo nessuno./
Sono cresciuto in stile siciliano/
per questo in qualsiasi campo/ il
mio cartello sale sempre più in
alto./ Tu sai che sono il capo/ e
che non sono molto mansueto./ È
meglio che mi si rispetti/ …»
Il boss si contraddistingue per la
sua reputazione di delinquente
pronto ad usare i suoi uomini per
colpire con micidiali armi automatiche chiunque, amici e nemici, senza rispetto per le gerarchie
interne. Uomini coraggiosi (dove
coraggio è sinonimo di crudeltà) la
cui valenza risiede nella capacità
di scatenare una violenza senza
fine, affidata ai colpi mortali del
corno di capra. Il narcotraffico
è fonte di lavoro per migliaia di
persone, divenuto parte integrante
dell’economia nazionale, garantita
direttamente dai più alti livelli
istituzionali («La mia impresa è
garantita/ dallo stato di Sinaloa»).
Infine il capo, per darsi un tono
di superiorità mafiosa, afferma di
essere cresciuto in «stile siciliano».
Si tratta di uno stereotipo utilizzato per richiamare un contesto
criminale, in grado di influire sulla
mentalità collettiva attraverso un
capillare controllo del territorio,
connotato da un potere intimidatorio totalizzante. È evidente
che nell’atteggiamento pacchiano
e gradasso del protagonista non
vi è nulla che possa aderire alla
concezione dell’essere mafioso.
Ma l’evocazione della Sicilia
serve a rafforzare le sue qualità
di uomo d’onore. Ciò conferma
l’esistenza di una mitologia in cui
la mafia rappresenta una specie di
empireo criminale in cui possono
sedere solo i boss che hanno un
incontestabile carisma. Il video
è più esplicito delle parole. Nella
prima immagine si vede una mano
caricare un mitragliatore. Subito
dopo, un uomo (Mario Quintero
il vocalist dei Los Tucanos de Tijuana) spara raffiche di pallottole
verso la telecamera. Le scene si
alternano tra la posa da “pappone”
del protagonista e la storia di un
narcotrafficante di Tijuana, capitale dello stato messicano Bassa
California. Lo status symbol è un
super Suv in cui si aggira ricevendo fasci di banconote da uomini
appostati agli angoli della strada.
Tra questi un ragazzo lo tratta con
aria di sufficienza come se fosse
uno qualsiasi. Il set si sposta nel
privé di un night club. Il boss sta
discutendo di affari, intorno ad
un tavolo da biliardo, con i suoi
“pollitos” (si vede una piantina
dei cunicoli sotterranei in cui la
droga raggiunge gli Usa, eludendo il controllo della dogana). La
riunione viene interrotta quando
alcuni trascinano dentro il giovane
spavaldo che lo aveva ignorato. Gli
tira i capelli e lo schiaffeggia. Poi
gli infilano il dito indice in una
ghigliottina trancia sicari e zac!
L’indisponente si accascia al suolo
e vien buttato fuori. Come nulla
fosse accaduto si brinda e, mentre
i narcos sorseggiano champagne, si
compiono una serie di regolamenti
di conti: un uomo grassoccio colpito da due fucili a canne mozze; due
sgherri malmenati nei pressi di un
deposito; un politico assassinato
all’uscita di un edificio; due cinesi
che contrabbandano orologi; altri
due trafficanti a cui sottraggono i
guadagni. Infine si ode un colpo
di pistola e appare il titolo della
canzone. Los Tucanes sono uno
dei gruppi più famosi del genere,
talmente bravi che il procuratore
generale di Tijuana li ritiene coinvolti nel narcotraffico. Il teorema
applicato dai magistrati è trasparente come l’acqua: se conoscono
così bene le avventure dei narcos
significa che li conoscono e se li
conoscono vuol dire che sanno
dove stanno. Immaginate cosa accadrebbe se un simile teorema fosse
applicato ai nostri neomelodici. Ma
non pensiamoci queste sono cose
che accadono in Messico dove in
sei anni (2006-2012) hanno ammazzato 39 cantanti perché a furia
di cantare le gesta dei narcos si sono
del tutto immedesimati…
25 | novembre 2012 | narcomafie
Usura
inchiesta
La relazione della Direzione nazionale antimafia, il rapporto
di Sos impresa, le indagini condotte a ogni latitudine del Paese tracciano drammatici contorni del fenomeno usura. Una
piaga che costringe alla chiusura decine di aziende al giorno,
mettendo in ginocchio migliaia di famiglie. Eppure le denunce
non aumentano. Anzi, lo strozzinaggio gode di ottima salute,
come rileva il documentato dossier di Libera che Narcomafie
pubblica in questo numero
26 | novembre 2012 | narcomafie
Il Bot
delle mafie
C’è chi la crisi la combatte e c’è, invece, chi la cavalca facendo
affari, investendo, controllando il territorio, assumendo personale e prestando soldi. Fiumi di soldi. Tutto e subito, ma
con gli interessi, naturalmente. È usura di mafia, quella gestita
dalla criminalità organizzata. Clan che, da tempo, hanno capito
come fare soldi con i soldi
Usura
di Peppe Ruggiero
Sono ben 54 i clan mafiosi che
negli ultimi ventiquattro mesi
compaiono nelle inchieste e
nelle cronache giudiziarie che
riguardano i reati associativi
con metodo mafioso finalizzati
all’usura. Sono presenti i “soliti
noti”, il gotha delle mafie: dai
Casalesi al clan D’Alessandro,
dal clan Cordì ai Casamonica,
dai Cosco alla ‘ndrina dei De
Stefano, dai Terracciano ai Fasciani, dai Mancuso ai Parisi,
dai Mangialupi al clan della
Stidda. E con tassi usurari che
cambiano di regione in regione.
In Puglia, per esempio, i clan
hanno raggiunto il 240% di tassi
annui; in Calabria, nel vibonese,
i clan hanno un tariffario pari
al 257%, nel cosentino e nella
locride si scende a 200%. Nelle
metropoli si registra il record:
a Roma, con tassi anche vicino
al 1.500%, che scendono però
a 400% a Firenze e a 150% a
Milano. I tassi sono altalenanti
anche nelle province. I clan nel
nord-est padovano chiedono
fino al 180% annuo, nel mode-
nese tra il 120 e il 150%, mentre
ad Aprilia, nel basso Lazio, si
è raggiunta la cifra record di
1.075% di tasso annuo. Cifre
che ci parlano di soldi, tantissimi soldi e di un giro di affari
talmente enorme che quantificarlo con esattezza è impresa
pressoché impossibile, anche
perché ciò di cui si parla è solo
la punta di un’iceberg; è solo
quello che si riesce ad intravedere attraverso le denunce e le
successive inchieste giudiziarie:
rispetto all’enorme portata di
questo affare è cronicamente
scarso il dato delle denunce, per
tanti motivi, figuriamoci ora in
tempo di crisi, figuriamoci con
l’attuale fame di denaro. «Ritornerei a restituirgli quello che gli
ho pagato. Se non fosse stato per
loro il mio negozio ora sarebbe
sparito», diceva determinato
(ma anche arrabbiato con le
banche) una vittima dopo aver
rimborsato agli emissari del clan
D’Alessandro, Castellammare di
Stabia, un prestito con il 120%
di interessi.
Un affare strategico. Tuttavia,
nonostante l’enorme sommerso,
alcuni dati riferiti ai sequestri
operati dalla magistratura in giro
per l’Italia ai danni di alcuni clan
mafiosi nel corso di importanti
inchieste giudiziarie, ci offrono
uno spaccato che comunque rende l’idea: oltre 41 milioni di euro
al clan Terracciano emigrato in
Toscana, circa 100 milioni all’imprenditore usuraio di Sabaudia,
Salvatore Di Maio, 70 milioni
di euro il tesoro sequestrato al
clan Moccia nel napoletano. E
ancora oltre 10 milioni di euro
al clan Valle Lampada che dalla Calabria hanno messo radici
nell’hinterland milanese, circa
7 milioni di euro il tesoretto di
usura sequestrato all’ex contrabbandiere Mario Potenza, grazie
alle dichiarazioni del boss pentito
della camorra napoletana Salvatore Lo Russo; oltre 15 milioni al
clan Parisi in Puglia, 5 milioni
al clan calabrese Facchineri che
operava in Lombardia, oltre 10
milioni il tesoretto del clan dei
Casamonica a Roma. Sono alcune
istantanee di questo dossier che
Libera vuole intitolare “L’usura,
il Bot delle mafie”, prendendo
l’immagine dei buoni del tesoro
dal pm Vincenzo Luberto, che la
usò all’indomani dell’operazione
“Star price 2”, nella quale, secondo l’accusa, diverse somme
di denaro frutto dei proventi
dell’usura sarebbero state utilizzate per finanziare alcune attività
commerciali. Il tutto per un giro
d’affari vicino ai 10 milioni di
euro, gestito da tre potenti gruppi
mafiosi del cosentino. Un “bot”,
quello delle mafie, che è sempre
più “delocalizzato”, rispondendo
così alla natura strategica di questo affare quando è gestito dalla
criminalità organizzata: permette
ai clan di entrare silenziosamente
in territori vergini dal punto di
vista dell’aggressione mafiosa e
nello stesso tempo permette di
far confluire nell’economia pulita
fiumi di soldi sporchi, da riciclare. E dunque i casalesi fanno
affari in Veneto e in Toscana, la
’ndrangheta occupa le regioni
del Nord Italia – Lombardia, Piemonte ed Emilia –, mentre Cosa
nostra rimane legata al suo territorio di origine. Un’usura, quella
gestita dalle mafie, che si mostra
stabile nelle grandi metropoli,
e che negli ultimi anni penetra
velocemente e in silenzio nelle
ricche città di provincia.
Aziende nel mirino. Che siamo
davanti a un fenomeno mafioso
di entità preoccupante lo dimostrano anche i dati provenienti
dalle informazioni Uif (Unità di
informazione finanziaria) della
Banca d’Italia su segnalazioni di
operazioni sospette: solo secondo
i riferimenti della Guardia di
finanza, a fronte delle oltre 18
mila segnalazioni per le quali nel periodo 2010-2011 si è
completato l’approfondimento
investigativo, 8.365 (circa il 46%)
sono confluite in procedimenti
penali aperti presso varie procure per riciclaggio e reimpiego
di proventi criminali, usura,
abusivismo finanziario, truffa,
reati tributari. Insomma, i clan
hanno fatto di questa attività un
ramo fondamentale della loro
impresa, avendo la possibilità
di riciclare gli immensi proventi
del traffico di droga o del giro
delle scommesse, e in tal modo
penetrando a fondo nel tessuto
dell’economia legale. Nel loro mirino aziende redditizie e attività
commerciali floride che in tempo
di crisi – anche quelli meglio
strutturati – hanno la necessità urgente di accedere a crediti
per non perdere commesse e di
conseguenza essere tagliati fuori
dal mercato. In questi casi solo
l’usuraio mafioso può essere in
grado di movimentare e rendere
disponibili ingenti somme di
denaro in breve tempo. E con
i soldi, accompagnati da una
costante violenza psicologica ma
anche fisica, il passo successivo è inevitabile: il prestito ad
usura, che da un lato permette
al titolare dell’azienda di salvarla (questo è ciò che crede),
dall’altro il clan si impossessa
di fatto di quell’azienda e di
quell’attività economica trasformandola in una propria
lavanderia. Con rischi vicini
allo zero, perché l’usura, e a
maggior ragione quella mafiosa,
è un reato che non si denuncia.
È un reato che si basa spesso
sulla mancata percezione della
vittima di essere stritolato in
un affare illecito (lui sta solo
salvando la sua azienda, anche
se a costi un po’ più alti….!),
si basa sull’omertà, e su un
rapporto vittima-usuraio ma-
fioso che segue la dipendenza
psicologica, quasi fisica. E per
paura, ma talvolta anche per
vergogna, difficilmente qualcuno si presenta dinanzi alle
forze dell’ordine per denunciare. Questo emerge anche dagli
atti di inchieste come “Infinito”,
della Dda di Milano, che aveva
portato a oltre 170 arresti e a 110
condanne con rito abbreviato, e
dove gli investigatori avevano
scoperto che oltre al traffico di
droga e alla detenzione di armi
(kalashnikov, mitragliette Uzi,
bombe a mano), l’organizzazione
si occupava di usura ed estorsioni
nei confronti di imprenditori
locali, soprattutto di origini calabresi. Emblematiche le parole del
procuratore aggiunto di Milano
Ilda Boccasini. Quasi nessuno
ha denunciato le vessazioni,
restando in un clima di omertà
che ha ostacolato le indagini.
Boccassini ha ricordato come di
fronte ai «tanti episodi di intimidazione e violenza subiti dagli
imprenditori lombardi, questi
dicano “noi non abbiamo ricevuto minacce, mentre noi sappiamo
dalle indagini che non è così”».
«È evidente – ha detto Boccassini
– che la classe imprenditoriale
ha convenienza a rivolgersi alle
organizzazioni criminali piuttosto che allo Stato». Il procuratore
aggiunto ha poi ricordato che
molte vittime, magari di origine
calabrese e gravate da debiti, sono
portate a rivolgersi «alle persone
sbagliate» per appianare i loro
problemi. «Il dato inquietante è
che questa situazione permane
– ha proseguito Boccassini –;
fin quando la classe imprenditoriale nazionale non capirà
che stare con lo Stato è più
pagante che stare con l’antistato,
non penso che il problema si
risolverà domani».
Usura
27 | novembre 2012 | narcomafie
Il bilancio dei cravattari
Usura
28 | novembre 2012 | narcomafie
Aumenta
l’usura dei clan,
ma le denunce
crollano.
Un rapporto
di Sos Impresa
fotografa
il fenomeno
di Laura Galesi
Capitali dell’usura italiane si confermano Roma e Napoli. Un’usura
sommersa, camaleontica, violenta,
“mordi e fuggi”, che segna uno scarto
incredibile tra le richieste di aiuto e
la realtà giudiziaria. Ma le denunce
continuano a diminuire, complice
la crisi economica. Secondo i dati
di Sos Impresa, dal 2010 al 2012
hanno chiuso in Italia circa 450mila
aziende commerciali e artigianali.
«Una stima prudenziale fa ritenere
che almeno un terzo di queste ha
cessato la propria attività per grave
indebitamento da usura». L’usura
incravatta e costringe alla chiusura
cinquanta aziende al giorno, e ha
bruciato, solo nel 2011, 300mila
posti di lavoro. A questo fenomeno si
aggiunge quello dell’indebitamento
medio delle famiglie. Sono 600 mila
gli italiani invischiati in patti usurai,
di questi un terzo sono commercianti.
Il Lazio e la Campania si confermano
le regioni a più alto rischio usura, ma
anche le altre, sia del Mezzogiorno
che del Nord produttivo, sono state
gravemente colpite dal fenomeno.
Sono questi dati che fanno comprendere la vastità e la pervasività
di un fenomeno che, purtroppo,
cresce incontrastato nel silenzio.
“Nell’anno che si chiude, al nostro
numero verde sono arrivate più di
3.500 richieste di aiuto – spiega Lino
Busà presidente di Sos Impresa –,
ma paradossalmente le denunce
continuano a diminuire, rendendo
il reato del tutto invisibile. Secondo i
dati della Dia, le denunce sono state
solo 230 nel 2011, un risultato che
porterebbe a dire che l’usura non
esiste. Eppure l’enorme quantità di
denaro sequestrato agli usurai, tra
l’altro in continuo aumento, ci conferma un fenomeno vasto e pervasivo.
Dal 1996, che rappresenta l’anno di
introduzione della Legge 108, a oggi,
si assiste a un calo sistematico delle
denunce. Il numero dei reati segnalati
non permette agli studiosi di rilevare
l’entità del fenomeno. Prendendo in
considerazione l’ultimo triennio,
emerge che nel 2009 a fronte di 369
casi di usura si sono verificati 736
arresti, nel 2010 su 228 casi ci sono
stati 1.332 arresti, nel 2011 230 casi
e 1.223 arresti. Il meccanismo rileva
dunque cinque persone arrestate per
ogni caso di usura.
L’usura di oggi ci appare con un
doppio volto da esibire a seconda
delle regole da rispettare per la concessione del prestito, delle garanzie
richieste, delle tipologie d’approccio:
“la faccia pulita e quella sporca”.
Per Sos Impresa, l’usura dalla faccia
pulita può assumere diverse aspetti.
Un primo gruppo è costituito da
pseudo- società di intermediazione o
di servizi finanziari. «Un fenomeno
in espansione che gioca sulla fiducia
nutrita da una persona bisognosa
nei confronti di una struttura, apparentemente legale e impersonale». I
prestiti di queste finte finanziarie non
sono mai di grossa entità e i tassi di
interesse iniziali sono abbastanza
tollerabili, così che il meccanismo
di usura o truffa scatta sul tasso di
interesse che non è mai scalare, ma
fisso, o sull’obbligo di acquisto di
altri servizi tanto inutili, quanto onerosi. Un secondo gruppo è costituito
da una ristrettissima minoranza di
“professionisti insospettabili”. Sono
strutture costituite da investitori
professionisti, che operano di sponda
con alcuni bancari infedeli, dai quali
ricevono una clientela selezionata, e
intervengono per operazioni superiori a 20 mila euro. Un terzo gruppo è
costituito più direttamente da pochi
bancari. «Sono loro stessi che, conoscendo le difficoltà economiche
del malcapitato, si autopropongono
per un prestito personale. Tutti e tre
i gruppi hanno una finalità comune: agiscono non solo per lucrare
sugli interessi, con la modalità del
rinnovo degli assegni, ma puntano
a una azione espropriativa. L’obiettivo è svuotare il malcapitato di
ogni suo bene e attività economica».
L’Italia d’altronde sembrerebbe una
Repubblica fondata sul debito. L’ultimo dato, in ordine di tempo, viene
dall’Istat. Il 56%, una famiglia su
due, si trova in una situazione di
crisi economica. Il 38, 4% delle famiglie italiane non saprebbe affrontare
un’emergenza il cui costo è superiore
a 800 euro e mentre il 46% rinuncia
alle vacanze, il 17,9% non usa più il
riscaldamento neanche per la casa
durante la stagione invernale. In un
solo anno, la quota di individui che
vivono in famiglie deprivate, ovvero
con tre o più sintomi di disagio
economico, è salita dal 16 al 22,2%.
A livello territoriale, la maggiore
concentrazione di famiglie povere
è nel Mezzogiorno (22,7% contro
5,2% del centro-nord).
La crescita dell’usura mafiosa.
Tradizionalmente le organizzazioni
mafiose e criminali si sono dedicate
solo marginalmente a questo tipo di
reato, spesso limitandosi al pizzo.
Da qualche anno però le cose sono
nettamente cambiate. La criminalità
mafiosa è cresciuta acquisendo quote
sempre più ampie del mercato del
prestito a nero. Dal 2008 al 2011,
la presenza dei clan nell’usura è
raddoppiata, passando dal 20 al 40
per cento. Questo fenomeno non
tralascia le regioni del nord e centro
Italia, dove alcune famiglie hanno
affinato il sistema di penetrazione al
di fuori delle regioni di tradizionale
radicamento, che parte dalle condizioni di difficoltà economiche. Sos
Impresa ha esaminato i diversi casi di
usura dal 2008 al 2011 e ha mostrato
come l’usura criminale mafiosa copra
zone sempre più ampie di mercato
nazionale. Questa forma di usura ha
trovato forza anche per il modificarsi
del mercato del “prestito a strozzo”.
Infatti, cresce da parte delle vittime
l’entità di capitale richiesto. Si tratta
di somme cospicue che il prestatore
di quartiere non è in grado di soddisfare, mentre l’usuraio del clan,
spesso il “ragioniere” che gestisce
la liquidità derivante dal traffico di
droga e dalle scommesse, nel giro di
poche ore può rispondere alle richieste più impegnative. «Avevo chiesto
50 mila euro per mantenere in piedi
la mia azienda – racconta Antonio,
imprenditore campano – . Ero in crisi,
e mi sono rivolto a un conoscente.
Non sapevo fosse un usuraio. Avrei
dovuto restituire la somma a poco
a poco, con un piccolo interesse
mensile, ma in breve tempo questo
debito si è triplicato. A quel punto,
non ero più in grado di pagare, loro
volevano impossessarsi della mia
azienda. Alla fine ho denunciato,
ora ho ripreso a lavorare e gli affari
lentamente crescono». Mafia Spa
è il più grande agente economico
del paese. Una holding company,
articolata su un network criminale, fortemente intrecciato con la
società, l’economia, la politica.
Un sistema, in grado di muovere
un fatturato che si aggira intorno ai
138 miliardi di euro, con un utile
che supera i 78 miliardi al netto
di investimenti e accantonamenti.
Questi elementi, hanno prodotto un
cambio di mentalità. Molti boss non
considerano più spregevole questa
attività e si forgiano del titolo di
usuraio mafiso, colui che interviene
a sostegno di chi ha bisogno di somme rilevanti, come possono essere
commercianti o imprenditori che
hanno la necessità di movimentare
notevoli somme per non essere
tagliati fuori dal mercato o per non
perdere le commesse. «È sotto questo duplice aspetto che l’usura entra
nell’interesse mafioso e cioè quello
di offrire un servizio funzionale,
per accrescere il consenso sociale
e per continuare ad affermare un
criterio di sovranità nei luoghi
in cui agisce, come svolgere una
funzione alternativa al riciclaggio,
consentendo di costruire legami
stabili con settori dell’economia
legale”. Acquisire costanti flussi
di liquidità, infatti, consente di
realizzare quello che, in termini
economici, viene definito laundering, riferendosi a quella fase che
mira ad allontanare i capitali dalla
loro origine illecita, consentendo
anche che gli stessi utili possono
essere reinvestiti in altre attività.
Giustizia tartaruga. Il fenomeno
dell’usura, però, resta ancora avvolto nel silenzio. Sono più di 400
le persone assistite da Sos Impresa
negli ultimi anni. Si tratta prevalentemente di uomini (le donne che denunciano sono ancora poche, solo il
27%), hanno meno di cinquant’anni
e spesso operano nel commercio.
L’iter giudiziario, secondo quanto
scrive Sos Impresa nel rapporto
presentato in occasione del “No
Usura Day” del 21 novembre 2012,
rappresenta una delle note dolenti
del fenomeno usuraio. Solo il 10%
delle vittime che denunciano può
contare sull’assistenza legale, anche
se il più delle volte viene fornita
dalle stesse associazioni antiusura
presenti sul territorio. Nel 9% dei
casi entro due anni dalla denuncia
si arriva alla chiusura dell’inchiesta
e al rinvio a giudizio dei cravattari,
ma più spesso l’indagine si trascina per almeno quattro anni, e
circa il 70% viene poi archiviato,
trasformando, di fatto l’usura in
un reato depenalizzato. “Sono
passati ben 16 anni – continua
Busà – da quando venne approvata, sulla spinta dell’indignazione
popolare, la legge 108/96, e già
nel decimo anniversario avevamo
chiesto una profonda revisione
della normativa, soprattutto in quelle fasi che hanno fallito nel corso
del tempo. Questo ci porta a dire
che, mentre l’usura diventa sempre
più pericolosa, è più complicato
fare emergere il reato in tutta la sua
gravità. Dobbiamo uscire dall’immobilismo, le vittime non possono
più attendere”. Da anni, infatti, è
stata depositata in Parlamento
una proposta di legge, rimasta nel
dimenticatoio. L’appello delle associazioni e fondazioni antiracket
e antiusura è allo sforzo comune
per trovare un’ampia intesa su un
nuovo testo, «altrimenti – dice il
presidente – l’unica alternativa,
sarà quella di iniziativa popolare,
su cui cominceremo a lavorare e
raccogliere le firme».
Cresce lo spread d’usura. L’usura
e il credito illegale sono fenomeni
centrali, legati allo stato di benessere del Paese. Nel mercato del credito
al nero, infatti, per antonomasia
anticiclico, i calcoli degli interessi
seguono le vicende economiche e
finanziarie. La faccia nera della
crisi emerge dal quotidiano con
la crescita spropositata di “Compro oro”, una sorta di crocevia di
attività illegali, compresi i prestiti
a tassi usurai, così come emerso
dall’operazione Fort Knox dello
scorso novembre, coordinata dalla Procura di Arezzo. La guardia
di finanza, infatti ha smantellato
un’organizzazione con base in Svizzera, che si occupava di riciclaggio,
frode fiscale, nonché esercizio abusivo del commercio dell’oro. Una
vicenda che ha visto 118 indagati
in 11 regioni italiane tra cui Lombardia, Toscana, Puglia, Campania
e Sicilia. Nel mirino delle fiamme
gialle di Arezzo e Napoli sono finiti
i negozi specializzati “Compro oro”,
gioellerie, comprese 23 società del
distretto orafo di Arezzo. Un sistema
che ha portato, in un solo anno, a
163 milioni di euro di scambi tra
oro e denaro realizzati dal gruppo
organizzato. Sovraindebitamento e
usura, insomma, stanno diventando quotidiani negli strati sociali,
rendendo rischiosa l’attività della piccola impresa commerciale e
dell’artigianato di vicinato dei ceti
più poveri. Questo meccanismo però,
negli ultimi anni si rivolge anche a
quei soggetti che un tempo venivano
considerati immuni dall’usura. La
classe media, infatti, rappresenta
quella vasta area di sovraindebitamento che spesso sfocia nel girone
dantesco del mercato clandestino
del denaro, nel quale il “prestito a
strozzo” è la sua componente patologica distruttiva di vite e di futuro. La
condanna parte dalla identificazione
sociale di essere un “cattivo pagatore”, fino a essere emarginato dal
sistema del credito legale e finire
in quello illegale.
Usura
29 | novembre 2012 | narcomafie
Usura
30 | novembre 2012 | narcomafie
Viaggio dove
i soldi sparano
più delle lupare
Attraversare l’Italia incontrando un pezzo di Paese che quotidianamente è strozzato nell’economia, nei rapporti sociali, nella vita delle persone
dall’usura mafiosa. Un viaggio che non fa tappa solo nelle regioni a
tradizionale presenza mafiosa: gli affari non conoscono confini
geografici, si fanno indistintamente in tutto il territorio nazionale.
Anzi, è soprattutto a causa dell’usura che non esistono più territori
che possano davvero considerarsi immuni dalla presenza mafiosa
di Peppe Ruggiero
31 | novembre 2012 | narcomafie
acquistano una valenza diversa, nel senso che non costituiscono solo lo strumento
per accumulare rapidamente
liquidità da distribuire tra gli
affiliati, ma si pongono come
mezzo per incrementare le
risorse finanziarie destinate all’attività usuraria e – in
definitiva – consentono al
clan di fagocitare l’impresa
che è costretta a ricorrere a
queste perverse forme di finanziamento. Ci spostiamo di
pochi chilometri. Hinterland
napoletano. Terra di camorra.
Molti commercianti di Afragola vengono sottoposti a usura
dal clan Moccia, che riscuote i
suoi crediti attraverso condotte estorsive, riuscendo pure
– imponendo la negoziazione
di assegni – a riciclare denaro.
Non diversa la situazione in
provincia di Avellino dove
sia il clan Pagnozzi (a San
Martino Valle Caudina) sia il
clan Cava, insieme agli ultimi
affiliati liberi del clan Russo di Nola (a Roccarainola)
sono impegnati nell’esercizio
dell’attività usuraria verso
imprenditori poi costretti con
minacce di tipo mafioso a
restituire interessi calcolati a
tassi elevatissimi. A sud del
capoluogo, e soprattutto nella
piana del Sele, epigoni dello
“storico” clan Marandino si
erano distinti in passato per
azioni criminose orientate
a condizionare l’andamento
della produzione e della distribuzione di prodotti agricoli e lattiero caseari: come più
di un’indagine ha dimostrato,
le fenomenologie prevalenti si
presentano con manifestazioni di attività estorsive connesse a pratiche usurarie. Anche
nel Battipagliese, con silenti e
non meno insidiose condotte
di usura, soggetti ricollegabili
al risalente gruppo criminale
dei cosidetti “Garibaldi” – che
vide protagonisti vari appartenenti alla famiglia camorrista
dei Nigro – hanno tartassato
attività di imprenditori in
condizioni di difficoltà economica e finanziaria.
La camorra delocalizza in
Veneto. Una camorra campana specializzata nella “delocalizzazione”, con destinazione
Veneto. Si fa riferimento – si
legge nella relazione della
Direzione nazionale antimafia
– a un procedimento penale
per il reato di associazione
per delinquere di tipo mafioso
finalizzata alla commissione
di reati di estorsione, usura,
sequestro di persona, detenzione di armi e altro, ai danni
di circa un centinaio di vittime, soprattutto persone svolgenti attività imprenditoriale
in diversi centri della regione
e nel limitrofo Trentino. L’attività di indagine si è svolta
tra il settembre del 2010 e il
marzo del 2011, e al suo esito
il gip di Venezia, nell’aprile
2011, ha emesso ordinanza di
custodia cautelare in carcere
nei confronti di 27 indagati,
25 dei quali accusati del delitto associativo, per avere fatto
parte dell’associazione per
delinquere di stampo mafioso,
collegata al cosiddetto “clan
dei casalesi”, in cui i singoli
associati si avvalevano della
forza di intimidazione del
vincolo associativo e della
condizione di assoggettamento e di omertà da esso derivante per commettere delitti di
ogni genere e principalmente
delitti di usura, estorsione,
Usura
Campania, nel nome di Iovine. L’usura permette ai clan
di controllare il territorio soltanto con i soldi; silenziosamente, non più con il clamore
delle lupare. In Campania,
secondo l’ultima Relazione
annuale della Direzione nazionale antimafia, la dislocazione dei clan camorristici
che si muovono in questa
direzione è varia. La fama dei
leader storici è ancora spesa
nell’ambito del mercato criminale. Ad esempio, coloro
che sono legati al boss dei
casalesi, Antonio Iovine, continuano a muoversi sul terreno
dell’usura e delle correlate
estorsioni, nonostante il loro
capo sia stato arrestato verso
la fine del 2010. Uno degli
affiliati non esita a minacciare
la vittima con queste parole:
«Non pensare che adesso che
è stato arrestato Iovine Antonio non c’è più nessuno che
faccia le sue veci. Tu i soldi
ce li devi dare…». Talvolta
si sono registrate modalità
estorsive più particolari, come
a Castellammare di Stabia,
dove si è accertato che in taluni casi il clan D’Alessandro
ha operato anche su input
di esponenti della politica
locale. Senza trascurare, infine, le estorsioni realizzate
per conseguire i profitti di
prestiti usurari. Si tratta di un
fenomeno che naturalmente
non può che incrementarsi
in periodi di crisi economica, quando i finanziamenti
erogabili mediante i normali
canali di credito diventano
più difficili, e di conseguenza
anche il mercato del credito
viene a essere inquinato dalle
organizzazioni camorristiche.
In tali ipotesi, le estorsioni
Usura
32 | novembre 2012 | narcomafie
detenzione e porto di armi,
danneggiamenti, sequestro
di persona, esercizio abusivo
dell’attività finanziaria, falsi
in scritture private, nonché
per acquisire il controllo di
attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni e
per realizzare vantaggi e profitti ingiusti e per finanziare
persone detenute in Campania, e, fra l’altro allestendo
ed esercitando abusivamente
a Padova un’attività di intermediazione finanziaria e
di riscossione di crediti; assoggettando a usura oltre 50
imprenditori operanti nel distretto di Venezia e taluni altri
nelle limitrofe regioni e anche
in Sardegna; compiendo nei
confronti di molti di essi atti
di estorsione per costringerli a
versare i ratei usurari ovvero
a cedere, a un prezzo di gran
lunga inferiore al reale, le
loro aziende, le partecipazioni societarie, beni immobili
e mobili; impossessandosi,
attraverso l’attività usuraria,
delle aziende dei debitori sottoposti ad usura e dei beni
commerciati o prodotti dalle
stesse, o anche trasferendone la titolarità ad imprese
intestate a propri sodali, ed
infine anche appropriandosi
delle società delle vittime
intestandole agli associati.
Il gruppo criminale in questione era promanazione della
più potente organizzazione
criminale campana, appunto
il “clan dei casalesi”, segno
questo di quella strategia di
“delocalizzazione” di cui fin
qui ripetutamente si è detto,
e che può rappresentare il
sintomo di una più ampia
strategia se lo si rapporta al
dato, anch’esso già posto in
evidenza, dell’assenza in quel
territorio di altri insediamenti
di diversa matrice mafiosa. A
rafforzare questa impressione
è il fatto che la descrizione
delle modalità di svolgimento
dell’azione delittuosa fanno
ben comprendere come si
siano esportate nel territorio
veneto tattiche criminali del
tutto corrispondenti a quelle
poste in essere nel territorio di
origine del “clan dei casalesi”.
In pratica, gli indagati non si
sono posti alcuna remora nel
compiere atti di intimidazione
(aggressioni, percosse, lesioni,
sequestri di persona anche a
scopo di estorsione, sottrazione di beni e documenti)
anche con uso di armi, allo
scopo di seminare il terrore e
di diffondere l’omertà.
Non c’è solo la finanza. È stata smentita così la convinzione che si è andata formando
nel passato, secondo cui nel
Nord-Italia i sodalizi criminali del meridione avessero
cura di modulare le loro manifestazioni alla diversa realtà
territoriale, operando, cioè,
soprattutto sul terreno economico finanziario attraverso
gli investimenti dei cospicui
proventi delle attività criminose svolte altrove. Colpisce,
ancora, l’elevato numero di
imprenditori coinvolti in un
così breve periodo, indice
della pervasività del sodalizio. Ed ancor di più il silenzio
delle vittime, quasi vedessero
dei salvatori nei loro aguzzini,
al punto che gli inquirenti
hanno dovuto far ricorso a
strumenti di infiltrazione per
sfondare il muro dell’omertà.
E si confermano, ancora e
infine, le mire imprendito-
riali della camorra, attraverso l’acquisizione di imprese
preesistenti che, piuttosto
che morire per decozione,
continuano a esistere sotto
una diversa regia. L’organizzazione attenzionata costituisce
l’evoluzione criminale di una
società di vigilanza e sicurezza (con oggetto sociale esteso
alla riscossione crediti), che,
costituitasi nel settembre del
2009 a Padova, aveva iniziato un’attività di concessione
di prestiti usurari, prevalentemente rivolgendosi ad
imprenditori del nord-est in
difficoltà finanziaria, con l’applicazione di tassi di interesse
mensili oscillanti tra il 10 ed
il 15%. Proprio grazie all’attività collaterale di riscossione
crediti, fin dal dicembre del
2009, la società in questione
aveva cominciato a rilevare
le pendenze creditorie delle
sue vittime (spesso, infatti, gli
imprenditori si rivolgevano
alla struttura per problemi
di liquidità dovuti ai ritardi
di pagamento da parte dei
clienti), sia per riscuotere i
debiti, sia per individuare
altri imprenditori in difficoltà
finanziarie cui erogare prestiti
usurari. In poco tempo, la
società aveva la sua attività
criminale, riuscendo a rilevare, già nei primi tre mesi
dell’indagine, un centinaio
di posizioni usurarie.
La documentazione raccolta
dagli inquirenti ha consentito
di ricostruire nei dettagli la
tecnica utilizzata dall’associazione criminale per infiltrarsi
nel tessuto imprenditoriale
del Veneto, per poi propagarsi
nelle regioni limitrofe (Friuli,
Trentino, Emilia Romagna).
Infatti, fin dal gennaio del
2010, la società aveva promosso campagne pubblicitarie su giornali ed emittenti
televisive locali del Veneto e
dell’Emilia Romagna, proponendo servizi di riscossione
crediti e di finanziamento
senza garanzie. Attraverso la
concessione di finanziamenti
ad altissimo tasso d’interesse,
con ratei mensili di rimborso,
nonché praticando l’attività estorsiva per il conseguimento delle pretese usurarie,
l’organizzazione criminale
aveva acquisito dalle sue vittime non solo una rilevante
quantità di denaro liquido,
ma anche quote societarie e
i crediti verso i clienti, alcuni dei quali in difficoltà
economiche. I debitori degli
usurati, a loro volta, erano
sottoposti a condotte estorsive
ovvero avevano ricevuto la
proposta di essere finanziati
dalla società, ovviamente con
tassi usurari elevati. L’attività espansiva del gruppo è
stata poi favorita dal ruolo
di alcuni intermediari che,
pur estranei per provenienza
alla matrice camorristica della
società, sono stati assorbiti
subito e a pieno titolo nel
reato associativo e hanno agito
nella veste di procacciatori
di vittime da sottoporre ad
usura o, in qualche raro caso,
agendo in proprio, ma con
fondi messi a disposizione
dall’associazione criminale
e, con il supporto di questa,
nell’attività di riscossione
forzosa in caso di insoluti o
ritardi di pagamento. In tale
ottica, le dinamiche delittuose
hanno ottenuto una rapidissima espansione del volume
di affari e, conseguentemente,
del corrispettivo guadagno
netto (favorito dall’imposizione del pagamento degli interessi con frequenza mensile
cosi da massimizzare lo sfruttamento illegale nel minor
tempo possibile), che veniva
immediatamente trasferito in
Campania, utilizzando conti
correnti postali, e qui riscossi
con numerosissimi prelevamenti in contanti.
L’organizzazione criminale,
a seguito della mancata riscossione del denaro contante
preteso (circostanza spesso
materialmente impossibile,
considerati gli elevati tassi
d’interesse praticati e lo stato
di difficoltà finanziaria degli
imprenditori vittima), è riuscita a ottenere l’intestazione
di quote societarie, ovvero
dell’intero capitale sociale
delle società finanziate, cosicché sono state trasferite
in poco tempo nelle disponibilità degli associati e dei
loro prestanome decine di
società commerciali. Infine,
l’indagine ha messo in luce
un fenomeno usurario, all’interno del quale molte vittime,
pur perfettamente coscienti
di introdursi in un circuito
perverso e senza vie di uscita,
avevano assunto tale decisione, perché oggettivamente
costrette dalla consapevolezza
della impossibilità di ottenere
gli indispensabili finanziamenti dal circuito bancario.
Puglia, pacchetti “all inclusive”. Dalla Campania,
passando per il Nord-est, arriviamo in Puglia. Nell’ottobre
2010 venivano eseguite 26
ordinanze cautelari (operazione “Bocciulo”) nei confronti
di persone appartenenti al
clan Parisi, operante a Bari,
e accusate di associazione
per delinquere finalizzata
all’usura, alla commissione
di estorsioni, riciclaggio ed
esercizio abusivo del credito. Le indagini hanno avuto
inizio nel febbraio del 2008
sulla base di una denuncia
presentata da un imprenditore
barese operante nel settore
della ristorazione, dopo tre
anni di vessazioni, minacce
e danneggiamenti: era stato
costretto a pagare in tre anni
tassi usurari annuali che oscillavano dal 120 al 240% e poi a
vendere una delle attività (un
esercizio commerciale attivo
nel settore della ristorazione)
e le due auto di proprietà.
Gli sviluppi investigativi facevano emergere le rilevanti
dimensioni della rete delle
vittime del racket usurario:
imprenditori e commercianti,
ma anche persone dedite al
gioco d’azzardo, che venivano
“reclutate” nei circoli privati
(a Modugno, in particolare)
con promesse di grandi vincite nei casinò d’Oltreadriatico.
Venivano proposti loro pacchetti viaggio “all inclusive”
verso Slovenia, Croazia, San
Pietroburgo e Cipro: vitto e
soggiorno gratuiti in esclusivi
alberghi con il solo impegno
di comprare al casinò fiches
per 5 mila euro. Vito Parisi
guadagnava 200 euro per ogni
“turista” inviato, oltre al 10%
delle perdite da gioco.
Oltre all’esecuzione delle 26
ordinanze di custodia cautelare, sono stati sequestrati agli
indagati beni per un valore
complessivo di 15 milioni
di euro.
Sempre nell’ambito pugliese,
nella città di Taranto è risultata ancora una volta attiva e
Usura
33 | novembre 2012 | narcomafie
Usura
34 | novembre 2012 | narcomafie
“vivace” la consorteria degli
Scarci, che da sempre estende i suoi interessi anche in
Basilicata, e in modo particolare nel Metapontino, a
Policoro e Scanzano Ionico.
Agli esponenti di vertice del
clan – Francesco Scarci, i suoi
fratelli Andrea e Giuseppe,
i loro rispettivi figli Michele e Salvatore – e altri sette
soggetti appartenenti al clan
sono state applicate dal Gip
presso il tribunale di Lecce (il
27 settembre 2011, successivamente al periodo in esame,
nel procedimento cosiddetto
Octopus) misure cautelari personali coercitive per i reati di
associazione di tipo mafioso,
trasferimento fraudolento di
valori, atti di concorrenza con
violenza e minaccia, estorsione e usura commesse con
metodo mafioso e con finalità di agevolazione mafiosa,
nonché detenzione illegale
di esplosivo: quest’ultimo
reato, gravemente allarmante, sia per le caratteristiche
dell’esplosivo, sia per la quantità, sia per l’uso che se ne
sarebbe potuto fare (che non
si è riusciti ad accertare), si
riferisce al ritrovamento nella
disponibilità del gruppo criminale in questione di ben
50 kg di esplosivo a elevato
potenziale tipo Goma (dello
stesso tipo di quello utilizzato
per l’attentato alla stazione
di Madrid), occultato in un
fondo rustico sulla via Porto Mercantile di Taranto (in
zona cittadina, densamente
abitata).
Sicilia, da vittime a reclutatori. In Sicilia, il ricorso a
condotte delittuose di tipo
usurario da parte di qualificati
sodalizi criminali è stato attestato da numerose operazioni
di polizia, che hanno anche
dimostrato come si sia tentato
di instaurare un ciclo criminoso autoalimentante, all’interno del quale le iniziali vittime erano costrette a divenire
reclutatori di nuovi “clienti”
in sofferenza finanziaria. A
tale proposito, si ricordano i
riscontri dell’operazione denominata “Brillantina”, nella
quale personale della squadra
mobile di Messina e del commissariato Messina sud, il 10
gennaio 2011, eseguiva un’ordinanza di custodia cautelare
in carcere, emessa dal gip del
locale tribunale, nei confronti di 7 persone e la misura
cautelare degli arresti domiciliari per un altro indagato,
perché appartenenti a una
organizzazione criminale, che
operava nel capoluogo messinese, dedita, principalmente,
all’usura e, occasionalmente,
all’estorsione. Tra gli indagati, si segnala la significativa
presenza di un noto esponente
di spicco della criminalità
organizzata del cosiddetto
“clan Mangialupi”. L’indagine
traeva spunto dalla segnalazione, ricevuta dal personale
del commissariato di polizia
di Stato di Messina nord, di
un’estorsione posta in essere
da uno degli indagati, in danno di un giovane istruttore di
nuoto. Le susseguenti indagini tecniche consentivano di
accertare il coinvolgimento,
nelle fattispecie dei reati, di
tutti gli indagati, ma anche dei
comportamenti assunti da talune vittime, che diventavano,
a loro volta, intermediari e garanti delle soluzioni debitorie
di altri “clienti”, in cambio
di trattamenti di favore nella
soluzione dei propri debiti. Il
principale indagato riceveva
quotidianamente, presso il
suo studio, le sue vittime,
concedendo prestiti usurari
ed incassando i relativi crediti, intrattenendo anche relazioni sessuali con numerose
donne, che venivano filmate
all’insaputa delle medesime.
I filmati venivano successivamente utilizzati a fini di
ricatto. In quelle circostanza,
venivano trovati significativi
elementi di riscontro nelle
dichiarazioni rese da talune
delle vittime, che infrangevano il muro dell’omertà, rivelando la natura usuraria dei
rapporti intercorsi e veniva
rinvenuto un imponente materiale cartaceo, riconducibile
a un’ampia e sistematica attività illecita, comprendente sia
l’usura sia, verosimilmente,
falsi e truffe.
Emilia, impronte mafiose. Risaliamo la Penisola e ritorniamo al Nord. Altra operazione
di rilievo, portata a termine
nel mese di febbraio 2011, è
quella denominata “Vulcano”,
nella quale i carabinieri del
Ros eseguivano un provvedimento di fermo, emesso dalla
Dda di Bologna, nei confronti
di 10 persone responsabili di
avere promosso, costituito diretto e, comunque, partecipato
a un’associazione per delinquere armata di tipo mafioso,
operante nella Repubblica di
San Marino e lungo la riviera
romagnola. Tale sodalizio,
caratterizzato dalla forza di
intimidazione del vincolo associativo e dalle conseguenti
condizioni di assoggettamento
e di omertà, era finalizzato al
controllo economico di attività e alla commissione di una
indefinita serie di delitti, fra
i quali la detenzione di armi,
le estorsioni, le minacce, le
lesioni personali, l’usura ed
altri reati contro il patrimonio.
I gravi indizi di colpevolezza
sono stati ritenuti sussistenti
sulla scorta delle dichiarazioni rese dalle vittime dei
reati e delle attività tecniche,
evidenziando anche che un
altro gruppo criminale si era
poi sostituito al precedente
nella gestione delle attività
usurarie ed estorsive. In sintesi, le investigazioni hanno
consentito di identificare
sul territorio una pluralità
di soggetti dediti al crimine,
sostanzialmente riconducibili a tre gruppi malavitosi apparentemente distinti.
L’identificazione dei suddetti
gruppi e la loro qualificazione
secondo la mappa criminale del napoletano, luogo di
provenienza geografica degli
indagati, hanno consentito di
ricostruire la filiazione degli
indagati dal clan dei “casalesi” e dal clan “Mariniello” di
Acerra. L’impronta “mafiosa”
delle condotte degli indagati
si concretizza non solo per
la qualificazione dei gruppi
criminali e per la tipica finalità di «acquisire in modo
diretto o indiretto la gestione
e il controllo di attività economiche», ma anche per la
chiarezza dei riscontri investigativi sulle condotte estorsive
poste in essere, desunte dalle
dichiarazioni delle vittime,
dalle attività tecniche e dai
servizi di osservazione e pedinamento espletati, che, in
più occasioni, hanno evidenziato la presenza di persone
giunte dal napoletano per la
consumazione di minacce e
violenze.
Lombardia, denunciare fa
paura. Spostiamoci più su,
ci fermiamo in Lombardia. È
stata denominata operazione
Black Hawks, coordinata dal
colonnello Marco Menegazzo,
comandante del Gico della
Guardia di finanza. Ha portato all’arresto di 23 persone
accusate a vario titolo e in
alcuni casi con l’aggravante
del metodo mafioso, di riciclaggio, usura, estorsione,
truffa, corruzione, sostituzione di persona, trasferimento
fraudolento di valori, associazione a delinquere, furto
aggravato e ricettazione. E con
il sequestro di beni mobili e
immobili per un valore di 5
milioni di euro. Arrestati due
cugini Facchineri, Vincenzo
già in carcere e Giuseppe,
entrambi esponenti di un clan
arrivato in Lombardia negli
anni 80 e con solidi rapporti
con i Bellocco e i Pesce. Una
montagna di soldi da reinvestire nell’economia legale,
prestiti a tassi usurai fino al
20 per cento, riciclaggio in
appartamenti e auto di lusso,
con il potere intimidatorio
della ’ndrangheta verso chi
non si piegava alla volontà
dei clan. «Prendo una denuncia per estorsione io perché
vado e lo massacro...», minaccia in un’intercettazione del
10 settembre 2008 Vincenzo
Facchineri, a capo dell’organizzazione insieme al cugino
Giuseppe. «Io stasera vado
alla casa e scasso a tutti e due,
prima spacco il figlio e poi
spacco il padre e poi vediamo
come esce la macchina dopo
due minuti». I due cugini Facchineri, con altri sei membri
dell’organizzazione, gestivano
i prestiti a tassi altissimi, poi
terrorizzavano gli imprenditori che non riuscivano a pagare. Dall’indagine, coordinata
dal pm Giuseppe D’Amico,
è emerso anche che i mediatori erano spesso proprio le
vittime. Infatti, chi agiva per
conto della famiglia calabrese
dei Facchineri, Orlando Purita e Gianluca Giovannini,
erano loro stessi vittime dei
componenti della ‘ndrina.
Se tardavano nei pagamenti
erano botte da orbi. I cugini
Facchineri, Vincenzo e Giuseppe, prestavano denaro ai
due mediatori con un tasso
d’interesse usurario del 15%
al mese. A loro volta, Purita e
Giovannini si rifacevano effettuando prestiti a terzi con un
tasso del 20% e truffando alcuni imprenditori del settore
nautico. In uno degli episodi
di usura riportati nell’ordinanza, Purita e Giovannini
si facevano dare e promettere dal cliente indicato come
«l’amico del vecchietto», in
corrispettivo del prestito di 40
mila euro, interessi del 20%
mensile. E, per riscuotere, era
sufficiente fare i nomi dei cugini Facchineri, appartenenti
alla ’ndrangheta.
Metodi del terrore confermati da un altro imprenditore
che racconta agli uomini del
Nucleo di polizia tributaria
e del Gico di essere tornato
a casa, una sera, di aver trovato i Facchineri e di essere
stato «sequestrato due giorni,
chiuso in un garage a Baggio,
e riempito di botte». «Eppure
– spiegano i comandanti della
tributaria Vincenzo Tomei e
Usura
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Usura
del Gico Marco Menegazzo –
nessuno di questi imprenditori ha denunciato. È un aspetto
molto preoccupante».
Calabria, gli squali della locride. Sono richieste pesantissime quelle con cui il sostituto procuratore della Dda di
Reggio Calabria, Antonio De
Bernardo, ha concluso la propria requisitoria al processo
Shark (letteralmente squali,
ma nel gergo di New York il
termine indica i “cravattari”), che si è svolto con rito
ordinario presso il tribunale
di Locri lo scorso 22 ottobre.
Al di là di due assoluzioni
piene da ogni tipo di accusa,
chieste dal pm per i fratelli
Giuseppe e Leonardo Zucco,
la pubblica accusa ha chiesto
più di un secolo di carcere
per capi, gregari e personaggi
della cosca Cordì, accusati
a vario titolo di associazione a delinquere di stampo
mafioso, detenzione, porto
d’armi, estorsione, procurata
inosservanza della pena, assistenza agli associati, usura,
attività finanziaria abusiva e
riciclaggio. Ventidue anni e
9mila euro di multa sono stati
chiesti per Gerardo Guastella,
16 anni per Salvatore Cordì,
16 anni e 50mila euro di multa
per Antonio Bonavita, 14 anni
e 40mila euro di multa per
Rocco Aversa, 7 anni e 3mila
euro di multa per Vincenzo
Cecere, 7 anni per Fabio Modafferi, 6 anni per Francesco
Tedesco e 4 anni per Luca
Leonardo Bonfitto. Per Rocco
Iennaro invece è stata chiesta l’assoluzione per 416 bis
ma 8 anni e 20mila euro di
multa per riciclaggio, mentre
per Franco Maiorana è stata
invocata l’assoluzione per il
reato di esercizio abusivo del
credito ma 9 anni per usura
e associazione mafiosa. Sei
sono invece gli anni di reclusione che il pm De Bernardo
ha invocato per Pasquale D’Ettore, ex dirigente del Locri
Calcio, accusato di essere la
testa di legno dei Cordì negli
anni in cui il clan gestiva la
società. Il sostituto ha inoltre
accusato di falsa testimonianza, chiedendo l’immediata
trasmissione degli atti alla
Procura della Repubblica, per
alcuni soggetti sfilati sul banco dei testimoni nel corso delle udienze. Si tratta in molti
casi di vittime dei Cordì e dei
loro emissari che di fronte ai
giudici hanno sempre negato
o ridimensionato le pressioni
del clan. Ad aprire una breccia
nel regno di sopraffazione
e omertà imposto dai Cordì
su Locri, erano state al contrario proprio le denunce di
due imprenditori finiti nella
morsa dell’usura, Rocco Rispoli e Luca Rodinò, le cui
rivelazioni hanno permesso
ad inquirenti e investigatori
di ricostruire la rete del potente clan della Locride. Per
Rocco Rispoli, rimasto senza
lavoro, il Comune di Locri
ha deliberato di assumerlo
alle proprie dipendenze equiparandolo alle vittime della
mafia. L’inchiesta prende il
via nel settembre del 2009
su disposizione della Dda
di Reggio Calabria che porta
all’arresto di 25 persone appartenenti al clan Cordì di Locri. I fermi sono stati eseguiti
dai Carabinieri della compagnia di Locri e del Nucleo
Investigativo del comando
provinciale di Reggio Cala-
bria, dalla squadra mobile di
Reggio Calabria e dal commissariato di Siderno. Le accuse
nei confronti degli arrestati
riguardano l’associazione per
delinquere di tipo mafioso,
con l’aggravante dell’essere
l’associazione armata, finalizzata alla commissione di
estorsioni, usura e armi. Le indagini hanno evidenziato una
pluralità di atti a contenuto
intimidatorio, commessi con
l’utilizzo di armi e, soprattutto, sull’attività di usura.
Particolare rilevanza è stata
la collaborazione prestata
dalle vittime. Nell’ordinanza
di misura cautelare del Gip
Carlo Alberto si analizza il
complesso quadro criminale
emerso a conclusione di una
lunga attività d’indagine che
si è concentrata sul particolare
fenomeno dell’usura nella Locride, area che, come altre realtà ad altissima penetrazione
della criminalità organizzata,
vede gestire questo importante
settore economico-criminale
direttamente da soggetti già
condannati per associazione di tipo mafioso. Si legge
nell’ordinanza: «In un quadro
locale di estrema desolazione
sociale ed economica, l’aspetto fondamentale di questa
indagine è sicuramente costituito da una novità molto
positiva per questa realtà: due
soggetti vittima dell’usura
hanno denunciato i loro usurai! Due cittadini hanno avuto
fiducia nei carabinieri di Locri
e nella Direzione distrettuale
antimafia di Reggio Calabria,
denunciando, per la prima
volta, i loro strozzini, ben
sapendoli appartenere alle
pericolosissime consorterie
criminali locali. Tali denun-
la prima volta che mio cognato
si trovava in tale situazione. Poi
invece mio suocero parlandomi mi
ha convinto di salvare almeno mia
cognata cercando di recuperare gli
assegni della sorella che il fratello
si era preso. A questo punto mia
cognata si recava presso la stazione
Carabinieri di Locri dove formalizzava la sottrazione degli assegni da
parte del fratello. Ricordo che si
era recata alla stazione circa due
settimane dopo le riunioni che
avevamo avuto. Quindi con tale
denuncia in mano mi recavo dai
creditori, che per la maggior parte
conoscevo per il mio lavoro e per i
rapporti sociali, al fine di recuperare gli assegni di mia cognata ed
uno di mio suocero, al quale mio
cognato lo aveva sottratto senza
avvertirlo.
Prima di andare da queste persone
avevamo cercato di organizzarci in
famiglia per recuperare i soldi per
sanare le situazioni più critiche:
in particolare mia cognata Maria
Carmela mi avrebbe dato le entrate
del negozio, mentre mio suocero
avrebbe fatto un mutuo sulla casa
dove abito io, e avrebbe recuperato
dei soldi da amici fidati. A questo
punto sono andato da Guastella
Gerardo per recuperare un assegno
di 6.250 euro, poi da Floccari Ennio
per due assegni, una di 3.300 euro
ed uno di 10.500 euro, poi da Cecere
Vincenzo per quattro assegni per
un totale di 25.000 euro. Preciso
che non mi è chiara la situazione
del Cecere in quanto non sono in
grado di stabilire se vi è usura da
parte sua oppure lui fa da tramite
per delle altre persone.(..) Poi un
altro debito l’ho sanato con gente di
Africo, in particolare Criaco Leo, il
quale fa il calciatore; nel 1999-2000
ha giocato nel Locri ed attualmente
so che gioca nella Villese. Il fratello
Bruno è titolare di una ricevitoria
di Enalotto e Totocalcio a Bianco.
Con il Criaco ho avuto l’incontro a
Locri organizzato da mio cognato
Alessandro, il quale mi ha detto che
un suo amico mi avrebbe chiamato
per incontrare il Criaco in parola.
Infatti, qualche tempo dopo sono
stato chiamato da tale Maiorana
Antonio per andare a casa sua per
incontrare il Criaco Leo. L’incontro
a casa del Maiorana era dovuto al
fatto che il Criaco, che all’epoca
giocava a calcio nella Rosarnese, passava da casa Maiorana per
prendere il cognato, tale Leveque
Dino, cosicché è stato organizzato
l’incontro. Nella circostanza ero da
solo con il Criaco Leo davanti casa
Maiorana; al Criaco ho rappresentato che gli assegni che lui aveva
ricevuto da mio cognato Alessandro erano stati denunciati da mia
cognata Maria Carmela e pertanto
egli non avrebbe potuto incassarli.
Il Criaco non mi ha restituito subito
gli assegni in quanto egli mi ha detto
che non era l’interessato ma solo
un tramite di altra persona, della
quale non mi ha mai fatto il nome.
Comunque ogni volta che riuscivo
a coprire l’importo dell’assegno
il Criaco me ne restituiva uno.
La somma complessiva che mio
cognato doveva restituire al Criaco
si aggirava sui 37.000 euro. Ancora
oggi con al Criaco dovrei restituire
9.500 euro, in quanto gli avevo
consegnato un assegno di 6.000
euro dato a mio cognato Alessandro da un suo amico, tale Ascioti
Vincenzo di Locri.(..) Per quanto
riguarda il tasso di interesse e le
modalità di consegna del danaro
posso dire che tutte le persone da
me nominate nel presente verbale
incassavano il 10% di interesse
al mese ad eccezione di Guastella
Gerardo il quale pretendeva il 15%.
Il prestito e gli interessi venivano
così pagati: se alla fine del mese
mio cognato aveva la possibilità di
sanare il prestito doveva consegnare
il prestito più l’interesse, altrimenti
alla scadenza del mese solamente
l’interesse.
Al fine di aiutare mio cognato
Alessandro sono stato costretto
ad impegnarmi al pagamento dei
Usura
«Sono soggetto al reato di usura da
parte di alcuni soggetti di Locri,
dei quali nel corso del presente
verbale riferirò i nomi. I fatti hanno
avuto inizio l’1 marzo 2003, ricordo
con esattezza la data in quanto è
il compleanno di mia moglie. In
tale data sono venuto a conoscenza
della situazione economica di mio
cognato Carabetta Alessandro, fratello di mia moglie; quella mattina
il Carabetta si è presentato nel mio
ufficio in Via Marconi n. 19, mio ex
ufficio, per dirmi che si trovava in
grossissime difficoltà in quanto aveva contratto un debito enorme con
delle persone, mettendo nei guai la
sorella Maria Carmela ed il padre
Ercole. Io sono rimasto sorpresa di
quanto dettomi e gli ho raccomandato di non dire niente in famiglia
in quanto avremmo ragionato con
più calma sulla situazione. Egli
invece all’ora di pranzo ha riferito
tutto ai suoi genitori ed alla sorella
Maria Carmela. Io ero a casa mia
e sono stato chiamato perché mio
suocero si era sentito male. Arrivato
a casa dei miei suoceri subito dopo
giungeva il dottor Rulli, medico di
famiglia, che ha prestato le cure
del caso a mio suocero, il quale si
era sentito male in conseguenza
di quanto mio cognato gli aveva
detto. Non era la prima volta che
mio cognato versava in condizioni
economiche disastrate; infatti già
altre due volte si era trovato in tale
situazione. Nei giorni successivi
ho avuto degli incontri con i miei
suoceri e mio cognato per chiarire la
sua situazione debitoria in maniera
definitiva e chiara. Infatti ci siamo
messi a tavolino ed abbiamo scritto
su un foglio di carta tutti i debiti che
mio cognato aveva accumulato nel
tempo.(..) Alla fine in tale riunione
vista la somma di debiti che aveva
accumulato, circa euro 262.000
(duecentosessantaduemila), avevamo deciso io e mia moglie di non
impegnarci a sanare tale debito, in
quanto non era nelle nostre possibilità, ed anche perché non era
La denuncia di Luca Rodinò
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Usura
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debiti e di conseguenza le persone
vengono da me per riscuotere.
Cosicché ho dovuto contrarre dei
debiti ad usura per sanare la situazione chiedendo in prestito i
soldi a Floccari Ennio varie volte
ed attualmente ho accumulato un
debito di 24.000 euro che avrei
dovuto dare in un’unica soluzione
il 30 aprile 2005. Alla scadenza ho
incontrato il Floccari per dirgli
che non avevo possibilità di pagare alla scadenza e di lasciarmi
qualche giorno in più (…). Alle
successive 18.30 sono andato a
casa del Floccari Ennio in contrada
Lucifero, esattamente in un palazzo
posto sul lato destro della strada
in terra battuta dopo il negozio dei
mobili della famiglia Floccari. Ad
aspettarmi c’era Floccari Ennio ed
il fratello Silvio ed appena arrivato
Ennio mi ha chiesto subito i soldi
ed io ho risposto che non li aveva
al che egli mi ha aggredito colpendomi con calci, pugni e con un
bastone, dicendo che egli doveva
dare i soldi ad altre persone e che
di conseguenza li pretendevano
da lui. Alla fine mi ha intimato di
portargli i soldi entro le ore 21.00
dello stesso giorno sempre a casa,
minacciando la mia famiglia di sicure ripercussioni. A questo punto
interveniva il Floccari Silvio dicendo che se il fratello avrebbe avuto
dei problemi egli avrebbe ucciso me
ed anche qualcuno della mia famiglia. Logicamente io non mi sono
presentato all’appuntamento anche
perché non avevo i soldi. Alle ore
10.00 circa del giorno seguente il
Floccari Ennio mi ha chiamato sul
cellulare dimostrandosi contrariato
per il mancato appuntamento della
sera precedente, intimandomi di
andare a casa sua per le 13.00 di
quel giorno, ovvero di sabato 7,
cosa che io non ho fatto. Tuttavia
c’è andato un mio parente Rodinò Bruno per cercare di prendere
del tempo con il Floccari Ennio.
Il Rodinò Bruno mi ha riferito
del comportamento contrariato
da parte del Floccari, il quale ha
detto che la situazione è gravissima
e che voleva i soldi entro sabato
prossimo. (…) Devo riferire di un
episodio verificatosi tra luglio ed
agosto del 2004, allorquando avevo
contratto un debito iniziale di circa
5.000 euro con Guastella Gerardo
ed in tale periodo non riuscivo
a pagare il dovuto e pertanto gli
interessi aumentavano del 15%. Un
giorno mi trovavo nel mio ufficio
di via Cosmano n. 87, nel quale mi
trovo attualmente, ed il Guastella si
presentava di sera intorno alle ore
20.00 per riscuotere dopo tanti rinvii che avevo fatto. Lui insisteva ed
io per tutta risposta gli dicevo che si
poteva prendere la macchina, una
Citroen Picasso targata BH920BW,
intestata a mia moglie Carabetta Roberta. Il Guastella accettava
subito la proposta e si prendeva
le chiavi, dicendomi che avrebbe
tenuto la macchina a garanzia del
saldo debito. Subito arrivava la
figlia minore per portare la macchina, che veniva parcheggiata
davanti la casa del Guastella. (...)
Qualche tempo dopo per sanare il
debito con il Guastella ho deciso
di fargli il passaggio di proprietà
della macchina, avvenuto presso
lo studio del notaio D.ssa Clara
Fazio di Siderno. Il passaggio
di proprietà è stato fatto a nome
di Audino Simona di Locri. Per
quanto riguarda il debito che
ho con Cecere Vincenzo devo
specificare che il Criaco mi ha
chiesto ad inizio anno 2004 di
fargli un lavoro a casa della sorella
poiché essa si doveva sposare. Io
che nell’estate del 2003 avevo
emesso delle cambiali a favore
del fratello del Criaco Leo, delle
quali alcune ho saldato ma delle
altre dovevo ancora saldare, gli
dicevo che non ero in grado di
fare questi lavori, ma che tuttavia
gli avrei trovato una ditta in grado
di fare tali lavori. Infatti chiedevo al Cecere di fare i lavori ed
egli sistemava l’abitazione della
sorella del Criaco per dei lavori
che equivalevano a 25000 euro.
Tuttavia il Criaco pagava al Cecere
solamente 13.500 euro e gli diceva
che i restanti glieli avrei dati io in
quanto ero suo debitore. Il Cecere
non sapendo come giustificare il
mancato pagamento dei lavori alla
moglie in quanto aveva problemi
familiari, si è impegnato con delle
persone di cui io non conosco il
nome a ricevere del denaro; tuttavia
mi diceva che gli interessi li avrei
dovuti pagare io. Non riuscendo a
sostenere la spesa degli interessi
del 10% gli chiedevo di poter pagare in un’unica soluzione tutta
la somma e le persone creditrici
gli riferivano che la somma totale
con gli interessi non pagati era di
15000 euro da pagare entro il 30
aprile. Tuttavia a tale data non riuscivo a saldare tale debito pertanto
chiedevo al Cecere di protrarre la
data di scadenza e queste persone
per spostare la data del pagamento
dichiaravano che era necessario
pagare altri 1000 euro.
Il 4 maggio il Cecere si trovava
nuovamente con queste persone per
spostare ulteriormente il pagamento
ma questi, dopo averlo minacciato
con la pistola, per quanto riferitomi
dal Cecere, gli dicevano che doveva
pagare immediatamente almeno
1500 euro. Il Cecere si presentava
quindi a casa mia alle ore 20.10 e
piangendo mi diceva che per le
ore 20.30 doveva portargli i soldi
richiesti. Quindi con un giro di
telefonate riuscivamo a recuperare
i 1500 euro».
Che lei sappia ci sono altre persone
sotto usura?
Sì, ve ne sono parecchie. In particolare so che sono sotto usura:
Cecere Vincenzo, Gallo Renato, che
gestisce un’impresa edile in Locri,
Aligi Santo, che vende computer
all’uscita di Locri Nord, direzione
Siderno, Ascioti Vincenzo, che faceva l’imbianchino, Tecnicon s.r.l.
nella persona di La Greca Vincenzo,
il quale è siciliano di Cammarata
della provincia di Agrigento, che
va da Bonavita Antonio, che lavora
nella forestale, a chiedere soldi. Poi
so di Careri Francesco, che vendeva
macchine Opel, Procopio Francesco, che potrebbe essere uscito da
questo problema con i suoi parenti
Circosta, anche perché ha venduto
il palazzo dove si trova la filiale
della Poste nelle vicinanze del distributore Esso; poi Cinanni Santo,
che aveva una pizzeria, che faceva
angolo in piazza Portosalvo con il
passaggio a livello, in Siderno che
recentemente ha venduto. Custureri Paolo, che vende materiale di
rivestimenti ed ha il negozio nelle
vicinanze del semaforo che si trova
a nord di Locri, che ha debiti con
Floccari e Bonavita Antonio ma
che talvolta gli incassa gli assegni e
poi gli restituisce i soldi. La stessa
operazione la fa con i Floccari,
Iennaro Rocco che penso sia il
titolare dell’agenzia immobiliare
la Piramide che si trova sopra il
pizzeria “Mister Fantasy”. Poi sotto
usura vi è Cusato Paolo che aveva
un supermercato in piazza stazione
e che ora non so se è riuscito a
pagare i debiti».
Ma non finisce qui. Si legge nell’ordinanza: «L’assenza di ogni cautela
da parte degli usurai o mediatori
usurai che dir si voglia, tanto da
“negoziare” l’attività delittuosa
proprio all’interno degli stabili
ove abitano o addirittura all’interno degli uffici o delle attività
commerciali delle vittime, induce a ritenere che costoro sono
ben consapevoli di poter vantare
una capacità di persuasione nei
confronti degli usurati che non
può trarre nutrimento se non dai
sentimenti di assoggettamento ed
intimidazione che derivano, nella realtà in cui le vicende sopra
descritte vivono, dai legami con
le consorterie mafiose che gli indagati possiedono e che si fanno
sicuramente forza intimidatrice
con la loro appartenenza».
ce, unite alla costante opera
di monitoraggio svolta da
questa Polizia Giudiziaria,
attraverso le varie articolazioni dell’Arma dei carabinieri,
nel tessuto sociale della città
di Locri, consentono oggi di
tracciare con estrema chiarezza un’allarmante quadro del
fenomeno delittuoso. In questi
abitati tristemente conosciuti
alla ribalta nazionale quali
culla di una cultura mafiosa
globalmente esportata, una
serie di fattori di svantaggio economico uniti ad una
profonda arretratezza culturale fanno si che il ricorso
al prestito usuraio, erogato
spesso a tassi di interesse
che, come si vedrà, superano
il 200 % annuo (con casi del
20% mensile), sia tuttora una
pratica assai diffusa e, per
alcune fasce sociali, addirittura l’unica via di accesso al
credito. La piaga dell’usura si
sposa in questa terra “difficile” con una radicata cultura
dell’omertà e con un’atavica
diffidenza nelle istituzioni
statali, ragion per cui – ed
in assoluta controtendenza
con il trend nazionale – le
denunce sono qui un evento
del tutto sporadico: le due
denunce acquisite dai carabinieri di Locri rappresentano,
nel panorama sociale della
Locride, una vera novità, ma
costituiscono un segnale positivo che, incoraggiato, potrà
sicuramente dare maggiori
risultati nella lotta contro la
criminalità organizzata. La
mancanza di denunce ha, per
anni, lasciato il campo del
tutto libero agli usurai, molti
dei quali svolgono oramai da
decenni questa “professione”
al punto tale di aver con la
stessa accumulato ingentissimi capitali. Si sa che l’usura,
fenomeno di grande allarme
sociale, altera il mercato incidendo in maniera significativa
sia sulla libertà di impresa
sia sulla libera concorrenza”.
Nelle carte dell’inchiesta si
osserva un tipo di usura particolare, cosiddetta di secondo
livello, gestita direttamente
dalla ‘ndrangheta: un tipo di
usura che interessa le imprese e che mira alla proprietà
dell’azienda stessa. Non vi
è alcun dubbio di mettere in
discussione l’esistenza di un
“locale” della ’ndrangheta
operante nella città di Locri
e dell’esistenza di due gruppi
criminali contrapposti. Infatti,
con le numerosissime operazioni di polizia e le conseguenti condanne emesse dalla
magistratura nei vari livelli
di giudizio, veniva affermata, senza ombra di dubbio
e in maniera inconfutabile,
l’esistenza a Locri di due cosche avverse, aventi struttura
essenzialmente familiare e
fra loro in contrapposizione
a volte pacifica altre volte,
invece, incandescente. In
particolare, tali sentenze delineavano con esattezza le
cosche Cordì e Cataldo, individuando gli esponenti di tali
famiglie nei capostipite Cordì
Antonio e Cataldo Giuseppe
quali reggenti di sodalizi capaci di controllare e di gestire
sul territorio le più lucrose
attività illecite. Leggiamo ancora nell’ordinanza: «Il ciclo dell’usura ’ndranghetista
utilizza il “prestito” iniziale
come strumento di accesso
alla proprietà dell’impresa da
cui far transitare poi denaro
riciclato: dal prestito iniziale
Usura
39 | novembre 2012 | narcomafie
Usura
40 | novembre 2012 | narcomafie
si passa, infatti, al condizionamento della vita dell’impresa
attraverso l’imposizione di
fornitori e servizi, fino alla
creazione indotta di uno stato
di crisi dovuta all’insolvenza di chi era in debito con
l’azienda stessa. Una volta entrati in possesso dell’azienda
il meccanismo si interrompe
per ripetersi in altre realtà imprenditoriali. È proprio questo il caso dell’usurato Rocco
Rispoli il quale è proprietario
di una struttura agrituristica
dal forte richiamo turistico
nella medioevale città di Gerace, azienda peraltro molto
conosciuta nella Locride, che
di sicuro fa gola alle cosche locali e che è chiaramente finita
nel mirino degli usurai che la
stanno prosciugando».
Com’è ormai noto, una delle
maggiori problematiche che
impegnano quotidianamente
le cosche mafiose calabresi è
quella connessa al riciclaggio
di ingenti somme di denaro
provenienti dalle illecite attività dalle stesse praticate, in
special modo le somme provenienti dal traffico di sostanze
stupefacenti e dalle estorsioni.
Uno dei mezzi maggiormente
utilizzati dalle consorterie
mafiose per ripulire il denaro
così illecitamente guadagnato
è quello di prestare soldi a
piccoli imprenditori e privati
cittadini che versano in difficoltà economiche, ad interessi
esorbitanti. Così facendo le
organizzazioni criminali conseguono il duplice vantaggio
di impiegare in modo redditizio i proventi di altre attività
delittuose e di penetrare e
controllare ulteriormente il
tessuto economico e sociale
della zona di influenza. L’in-
chiesta “Shark” ha consentito
di accertare come questa cosca mafiosa sia stata particolarmente attiva nel settore
dell’usura e dell’esercizio
abusivo del credito, attività
decisamente redditizie e poste
in essere con le consuete modalità violente e intimidatorie.
Dalle carte dell’inchiesta si
rileva come l’attività usuraria
si connetta agli altri reati della
consorteria, confermando come
l’usura sia uno dei metodi più
invasivi attraverso i quali le
organizzazioni criminali riescono a penetrare i gangli vitali
della società civile, soffocando
il libero mercato e condizionando il sistema economico
del territorio di Locri.
Effetto “a cascata”. Altro
dato saliente emerso dalle investigazioni è rappresentato,
poi, dalla peculiare posizione
di coloro che, vittime di usura
da parte degli esponenti delle consorterie mafiose sopra
menzionati, a loro volta si
ritrovano a prestare somme
di denaro a terzi, applicando
anch’essi elevati tassi usurari; tali soggetti nella duplice
veste di usurato e di usuraio,
pressati dalla esigenza di soddisfare le esose pretese dei
loro più pericolosi creditori,
finiscono con l’adottarne il
metodo, applicando ai loro
debitori gli stessi criteri di
calcolo degli interessi e spesso
ricorrendo alle stesse tecniche di “persuasione” per la
riscossione dei crediti (per lo
più, minacce di morte), così
generando una sorta di effetto
“a cascata” a tutto vantaggio
delle organizzazioni criminali
che, a fronte di un limitato
investimento iniziale, si ri-
trovano al proprio servizio un
disperato esercito di frenetici
procacciatori di danaro che
garantisce alla consorteria un
flusso costante di contanti o
assegni.
Le attività delittuose in trattazione vengono svolte con le
modalità intimidatorie tipiche
delle consorterie mafiose. Il
più delle volte è la stessa caratura criminale dell’usuraio,
la sua nota appartenenza o
vicinanza alle organizzazioni
criminali, i suoi precedenti
giudiziari vissuti al fianco
di noti esponenti mafiosi, a
costituire un primo elemento
di intimidazione e a far sì che
l’usurato, consapevole degli
enormi rischi cui si espone,
sia sollecito nei pagamenti
e, quindi, nella ricerca delle
somme necessarie a versare
almeno la rata di interessi.
Questo effetto intimidatorio
viene molto spesso ulteriormente amplificato dall’usuraio, il quale lascia intendere
alla vittima che tutto, o parte
del denaro prestato, provenga
da soggetti sovraordinati nella
gerarchia criminale e, quindi,
ancor più pericolosi. Non di
rado, poi, la vittima viene
indotta a pagare mediante minacce esplicite o simboliche
di morte, ovvero mediante
percosse. Importante il passaggio evidenziato dell’ordinanza di misura cautelare
dove si legge che gli accertamenti investigativi vengono
supportati da una dettagliata
denuncia formalizzata il 12
maggio 2005 da Luca Rodinò
(vedi box p. 37), che indicava dettagliatamente episodi
e personaggi tutti gravitanti
nell’ambito delle criminalità
organizzata locale.
41 | novembre 2012 | narcomafie
Il tesoro
scippato
di Peppe Ruggiero
In seguito alle dichiarazioni del
pentito boss della camorra Salvatore Lo Russo, la Direzione
investigativa antimafia scopre
un tesoro di oltre 7 milioni di
euro in contanti appartenente
all’ex contrabbandiere degli
anni di Zaza-Mazzarella, l’usuraio Mario Potenza, morto per
problemi cardiaci il 25 gennaio 2012 all’età di 83 anni. La
banca dell’usura aveva le sue
casseforti dietro le mura di un
anonimo appartamento popolare al vico Storto al Pallonetto
a Santa Lucia a Napoli. Mura
maestre imbottite di denaro
contante. Un’intera giornata
di lavoro a picconate da parte
degli uomini della Dia a caccia
del tesoro. Quando gli investigatori a tarda sera finiscono di
contare, il bottino ammonta a
cinque milioni 537mila trecento euro, banconote da cin-
quecento euro, oltre a 284 mila
830 euro in assegni ancora da
incassare. Quelli a scadenza posticipata firmati dalle vittime.
Da sommare ai due milioni di
euro trovati all’interno di una
valigia a casa del figlio dell’usuraio Salvatore, al settimo piano
dello stesso palazzo.
Più o meno le stesse logiche
di occultamento che ritroviamo di recente sulle labbra di
un mafioso all’inizio della sua
collaborazione: «Se lo Stato mi
volta le spalle, ho dove andare
ad attingere. E non certamente
in Banca». Cifre che neanche
le sedi centrali degli istituti
di credito hanno disponibili
nell’immediatezza, ma che invece aveva il signore dell’usura.
Il blitz delle forze dell’ordine,
infatti, conferma la credibilità del boss pentito di Miano
Salvatore Lo Russo. È stato
lui a indicare ai pm dell’antimafia Sergio Amato ed Enrica
Parascandolo il tesoro dell’
usura. «Tempo fa – racconta Lo
Russo ai magistrati – due miei
cugini avevano bisogno di denaro. Così li mandai da Mario
Potenza ‘o chiacchiarone. Era
molto conosciuto come usuraio
perché faceva prestiti di cifre
molto importanti. Grosse quantità di denaro consegnate in
pochi giorni e con buoni tassi di
interesse. A differenza di tanti
altri non prendeva più dell’uno
e mezzo, il due per cento sul
prestito». Insomma, un “usuraio onesto”. Che però aveva
accumulato un patrimonio in
contanti. Nel luglio del 2011,
a due mesi dal ritrovamento
del tesoretto di Santa Lucia,
gli uomini della Dia si sono
presentati in alcuni tra i più
noti e frequentati ristoranti e
Usura
Come si può evincere dalle carte delle inchieste e dai sequestri
delle forze dell’ordine, nel corso degli anni si è formato un vero
e proprio “tesoro”: il capitale sociale della Banca dell’usura. Una
banca che ha filiali a Napoli, in terra di Calabria, nella Capitale,
nel nord Italia e in Puglia. E non si tratta solo di soldi liquidi ma,
soprattutto, di proprietà immobiliari, società di capitali, ville di
lusso, fuoristrada
Usura
42 | novembre 2012 | narcomafie
pub partenopei per notificare
il sequestro preventivo delle
attività commerciali. Locali che
sarebbero stati aperti e portati
avanti, anche e soprattutto con
i soldi messi a disposizione
dalla famiglia Potenza, ritenuti
gli usurai del Pallonetto Santa
Lucia, e dal boss, oggi collaboratore di giustizia, Salvatore
Lo Russo. Nella lista nera dei
17 esercizi tra cui locali della
catena di “Pizza Margherita”,
luoghi rinomati lungo il lungomare liberato di via Caracciolo
e gestiti – secondo l’ accusa –
da rampanti manager che non
hanno esitato a tirare dentro
anche usurai e camorristi. Il
vecchio usuraio del Pallonetto
aveva però un piccolo difetto:
gli piaceva raccontare tutto
quello che gli succedeva. Lui
parlava, e le forze dell’ordine
intercettavano. E parlava di
storie di usura. Di soldi portati
all’estero. Almeno 15 milioni
in Svizzera sequestrati grazie
alla cooperazione della Procura
federale di Lugano. Il ritratto
dell’anziano del Pallonetto che
emerge dalle numerose intercettazioni ambientali è quello
di un uomo attaccato al denaro
più che alla libertà personale e
alla vita stessa. Dai numerosi
colloqui tra l’ottantenne ex
contrabbandiere e i suoi familiari si apprende innanzitutto
che l’uomo, nonostante fosse
ai domiciliari, usciva di casa
per incontrare e minacciare le
persone alle quali aveva prestato denaro. Ma soprattutto,
come sottolinea nell’ordinanza
il gip Maria Vittoria Foschini,
emerge che per Potenza i soldi
erano la cosa più importante;
purché avesse riavuto il suo
denaro, l’usuraio sarebbe stato
disposto a rimanere in carcere
per anni. «Mi facevo 8 anni di
carcere – dice ad esempio in
uno dei colloqui intercettati
– basta che mi rimanevano i
soldi! Perché tu da carcerato
esci; come muori carcerato,
così devi morire anche fuori!
Però basta che mi rimangono
i soldi». Di lì a poco, Potenza
ribadisce il concetto e spiega
che, per lui in passato come
ora per i figli, la vita in carcere è stata addirittura comoda
e piacevole: «Finché non mi
tocchi i soldi, carceratemi.
Sette mesi, 8 mesi, un anno...
stiamo a posto! Perché se hai
i soldi e sei carcerato, rimane
solo la libertà, poi c’hai tutto!
Il primo pensiero che non hai è
per la tua famiglia: la famiglia
tiene i soldi, mangia. Io, quando stavo carcerato parevo ‘nu
magrebino». L’anziano ex contrabbandiere non sospettava di
essere intercettato. Parlando
con la nuora Antonella, ragionava sul fatto che, se fossero
state piazzate delle cimici, lui
e i suoi familiari avrebbero
rischiato grosso: «Se stavamo
sotto, per quello che io ho detto
qua sopra qua, dovevano fare
altri sei processi». Era ai domiciliari, Potenza, ma continuava
a rincorrere il denaro prestato,
minacciando e insultando i
suoi “clienti”.
Roma, città aperta all’usura.
Il 13 luglio 2011 il giudice per
le indagini preliminari di Roma
Tommaso Picazio emette l’ordinanza di custodia cautelare
in carcere in un luogo di cura
per Giuseppe De Tomasi, 74
anni, ex boss della mala romana vicino alla Banda della
Magliana, e per altre dieci persone, tra cui i due figli (Arianna
e Carlo Alberto) e la moglie
Anna Maria Rossi. Per alcuni
ci sono gli arresti domiciliari.
La richiesta di arresto è arrivata dal procuratore aggiunto
antimafia Giancarlo Capaldo e
dai sostituti Simona Maisto e
Francesco Minisci. De Tomasi,
detto “Sergione”, è accusato di
aver messo in piedi un giro di
usura da centinaia di migliaia di euro, che ha coinvolto
commercianti, ex carabinieri,
imprenditori. Due anni di indagini della Squadra mobile di
Roma per l’operazione denominata “Luna nel pozzo” hanno
portato all’arresto cautelare di
undici persone, con le accuse
a vario titolo di usura, riciclaggio, ricettazione, estorsione,
esercizio abusivo del credito. In
pratica De Tomasi aveva messo
in piedi un gruppo criminale a
conduzione familiare, nel quale
i figli, la moglie, il genero e l’ex
fidanzata del figlio avevano
dei ruoli precisi e funzionali.
Praticavano tassi di usura che
andavano fino al 150 per cento all’anno. Alcune persone
del gruppo erano poi dedite al
“recupero crediti”, con minacce verbali e atti intimidatori.
Una holding familiare in cui
tutti avevano un ruolo preciso: dai semplici “autisti’’ a
coloro i quali erano destinati
a riscuotere le somme dalle
vittime. Una sorta di gruppo
criminale tra congiunti basato
su un imponente giro di usura
e la gestione di sale da gioco.
“Familiare’’ anche il nascondiglio di parte del tesoro della
banda: un cuscino dove sono
stati trovati 30mila euro. Ma il
patrimonio per quanto intestato
a una rete di prestanome, parla
chiaro: le indagini, durate quasi
due anni, hanno permesso di
ricostruire l’impressionante
43 | novembre 2012 | narcomafie
smaltimento dei rifiuti, fruttavano diversi milioni di euro
all’anno. Le società avevano
sede sulla via Nomentana, a
Fonte Nuova, dove la polizia ha
posto i sigilli. Se c’è una banda,
nella storia criminale capitolina, che ha davvero meritato
la definizione di “clan”, sono
loro, i Casamonica. Famiglie
di Sinti, gli zingari abruzzesi
cristiani, ormai stanziali, imparentati, da sempre, con la
famiglia Di Silvio e, occasionalmente, con altre dinastie rom
come i Cena e i De Rosa, unite
da un viluppo indissolubile di
matrimoni e interessi comuni.
L’ultimo censimento del clan,
fatto da Vittorio Rizzi, ex capo
della squadra mobile di Roma,
parla di almeno un migliaio di
affiliati. Un impero che ha i
suoi capisaldi tradizionali nelle
zone a sud est della capitale:
Romagnina, Anagnina, Porta
Furba, Tuscolano e giù, verso
sud, fino a Frascati. Orgogliosi
della loro indipendenza, i Casamonica stringono alleanze
operative ma solo da pari a pari:
il carattere rissoso e guascone
dei sinti impedisce ogni forma di sudditanza. Da almeno
cinque anni, secondo polizia e
carabinieri, i Casamonica sono
diventati il braccio armato dei
più grossi usurai romani. Enrico Nicoletti, l’ex cassiere della
Magliana, aveva inaugurato un
innovativo sistema di scambio:
due creditori recalcitranti ceduti agli uomini del clan in
cambio di uno docile e pronto
a pagare le rate dei prestiti.
Perché quando arrivano loro,
i Casamonica, non c’è scampo:
si paga e basta, niente scuse e
niente dilazioni.
Lo sa bene Vittorio, il nome
è ovviamente di fantasia, ma
la persona no. Quella è reale, come reale è l’aggressione
usuraia subita dai Casamonica.
Quando lo incontriamo due
anni fa è spaventato, non sa più
come pagare e vuole solo fuggire. Di denunciarli non vuole
neanche sentire parlare.
Milioni di assegni in bianco.
Dalla Capitale all’agro pontino
la distanza è breve. Ma i soldi aumentano. Per “aiutare”
colleghi in difficoltà prestava
soldi a un tasso del 50 per
cento. Aveva accumulato una
ricchezza notevole, tanto che
la Finanza, lo scorso maggio,
gli ha sequestrato 150 immobili
per un valore complessivo di
oltre 100 milioni di euro, tra
cui hotel e centri sportivi, e una
Jaguar XJ220, prodotta in soli
281 esemplari, del valore di
mezzo milione di euro. Nicola
Di Maio, destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare
agli arresti domiciliari eseguita dalla Guardia di Finanza
di Napoli contestualmente a
un decreto di sequestro del
Tribunale di Nola (Na), aveva
in cassaforte assegni circolari
e bancari emessi senza data,
ed in alcuni casi anche senza
l’indicazione del beneficiario,
per un valore di oltre 2 milioni
e mezzo di euro. Il 74enne
custodiva anche numerosissimi documenti riguardo a
una cinquantina di rapporti
di natura commerciale, tutti
garantiti da cambiali, metodo
diffuso tra gli usurai. Di Maio
è finito nel mirino degli investigatori dopo la denuncia di
una delle sue tante vittime,
in gran parte imprenditori del
settore autotrasporti, che ha
deciso di ribellarsi dopo aver
accumulato, in tempi brevissi-
Usura
giro di affari che ruotava prevalentemente intorno alla famiglia di Giuseppe De Tomasi,
detto “Sergione”, che si può
quantificare in movimenti di
denaro per oltre 100mila euro a
settimana. Sequestro di 10 immobili, 9 società, 12 automezzi
e 3 circoli dove si praticava
il gioco d’azzardo. 10 auto di
gran lusso, 3 circoli ricreativi. I
conti correnti sequestrati sono
21 oltre allle quote azionarie
di 10 società. Condannato nel
2002 con sentenza definitiva
a 3 anni e 3 mesi per associazione a delinquere, De Tomasi
non è mai stato uno che spara,
la sua arma è il libretto degli
assegni, il suo campo d’azione gli investimenti, l’usura, il
riciclaggio.
E sempre nella Capitale dominano i Casamonica. Un valore
complessivo di beni sequestrati che sfiora i 10 milioni
di euro e un volume di affari
annuale delle società, anche
queste sequestrate, di circa
40 milioni di euro. E poi 15
aziende e quote di 34 società,
oltre al sequestro di 165 conti
correnti, auto di lusso, ville e
appartamenti. È un patrimonio da capogiro quello posta
sotto sequestro dalla divisione
anticrimine della questura di
Roma nel marzo del 2010. Un
patrimonio creato per ripulire denaro illecito del clan
frutto di usura. L’operazione,
chiamata dagli agenti dell’anticrimine “Crime Contact”, era
partita da alcuni accertamenti
patrimoniali. Tutte le persone coinvolte nell’inchiesta si
erano dichiarate nullatenenti,
mentre il giro di affari fatto di
attività di consulenze, forniture
e gestione per i supermercati,
servizi di pulizia e raccolta e
Usura
44 | novembre 2012 | narcomafie
mi, un debito di circa 600mila
euro a fronte dell’acquisto di
autoveicoli. L’imprenditore,
vessato dai tassi di interesse sul
prestito chiesto al 74enne, si
è rivolto alle forze dell’ordine,
denunciandolo. A quel punto
gli inquirenti hanno avviato
immediatamente le indagini,
durate quasi due anni, nei confronti di Di Maio, noto imprenditore con svariati interessi
commerciali, tra i quali la vendita di autoveicoli industriali
e le speculazioni immobiliari,
che risultava avere un patrimonio sproporzionato rispetto al
reddito dichiarato.
Le indagini, coordinate dal
procuratore della Repubblica
del tribunale di Nola, Paolo
Mancuso, hanno anche permesso, grazie alle testimonianze
rese dagli stessi imprenditori
vessati, di risalire al metodo
usato da Di Maio, che applicava
interessi usurai anche sugli
stessi interessi già maturati
sul debito accumulato dalle
sue vittime. Di Maio, grazie
all’illecito arricchimento, ed
al numero di vittime cadute
nella sua ‘rete’, era riuscito ad
accumulare un patrimonio di
dimensioni spropositate, per
un valore che supera i 100
milioni di euro, con beni intestati anche alla moglie e alla
figlia, disseminati in Campania
e nel Lazio dove, a Sabaudia, il
74enne aveva un centro sportivo, oltre a quello posseduto a
Marigliano, nel napoletano.
L’imprenditore usuraio Di Maio
viene anche citato nelle pagine
della relazione della Direzione
nazionale antimafia del 2010:
«Va ricordato che nell’ottobre
2010 è stato disposto il sequestro anticipato dei beni riconducibili a Di Maio Salvatore:
immobili, esercizi commerciali, quote di partecipazione in
società per 30 milioni di euro.
Il provvedimento, che muove
dal presupposto che il Di Maio
sia uno dei prestanome del clan
Cava di Quindici (Av), evidenzia come lo stesso sia dedito
ad usura, turbativa d’asta ed
estorsioni in collegamento con
esponenti della criminalità
organizzata».
Beni per un valore di 41 milioni
di euro tra società, immobili,
yacht, conti correnti e persino
cavalli: questo il tesoro del clan
camorristico Terracciano. Nel
febbraio del 2012, le fiamme
gialle fiorentine hanno sottoposto a sequestro i seguenti
beni: 44 società, 31 immobili
(sparsi sul territorio nazionale,
di cui 21 nella sola Toscana),
31 autoveicoli, 1 yacht di lusso,
17 cavalli, 67 rapporti finanziari, 2 cassette di sicurezza.
Un clan della camorra che ha
operato per anni in Toscana,
ha spadroneggiato nel settore
dei locali notturni acquisendoli
con metodi mafiosi, ha gestito
bische clandestine, ma soprattutto ha prestato denaro a usura
praticando tassi fino al 1.000%
e terrorizzando gli imprenditori
finiti nella spirale dei debiti,
realizzando colossali profitti.
Il sequestro è stato disposto
in via preventiva per sottrarre
disponibilità economica a soggetti indiziati di appartenere al
clan, che avevano un tenore di
vita sproporzionato rispetto ai
redditi dichiarati. Sono 71 le
persone intestatarie dei beni
finiti nel mirino delle Fiamme
gialle, tra cui 8 membri del
clan: i fratelli Carlo e Giacomo
Terracciano, i figli di quest’ultimo Francesco e Antonio, oltre
a Francesco Lo Ioco, residente
in Sicilia, Michele di Tommaso,
in Basilicata, e gli imprenditori
Alberto Paolo Mancin e Paolo
Posillico, entrambi di Prato. Il
gruppo si avvaleva poi di 63 tra
familiari e prestanome, attraverso cui cercava di impedire la
riconducibilità del patrimonio
all’organizzazione criminale.
Esemplare il caso di una donna
della famiglia dei Terracciano:
dichiarava al fisco 3mila euro
di reddito, ma era proprietaria
di uno yacht da 300mila e in un
solo anno aveva movimentato
denaro per oltre un milione di
euro. In Toscana, per la precisione a Prato, i Terracciano,
già affiliati alla nuova camorra
organizzata del boss Raffaele
Cutulo, si sono trasferiti dalla
Campania nel 1991.
Usura a tasso agevolato. Il 20
luglio del 2011, gli investigatori della Guardia di finanza
sequestrano il tesoro di quelli
che sono ritenuti gli usurai più
influenti della città di Palermo,
con decine di clienti che fanno
la fila per essere ricevuti. Sono
i fratelli Giuseppe e Maurizio
Sanfilippo, 59 e 51 anni, originari del villaggio Santa Rosalia: accusati di aver inventato
l’usura col tasso agevolato, il
2-3% al mese. Così i Sanfilippo
avrebbero conquistato persino
pensionati e casalinghe in cerca
di facili crediti per mandare
avanti la famiglia. I finanzieri
del comando provinciale di
Palermo hanno intercettato per
mesi i due fratelli e poi hanno
convocato in caserma le loro
vittime, ma solo in tre hanno
collaborato. Due imprenditori
in crisi e una casalinga che
aveva bisogno di 20mila euro
per gli studi universitari dei
figli. Ma non sono bastate tre
denunce per una richiesta di
misura cautelare. I pm Dario
Scaletta e Marco Verzera hanno però disposto il sequestro
preventivo dell’ impero economico dei due fratelli. E il gip
Fernando Sestito ha convalidato il provvedimento. Così, i
finanzieri hanno fatto scattare
i sigilli a un patrimonio da 7
milioni di euro, costituito da
18 immobili (tra ville, appartamenti, locali commerciali,
magazzini e garage), 11 automobili di lusso (soprattutto
berline e suv), quattro moto
e 16 conti correnti contenenti
oltre 115mila euro. Contro i due
fratelli ci sono ora i racconti
sofferti di tre vittime. In realtà,
le denunce erano molte di più,
ma poi è accaduto l’ irreparabile. Una delle vittime, che ai
finanzieri aveva negato persino
l’evidenza delle intercettazioni,
avrebbe avvertito i Sanfilippo
delle indagini in corso. E a
quel punto sarebbe scattata
un’opera di persuasione: i due
fratelli avrebbero contattato i
loro clienti, ma senza maniere
forti. In cambio del silenzio,
avrebbero offerto addirittura
di abbonare alcuni debiti, restituendo degli assegni consegnati
a garanzia. Così l’offerta ha convinto molte vittime a ritrattare
la denuncia: «Abbiamo avuto
solo dei prestiti leciti, niente
altro», dicono.
Ma la ritrattazione a catena
non ha impedito il sequestro
dei beni, che può scattare anche per un solo episodio. L’
inchiesta prosegue.
imprenditori, un titolare di
un’officina di auto ricambi e
due meccanici, che avevano
chiesto ciascuno un prestito
di 200mila euro. Avrebbero
dovuto restituire i soldi con un
interesse del 70%, altrimenti il
“Toro”, lo strozzino, Giuseppe
Rubini, 50 anni, arrestato dalla
guardia di finanza nel marzo del 2011 nell’ operazione
“Belfagor” sarebbe passato ai
fatti. «Se non mi dai i soldi, ti
spezzo» gridava l’ usuraio ai
debitori. Troppa la sproporzione tra i redditi dichiarati
e il tenore di vita. Così, dopo
lunghi accertamenti patrimoniali, i militari del nucleo di
polizia tributaria della guardia
di finanza di Bari, in collaborazione con lo Scico di Roma,
hanno sequestrato beni immobili, rapporti finanziari, polizze
assicurative e gioielli riconducibili a Rubini. Un patrimonio
di oltre 7 milioni di euro. Il
provvedimento di sequestro
è stato emesso dal tribunale
di Bari, sezione per le misure
di prevenzione in applicazione della normativa antimafia.
Rubini è finito nel blitz che
il 2 marzo 2011 smascherò il
clan dell’ usura che operava al
quartiere Libertà di Bari: furono
arrestati in cinque tra cui il boss
Giuseppe Mercante per i reati
di usura, estorsione, riciclaggio
e ricettazione. Rubini agiva
però fuori dal clan: prestava
denaro pretendendo interessi
usurai sino al 70 per cento su
base annua e minacciava di
morte le sue vittime.
“Se non mi dai i soldi ti spezzo”. “Se divento cattivo, sono
capace di tutto”. La minaccia
non aveva bisogno di spiegazioni. Lo sapevano bene i tre
Quando l’aguzzino è un tuo
fan. C’era anche l’attore Vincenzo Barbetta, protagonista
del film “Un camorrista perbene”, tra i 55 arrestati dalla
squadra mobile napoletana su
mandato della Dda avvenuto
nel luglio del 2010. Nell’atto di accusa risultano tutti
collegati al clan Moccia di
Afragola. Immobili, ditte di
abbigliamento, autolavaggi
e atelier di abiti da sposa e
anche una scuola di danza:
un totale di 70 milioni di
euro sottratti alla camorra
dal sequestro ordinato dalla
magistratura. Beni acquistati con i proventi del credito
usurario, una delle attività più
praticate dai Moccia. Barbetta
era solo uno dei tanti che
orbitavano intorno all’ organizzazione messa sotto pesanti
accuse dagli investigatori. Un
gruppo, quello dei Moccia di
Afragola, molto presente sulla
scena della camorra negli anni
Novanta, e che ora tiene un
profilo basso, ma conserva il
potere con ogni mezzo.
Spietati, crudeli, non si facevano scrupolo di sottoporre a violenze di ogni genere
le donne che non pagavano
gli usurai. Come nel caso di
Caterina, una giovane donna
costretta per tre volte ad avere
rapporti sessuali con Antonio
Iorio, che, dopo un prestito, le
imponeva una rata di 500 euro.
Non potendo onorare il debito,
doveva sottostare alla violenza. Danni anche alla cantante
neomelodica Cinzia Oscar, che
aveva come impresario proprio
l’attore Barbetta: in questo caso
gli usurai del clan Moccia,
invece della somma di denaro
“dovuta”, si fecero consegnare
dalla Oscar un furgone che
valeva molto di più. Ironia
della sorte, gli aguzzini della
cantante erano anche suoi fan e
andavano a caccia dei biglietti
dei suoi spettacoli.
Usura
45 | novembre 2012 | narcomafie
46 | novembre 2012 | narcomafie
Il “galateo”
degli strozzini
Ventilate minacce, violente promesse di morte, ritorsioni su
membri della famiglia. Dalle inchieste sull’usura mafiosa è possibile stilare una sorta di “galateo” dei cravattari
Usura
di Peppe Ruggiero
«Non ti permettere più di riattaccarmi il telefono in faccia perché
dove ti trovo, ti spacco la testa con
la mazza, hai capito?». Minacce
emergono dalle intercettazioni telefoniche dell’operazione
“Diamante” con cui il Gico della
Guardia di finanza di Firenze ha
arrestato cinque persone, due
campani legati al clan Bidognetti
dei Casalesi, e tre toscani, con le
accuse di usura ed estorsione.
All’altro capo del filo c’è una
delle vittime dell’usura che cerca
di sviare il discorso: «Senti, vieniti a prendere la macchina», si
sente l’accento toscano. E l’altro,
con chiaro accento campano,
insiste con le minacce per riavere
i soldi prestati a tassi d’interesse
che potevano arrivare al 405%.
«La macchina? Io voglio i soldi
non la macchina, perché dove
ti incontro ti spacco la testa con
la mazza. Vabbuò senti a me ...
subito dopo le feste sto a Firenze». E la vittima, chiaramente
impaurita, acconsente a vedere
il suo usurario: «Quando vieni
a Firenze tu mi chiami, e dove
sono, sono, io vengo». «Dobbiamo parlare io e te perché i
fiorentini mi hanno fatto due p...
che stanno scoppiando – dice il
campano alludendo ai complici
trovati nel capoluogo toscano –.
Tutta questa banda di m.... che
hai conosciuto tu. Le mie palle
non ce la fanno più a portarvi
a cavallo. Ti giuro su mia figlia
devo venire a spaccare le corna a
quattro o cinque persone a Firenze». Anche un’altra telefonata
evidenzia il tenore con cui gli
usurai del clan dei Casalesi intimidivano imprenditori e privati
toscani in difficoltà. «Invece di
fare le tue cose mettiti in pari
con le persone, invece di creare
disagio agli altri! Hai capito?»,
si sente dire in una telefonata
intercettata. E un’altra vittima
del clan fiancheggiatore dei
Casalesi prova a dire: «Ma io
ho già parlato con chi deve
avere. Ho già parlato con loro
ieri mattina». «No – dice l’usuraio – mi hanno chiamato e mi
hanno detto che hai preso tempo
ancora». Poi ancora minacce:
«A te quando ti piglio ti faccio
vedere; poi vai a chiamare i carabinieri, vai a chiamare chi ti
pare, va bene?».
Sequestri e sevizie. In un articolo di «Repubblica», edizione
Roma, a firma Massimo Lugli,
dell’ottobre del 2011, si racconta la storia di due imprenditori
caduti nelle mani di una coppia
di usurai, due fratelli di 24 e 28
anni, Sergio e Andrea Gioacchini,
arrestati dagli agenti di Vittorio
Rizzi, ex capo della mobile e di
Antonio Franco, dirigente del
commissariato di Ostia, con una
sfilza di imputazioni che vanno dall’usura al sequestro, dalle
lesioni alla rapina. Una storia
atroce dove una delle vittime,
in particolare, è stata massacrata
di botte e terrorizzata. Lo hanno
sequestrato, picchiato, umiliato,
torturato davanti alla sua giovane
compagna. Gli hanno bruciato
la pelle del torace con un accendino, gli hanno trapassato
la mano destra con un lungo
coltello per poi disinfettare e
bendare sommariamente la ferita,
senza nemmeno permettergli
di andare al pronto soccorso.
L’hanno costretto a presentarsi
in banca, gli hanno svuotato i
conti e le cassette di sicurezza,
l’hanno rapinato di tutti i preziosi
47 | novembre 2012 | narcomafie
Come terrorizzare le vittime.
Nel galateo c’è anche chi fa un
corso accelerato per usurai. I consigli arrivano da Mario Potenza,
ex contrabbandiere degli anni di
Zaza-Mazzarella. Dopo l’arresto
dei figli Bruno e Salvatore, che
prima lo aiutavano nel “recupero
crediti”, Potenza si trova a dover
rimpiazzarli. Si rivolge così a un
vicino di casa, Raffaele Terminiello, anch’egli arrestato nell’ambito
dell’inchiesta della Direzione
investigativa antimafia del gennaio 2012. A lui fa addirittura
delle lezioni, una sorta di corso
accelerato per usurai: gli spiega
come terrorizzare le vittime, incitandolo a non mostrare per loro
alcuna pietà. «Acchiappalo per i
capelli come ti dico io! Piglialo
malamente a questa latrina. Digli:
ha detto lo zio (lo stesso Potenza,
ndr) che stanno ridendo sopra i
morti... digli che se viene lo zio
vi schiatta la faccia!». E ancora:
«Ha detto il nonno, ha detto lo
zio: se si scoccia si fa 4 anni di
carcere, se viene lì ti salta addosso». «Ancora pensi che io vengo
a casa tua, non mi faccio vedere
né da tua figlia né da tua moglie,
io voglio l’uomo, non sono come
quei luridi strozzini».
Usuraio e gentiluomo. C’è anche
questo nel “galateo” del perfetto
usuraio. Le minacce erano destinate solo al debitore. Fuori le
donne e fuori la famiglia. Perché
gli usurai del clan Mercante Diomede erano «persone oneste e
ragionevoli». Si definivano così al
telefono con le loro vittime. «Puoi
stare sicuro – dice al telefono
l’usuraio Leonardo Fortunato
ad un imprenditore a cui aveva
prestato dei soldi – se tu mi lasci
con tua moglie e lasci i soldi nel
letto, stai sicuro che io non la
tocco, a me mi ammirano tutti
per sto fatto». Sono conversazioni
tra “uomini d’onore” quelle che
si leggono nelle 170 pagine di
ordinanza di custodia cautelare
emessa dal gip del tribunale di
Bari Michele Parisi per l’operazione antiusura “Belfagor” della
Guardia di finanza di Bari. A
finire in manette sono stati cinque
presunti affiliati al clan MercanteDiomede. Primo fra tutti il boss
Giuseppe Mercante, detto “Pinuccio il drogato”, pluripregiudicato di 57 anni che recentemente
aveva finito di scontare in carcere
una condanna di due anni per
contrabbando di sigarette.
L’usuraio sembra il tuo miglior
amico. Le udienze del processo
«Infinito», nato dall’omonima
inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Milano che
nel 2010 spedì in carcere 160
persone in Lombardia, offrono
un inquietante spaccato. Sfilano
di fronte ai giudici e al pubblico
ministero Alessandra Dolci, le
vittime dell’usura. È il caso di
Emma Beluzzi, anziana di Mornico, che per anni ha gestito in
paese una trattoria, che portava
il suo nome. Tramite il figlio
Giovanni Giacomelli conosce
anche lei «il signor Mimmo»,
Domenico Pio, di Montebello
Jonico, che secondo la Dda è un
noto usuraio della «locale» di
Desio, in Brianza, dove per locale
si intende il nucleo territoriale di
base della ’ndrangheta. Nel 2008
la trattoria è in difficoltà, «avevo i
rappresentanti da pagare, ho chiesto i soldi a mio figlio che non li
aveva e mi ha detto di rivolgermi
al Mimmo... Lui mi ha dato cinquemila euro. Gli altri ad andare
a 11 mila li ha avuti lui (il figlio,
ndr) per pagare la macchina». I
pm contestano quest’ultima parte
della deposizione. L’anziana afferma ripetutamente in udienza,
in contraddizione con le prime
deposizioni ai carabinieri di Desio, di aver ottenuto cinquemila
euro e di averne ridati 11.400 per
coprire anche un prestito ricevuto
dal figlio per acquistare un’auto.
L’accusa sostiene che i seimila
euro di differenza rappresentano
Usura
che aveva e perfino della tessera
di un centro commerciale. Tutto
comincia quando l’imprenditore cinquantenne che gestisce,
tra l’altro, il luna park dell’Eur,
alcune agenzie immobiliari e
diverse altre attività, si trova ad
avere urgentemente bisogno di
contante. Una dipendente lo indirizza dai due fratelli che hanno
qualche precedente penale. L’uomo ottiene un prestito di 50 mila
euro a un interesse capestro del
10% mensile. Sta di fatto che la
somma da restituire cresce ogni
mese in più e l’uomo si ritrova
debitore di una cifra che oscilla
tra i 560 mila e gli 800 mila euro
visto che gli interessi si sommano
al debito e vengono ricalcolati a
ogni scadenza mancata. A questo
punto entra in scena il secondo
imprenditore, un uomo di origine sarda che vive ad Anzio. I
due stabiliscono un accordo: un
ristorante di via Benedetto Croce
in cambio di alcuni appartamenti
nella cittadina del litorale. Una
manovra che dovrebbe garantire
un po’ di ossigeno a entrambi ma
che, per qualche motivo, fallisce.
A quel punto, l’imprenditore di
Anzio diventa il bersaglio degli
usurai. Per dieci giorni l’uomo,
dopo le torture e con le mani
bendate, accompagnerà i suoi
aguzzini in banca, da un notaio
per la cessione di un terreno
all’Infernetto. Poi, finalmente, le
due vittime trovano il coraggio
di sporgere denuncia.
L’interesse finale, la mafia
Usura
48 | novembre 2012 | narcomafie
I tratti sono quelli dell’usura di sempre.
I silenzi, l’omertà, la complicità delle
vittime; e poi la violenza, che prima
ancora di passare sul piano fisico è
sottomissione e pressione psicologica.
Con ritorsioni sulle persone ma anche
sulle cose. Dall’indagine “Ultimate”
condotta qualche anno fa dalla Dda di
Potenza e che scoperchiava il pentolone di un calcio aggredito e controllato
da un clan mafioso del posto che faceva
capo al boss Antonio Cossidente, viene
fuori – secondo l’accusa – un rapporto
usuraio gestito da un commercialista,
Aldo Fanizzi, indicato dalla procura
come “il ragioniere del clan”. A un suo
compare a cui dà istruzioni su come
recuperare il credito da un commerciante dice: «gli ho fatto un piacere,
te lo posso dire tranquillamente…
Dice: Aldo, vedi, devo fare un servizio, fammi un assegno di mille e
cinquecento euro. Va bene, io gli faccio
l’assegno, è arrivato pure alla Banca
due mesi fa, a ottobre. Oggi, domani
e dopodomani, … lo telefono, non
risponde al telefono… Lo dobbiamo
recuperare… Lui ha pure una Fiat
Uno, questo signore! Eventualmente
ci prendiamo la macchina, non c’è
problema». Come dire: cambiano le
regioni, cambiano i volti, cambiano
le cifre ma le modalità di recupero si
assomigliano sempre di più!
L’usura di sempre insomma. Ma con
una sola variante, un interesse aggiunto,
che fa la differenza: le mafie. Se a gestire
l’usura sono i clan, allora cambia tutto;
ogni cosa si amplifica e diventa tutto
più difficile: con loro l’usura non cammina mai da sola, è sempre crocevia di
mille altri affari sporchi, non ultimi il
riciclaggio e le scommesse.
Con le mafie i soldi scorrono in mille
rivoli tra finanziarie, prestanomi e società similari, e più i soldi camminano
e più diventa difficile individuarli.
Con le mafie non è solo questione di
aggressione alla piccola economia
familiare, ma è un’intera economia che
viene dopata, con ricadute facilmente
immaginabili – nell’era della globalizzazione – sui sistemi produttivi, sui
mercati, sulla finanza.
Con le mafie hanno vita dura anche
gli strozzini, quelli che hanno sempre agito in proprio, e anche le loro
vittime: i primi, perché in tempi di
crisi non disponendo anch’essi di
liquidità, sono costretti a rivolgersi agli
unici che danno soldi, tanti e subito,
i clan; i secondi perché sono costretti
a pagare interessi che comprendono
anche quelli che i loro carnefici devono
pagare al clan finanziatore.
Con le mafie, infine, aumenta l’omertà,
perché se comunemente non si denuncia per vergogna, con loro non si
denuncia per paura, e perché dinanzi
alle scarcerazioni dei carnefici una
cosa è incontrare per strada, il giorno
dopo, il classico cravattaro, e una cosa
è incontrare l’affiliato del clan.
I fotogrammi sparsi riportati in questo
dossier, che per forza di cose e per
la natura stessa del fenomeno, non
poteva essere esaustivo, ci dicono
di un Paese strozzato. Ce lo dicono
le tante inchieste della magistratura,
ma ce lo dicono anche le tante vittime
che in questi anni abbiamo incontrato
negli otto sportelli “Sos Giustizia” di
Libera, sparsi per l’Italia.
Ascoltarli, sostenerli, accompagnarli
alla denuncia è importante; accompagnarli durante i processi perché non
si ritrovino da soli faccia a faccia con
quei clan che gli hanno tolto tutto,
è importante; ma non è sufficiente.
Anche sul fronte dell’usura mafiosa,
anzi, soprattutto sul fronte dell’usura
mafiosa, non possiamo camminare e
muoverci da soli ma c’è bisogno di un
lavoro d’insieme che ci veda protagonisti con altri attori importanti, dalle
istituzioni allo stesso sistema bancario:
perché non c’è nessun patto di stabilità
che tenga dinanzi all’urgenza di denaro
di tanti imprenditori che lavorando
con il pubblico vivono da un lato il
danno di ritardati pagamenti perché
quel “patto” non sblocca ciò che gli è
dovuto, e dall’altro la beffa di banche
che non intendono aspettare quei ritardi. I clan intercettano quel segmento
di disperazione e rispondono subito
e in contanti.
Come dire: confiscare i beni ai mafiosi,
ma fare anche di tutto perché i mafiosi
non entrino in possesso di quei beni.
in realtà il tasso d’usura, superiore al 100 per cento. Tanto che
la stessa anziana ammette «di
aver chiesto al Mimmo» di poter
versare con un po’ di ritardo la
terza rata per saldare il prestito,
ottenendo una risposta negativa:
«Emma ti voglio bene – risponde
il calabrese – ma in questo momento io non posso aiutarti».
L’usuraio se la prende solo con
la donna, non con il figlio.
In un’intercettazione telefonica, che i magistrati leggono
in aula, si delinea ancora di
più la verità. «Signora io non
voglio farle del male – passa a
dare del lei, Domenico Pio –.
Al limite do tutto all’avvocato
e le faccio fallire il locale. Non
voglio farle certe porcherie,
però deve capire in quale m...
mi ha messo suo figlio».
Ancora su «Repubblica» Roma
dell’11 gennaio un articolo di
Massimo Favale fotografa un’altra
sfaccettatura del galateo dell’usuraio. Si legge nell’articolo «che
l’usuraio sembra il tuo migliore
amico, sembra l’unico amico che
hai, l’unico che ti aiuta. Quello
a cui puoi chiedere 20 euro il
venerdì, per andare a comprare il
latte. Solo che poi, il lunedì gliene
devi restituire 100. E se non lo
fai, allora cominciano i guai».
E i guai, per Fausto Bernardini,
ex presidente di un’associazione
sportiva a Roma, arrivano sotto
forma di minacce, aggressioni
verbali e fisiche, paura. Oltre,
ovviamente, ai tanti soldi versati: 300mila euro, a fronte di un
prestito iniziale di 10mila. Storie
comuni delle vittime di usura.
«Una sera si presentano a casa.
Mi appendono fisicamente al
cancello, intimandomi di pagare
entro il giorno dopo oppure mi
avrebbero spezzato le gambe e
rapito mia figlia».
Quando
l’economia
è in crisi,
esplode l’usura
Una raccolta di interviste a personalità impegnate sul piano sociale
e istituzionale contro racket e usura. “Contrappunto in tempo di
crisi”, pubblicato da Solidaria, è il titolo scelto dai curatori Giovanni
Abbagnato e Salvatore Cernigliaro per dar voce agli aspetti più complessi e meno conosciuti di due fenomeni in espansione, che stanno
mettendo in ginocchio la vita di troppe persone. Per gentile concessione degli autori e della casa editrice, ne pubblichiamo un estratto
intervista a Dario Scaletta di Angelo Meli
Usura
49 | novembre 2012 | narcomafie
Usura
50 | novembre 2012 | narcomafie
Il racket e l’usura proliferano
in tempi di crisi. Ci sono pochi soldi, le banche stringono
i cordoni della borsa, chiedono
maggiori garanzie, si fanno più
diffidenti. E l’usuraio è lì, con la
sua disponibilità immediata di
denaro contante, più affabile del
solito, meno strozzino. Disposto
ad agevolare l’imprenditore in
difficoltà anche a costi contenuti,
sino a fare diventare la vittima
«grata» per l’assistenza ricevuta.
Una vittima che non denunzierà
mai se non messo veramente alle
strette. Lo scenario è disegnato
dal sostituto procuratore della
Repubblica della Direzione distrettuale antimafia di Palermo,
Dario Scaletta, da anni sul fronte
della lotta a racket e usura. Nato
a Palermo, ma originario di Trabia, ha studiato e si è laureato
in Giurisprudenza a Palermo.
Entrato in magistratura nel 2002,
dal 2004 lavora alla Procura e
dal 2009 è in Dda, alla scuola di
Roberto Scarpinato, nel gruppo
«Mafia ed economia»; dal 2012
fa parte del Consiglio Giudiziario
presso la Corte di Appello di
Palermo. Formazione internazionale, studi specialisti in Nord
Europa e Stati Uniti, negli anni
ha rafforzato le sue competenze
nell’aggressione patrimoniale
alla criminalità organizzata. Sue
le indagini tra le tante, quelle che
hanno portato alla confisca del
patrimonio di Aiello Michele il
re delle clinica Villa Santa Teresa,
di Badalamenti Gaetano, e alla
condanna di numerosi usurari
come Gino l’Americano, Tutrone
Fabio, Basile Marcello, Orlando
Salvatore.
Come sono cambiati vittima e
usuraio negli ultimi anni?
Diciamo che apparentemente
non è cambiato niente o meglio
il fenomeno si è ulteriormente
aggravato. Perché di fronte alle
difficoltà economiche attuali il
ricorso al credito ordinario, al
credito bancario in particolare,
si è reso sempre più arduo, più
difficile. Sia perché gli istituti di
credito hanno irrigidito i criteri
e i parametri per affidare i nuovi
clienti sia perché nello stesso
tempo i clienti hanno sempre
maggiori difficoltà ad offrire delle
garanzie adeguate per ottenere
questi finanziamenti. Con la
conseguenza che il ricorso al
credito ad usura si è reso molto
più diffuso e questo sulla base
di due aspetti: il primo legato alle grosse disponibilità di
liquidità da parte del crimine
organizzato (in una situazione di
particolare difficoltà economica
il ricorso al mercato illegale si
è ulteriormente accresciuto), il
secondo aspetto è dato dalla
strategia commerciale attuata da
diversi usurai. Una delle ultime
indagini su due storici usurari originari del Villaggio Santa
Rosalia, abbiamo verificato una
cosa stranissima che ha una sua
logica imprenditoriale: hanno
applicato dei tassi di usura proprio minimi, cioè poco sopra la
soglia di usura.
Questo che cosa ha consentito?
La possibilità, per esempio, di
concedere dei prestiti a tassi,
diciamo, quasi agevolati, quasi
più convenienti di quelli che
potrebbero applicare gli istituti di
credito, creando un meccanismo
perverso: l’usurato si sente quasi
gratificato, perché trova chiuse
le porte degli istituti di credito e,
invece, trova disponibili queste
persone che danno anche senza
garanzia. Ultimamente abbiamo
notato che non sempre vengono
più dati in pegno gli assegni
post datati, in quanto il credito è
garantito dal prestigio criminale
dell’usuraio. Così diffuso, così
consolidato, tanto da rendere le
vittime grate e pronte a pagare:
sanno che nel momento in cui
non riscuotono periodicamente
le rate dei prestiti, gli usurai non
concedono più prestiti e gli usurati non hanno più la possibilità
di continuare a sopravvivere.
Ormai la vera garanzia è la
violenza?
Ma anche la violenta crisi che
ha prosciugato le casse delle
imprese. Siamo arrivati al punto
che, in alcuni casi, i commercianti chiedevano prestiti per
pagare la luce del negozio, per
potere fare la spesa al supermercato. Parliamo di prestiti di
200-300 euro a settimana, roba
veramente minima. In un’altra indagine abbiamo visto che
persone, apparentemente della
“Palermo bene”, professionisti,
commercianti che giravano in
Land Rover, andavano in vacanza
in Sardegna, poi ricorrevano
al prestito usuraio per le spese
correnti.
Qual è stato l’effetto di questo
atteggiamento di “apertura”
da parte degli usurai?
Una contrazione del fenomeno
delle denunce. Perché, ovviamente, nel momento in cui
questa sindrome di Stoccolma
risulta ulteriormente accentuata, perché si vede nell’usuraio il
proprio benefattore, che applica
addirittura il 2% mensile contro una media del 10%, non si
ha più coraggio di denunciarlo.
Manca la rabbia dello sfruttato contro lo sfruttatore. Nella
media i tassi sono del 120%
annuo. Nel caso specifico di
questi due grossi usurai, veniva
applicato il 2% mensile, tassi
ritenuti irrisori dalle vittime
beneficiarie.
Come si possono superare le
criticità che hanno portato al
calo delle denunce?
Una cosa è certa: per contrastare
l’usura ci vuole il contributo
della persona offesa, soltanto in
casi eccezionali siamo riusciti a
dimostrare la sussistenza della
condotta usuraia a prescindere
dalla collaborazione dell’offeso.
E in un caso, messo con le spalle
al muro, è stato costretto ad ammettere, ma ha ammesso solo il
prestito che avevamo accertato
grazie ad un’intercettazione dove
era concordato tasso, entità del
prestito e durata. La difficoltà e
la semplicità della contestazione
del delitto di usura sussiste nel
fatto che è un reato “matematico”, nel senso che per la sua
realizzazione necessitano tre
elementi: entità del tasso, entità del prestito e durata. Se hai
questi tre elementi la prova del
reato è raggiunta e la responsabilità penale è una conseguenza
inevitabile. Ma se manca uno di
questi tre elementi ogni tentativo
di contestare il reato è vano. Se
il prestito dura un mese, il tasso
avrà una certa entità, se dura tre
mesi il tasso avrà un’altra entità.
Il meccanismo è che molto spesso i prestiti non sono a lunga scadenza, si determina un periodo
di uno-due mesi, massimo tre
mesi, alla scadenza del quale
si provvede o alla restituzione
dell’intero capitale o nella maggior parte dei casi a un rinnovo.
Al terzo mese si pagano solo gli
interessi, la parte relativa al rinnovo. Una vera propria novazione
del prestito, la costituzione di un
nuovo rapporto e la corresponsione dei soli interessi.
Quanto ci vuole a individuare e determinare un caso di
usura?
Il fattore tempo è un’altra criticità che è emersa anche sotto il
profilo del contrasto al fenomeno
dell’usura dal punto di vista
patrimoniale. In sei mesi bisogna concludere le indagini con
una richiesta di misura cautelare
personale e reale, altrimenti si
perde il fattore sorpresa. L’usura
è un reato per il quale è possibile utilizzare le intercettazioni
telefoniche e ambientali, ma
non rientrando tra i reati di cui
all’articolo 51 comma 3 bis c.p.p.,
alla scadenza dei sei mesi è obbligatoria la comunicazione alla
persona sottoposta ad indagine
della richiesta di proroga: se si
vuole lavorare sotto traccia si
ha un periodo limitato di sei
mesi, altrimenti devi comunicare
l’avviso di proroga. In tal modo
l’usuraio viene a conoscenza di
indagini che lo riguardano, potrà
in tal modo mettere al sicuro i
suoi beni traferendoli a terzi in
buona fede, potrà contattare le
vittime concordando la versione
da fornire agli investigatori, potrà
inquinare e distruggere le prove
del reato. In sei mesi è necessario
riuscire ad avviare un’attività di
carattere tecnico, individuare
o quanto meno incominciare
ad avere un’idea dei potenziali
clienti-vittime di usura. Una regola certa è che l’usuraio non ha
solo un cliente ma una pluralità
di clienti e che il cliente non ha
solo un usuraio ma una pluralità
di usurai. Quando si mette sotto intercettazione una persona
offesa si conosce il panorama
dei suoi fornitori, queste sono
regole derivate dall’esperienza.
In questi sei mesi individuiamo
gli usurai, le potenziali persone
offese, dopo di che avviamo una
serie di indagini di carattere anche patrimoniale in modo tale
che prima della comunicazione
dell’avviso di proroga delle indagini preliminari riusciamo ad
ottenere l’arresto in flagranza di
reato dell’usuraio e, aggredendolo anche dal punto di vista
patrimoniale, sottoponiamo a
sequestro tutto il suo patrimonio
immobiliare e mobiliare. Alla
luce della previsione normativa di cui all’art. 12 sexies del
D.L. n. 306/1992 è possibile nei
confronti dei soggetti condannati
per il delitto di usura ottenere la
confisca di tutto il loro patrimonio, direttamente a loro intestato
e indirettamente intestato a familiari o terzi intestatari fittizi, che
risulti sproporzionato rispetto
alle proprie disponibilità e\o
alla loro attività economica. Con
la conseguenza ulteriore che in
seguito all’arresto dell’usurario e
al sequestro del suo patrimonio
è più facile, anche attraverso il
risalto mediatico dato al risultato
delle indagini, che le altre vittime
si sentano più disponibili ad
ammettere di avere ricevuto dei
prestiti a condizioni usurarie.
Non c’è modo di annullare gli
effetti dell’azione di aggressione patrimoniale?
Un’altra criticità che abbiamo
riscontrato, soprattutto nel contrasto di carattere patrimoniale,
è che gli usurai cominciano ad
attivare dei meccanismi per cercare di superare la sproporzione
attraverso, per esempio, il ricorso
alle vincite al Totocalcio o al
Lotto. Si tratta anche di centinaia
di migliaia di euro, valori questi
che, accreditati sui propri conti
corrente, vanno in qualche modo
a compensare le loro disponibilità. Risulta particolarmente
difficile contestare che gli usurai
Usura
51 | novembre 2012 | narcomafie
52 | novembre 2012 | narcomafie
Usura
hanno effettivamente svolto quel
tipo di scommessa in quanto la
ricevuta è un titolo al portatore,
pertanto, non è possibile ricollegare il possessore dello scontrino con colui che aveva fatto
effettivamente la scommessa.
Si dovrebbe trovare il modo di
registrare ogni giocata in modo
da avere certezza tra lo scommettitore e il beneficiario finale della
vincita. In un caso, comunque,
attraverso attività di carattere tecnico, è stato possibile verificare
come il rivenditore avesse contattato l’usuraio, informandolo
della ingente vincita. In seguito
l’usuraio in persona aveva contattato il vincitore offrendo in
contanti la somma maggiorata di
due mila euro. Chi non accetta
soldi subito?
All’usuraio si può contestare
anche l’esercizio abusivo del
credito?
Per contestare l’esercizio abusivo del credito è necessario
individuare diversi clienti. In
alcuni casi, non solo quando è
impossibile contestare l’usura
perché non si riesce a dimostrare il superamento della soglia nell’applicazione del tasso
d’interesse, unitamente al delitto
di usura viene contestato anche
l’esercizio abusivo del credito;
ciò, tuttavia, presuppone che
l’attività di finanziamento sia
non episodica e isolata ma continuata e diffusa. Ma il fenomeno nuovo è quello dell’usura
bancaria. Cioè la possibilità di
contestare l’usura agli istituti
di credito quando applicano un
tasso di interesse superiore al
tasso soglia. Il problema si è posto
con riguardo alla individuazione
degli oneri che l’utente sopporta
per l’utilizzo del credito e che
devono considerarsi rilevanti
ai fini della determinazione del
tasso usurario. La questione si
è in particolare posta con riferimento alla commissione di
massimo scoperto che, secondo
le istruzioni della Banca d’Italia
non dovevano essere prese in
considerazione a tal uopo. La
Suprema Corte ha di recente
avuto modo di confermare e
ribadire che indipendentemente dalle istruzioni e direttive
dell’organo di vigilanza, stante
il chiaro tenore letterale dell’art.
644 c.p., ai fini della determinazione del tasso usurario devono
considerarsi rilevanti tutti gli
oneri che l’utente ha sopportato
in relazione all’utilizzo del credito. Con la conseguenza che agli
organi di vertice dell’istituto di
credito deve essere ascritta la responsabilità penale per il delitto
di usura. Infatti, ha precisato la
Corte di cassazione (Cass. Pen. n.
46669 del 2011 Sez. II) che, sul
piano dell’elemento psicologico,
i dirigenti degli istituti di credito non potessero essere scusati
adducendo un errore riferibile
al calcolo dell’ammontare degli
interessi trattandosi di una interpretazione che, oltre ad essere
nota all’ambiente bancario, non
presenta in sé particolari difficoltà. Il carattere dirompente di tali
considerazioni è dato dal fatto
che accertato il superamento del
tasso con riguardo ad uno specifico rapporto, attesa l’applicazione
diffusa e seriale delle medesime
condizioni contrattuali a tutti i
clienti, la configurazione del delitto di usura assume dimensioni
esponenziali.
Come si può incentivare/costringere/convincere a denunciare l’usura?
Come nella corruzione il pubblico ufficiale con il privato han-
no interessi in comune, anche
nell’usura la denuncia è molto
difficile. Molto spesso ci si arriva
quando si è alle estreme conseguenze. Va anche considerato che
molto spesso l’usurato non è una
persona specchiata, bisogna valutare con attenzione e riscontrare
attentamente quello che dice e non
prendere tutto per buono.
E il rapporto con la mafia?
Molto spesso Cosa nostra tollera
la condotta usuraia, non partecipa in prima persona, però sicuramente in quest’ultimo periodo
c’è una maggiore interconnessione perché in un momento in
cui l’attività economica langue,
le occasioni di investimento per
Cosa nostra sono sempre più
ridotte. Così l’enorme liquidità
che deriva dal traffico di stupefacenti e l’attività estortiva viene in
alcuni casi reinvestita attraverso
il mercato usuraio: il capitale
viene pulito e remunerato perché
si ha un immediato guadagno
derivante dalla riscossione degli
interessi. È un’attività «sicura»:
le vittime sono costrette a pagare
o comunque pagano.
Non c’è concorrenza tra usurai
storici e usurai della mafia?
No, la mafia usa la rete degli
«sportelli», vale a dire, gli usurai storici. La gente conosce
l’usuraio sotto casa e di lui si
fida. Nei vari quartieri si sa chi
presta denaro a usura. Quindi
anche il mafioso che vuole fare
questo reinvestimento si rivolge
all’usuraio il quale ha esperienza, conoscenza del territorio,
autorevolezza.
Dispone degli strumenti necessari, tecnici e normativi,
per contrastare l’usura efficacemente?
Nel campo dell’usura gli strumenti sono adeguati, soprattutto alla luce delle ultime modifiche legislative. Puntiamo
soprattutto al profilo patrimoniale: quando l’usuraio viene
ristretto nelle patrie galere ha
finito di lavorare, è già una
punizione. Inoltre, siccome si
tratta di una tipica forma di
manifestazione di reato che si
caratterizza per la sua spiccata
dimensione economica, una
sanzione effettiva ed efficace
è quella di contrastare l’usuraio sul piano economico e
patrimoniale, quindi potere
confiscare i beni, mobili e
immobili, il denaro, i titoli, le
eventuali attività commerciali
frutto dei proventi dell’usura.
E devo dire che ultimamente
con le riforme sull’anagrafe
dei conti correnti, si è fatto un
notevole passo in avanti: si ha
la possibilità in tempo reale
di conoscere tutti i rapporti di
credito facenti capo all’usuraio. Ormai abbiamo accesso
a tutta una serie di banche dati:
anagrafe tributaria all’agenzia
delle entrate, agenzia del demanio, camera di commercio. Con
un clic abbiamo la possibilità
di individuare le disponibilità
immobiliari, i conti correnti, le
società, le partecipazioni, tutti
gli acquisti degli ultimi anni.
Questo ci consente in un periodo
di tempo molto breve di avere
un quadro della situazione che
ci consente di fare questa duplice aggressione personale e
patrimoniale che costituisce lo
strumento più efficace di contrasto. Quando la vittima di usura
vede l’usuraio dietro le sbarre e
con tutto il patrimonio sequestrato, acquisisce molta fiducia nei
confronti dell’attività giudiziaria
e delle forze di polizia e quindi si
rende maggiormente disponibile
a denunciare o a confermare gli
elementi.
Che pene rischia l’usuraio?
Noi siamo riusciti a ottenere
in 7-8 casi anche pene di 4-5
anni. Se c’è l’aggravante mafiosa
raddoppia, però è difficile contestare l’aggravante mafiosa. È
più semplice la contestazione
dell’usura in concorso con il
delitto di estorsione, si rischiano
sino a 8 anni di carcere. A volte
l’usuraio utilizza violenza o minaccia per ottenere il pagamento delle proprie quote e scatta
anche l’estorsione. L’aggravante
mafiosa è difficile perché non è
facile dimostrare che quell’attività usuraia venga effettuata
nell’interesse dell’organizzazione. In qualche caso si è visto che
l’attività usuraia era effettuata
nell’interesse di un mafioso,
però poi c’è il problema di dimostrare che è fatta non tanto
nell’interesse del singolo in sé
quanto piuttosto nell’interesse
dell’organizzazione criminale.
Ricorda storie emblematiche?
Qualcuno che si è redento, ha
smesso di fare l’usuraio, o
vittime che hanno denunciato
per spirito civico?
Ricordo un usuraio, un imprenditore della «Palermo bene»,
che faceva il commerciante e
che viveva molto al di sopra
delle sue possibilità. Che quotidianamente andava a riscuotere, aveva una famiglia, due
figli e dall’oggi al domani si è
trovato catapultato in galera,
forse neanche lui se ne rendeva
pienamente conto che era un
usuraio. È stato condannato a
4 anni, un periodo di detenzione domiciliare e, infine, dopo
essere stato affidato in prova
ai servizi sociali, ha ricominciato a lavorare onestamente.
C’è chi invece ha continuato
a fare l’usuraio nonostante le
denunce e gli arresti. In un’intercettazione abbiamo sentito:
«È da 30 anni che faccio questa
vita e non mi era mai successo niente. Creare un impero e
finire». Era un usuraio storico
del quartiere Capo, il famoso
Gino l’americano, soprannominato “mister 10%”. È stato
condannato insieme alla moglie
perché, pur essendo in carcere
riusciva a dare indicazioni dicendo dove bisognava andare,
quanto bisognava ricevere. C’è,
poi, il caso di un’assicuratrice che ha denunziato non so
quanti usurai, una quindicina,
confermando l’assunto secondo
cui chi si rivolge a un usuraio
si rivolge a una pluralità di
usurai. Loro sono stati condannati e la signora continua
a svolgere regolarmente la sua
attività imprenditoriale.
“Contrappunto in tempo di
crisi”, a cura di Giovanni
Abbagnato e Salvatore Cernigliaro. Contributi di Emanuela
Alaimo, Fausto Maria Amato,
Francesco Appari, Lino Busà,
Gianni Barbacetto, Maria Corrao, Maurizio De Lucia, Rosa
Frammartino, Barbara Giangravè, Claudio Gittardi, Sebastiano Gulisano, Caterina Massei,
Angelo Meli, Riccardo Milano,
Rosanna Montalto, Antonio Nicaso, Chiara Pracchi, Marcello
Ravveduto, Vito Rinaudo, Isaia
Sales, Umberto Santino, Dario
Scaletta, Loredana Schirò, Antonio Specchia, Luca Squeri,
Lorena Tantillo.
Il volume è reperibile online
sul sito www.solidariaweb.org/
vetrina-online.html
Usura
53 | novembre 2012 | narcomafie
altarisoluzione
54 | novembre 2012 | narcomafie
Taranto
resiste
L’Ilva di Taranto rappresenta uno dei
maggiori complessi industriali per la
lavorazione dell’acciaio in Europa. Lo
stabilimento siderurgico, grande due volte e mezzo la città, sorge a ridosso del
quartiere Tamburi e a pochi chilometri
dal centro cittadino.
Già nei primi anni 80, l’Organizzazione
mondiale della sanità definì Taranto una
città a grande rischio ambientale. Le analisi
dell’Istituto superiore di sanità relative al
periodo 2003-2008 sull’area intorno allo
stabilimento confermano un aumento della
mortalità del 10% rispetto a quella attesa,
con un incremento dei tumori del 30%
rispetto alla media nazionale. I quartieri
più colpiti sono Tamburi – nel quale in
ogni appartamento c’è almeno un malato di cancro – e Paolo VI, costruito alla
fine degli anni 60 per ospitare gli operai
dell’Ilva. Al problema inquinamento in
questi quartieri si aggiunge l’alto tasso
di disoccupazione, che ha portato ad un
Foto e testo di Marika Puicher
55 | novembre 2012 | narcomafie
56 | novembre 2012 | narcomafie
incremento dello spaccio e della delinquenza. Il dramma della disoccupazione
ha fatto sì che per anni la maggior parte
dei cittadini tarantini fosse costretta a
scegliere tra la vita e una prospettiva lavorativa, tacendo di fronte allo scempio
ambientale.
Ma a fronte di una città più remissiva e
impaurita c’è anche una Taranto coraggiosa e che resiste, composta da pochi ma
tenaci ambientalisti, allevatori, artisti e
semplici cittadini, che da anni si battono
per riqualificare la città e denunciare il
forte inquinamento ambientale prodotto
dalle fabbriche della zona.
Una lotta durata più di vent’anni che
solo recentemente ha portato riscontri,
contribuendo all’avvio di un’indagine da
parte del tribunale di Taranto che il 26
luglio 2012 ha predisposto il sequestro
senza facoltà d’uso dell’intera area a
caldo dello stabilimento siderurgico. Il
30 novembre però è stato approvato dal
Governo il decreto legge “Salva Ilva”, che
permette la ripresa dell’attività produttiva
e commerciale, sospendendo i provvedimenti di sequestro della magistratura. Il
decreto prevederebbe, in concomitanza
al proseguimento della produzione, una
graduale messa a norma dell’impianto
secondo le direttive europee e istituisce
inoltre un garante per vigilare sull’attuazione degli adempimenti di bonifica. Il
timore per molti è che questo sia solo un
provvedimento di facciata, l’ennesima
presa in giro, per permettere all’azienda
di continuare a produrre e quindi di
conseguenza ad inquinare indisturbata,
schierandosi ancora una volta dalla parte
della logica del profitto a discapito della
vita dei cittadini di Taranto.
altarisoluzione
57 | novembre 2012 | narcomafie
rassegna stampa internazionale
a cura di Stefania Bizzarri
58 | novembre 2012 | narcomafie
Cannabis
made
in Europe
Lisbona Sviluppo delle droghe
sintetiche, calo dei consumi di
cocaina ed eroina e trasforma
trasformazione del Vecchio continente in
terra produttrice di cannabis:
sono queste le ultime tenden
tendenze rilevate dall’
dall’Osservatorio
Europeo delle droghe e delle
tossicodipendenze (Oedt) e
pubblicate nel rapporto an
annuale divulgato lo scorso otto
ottobre. L’Osservatorio sottolinea
come sia difficile controlla
controllare le sostanze sintetiche e la
scarsa informazione sui rischi
dell’assunzione da parte dei
consumatori. Nel 2012 sono
state scoperte 50 nuovi tipi
di droghe, la maggior parte di
queste ha effetti simili a quelli
della cocaina. Altri prodotti
molto in voga sono i cannabinoidi di sintesi come la spice.
Il business gira soprattutto su
Internet: l’Oedt ha registrato
693 siti che vendono sostanze
presentate come legali, contro
i 170 del 2010. Ma l’evoluzione “maggiore” si è avuta nel
mercato della cannabis. La
tendenza generale è rimpiazzare le importazioni e vendere
pertanto la cannabis coltivata
in Europa. È sufficiente entrare
in un coffee-shop dei Paesi
Bassi per constatarlo: si produce e si vende in più locali. Il
Marocco dovrebbe cominciare
a preoccuparsi, avvertono gli
autori del rapporto...
Eln, possibili
negoziati
Bogotà Anche l’Esercito di
liberazione nazionale (Eln)
– secondo gruppo guerrigliero della Colombia con circa
2.500 combattenti – è pronto
ad avviare “dialoghi esplorativi” con il governo in vista
della possibile apertura di un
negoziato di pace.
In una “lettera aperta” pubblicata in Internet, l’Eln ha
annunciato di aver formato
una delegazione incaricata di
stabilire contatti preliminari
con l’amministrazione di Juan
Manuel Santos. Il movimento
armato ha ricordato, così come
hanno fatto le più note Forze
armate rivoluzionarie della
Colombia (Farc), che è stato
lo stesso governo «a rendere
manifesto il proprio interesse
affinché anche l’Eln intraprenda un processo di dialogo per la
ricerca della pace». Su questa
strada «l’Eln è impegnato per
una soluzione politica intesa
come costruzione collettiva
della nazione, come processo
democratico sociale, politico,
economico e culturale che tenga
conto dei cambiamenti di cui
il paese ha bisogno».
L’annuncio dell’Eln è giunto
con l’avvicinarsi dell’avvio vero
e proprio dei colloqui di pace
tra governo e Farc, cominciato
il 15 novembre all’Avana. Primo
punto in agenda il problema
della terra, un tema – secondo
l’Eln – «che richiede la partecipazione del movimento contadino e agrario, dei movimenti
regionali e ambientali».
59 | novembre 2012 | narcomafie
La selva Maya
minacciata
dai narcos
Città del Guatemala È una
vasta foresta vergine nel nord
del Guatemala: un santuario di
2,1 milioni di ettari che copre il
19% della superficie del paese
e rappresenta il 60% delle aree
protette. È questo il cuore della
riserva degli indigeni Maya e
la dimora di eccezionali e rare
specie animali sottoposte non
solo alle minacce ordinarie
delle regioni tropicali, come
l’abbattimento illegale di alberi, incendi e bracconaggio.
Questa regione è diventata
zona ideale per i trafficanti
di droga. Gli enti incaricati
alla protezione sono in prima
linea nel denunciare episodi
come la costruzione di piste di atterraggio abusive da
parte dei cartelli messicani
per movimentare cocaina; o
di immense aziende agricole
da parte delle gang del Salvador con lo scopo di ripulire
denaro sporco; o il disboscamento ad opera delle mafie
cinesi impegnate a rivendere
legname pregiato sui mercati
asiatici. Il risultato è che in
pochi anni la foresta è stata
quasi dimezzata.
I primi segnali della presenza
criminale, soprattutto nella
metà occidentale (confinante
con il Messico), risalgono a
dieci anni or sono. Secondo
Roan McNab, direttore del
programma dell’Ong Wildlife
conservation society (Wcs) in
Guatemala, i cartelli operano in
un clima di “totale impunità”
poiché le forze dell’esercito
e di polizia sono insufficienti. I proprietari delle aziende
di allevamento di bestiame
hanno costruito decine di piste di atterraggio di cui una è
soprannominata “aeroporto
internazionale” con decine
di aerei abbandonati. Per descrivere questo fenomeno i
Guatemaltechi utilizzano il
neologismo narcoganadería,
formato a partire dalla parola
droga e allevamento di bestiame. La criminalità organizzata
infatti ripulisce il denaro investendo nell’allevamento di capi
da macellare, la cui carne è poi
rivenduta nei mercati messicani. Al momento la coalizione
internazionale che lotta per
preservare il cuore della riserva
ha registrato qualche risultato.
Grazie al suo programma di
preservazione si sono salvate
dall’estinzione alcune specie
animali ed è stata potenziata
la presenza di forze civili e
militari, ma è la lotta di Davide
contro Golia.
Kosovo,
anno zero
Bruxelles «L’Ue stroncata
sulla missione in Kosovo»,
commenta «Le Figaro» dopo la
pubblicazione di un rapporto
della Corte dei conti europea
sulla gestione della crisi kosovara da parte dell’Unione.
La Corte sottolinea «il contributo modesto alle capacità
della polizia del Kosovo», gli
“scarsi progressi” nella lotta
al crimine organizzato e alla
corruzione e le difficoltà di
coordinamento tra la Com-
missione europea ed Eulex,
la missione civile destinata
a promuovere lo stato di diritto in Kosovo. In sintesi il
bilancio parla di «inefficacia
degli aiuti europei, sperpero
finanziario e evidente mancanza di mezzi umani».
Tuttavia, ricorda «Le Figaro»,
sulla carta l’Ue non ha risparmiato le energie per sostenere
lo stato di diritto a Pristina.
I kosovari sono in cima alla
lista di tutte le categorie di
aiuti europei. Bruxelles ha
condotto due grosse operazioni, una affidata alla Commissione con un’assistenza
finanziaria tradizionale ma
rafforzata, l’altra diretta dal
braccio diplomatico dell’Ue:
la missione Eulex, incaricata
tra le altre cose di gestire elementi delicati come la polizia,
la giustizia e le dogane. Secondo la Frankfurter Allgemeine
Zeitung, il giudizio impietoso
della Corte dei conti non ha
nulla di sorprendente. Tutti
gli sforzi internazionali di
state building danno luogo agli
stessi fenomeni. Innanzitutto
la presenza di esperti stranieri modifica radicalmente
la situazione economica sul
posto, che si tratti del Kosovo
o dell’Afghanistan. Inoltre si
assiste alla nascita di uno
strato di privilegiati e profittatori – dagli autisti agli
uomini d’affari, passando
per gli interpreti – che hanno
tutto l’interesse a prolungare
la situazione di necessità in
cui si trova il paese. Senza contare le frizioni tra le
organizzazioni pubbliche e
private o gli scontri con le
realtà locali. Tuttavia sarebbe
giusto che la Corte dei conti,
oltre a evidenziare queste
mancanze, indicasse una via
per rimediare. Perché sostenere che queste missioni
non dovevano essere avviate
non è e non può essere una
soluzione.
Amnesty, è
crisi di ideali?
Londra È crisi dentro Amnesty International, l’Ong
che da oltre mezzo secolo si
batte contro la pena di morte
e la tortura. Il consiglio dei
membri, riunito a metà ottobre nel quartier generale
dell’organizzazione a Londra,
ha deciso di votare la sfiducia
alla propria leadership, accusata di aver “perso di vista gli
obiettivi” dell’organizzazione.
Una crisi che “minaccia la
stessa esistenza” dell’Ong.
In veste ufficiale il problema
riguarda una riorganizzazione
strutturale dell’associazione,
con il taglio di una ventina di
posti dei 700 esistenti. Ma la
questione “reale” è più profonda ed è stata definita una
“battaglia per l’anima” del movimento per i diritti umani. Il
consiglio dei membri ha detto
di non credere più nell’operato del segretario generale,
Salil Shetty, e dei suoi collaboratori più stretti. Accuse
cui i vertici hanno replicato,
sostenendo, da un lato che i
membri hanno presentato un
quadro “inaccurato” e difendendo, dall’altro, il “processo
di rinnovamento” dell’Ong,
che prevede una riduzione dei
dipendenti della sede centrale
di Londra e un rafforzamento
delle sedi regionali.
60 | novembre 2012 | narcomafie
Sudamerica,
nasce la classe
media?
Washington Nell’ultimo decennio l’America Latina e i Caraibi hanno visto raddoppiare il
numero di persone che hanno
fatto il loro ingresso nella classe
media: un risultato che gli economisti considerano “storico” in
una regione tra le più disuguali
del pianeta.
Secondo un rapporto della
Banca Mondiale, nel 2009, gli
appartenenti alla classe media
– categoria in cui sono incluse
persone che vivono con una
somma tra i 10 e i 50 dollari
al giorno – sono arrivati a 152
milioni, il 50% in più rispetto al
2003. Per Kim Yong Kim, presidente della Bm, il dato dimostra
che «politiche che promuovono
in modo congiunto la crescita
economica e l’espansione delle
opportunità per i più vulnerabili
si traducono in prosperità» per
milioni di persone. Anche se i
governi della regione «devono
fare ancora molto» per risolvere i
problemi sociali – un latinoamericano su tre vive in povertà – i
dati raccolti secondo Kim «sono
motivo di soddisfazione». Tra i
fattori di sviluppo più evidenti,
il rapporto inserisce il miglioramento dell’istruzione, l’aumento dei posti di lavoro formali e
l’inclusione delle donne nel
mercato del lavoro. Rilevanti
restano le differenze tra i paesi:
il Brasile da solo raccoglie il
40% dei nuovi appartenenti
alla classe media; in Colombia
il 54% della popolazione ha
visto aumentare il reddito tra il
1992 e il 2008, in Messico il 17%
dei cittadini ha fatto il proprio
ingresso nella classe media tra
il 2000 e il 2010. Occorre tuttavia prestare attenzione alla
cosiddetta “classe vulnerabile”,
nella quale la Bm include chi
vive con una somma tra i quattro
e i 10 dollari al giorno. Si tratta del 38% della popolazione
globale della regione che resta
relegata in un “limbo” tra poveri
e persone con sufficienti entrate
economiche.
Russia,
il consumo
di eroina
Mosca Ogni anno dall’Afghanistan arrivano circa 30 tonnellate
di eroina ha affermato recentemente lo “zar antidroga” russo
Sergei Ivanov in un’intervista alla
radio Ekho Moskvy.
Più volte Mosca ha accusato gli
Stati Uniti di non impegnarsi
a sufficienza per schiacciare
il narcotraffico. L’Afghanistan
produce oltre il 90% dell’eroina
mondiale. Una buona parte va
verso nord, arrivando in Russia che – spiega Ivanov – non
è un paese di transito, ma di
consumo.
Ivanov ha aggiunto che «l’ammontare (dell’eroina) è di circa 30
tonnellate» all’anno, che vanno a
sommarsi alle droghe sintetiche
in arrivo dall’Europa.
In precedenza, Ivanov aveva
rivelato che 8,5 milioni di russi
usano narcotici regolarmente o
sporadicamente e 18,5 milioni
hanno provato droghe almeno una volta nella loro vita. I
morti per droga in Russia sono
100mila all’anno.
Crescono
papaveri
Vienna Le coltivazioni di papavero da oppio in Afghanistan
hanno coperto 154mila ettari nel
2012, il 18% in più rispetto al
131mila registrati l’anno precedente, secondo l’Opium Survey
2012 Afghanistan, pubblicato il
20 novembre dal ministero della
Lotta alla droga afghano (Mcn)
e l’Ufficio delle Nazioni Unite
contro la Droga e il Crimine
(Unodc). Tuttavia, poiché le
malattie delle piante e il cattivo
tempo avevano danneggiato le
colture, la produzione di oppio potenziale è calata del 36%
nello stesso periodo da 5.800 a
3.700 tonnellate.
«Gli alti prezzi dell’oppio sono
stati il fattore principale che ha
portato all’aumento della coltivazione di oppio – ha detto il
direttore esecutivo dell’Unodc,
Yury Fedotov –. Quest’ultimo
chiede uno sforzo costante da
parte del governo afghano e
degli attori internazionali per
affrontare la coltivazione illecita
con un approccio equilibrato
delle misure di attuazione per
lo sviluppo e il diritto».
Quest’anno la coltivazione è
stata concentrata per il 95%
nelle province meridionali e
occidentali, dove l’instabilità e
la criminalità organizzata sono
ben presenti: 72 % in Hilmand,
Kandahar, Uruzgan, Day Kundi
e Zabul province del sud, e il
23% a Farah, Hirat e Nimroz a
ovest. Ciò conferma il legame tra
l’instabilità politica e la coltivazione di oppio già evidenziata
dal nel 2007.
Nel 2012 il prezzo ai “produttori” per l’oppio è rimasto ad un
livello relativamente alto di 196
dollari al kg, questo continua a
fornire un forte incentivo per gli
agricoltori ad avviare o riprendere la coltivazione del papavero
nella prossima stagione.
Come conseguenza delle rese
basse nella coltivazione, il reddito lordo medio di oppio per
ettaro si è ridotto del 57% dai
10.700 dollari del 2011 a 4.600
nel 2012.
61 | novembre 2012 | narcomafie
Rapporti Ue-Pristina
Kosovo,
la legge
dell’impunità
L’indipendenza del neostato è una realtà consolidata, ma diritti
e legalità sono ancora avulsi dal contesto kosovaro. Eulex e la
“comunità internazionale” non hanno profuso gli sforzi necessari a garantire equità, imparzialità e giustizia per quei popoli. E
Bruxelles sembra non accorgersene
foto e testo di Matteo Tacconi
62 | novembre 2012 | narcomafie
I primi ministri,
Hashim Thaci e
Ivica Dacic, si sono
incontrati sotto
l’egida dell’Ue.
L’obiettivo è cercare
compromessi nei
territori contesi. È
tutto un bluff o c’è
qualche prospettiva
di collaborazione?
Alla vigilia del 17 febbraio del
2008, giorno in cui il Parlamento
del Kosovo proclamò unilateralmente il distacco dalla Serbia,
c’erano tanti faldoni ingombranti
sul tavolo. Nessuno li ha archiviati. Si discute ancora, senza
soluzioni, dell’assetto delle
province settentrionali. Sono
quelle a maggioranza serba (nel
resto del paese l’etnia albanese
è totalitaria) e lì è Belgrado a
esercitare il controllo, tramite le
cosiddette istituzioni parallele:
banche, valuta, scuole, uffici
pubblici, polizia. Il “conflitto
congelato” a Mitrovica – la città
simbolo delle divisioni, metà
albanese e metà serba (cfr. box
p.66) – e nei comuni limitrofi
del nord impedisce al Kosovo di
esercitare la piena sovranità sul
proprio territorio e si riverbera
negativamente sul processo dei
riconoscimenti internazionali.
Nel momento in cui «Narcomafie» va in stampa sono 91
i membri dell’Onu che hanno
allacciato relazioni diplomatiche
con Pristina: meno della metà
dei 193 totali. Fino a che punto
– questo si chiedono i giuristi – si
può parlare di Stato?
Come prima, più di prima. Il
problema dei riconoscimenti
si manifesta pure in Europa.
Cinque paesi comunitari (Slovacchia, Grecia, Romania, Cipro e
Spagna), temendo che la questione kosovara possa ripercuotersi
all’interno dei propri confini o
alimentare i rispettivi autonomismi, non hanno ancora stabilito
rapporti di alto profilo con il
governo di Pristina.
C’è comunque una novità. Pristina e Belgrado hanno recentemente attivato negoziati diretti. I
rispettivi primi ministri, Hashim
Thaci e Ivica Dacic, si sono in-
contrati sotto l’egida dell’Ue.
L’obiettivo è cercare compromessi pragmatici sugli aspetti
dell’economia, dei trasporti e
della vita quotidiana nei territori
contesi. È tutto un bluff o c’è
qualche prospettiva di collaborazione? Al momento, sul campo,
non cambia nulla.
Il quadro complessivo resta precario anche sul fronte dell’economia. Il tasso dei senza lavoro,
sebbene in assenza di statistiche
certe, lambisce il 45%. Tra i più
penalizzati figurano i giovani,
che rappresentano la principale
componente demografica dello
stato balcanico. Stando alle cifre
diffuse nel 2010 dalla Kosovo
stability initiative, think tank con
sede a Pristina, la disoccupazione tra i ragazzi con età inferiore
ai 25 anni sarebbe addirittura
pari al 73%.
Il fracasso economico dipende
in parte dalla storia (il Kosovo
era la regione più povera dell’ex
Jugoslavia), in parte dalla guerra
del 1998-1999 con la Serbia. Ma
incide anche, eccome se incide, il
mancato afflusso di investimenti
dall’estero, volano principale
della crescita in ogni processo
di transizione. Dal 2007 al 2010,
ha riportato lo scorso febbraio la
Camera di commercio americana
del Kosovo (AmCham) citando
ricerche della Banca mondiale,
gli investimenti diretti sono calati del 30%, passando da 603
a 413 milioni di dollari l’anno.
Secondo la stessa AmCham la
contrazione è dovuta a due cause
concomitanti: la crisi globale e
«l’inabilità delle istituzioni di
Pristina di conquistare la fiducia
degli investitori stranieri».
La vecchia guardia. Nei mesi che
hanno preceduto l’indipendenza
del 2008 fioccarono articoli e
inchieste su traffici di droga,
contrabbando di armi, contraffazione, riciclaggio e altre attività
a forte tasso illecito. Nonché
sulla spartizione in stile mafioso del territorio, operata dagli
esponenti delle varie consorterie
criminali del Kosovo, alcuni
dei quali fortemente inseriti nel
sistema politico-amministrativo,
se non addirittura eletti nelle
istituzioni o titolari di cariche
importanti. Da allora, anche in
merito a queste problematiche,
non è cambiato granché. La collusione o sovrapposizione tra
mafie e politica, i traffici (droga,
armi, esseri umani e beni contraf
contraffatti) e la corruzione endemica
dominano ancora la scena, a
quanto pare.
Non passa giorno, poi, senza
che si parli delle tante inchieste giudiziarie in corso legate ai
misfatti del passato, come alle
vicende torbide del presente.
Sia le une sia le altre vedono
tra i principali protagonisti gli
ex esponenti dell’Esercito di
liberazione del Kosovo (Uck),
la guerriglia che combatté la
Serbia nel biennio 1998-1999
e che in parte si approvvigionò
di armi e soldi attraverso attività
illecite. Oggi quei signori siedono
in Parlamento, hanno cariche
di governo, presiedono agenzie
statali. Sono la classe dirigente.
Dalla mimetica al doppiopetto.
Il caso più noto, tra quelli che vedono coinvolti ex militi dell’Uck,
è senza dubbio quello di Hashim
Thaci, ex portavoce dell’Uck, numero uno del Partito democratico
del Kosovo (Pdk) e attuale primo
ministro. Thaci è al centro dello
scandalo sugli organi espiantati, al tempo della guerra, dai
corpi dei prigionieri giustiziati
dall’Uck. Erano prevalentemente
di etnia serba. Fu Carla Del Ponte,
63 | novembre 2012 | narcomafie
ex procuratore capo del Tribunale per i crimini nell’ex Jugoslavia,
con sede all’Aja, a scoperchiare
la pentola. Ne parlò in “La caccia”, libro di memorie sulla sua
lunga permanenza in Olanda
(1999-2007). Tre anni più tardi
la commissione appositamente
istituita dal Consiglio d’Europa,
presieduta dallo svizzero Dick
Marty e incaricata di indagare
sulla vicenda, arrivò a ipotizzare nel suo rapporto finale che
Hashim Thaci e il gruppo della
Drenica, uno delle più influenti
costole della guerriglia albanese,
fossero i protagonisti di molte
delle operazioni criminali di
cui l’Uck si macchiò durante
il conflitto. Inclusa quella del
traffico di organi, il cui schema
– questa grosso modo la ricostruzione – prevedeva l’uccisione
di serbi e di esponenti di altre
minoranze, il trasporto dei cadaveri oltre confine in Albania,
l’espianto degli organi e la loro
successiva messa in commercio
sul mercato nero.
Al rapporto Marty, che comunque non aveva valore legale, è
seguita l’apertura di un’inchiesta
vera e propria, condotta da Eulex,
la missione civile dell’Unione
Europea in Kosovo. È composta da circa 2mila persone, tra
magistrati, poliziotti, funzionari, consulenti. A queste vanno
aggiunti circa mille impiegati
locali. Tra i compiti di Eulex,
oltre all’ordine pubblico e alla supervisione sullo stato di diritto,
figura anche l’amministrazione
della giustizia. In particolare, i
magistrati e i giudici inquadrati
nella missione gestiscono quelle
inchieste e quei processi sensibili, con imputati eccellenti e
temi spinosissimi, che i tribunali locali avrebbero difficoltà
a condurre e celebrare.
Eppure sembra che Eulex abbia
il freno a mano tirato e che non
riesca a scavare fino in fondo.
Il nodo del Kosovo è proprio
l’incapacità o la mancata volontà
di procedere contro i potenti. C’è
chi scomoda una parola pesante,
ma non così impropria, almeno a
giudicare dagli eventi in corso. La
parola è impunità e la tesi è che
Eulex e in senso lato la cosiddetta
comunità internazionale (presente a Pristina con numerose
missioni) non abbiano profuso
gli sforzi necessari a garantire,
in Kosovo, equità, imparzialità
e giustizia.
Il caso del traffico di organi è emblematico, dicono gli analisti. Gli
inquirenti europei, autorizzati da
Tirana a cercare prove anche in
territorio albanese, non hanno
ancora raccolto indizi eclatanti
e Hashim Thaci non è neanche
iscritto nel registro degli indagati.
Molti dicono che prima o poi il
caso verrà archiviato. Non se ne
farà nulla, com’è successo in altre
situazioni che hanno sfiorato la
reputazione di ex comandanti
dell’Uck.
In Kosovo molti pensano che anche Fatmir Limaj dribblerà, alla
fine, le insidie giudiziarie che
gli sono piombate addosso negli
ultimissimi tempi. Uomo chiave del gruppo della Drenica, ex
ministro dei Trasporti. Dicastero
chiave, questo. In tutti i sensi.
Vuoi perché il Kosovo non ha
infrastrutture e si sa, le elezioni
e il consenso si vincono anche
stendendo asfalto. Vuoi perché in
Kosovo, con tutta la corruzione
che c’è, le strade sono il settore
dove si può lucrare di più. Ebbene, il 16 novembre Limaj è stato
formalmente accusato dai magistrati di Eulex. Insieme a lui sono
state incriminate sette persone: i
due fratelli Florim e Demir, il suo
ex capo di gabinetto Endrit Shala
e altri collaboratori dell’epoca
in cui era ministro. Avrebbero
manipolato gare d’appalto, dato e
ricevuto mazzette. Limaj, inoltre,
è indagato anche per non aver
dichiarato i finanziamenti elettorali ricevuti quando, correva
l’anno 2007, corse per la carica
di sindaco di Pristina.
Ma, si diceva, tutto questo trambusto tribunalizio non porterà a
nulla. Questa è almeno la convinzione dei più. D’altronde Limaj,
uomo di potere e relazioni, è con-siderato un pesce troppo grosso
per essere condannato. Senza
contare che è già uscito vinci-tore da due processi, entrambi
fondati sull’accusa di crimini di
guerra. Il primo celebrato presso
il Tribunale dell’Onu per l’ex
Jugoslavia, con sede dell’Aja.
Limaj fu prosciolto nel 2005 e
la sentenza di primo grado fu
confermata in appello due anni
più tardi. Il secondo processo,
istruito e celebrato a Pristina,
sempre su vicende relative al
conflitto, è finito lo scorso mag-gio. Nella stessa maniera.
Ci si chiede se il prossimo a
mettersi alle spalle le accuse
sarà Nazmi Mustafi, altro nome
eccellente finito sott’inchiesta. È
stato arrestato all’inizio di aprile
con le accuse di corruzione e di
estorsione. Il che suona davvero paradossale, perché l’uomo,
fino all’arresto, è stato a capo
dell’Agenzia governativa istituita
allo scopo di lottare contro la
corruzione. Mustafi, che non ha
militato nell’Uck, ma che è comunque legato a Thaci, almeno
così si dice, è stato poi formalmente incriminato a fine luglio. I
magistrati di Eulex ritengono che
abbia chiesto denaro a individui
“torchiati” dall’agenzia che lui
stesso dirigeva.
Il caso del
traffico di organi
è emblematico.
Molti dicono
che prima o poi
verrà archiviato.
Com’è successo
in altre situazioni
che hanno sfiorato
la reputazione
di ex comandanti
dell’Uck
«Quel cemento sulla
terra degli sfollati»
64 | novembre 2012 | narcomafie
Intervista a
Massimo Moratti
di M.T.
A ogni conflitto, un’ondata di profughi. Gente che, a causa della guerra,
delle persecuzioni e dell’insicurezza
si rifugia all’estero oppure – è il caso
delle Internally Displaced Persons
(Idps) – cerca riparo all’interno del
proprio paese, in territori dove non
tuonano i cannoni.
Anche in Kosovo, all’epoca della
guerra, è andata così. Ci fu dapprima
la partenza degli albanesi, vessati
dalle forze serbe. Poi, quando la
Nato costrinse Slobodan Milosevic
alla resa, nel 1999, la situazione si
capovolse. Gli albanesi, che rappresentano il 90% della popolazione
complessiva del paese, tornarono in
massa. In diversi casi si vendicarono
dei torti subiti in precedenza. Le
forze di peacekeeping e la comunità
internazionale, in quei frangenti di
vero e proprio vuoto legale, non
riuscirono a impedire il controesodo.
I serbi e le altre minoranze della
regione (ashkali, egiziani, turchi),
nonché alcuni albanesi tacciati di
collaborazionismo, se ne andarono.
Meglio, dovettero andarsene.
«A oggi molti di loro non sono ancora rientrati in possesso dei loro
beni. Lo scenario non è così roseo
come lo descrivono gli organismi
internazionali», assicura Massimo
Moratti, che vanta una pluriennale
esperienza in materia di rifugiati e
sfollati nei Balcani e che da qualche
tempo si occupa proprio dei diritti
di queste persone con il progetto
Further Support to Refugees and IDPs
in Serbia (www.pravnapomoc.org).
È finanziato dall’Ue e ne beneficia
l’Ufficio per il Kosovo i Metohija,
agenzia che, nella scorsa legislatura,
aveva rango ministeriale. «In particolare – spiega Moratti a «Narcomafie»
– è la situazione dei terreni a essere
più complicata. In tutti questi anni
c’è stato in Kosovo un vero e proprio
boom edilizio. Strisce di terra un
tempo completamente vuote sono
oggi piene di case e uffici, magazzini e motel, pompe di benzina e
autolavaggi. Per fare un esempio, ai
lati della strada che collega Pristina
a Skopje, la capitale macedone, fino
a qualche anno fa non c’era nulla.
Adesso è una colata di cemento
continua. Dove voglio arrivare? Al
fatto che molte di queste costruzioni
sono state realizzate illegalmente
sui terreni degli sfollati, mentre gli
sfollati erano via».
Com’è potuto accadere tutto questo?
Occorre tornare indietro nel tempo.
Alla fine del conflitto. «Nel 1999-
2000 la comunità internazionale
creò l’Housing Property Directorate,
un’agenzia che metteva in piedi dei
meccanismi utili a garantire il diritto
a rientrare in possesso dei propri
beni immobili per tutti i rifugiati
e gli sfollati. Quest’agenzia aveva
competenza sulle case e sugli appartamenti. Nulla venne stabilito,
invece, a riguardo dei terreni o sulle
proprietà commerciali. È così che di
fatto s’è venuto a creare un vacuum
e in assenza di precise disposizioni
è scoppiata la bolla dell’abusivismo
edilizio».
La faccenda è davvero difficile da
sbrogliare. Perché i terreni sono stati
violati con il cemento e perché ci
sono problemi di ordine burocraticopolitico. «L’Housing Property Directorate è confluito nel 2006 nella
Kosovo Property Agency, che ha
la competenza anche sui terreni. Il
problema, tuttavia, è che delle 40mila
istanze sollevate dai reali proprietari
soltanto quelle meno “sensibili” sono
state trattate. Le dispute regolate
sono, in gran parte, quelle riguardanti
appezzamenti non cementificati. I
casi legati a quelli sui quali s’è costruito non sono stati ancora aperti o
si registrano manomissioni e ritardi»,
specifica Moratti.
Quale sarebbe la causa di questi insabbiamenti? La politica, fondamentalmente. Il punto è che le dispute
sulla proprietà, nel momento in cui
salta fuori che i “palazzinari” sono
esponenti della classe dirigente o
personaggi con ottime protezioni,
non vengono gestite come andrebbero gestite. «Questi casi rognosi non
vengono presi in considerazione, ho
sentito dire. In Kosovo, in generale,
vige un clima di impunità che lo
rende un caso sui generis. In tutta
la regione, alla fine di ogni guerra,
è sempre scattato l’approccio “caccio il nemico e gli prendo la casa”,
corollario delle teorie sulla pulizia
etnica. Anche in Bosnia il canovaccio
fu questo. I musulmani occuparono
le proprietà degli sfollati serbi, i serbi
quelle dei profughi musulmani, i
croati quelle degli altri due gruppi
nazionali e così via, fino a tornare
all’inizio di questo balletto. All’epoca, però, la comunità internazionale
puntò a imporre il rispetto di certi
principi e delle leggi. Se qualche
pezzo grosso occupava l’abitazione o il terreno altrui, gli si faceva
capire che non poteva farlo e costui
se ne andava. In Kosovo, invece, il
messaggio che si sta dando è che la
legge può essere violata».
Il tema della cultura dell’impunità
è stato toccato più e più volte, in
questi anni. Puntualmente, in ogni
occasione, s’è puntato l’indice contro
la comunità internazionale e le sue
due missioni civili: Unmik e Eulex.
A trazione Onu la prima, dispiegata
dall’Ue la seconda. Molti analisti
hanno spiegato che i vertici delle
due missioni, quando una vicenda
un po’ losca vede indagato un alto
esponente della classe dirigente di
Pristina, evitano di andare fino in
fondo a livello inquirente e giudicante (entrambe hanno competenze
giudiziarie). «Questa difficoltà a confrontarsi con i poteri forti, nonché a
scontrarcisi, quando questo si rende
necessario, è un po’ una delle cartine
di tornasole del Kosovo. Detto questo
devo dire che noi di Further Support to Refugees and Idps in Serbia
abbiamo avuto un’esperienza il più
delle volte positiva, quando abbiamo
sollevato dei casi presso i giudici di
Eulex, proprio perché ci si appella
alla loro competenza professionale»,
rimarca Moratti, ricordando una
storia di successo, riguardante però
non un terreno, ma un’abitazione.
«Una signora scappò da Prizren
nel 1999, lasciando la palazzina
di cui era proprietaria. Che ancora,
tuttavia, doveva essere completata.
Era stato realizzato, all’epoca, solo
il primo piano. Ebbene, un albanese ha occupato l’edificio e sopra il
primo piano ce ne ha costruiti altri
cinque, affittando i lotti persino a
dipendenti delle amministrazioni
internazionali. Abbiamo chiesto a
Eulex di prendere in mano il caso e la
65 | novembre 2012 | narcomafie
decisione è stata quella di rimuovere
i piani costruiti durante l’assenza
della legittima titolare dell’edificio,
malgrado l’occupante abbia sollevato
un polverone e minacciato a destra e
manca, dimostrando appunto questa
tendenza a sentirsi al di sopra della
legge».
Ma questa è una delle storie positive. Ce ne sono tante altre che
vedono come potenziali protagonisti
personaggi di spessore del sistema
politico-economico del Kosovo. In
queste occasioni la giustizia non fa
completamente il suo corso, volendo
essere eufemistici. Non solo: c’è
sempre stato un problema di identificabilità dei soggetti nei confronti
dei quali fare causa. «Molti Idps che
hanno perso la casa perché questa
è stata occupata o distrutta hanno
citato in giudizio Kfor (le forze di
peacekeeping a guida Nato) o Unmik
o le allora autorità di fatto, sotto
stretto controllo dell’Uck (Esercito di liberazione del Kosovo)», la
guerriglia albanese che imbracciò
le armi contro Belgrado e che da
più parti viene accusata di avere
sovrapposto lotta armata e traffici
criminali. Molti degli ex guerriglieri
sono oggi esponenti della classe dirigente del paese. «I tribunali – così
chiosa Moratti – non hanno quasi mai
accolto i loro ricorsi, spiegando che il
personale di Kfor e Unmik è coperto
da immunità diplomatica, mentre le
autorità di fatto, sebbene avessero
una struttura tale da configurarle
come un soggetto politico-militare
pienamente identificabile, vengono considerate dalle toghe come
un’entità non legalmente costituita.
La causa, così, non parte. Chi l’ha
attivata è costretto a pagare le spese:
quattrocento, cinquecento euro. Non
pochi soldi, se comparati al tenore
di vita di queste persone. La beffa
è che non solo queste persone non
vengono compensate per la perdita
delle loro proprietà, ma vengono
anche di fatto “multate” per averci
provato. E ce ne sono circa 18.000
di questi casi».
La strana morte di Dino Asanaj. L’hanno trovato morto, nella
sua abitazione di Pristina, il 14
giugno scorso. Sulle prime s’è
parlato di omicidio. Poi l’autopsia ha rivelato che Dino Asanaj,
dal 2008 capo dell’Agenzia governativa per le privatizzazioni
(Pak), si sarebbe suicidato. Il suo
corpo era sfregiato da una dozzina di ferite da coltello da cucina
che, sanguinando lentamente
ma inesorabilmente, avrebbero portato al decesso. Eppure
questa versione è stata messa in
dubbio dal governo di Pristina,
il quale, volendo vederci più
chiaro, ha chiesto l’aiuto degli
esperti dell’Fbi. Aiuto accordato. Dino Asanaj, d’altronde,
era anche cittadino americano.
Negli Stati Uniti aveva vissuto
per vent’anni e aveva tra l’altro prestato servizio, al tempo
della guerra in Kosovo, come
rappresentante e portavoce della
causa dell’Uck. Le indagini degli
americani, mentre «Narcomafie»
va in tipografia, non sono ancora
terminate.
Il caso Asanaj tiene banco. Il fatto
è che la morte del funzionario
governativo, ex consigliere di
Hashim Thaci e regista dell’International Village, esclusivo
complesso di villette alle porte
di Pristina dove risiedono diplomatici, imprenditori e politici,
presenta un’infinità di ombre.
Troppe. Asanaj era finito sott’inchiesta all’inizio dell’anno. Su
di lui gravava il sospetto di corruzione. Secondo gli inquirenti
avrebbe chiesto quattro milioni
di euro all’imprenditore Remzi
Ejupi, che detiene il 20% delle
quote azionarie del Grand Hotel
di Pristina, il più famoso albergo
della capitale kosovara. La tesi
dei responsabili dell’indagine,
si deduce da un articolo pubbli-
cato dal sito «SE Times» (www.
setimes.com), dedicato all’area
balcanica, è che quei quattro
milioni avrebbero costituito una
sorta di condizione per non intervenire sugli affari del Grand
Hotel, privatizzato nel 2006 e
oggetto di tanti interessi, tra cui
quello del tycoon e politico Behgjet Pacolli.
La struttura che Asanaj dirigeva
può, secondo la legge kosovara e
secondo quanto riferito sempre
dal «SE Times», congelare le
attività di aziende che hanno
partecipato a processi di privatizzazione, se queste non rispettano
i parametri fissati (posti di lavoro
creati, investimento complessivo
e via dicendo).
Remzi Ejupi, nel momento in cui
la notizia dell’inchiesta a carico
di Asanaj è divenuta di dominio
pubblico, dopo un articolo del
giornale «Koha Ditore» pubblicato a inizio giugno, ha confermato
che l’ex direttore dell’Agenzia
per le privatizzazioni lo avrebbe
ricattato chiedendogli l’ingente
somma. Asanaj, da parte sua, ha
negato. Pochi giorni dopo è stato
trovato senza vita, in casa sua.
Accanto al cadavere è stata rinvenuta una lettera, con calligrafia a
lui attribuibile, secondo i periti.
C’erano scritte queste parole:
«Remzi Ejupi, il giornale «Zeri»
e Abdurrahman Konjufca hanno
rovinato la mia vita e quindi ho
deciso di applicare la legge agendo in questo modo». Per la cronaca, il giornale «Zeri» appartiene
a Ejupi e Abdurrahman Konjufca
è un imprenditore che ha rilevato
un impianto industriale situato
a Lipjan e deputato alla produzione di carne di pollo.
La lettera è criptica. Non fa che
alimentare le già numerose domande che questa storia ha sollevato. Ejupi era per caso pronto
a lanciare una campagna stampa
contro Asanaj? Quale sarebbe il
ruolo di Abdurrahman Konjufca?
Considerati gli interessi di Asanaj e di Ejupi nel mattone, è possibile intravedere sullo sfondo
una lotta per l’accaparramento
delle risorse edilizie del Kosovo?
Che significa «applicare la legge
agendo in questo modo»? Forse
è la prova del suicidio? Perché,
allora, il governo del Kosovo ha
chiesto all’Fbi di fare luce sulle
cause della morte di Asanaj,
dimostrando di non fidarsi dei
medici legali kosovari? Questo
caso può fare luce su quello che
dai più è ritenuto il grande guazzabuglio delle privatizzazioni?
Le indagini non hanno portato
a risultati e non è possibile formulare risposte. I kosovari, che
reclamano sempre più insistentemente verità, dovranno aspettare.
Sperando che anche stavolta non
arrivi la solita fumata nera.
Intanto, la classe politica s’è spaccata. Il presidente del Parlamento, Jakup Krasniqi, fedelissimo di
Thaci, ha proposto di congelare,
finché non si sarà fatta la verità
sul caso Asanaj e sulle altre vicende di corruzione, i processi
con cui lo stato sta dismettendo
le ultime quote pubbliche nel
Grand Hotel, nelle miniere di
Trepca e in Post-Telecom (dove
potrebbe entrare l’ex segretario
di Stato americano Madeleine
Albright). Altri politici si sono
opposti fermamente all’iniziativa
di Krasniqi, dicendo che il meccanismo della privatizzazione
è ormai in moto e non ha senso
fermarlo.
2014, via da Pristina. Quindici giugno 2014. È il giorno in
cui Eulex sbaraccherà definitivamente, lasciando il Kosovo.
La decisione, arrivata lo scorso
66 | novembre 2012 | narcomafie
La smobilitazione
da parte di Eulex
è la logica
conseguenza
della scelta
di conferire
al Kosovo la
piena sovranità
agosto, è il frutto di un negoziato tra le autorità di Pristina e
Catherine Ashton, responsabile
della politica estera dell’Unione
Europea. La smobilitazione da
parte di Eulex sarà progressiva.
Sono state stabilite le tre diverse fasi – settembre 2012-marzo
2013; marzo-settembre 2013;
settembre 2013-giugno 2014 –,
durante le quali la missione verrà
diluita e il governo kosovaro
prenderà possesso della piena
titolarità di funzioni che, fino a
oggi, sono rimaste nel portafoglio
di Eulex.
Tutto questo è la logica conseguenza della scelta di conferire al
Kosovo la piena sovranità, intrapresa il 2 luglio dall’International
Steering Group (Isg) for Kosovo,
drappello di 25 Stati che ha monitorato l’andamento delle cose a
Pristina e dintorni, dall’indipendenza a oggi. In altri termini, la
seduta dell’Isg ha stabilito che
è venuto il momento di porre
fine al principio di “sovranità
controllata” (secondo qualcuno è una versione edulcorata
del concetto di protettorato)
finora rimasto in vigore sulla
base del piano Ahtisaari, la
road map che ha scortato
il Kosovo nell’epoca post
indipendenza.
La domanda a questo punto è con tutta l’instabilità
che c’è in Kosovo è proprio
necessario togliere le tende adesso? Il paese non ha
compiuto progressi così notevoli. Anzi. La corruzione
è all’ordine del giorno. Gli
affari criminali non segnano
battute d’arresto. Ci sono in
corso inchieste importanti,
che toccano personaggi di
primo piano. Forse a Bruxelles pensano che il Kosovo è
diventato ormai una causa
persa e che quindi tanto vale
andarsene? Si spera di no,
ovviamente.
Mitrovica, nulla è cambiato
Mitrovica, il punto più sensibile del
paese e forse di tutta la penisola balcanica. Una città divisa, spaccata
come una mela. Una città divisa e
fortemente infiltrata dalla criminalità,
tanto serba quanto albanese. Era così
prima dell’indipendenza, va così
oggi. Con l’aggravante che le mafie
non risentono dei dissapori politici
tra le due etnie, ma cooperano senza
porsi grossi problemi. Gli scontri
del luglio 2011 lungo il confine e la
situazione ingarbugliata che permane
anche adesso lungo le frontiere lo
dimostrano.
Tutto è cominciato dopo che il gover
governo di Pristina, l’estate scorsa, inviò
unità speciali di polizia alle dogane
del nord, ufficialmente allo scopo di
imporre il rispetto dell’embargo sui
prodotti serbi stabilito dal governo kosovaro e aggirato grazie all’indulgenza dei
funzionari serbi (sono loro a controllare
i varchi). In realtà l’intento, secondo
gli analisti, era quello di prendere il
controllo delle frontiere.
La reazione della minoranza serba,
comunque, lo impedì. Furono erette
barricate (alcune sono ancora lì a
sbarrare la strada) e ingaggiati scontri
con la polizia kosovare e le forze
Kfor, il contingente internazionale
di peacekeeping. A scatenare l’indignazione serba fu il risentimento
storico nei confronti di Pristina e il
rifiuto di farsi integrare, che significherebbe anche la perdita dei notevoli
vantaggi economici (a partire dagli
stipendi più alti) offerti da Belgrado.
Ma avrebbe giocato un ruolo anche
Zvonko Veselinovic, presunto mafioso locale. Sarebbe stato lui, secondo
Kfor e i magistrati internazionali che
operano in Kosovo, a mobilitare i
connazionali, in quanto l’embargo
imposto da Pristina danneggerebbe
i suoi affari, principalmente legati al
contrabbando di carburante.
Veselinovic, secondo diplomatici, giudici internazionali e polizia kosovara,
ha fatto soldi a palate importando
benzina dalla Serbia senza pagare dazi
e rivendendola a prezzo scontato in
Kosovo. La sua fortuna la deve alla
situazione fluida alle frontiere e al
fatto che esse sono controllate dalle
autorità serbo-kosovare, con cui l’uomo avrebbe ottimi agganci. Il tentativo
di applicare regole chiare ai valichi
doganali tra Kosovo e Serbia, così,
avrebbe messo in discussione tutto
il suo patrimonio, secondo quanto
riportato l’ottobre scorso dal «New
York Times». Da qui l’impegno a
sostenere la causa serba, pagando
addirittura la gente affinché andasse a
respingere le incursioni della polizia
kosovara e a rendere inapplicabile
l’embargo sui beni importati dalla Ser
Serbia, per giunta dando filo da torcere
alle forze Kfor, che hanno cercato più
volte di rimuovere le barricate. Senza
successo. In una di queste occasioni
sono stati feriti cinquanta militari del
contingente. Il comando Kfor ritiene
che dietro l’attacco ci sia proprio
Veselinovic, con la sua grana.
Tre sono le ultime notizie che lo
riguardano. La prima è l’arresto, avvenuto a dicembre in Serbia, con
l’accusa di produzione e trasporto
di armi e materiali esplosivi. Nell’occasione è stato ammanettato pure il
fratello Zarko.
La seconda, del 22 maggio, è la per
perquisizione della sua abitazione di
Doljane, abitato non distante da Mitrovica. I residenti, che lo considerano un benefattore, hanno protestato
vivamente e cercato di impedire che
i poliziotti inquadranti in Eulex (la
missione civile europea in Kosovo)
svolgessero l’operazione.
La terza non riguarda Veselinovic
personalmente, ma i suoi presunti soci
in affari albanesi, a conferma del fatto
che il crimine trascende le questioni
etniche e le relative inimicizie. Tre di
loro, a giugno, sono stati messi agli
arresti domiciliari. Altre tre hanno
scontato trenta giorni di reclusione.
Tra costoro figura Mentor Beqiri, già
citato nell’articolo del «New York Times» e ritenuto il principale contatto
di Veselinovic, con cui avrebbe creato
una catena di stazioni di benzina dove
rivendere il carburante importato
illegalmente dalla Serbia. Beqiri era
già stato arrestato nel 2006, nel 2007
e nel 2009. Ogni volta con l’accusa di
evasione fiscale e ogni volta rilasciato
in assenza di prove.
67 | novembre 2012 | narcomafie
Il mercato degli
allucinogeni sintetici
Tulipani, cavalli
e cuori: droghe
d’autore
Rappresentano un mercato florido e sempre più appetibile per la
criminalità organizzata. Difficile catalogarle: la variazione molecolare della loro struttura chimica rende infatti le “designer drugs”
estremamente mutevoli. E ora si cerca di correre ai ripari
di Piero Innocenti
68 | novembre 2012 | narcomafie
Tra il 2009 e il 2010
sono state inserite
nelle “tabelle”
allegate alla legge
sugli stupefacenti
molte sostanze, ma
è solo da poco più
di un anno che si
registra una
maggiore attenzione
alle droghe di
origine sintetica
I sequestri avvenuti lo scorso
ottobre a Milano e Roma, rispettivamente di tre litri di cloridrato
di metamfetamina con circa 300
grammi della stessa sostanza in
cristalli e di un paio di chilogrammi di amfetamine (quantitativi di tutto rilievo), hanno
fatto riaccendere i riflettori sul
traffico delle droghe prodotte in
laboratorio. Dando uno sguardo
ai dati statistici degli ultimi anni
(Direzione centrale per i servizi
antidroga del Dipartimento della
Pubblica sicurezza), sebbene in
Italia, sino ad oggi, non sia mai
stato individuato un laboratorio
in cui tali droghe vengono “disegnate”, lo spaccio è decisamente
fiorente.
Molecole di ultima generazione.
Se i sequestri di stupefacenti,
in generale, rappresentano, ai
fini di un’analisi strategica, un
importante indicatore della tendenza del consumo quando si
prenda in esame un’adeguata
serie temporale, sembrerebbe
che negli ultimi anni il mercato
degli allucinogeni sintetici sia
sostanzialmente stabile e appetibile per la criminalità.
Dal gennaio 2008 all’ottobre
2012, il contrasto al traffico di
droghe sintetiche svolto dalle
forze di polizia ha portato alla
denuncia alle procure della Repubblica di 1.677 persone, di cui
1.227 in stato di arresto. Consistente il quantitativo globale di
amfetamine e metamfetamine
intercettato: oltre 200 kg e più di
230mila pasticche. Solo in questi
primi nove mesi, 18.927 le dosi/
compresse sequestrate (nel 2011
furono 16.573) e poco più di 38
kg di amfetamine (39 kg nel 2011,
con i sequestri più rilevanti in
Lombardia con 16,8 kg, seguita
dal Lazio con 15 kg e dall’Emilia
Romagna con 2,71 kg). Limitatamente al 2012, le persone
denunciate sono state 330 di
cui 270 arrestate in flagranza di
spaccio. Dal gennaio 2000 ad
ottobre 2012 sono state tolte dal
mercato illecito ben 3.066.308
pasticche di amfetamine, con
il picco dei sequestri nel 2000
(579.349 compresse). Atteso che
la repressione nel settore del nar
narcotraffico, per quanto sia innegabile e lodevole l’impegno della
forze di sicurezza, comporta una
percentuale piuttosto bassa dei
sequestri (si stima dell’ordine del
15-20%) rispetto al volume totale
di droghe immesso sui mercati,
se ne deve dedurre che il mercato
delle “designer drugs” (o “droghe
d’autore”) è ancora piuttosto
florido. Oltretutto il profilo “tabellare” di tali sostanze è oggetto
di continui aggiornamenti (attraverso il Sistema nazionale di
allerta precoce attivato presso il
Dipartimento politiche antidroga
della presidenza del Consiglio
dei ministri), in conseguenza
delle ricorrenti rilevazioni della
presenza sul mercato illecito
di nuove molecole di sintesi
che presentano varianti, anche
modeste, rispetto alla struttura
chimica di quelle già note. Tra
il 2009 e il 2010 sono state inserite nelle “tabelle” allegate alla
legge sugli stupefacenti molte
sostanze, ma è solo da poco più
di un anno che si è registrata una
maggiore attenzione alle droghe
di origine sintetica. Sono, infatti,
dell’11 maggio e del 29 dicembre
2011 i due decreti del ministero
della Salute che hanno proibito
il gruppo dei cannabinoidi sintetici del gruppo Jwh (dal nome
dell’inventore, il chimico John
W. Huffmann) e di altre sostanze
di “ultima generazione” quali
il “butilone” e l’AM-694. Fonti
qualificate sanitarie riferiscono che ogni molecola ad effetto
stupefacente può essere sintetizzata in centinaia di intermedi di
reazione. In relazione a questa
“elasticità” del prodotto, il cui
dosaggio e la stessa composizione chimica sono ampiamente variabili, il riconoscimento
della durata e della tipologia
degli effetti sono effettuati dallo stesso compratore in modo
semplice, attraverso i simboli, i
caratteristici logo impressi sulle
pasticche (ad es.il quadrifoglio, il
tulipano, il cavallo, il cammello,
il dollaro, il cuore e moltissimi
altri). Il bacino di utenza è quello
giovane, di età scolare, il cui
modello di consumo presenta
le caratteristiche della occasionalità e instabilità.
Il Sud non apprezza? C’è, poi,
una evidente differenziazione
del livello di consumo per area
geografica da cui risulta che il
Centro-Sud è meno interessato al
fenomeno e ciò, probabilmente,
in relazione a fattori ambientali,
di tipo culturale, ma anche alla
maggiore offerta, a livello locale,
di altre sostanze, quali la cannabis
e i suoi derivati. In effetti, con riferimento al periodo 2009/2011 e ai
primi nove mesi del 2012, si rileva
che, mentre in Lombardia, Emilia
Romagna e Piemonte i sequestri di
pasticche di amfetamine sono stati
dell’ordine di diverse migliaia e di
alcune decine di chilogrammi di
sostanza in polvere, nel Sud Italia
i quantitativi intercettati sono
davvero modesti: in Calabria
solo 8 pasticche e 10 grammi
in polvere; in Basilicata 101
compresse; in Molise 39 compresse e 100 grammi in polvere;
in Puglia 313 pasticche e 260
grammi in polvere; in Abruzzo
10 grammi in polvere.
69 | novembre 2012 | narcomafie
colpito quest’estate anche la repubblica del Tatarstan, un tempo
modello di pacifica convivenza
tra musulmani e cristiani. Sembra
così prendere forma il disegno
eversivo di Umarov, che l’anno
scorso incitava i suoi mujaheddin
a spingersi a nord sino alla regione
del Volga per portarvi la jihad.
Il presidente russo Putin ha sempre temuto un possibile “effetto
domino”. Già nel 2000 era convinto che, se il Daghestan fosse stato
travolto dall’estremismo, tutto il
Caucaso del Nord avrebbe rischiato la separazione dalla federazione
(peraltro auspicata dalle istanze
nazionalistiche assai diffuse tra
la popolazione russa), gettando
nell’instabilità persino territori
lontani come il Tatarstan.
Le attuali operazioni antiterrorismo vengono giustificate con
l’esigenza di riportare ordine nella
regione prima che vi si svolgano
i giochi olimpici invernali del
2014 – a Sochi, sul Mar Nero,
nella provincia di Krasnodar – ma
la posta in gioco è assai più alta:
la Russia non può permettersi
di lasciare nell’instabilità il suo
fronte meridionale. A sudovest
del Caucaso settentrionale c’è la
Georgia (ostile al governo di Mosca). E al di sotto di quest’ultima
vi è la Turchia, e con essa l’area
d’influenza dei Paesi Nato e delle
forze militari Usa.
Non va infine dimenticato che
se riserve di petrolio – limitate
ma di elevata qualità – sono presenti in Cecenia, è invece assai
più ricca e promettente la quota
russa estrattiva sul Mar Caspio,
soprattutto grazie al Daghestan,
che vi si affaccia con 400 chilometri di costa.
criminalità e dintorni
soprattutto grazie ad un vero e
proprio esercito personale. Il salafismo armato, però, non è stato
sradicato neppure qui: in agosto
attentatori suicidi sono tornati a
colpire a Grozny.
Anche in Inguscezia si succedono
attentati e controffensive delle
forze di sicurezza. A fine luglio, nel
paese di Galashky, tre ribelli, tra
cui vi sarebbero stati i due fratelli
e comandanti islamisti Avdorkhanov (uno di essi, Zaurbek, è
stato un luogotenente di Doku
Umarov, l’inafferrabile capo dei
guerriglieri e sedicente “emiro” del
Caucaso del Nord, forse nascosto
appunto in Inguscezia) sarebbero
rimasti vittime dell’esplosione
accidentale dell’ordigno che stavano preparando. All’inizio di
agosto, però, Kadyrov ha attribuito
il merito dell’uccisione dei tre
militanti alla polizia cecena, che
avrebbe effettuato un’incursione a
Galashky. La presunta operazione
fuori giurisdizione ha acceso una
rovente polemica tra Yunus-Bek
Yevkurov, presidente inguscio, e
Kadyrov, che lo ha accusato di non
fare abbastanza per combattere
il terrorismo, minacciandolo di
rimettere in questione i confini con
l’Inguscezia, al fine di salvaguar
salvaguardare la Cecenia dalle incursioni
ribelli.
Attentati contro polizia e militari
sono all’ordine del giorno anche
in Cabardino-Balcaria, dove l’uccisione di un poliziotto, all’inizio di questo mese, a Baksan, ha
scatenato massicce operazioni
antiterrorismo.
A quasi un migliaio di chilometri
dalla regione caucasica, in direzione nordest, attentati attribuiti ad
estremisti islamici salafiti hanno
cronachesommerse
Nel corso di un incontro gover
governativo tenutosi a Mosca a metà
ottobre, il presidente russo Vladimir Putin ha affermato che nei
mesi precedenti, nel Caucaso del
Nord, «479 banditi erano stati
arrestati, 313 terroristi uccisi in
battaglia, e tra essi 43 dei loro
comandanti».
Soltanto alcuni giorni dopo tale
annuncio, il comitato nazionale
antiterrorismo russo comunicava
che nuove, massicce operazioni
delle forze di sicurezza in Cecenia,
Daghestan ed Inguscezia avevano
portato all’uccisione di 49 ribelli e
alla distruzione di 90 loro basi.
Simili, trionfalistici proclami, volti
a rassicurare l’opinione pubblica
sul mantenimento dell’ordine nelle repubbliche nordcaucasiche,
trasmettono piuttosto l’impressione che l’offensiva dei gruppi
armati islamisti stia aumentando,
e che una parte significativa del
Caucaso del Nord stia sfuggendo al
controllo delle autorità federali.
In Daghestan, lo scorso mese, le
truppe russe sono ricorse al supporto aereo, ai tiri d’artiglieria su
zone boschive e all’utilizzo di
veicoli corazzati per contrastare
i ribelli. Già questa primavera 25
mila militari russi di stanza in
Cecenia erano stati trasferiti nella
vicina repubblica daghestana per
combattervi le bande di guerriglieri. In questi territori aumentano
anche i rapimenti (25 casi nel
periodo gennaio-settembre 2012):
la popolazione locale è convinta
che buona parte di essi sia stata
portata a termine da membri delle
stesse forze di sicurezza.
La vicina Cecenia è invece controllata con pugno di ferro dal
presidente Ramzan Kadyrov
di Andrea Giordano
Sochi non può attendere
70 | novembre 2012 | narcomafie
Napoli
illegal tour
Segnali
di Guido Piccoli, foto di No Comment
Non è né la prima e nemmeno
l’unica offerta del genere. A
Chicago, come a Medellín o a
Palermo vengono proposte visite guidate nei luoghi dove
vissero e agirono personaggi
come Al Capone, Escobar, Riina e altri mafiosi. Gli scopi
sono spesso diversi: si va dal
fine sinceramente cronachistico o commemorativo a quello
più banalmente commerciale.
Di comune, ci sono quasi sempre le polemiche generate. E le
polemiche sono infuriate anche
a Napoli, dopo che l’associazione No Comment, che dal
1999 fa dell’immagine il suo
principale veicolo informativo,
ha invitato cittadini e istituzioni, compreso il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri,
al “Naples illegal tour”, una
passeggiata di un paio d’ore
nel centro cittadino per prendere visione di quelli che sono
definiti «i luoghi cult dell’illegalità diffusa e della disubbidienza incivile generalizzata».
Qualche giornale ha bollato
l’iniziativa come scandalistica,
perché si porterebbero a spasso i turisti per farli «assistere
addirittura a un crimine (dallo
scippo alla sparatoria) senza
intervenire», creando di fatto
una specie di «lunapark criminale». Un lettore ha sostenuto
che «sono finiti i tempi raccontati da Nanni Loy nel film Pacco, paccotto e contropaccotto
ed è ora di smetterla con queste
iniziative di finto folklore». Il
responsabile del progetto sotto
accusa, che si è dato il soprannome di Tony Laruspa, oltre a
rigettare qualunque sospetto
di lucro («le uniche persone
che accompagniamo sono i
volontari interessati al progetto di fotografia sociale, il tour
turistico l’ha inventato la stampa, il corso è completamente
gratuito»), sostiene che l’unico
scopo dell’iniziativa è quello
di far conoscere una realtà sotto gli occhi di tutti, ma dimen-
71 | novembre 2012 | narcomafie
ticata e spesso negata da ogni
autorità cittadina e nazionale.
«È come se l’avessimo protocollata. D’ora in poi, nessuno
potrà più dire di non sapere»,
spiega Tony Laruspa, ricordando che i territori sotto i riflettori, almeno per ora, non sono
i palcoscenici privilegiati dalla cronaca nera che comprendono, ad esempio, Secondigliano e Scampia (che il libro e il
film “Gomorra” hanno fatto
conoscere nel mondo) e nemmeno i disastrati agglomerati
orientali di S.Giovanni a Teduccio e Ponticelli, teatro di
parecchi omicidi, ma anche di
varie scorribande razziste e
diversi episodi di barbarie sociale: tutti comunque tanto
periferici e malfamati da essere considerati e da risultare
“off-limits” non solo per qualunque straniero, ma anche per
una gran parte dei napoletani.
Ad essere prima visitate e poi,
magari, raccontate per immagini e telegrafiche didascalie
sono invece tre differenti piazze del centro storico che i turisti normalmente percorrono,
in quanto vicine alla stazione
ferroviaria o ad alcuni dei più
famosi monumenti o chiese
della città. Il cosiddetto “Illegal
tour” è infatti collegato ad
un’altra iniziativa di No Comment, un corso di “fotografia
sociale” on the road (www.
fotografiasociale.it ) iniziato
nel 2006 e rivolto ai giovani
residenti e anche agli studenti
universitari con un duplice
scopo: insegnare loro l’arte fotografica offrendo una possibilità occupazionale, ma anche
contribuendo alla conservazione della memoria storica dei
quartieri, attraverso le interviste con gli anziani o la testimo-
nianza degli antichi mestieri
in via d’estinzione. «È stato
durante queste lezioni on the
road che abbiamo notato la
presenza, sempre più numerosa, di un particolare tipo di
turisti: per lo più giovani, spesso soli o in coppia, comunque
mai a gruppi, vestiti in maniera sobria, che per fotografare
preferiscono usare molto discretamente i telefonini. Non
sono affatto degli osservatori
sprovveduti, anzi danno l’impressione di saper bene cosa
vedere e come muoversi senza
dare nell’occhio», dice Tony
Laruspa. Secondo lui i “travellers of the reality” – qualche
migliaio tra italiani e stranieri,
soprattutto tedeschi e spagnoli – aumentano continuamente.
«Tra le persone che abbiamo
conosciuto quest’anno ci sono
due studenti parigini di architettura, Joe Lawton, un fotografo di New York, una docente
di lingue proveniente dalla
Svizzera e due ragazze di San
Pietroburgo. Anche il progetto
di Illegal Tour è nato parlando
con un’epistemologa svizzera»,
racconta Tony. Accusati di diffondere una cattiva immagine
di Napoli o, peggio, di magnificare l’illegalità, quelli di No
Comment sostengono di limitarsi a fare denunce circostanziate e documentate dell’inettitudine istituzionale, anche in
tema ambientale. Ottenendo,
talvolta, qualche risultato.
Come ad esempio, la rimozione di animali in putrefazione
e immondizia dalla vasca della Fontana del Formiello, gioiello architettonico risalente al
1573 di Porta Capuana, oppure lo smantellamento di un
accampamento di clochard
provenienti dall’Est europeo
sorto sulle aiuole del Maschio
Angioino, ad un centinaio di
metri dal Palazzo San Giacomo,
sede del municipio, e a poche
decine di metri dalle banchine
degli aliscafi e delle navi da
crociera. Oppure, dopo anni,
la collocazione di cestini
dell’immondizia o la rimozione di alberi secchi e pericolanti, nel cuore del centro antico.
Spesso, le denunce si riducono
a prese d’atto di un crimine
non solo impunito, ma anche
presumibilmente ignorato dalle autorità, come la distruzione,
ad opera dei vandali, delle teste della cosiddetta Fontana di
Masaniello, nel bel mezzo di
piazza Mercato, oppure l’aggressione quotidiana, ad opera
di baby gang, delle badanti
provenienti dall’Est europeo
che si ritrovano soprattutto in
piazza Enrico De Nicola, o dello stato di abbandono di giardini e luoghi di interesse storico. «Chi ci critica interpreta
la sofferenza civile della denuncia con lo scandalismo fine
a se stesso», dicono quelli di
No Comment, decisi a continuare nonostante gli scarsi risultati delle loro denunce.
Portano ad esempio piazza
Mancini, di fronte alla stazione
Centrale, storico luogo di partenza di quasi tutti i cortei cittadini, all’ombra della statua
di Garibaldi, consumata dalla
ruggine e dagli escrementi dei
piccioni, ripulita in occasione
dei 150 anni dell’unità d’Italia.
Un paio d’anni fa, la giunta
diretta da Rosa Russo Jervolino
fece sgomberare lo storico mercatino che l’occupava in gran
parte, superando una strenua
resistenza dei commercianti,
per lo più abusivi, per fare spazio ad un parcheggio. Adesso
la piazza è subappaltata da coloro che governano il territorio
(clan e sottoclan camorristici)
per lo più a maghrebini che
vendono merce contraffatta,
dando vita al rituale quotidiano di ripiegamenti e riconquiste degli spazi con le squadre
di polizia municipale. Quindi,
Segnali
72 | novembre 2012 | narcomafie
dove c’era un mercato, più o
meno stabile sebbene in parte
illegale, adesso c’è un caos più
apparente che reale, in quanto
asservito alle granitiche leggi
della camorra. Come in altre
zone considerate dall’Illegal
tour, c’è un’assegnazione precisa degli spazi. Da una parte
le bancarelle vere e proprie, da
un’altra lo spazio dove agiscono i cosiddetti “paccottari”,
impegnati a rifilare agli ingenui
di turno, con la tecnica dello
scambio delle buste dopo un
finto allarme riguardo l’arrivo
delle “guardie”, dalle finte stecche di sigarette a improbabili
cellulari e tablet. E ancora, i
tavolini dove una squadra formata da almeno una mezza
dozzina di persone truffa l’isolato sprovveduto con il gioco
delle tre carte e magari lo spazio per qualche prostituta diurna. Isole d’illegalità dove sono
tollerati furti con destrezza
(spesso con l’utilizzo di lunghe
pinze chirurgiche), ma non
scippi o rapine che danneggerebbero il commercio. Paragonata alla perfetta organizzazione criminale risulta
imbarazzante l’assenza o la
manifesta incapacità delle au-
torità. «Per dimostrarlo, basti
questo dato: la domenica successiva alla notizia dei nostri
tour, controllando uno dei luoghi prescelti, il Borgo San Antonio, detto O’ Buvero, abbiamo
notato che invece le bancarelle utilizzate per la vendita delle sigarette di contrabbando
fossero passate da 23 a 33. Un
terzo in più», dice Tony, che
ricorda come sia difficile spiegare, soprattutto agli stranieri,
le ragioni dell’inerzia istituzionale, oltretutto nel capoluogo
di una regione che, negli ultimi
25 anni, ha dato i natali a ben
sei ministri degli Interni su
quattordici. È quindi legittima
la domanda formulata nel foglio
che promuove l’Illegal Tour:
«È soltanto la cronica inefficienza dei governi locali o sotto sotto c’è una misteriosa ragion di Stato?». La risposta non
è facile. Secondo quelli di No
Comment all’origine c’è l’impotenza delle istituzioni che,
non avendo nient’altro da offrire in termine di occupazione,
appaltano l’amministrazione
del territorio, al di là dei fiumi
di retorica, a chi dimostra di
poterlo e saperlo controllare,
cioè alla malavita. «Ci sareb-
bero altre strade, ma richiederebbero progetti per il lavoro,
investimenti per la riqualificazione dei quartieri e comunque
sarebbero successivi al riconoscimento della realtà per quella che è, senza fronzoli, decorazioni o omissioni. Quello che
vediamo è tutt’altro: invece di
mettere le basi per una trasformazione della realtà, si fa di
tutto per nasconderla o per
camuffarla con la politica dei
Grandi Eventi (dall’America’s
Cup alla Coppa Davis per non
parlare dei vari Forum internazionali), che possono al massimo affascinare per un breve
lasso di tempo, proprio come
un arcobaleno, la città lasciandola comunque tristemente
immutata. Il vero grande evento per gli ostaggi della Malanapoli sarebbero vivibilità e una
convivenza civile ordinaria.
Insomma, la normalità», conclude Tony Laruspa. Non a
caso, il prossimo progetto
dell’associazione ha un titolo
che è tutto un programma, “Il
senso del senso civico”. Soprattutto a Napoli, la speranza
continua a rivelarsi l’ultima a
morire.
75 | novembre 2012 | narcomafie
Riciclaggio,
sorridono le mafie
di Emilio Fabio Torsello
Di riciclaggio si parla spesso, ma
quasi mai si entra nello specifico
del reato: come avviene, quali
vantaggi apporta alla criminalità organizzata e come lo si può
contrastare. Per capire che cosa si
intenda per “riciclaggio” e quali
siano gli strumenti per contrastarlo, Giuffré editore ha pubblicato
un volume monografico dal titolo
Il riciclaggio del denaro, a cura
dell’avvocato Ermanno Cappa
e del professor Luigi Domenico
Cerqua, presidente di Sezione
della Corte d’Appello di Milano.
Tra gli autori anche l’ex Procuratore nazionale antimafia, Pierluigi
Vigna (scomparso il 28 settembre
2012, ndr), e l’avvocato Giorgio
Ambrosoli.
È proprio Vigna a fare il punto
sul reato e sui modi con cui le
mafie riciclano denaro, spesso
con la compiacenza di imprenditori taglieggiati. Secondo l’ex
procuratore, infatti, il reato del
riciclaggio è andato ampliandosi
negli anni. Dal vecchio contrabbando di tabacco lavorato di quasi
mezzo secolo fa, si è passati al
traffico di stupefacenti, di armi,
di rifiuti, oltre ai proventi delle
estorsioni, di tangenti e usura, del
traffico di esseri umani. Un fiume
di denaro immesso e “ripulito”
nell’economia legale, pari al 10%
del Pil italiano. Basti pensare che
il fatturato delle organizzazioni
criminali nostrane si aggira tra
i 180 e i 200 miliardi di euro
l’anno, «buona parte dei quali –
scrive Vigna – destinata ad essere
investita nell’economia legale è
oggetto di riciclaggio».
Il riciclaggio, inoltre, è transnazionale e segue le merci: tabacchi,
stupefacenti, armi, rifiuti, prodotti
contraffatti. Anche le mafie sono
ormai globalizzate. A una tale
pervasività mondiale – sottolinea
Vigna – non corrisponde un’altrettanta omogeneità sul fronte
legislativo: ogni paese fa a modo
suo e ci sono Stati in cui le leggi
vengono fatte applicare, altri in
cui invece si chiude un occhio.
Le banconote di grosso taglio.
«Dalle elaborazioni effettuate
sui dati pubblicati dalla Banca
Centrale Europea nel 2009 – ricorda l’ex Procuratore – è emerso
che le banconote da 500 euro
rappresentavano, in valore, il
35% della circolazione di euro,
con una domanda in forte crescita fin dal 2002, anno in cui
fu introdotta la nostra divisa. In
ambito nazionale, l’analisi della
distribuzione territoriale della
domanda di banconote da 500
euro delle banche presso le filiali
della Banca d’Italia mostra una
significativa concentrazione in
alcune province limitrofe a Paesi
a legislazione fiscale e antiriciclaggio non stringenti».
Si tratta di una richiesta generalizzata: secondo quanto emerso
dall’Agenzia inglese sul crimine
organizzato, nel Regno Unito il
50% della domanda di banconote
da 500 euro verrebbe da organizzazioni criminali. Nascondere le
banconote di grosso calibro per
portarle all’estero è facile. Basta
un pacchetto di sigarette: arrotolate, possono entrarci pezzi da 500
euro per un valore complessivo
di 20mila euro. Una valigetta,
invece, può arrivare a nascondere
anche sei milioni di euro. Dai 31
miliardi del 2002, le banconote da
500 euro sono passate «all’odierno ammontare di 284 miliardi»,
precisa Vigna.
Gli effetti sull’economia legale.
Tra i principali effetti del fenomeno del riciclaggio, la distorsione
dell’economia legale e la creazione di monopoli e oligopoli. I
principali settori in cui vengono
reinvestiti i proventi frutto di
operazioni illecite sono l’edilizia,
il commercio, gli appalti pubblici,
l’abbigliamento, il mercato alimentare, l’industria dello svago
e del lusso, il turismo e la ristorazione, le strutture sanitarie e lo
smaltimento (legale) dei rifiuti.
L’impresa mafiosa. Alla base del
riciclaggio “inserito” nell’economia legale, l’impresa mafiosa. Nel
primo dopoguerra si trattava di
aziende guidate da criminali che
si imponevano sul mercato con
lo “stile” proprio delle mafie.
Una situazione facilmente individuabile che non avrebbe però
potuto reggere a lungo, grazie
anche alla legge sulla confisca
Ermanno Cappa,
Luigi Domenico Cerqua
(a cura di)
Il riciclaggio
del Denaro
Giuffré Editore
pagine 392
euro 46,00
76 | novembre 2012 | narcomafie
dei beni. Si è così sviluppata
la seconda tipologia di impresa
mafiosa, dove la criminalità non
gestisce direttamente né ha la
titolarità formale dell’azienda
ma “si limita” a esercitare per
via mediata la sua influenza. In
questo secondo caso tutto è in
apparenza pulito.
Una terza tipologia di impresa
funzionale al riciclaggio, invece, è quella “a partecipazione
mafiosa” e alla quale – scrive
Vigna – si riferisce la descrizione
dell’ associazione di tipo mafioso
quando il Legislatore individua,
tra le altre sue finalità, quella di
«acquistare in modo diretto o
indiretto la gestione o comunque
il controllo di attività economiche». In quest’ultima tipologia
di impresa «il titolare formale
– spiega Vigna – non è un prestanome, ma rappresenta anche
i propri interessi. L’esponente
mafioso può associarsi a un altro
imprenditore attraverso l’interposizione di un prestanome oppure
in modo diretto, ma non formalizzato, costituendo una società di
fatto. In entrambi i casi la presenza
degli interessi mafiosi resta celata
all’esterno. La relazione societaria
si fonda sulla parola, senza alcun
documento che attesti il rapporto
di compartecipazione del mafioso
all’impresa […] alla forza del
documento si sostituisce quella
della mafia».
Rapporti mafia-impresa. Diversi, secondo alcune analisi
convalidate dalle risultanze di
indagine, sono poi i rapporti che
nascono tra le diverse imprese e
le mafie.
Il primo è di concorrenza, con
l’impresa legale che subisce la
concorrenza dell’azienda criminale: «Questo rapporto – scrive
Vigna – si concretizza ad esempio
in una autolimitazione rispetto a
possibili progetti di investimento
che lo stesso imprenditore legale
si impone per non turbare equilibri mafiosi o per non esporsi
a possibili appetiti del gruppo
criminale».
Il secondo rapporto è di “protezione-estorsione”, altrimenti noto
come “pizzo”. C’è poi il rapporto di convivenza: ad esempio,
non si partecipa a gare di appalti
pubblici.
Il terzo rapporto è di scambio:
ferma restando l’autonomia delle
due imprese, avvengono reciproci
scambi di favori.
Il quarto rapporto è di “collaborazione associativa”: l’impresa
legale subappalta lavori all’impresa mafiosa. Clamoroso il caso
della Parmalat che prima del
“crac”aveva affidato la distribuzione dei propri prodotti nel
casertano a clan dei Casalesi.
L’ultimo rapporto è di “compartecipazione”: si tratta dell’impresa
a partecipazione mafiosa.
Su tutte queste tipologie, grava
come un macigno l’enorme disponibilità economica di denaro
in capo alle imprese mafiose. Se
infatti nell’economia legale i ru-
Nessuno può abbassare la guardia
La situazione italiana sul fronte
della legislazione antiriciclaggio
come si pone nel panorama internazionale?
La legislazione speciale italiana non
ha nulla da invidiare alle altre legislazioni, europee ed extra-europee. Anzi,
la prima legge antiriciclaggio italiana
risale al 1991 (legge n. 197-1991),
precisamente nel luglio ‘91 e, trattandosi di legge di conversione di un
decreto risalente a maggio 1991, prese
vigore, appunto, dal mese di maggio
di quell’anno. Orbene, la prima direttiva comunitaria antiriciclaggio
(91/308/Cee) fu emanata a giugno
1991 e, pertanto, risulta evidente che
la prima legge italiana è precedente
alla prima direttiva comunitaria in
argomento.
L’impianto generale della legge (oggi,
il decreto legislativo n. 231 del 2007,
di recepimento della 3 ˆ direttiva comunitaria 2005/60/Cee) è conforme
ai migliori standard internazionali ed
offre talune punte avanzate: ad esempio nella definizione molto ampia di
riciclaggio stabilita all’art. 2.
Certo la legge da sola non basta: sono
gli uomini che la applicano, che fanno
la differenza. D’altra parte, vi sono nazioni “chiacchierate”, che malgrado
la bassa reputazione (giusta o ingiusta
che sia) dal punto di vista della prevenzione al riciclaggio, sono munite
di leggi formalmente irreprensibili: si
pensi alla Repubblica di San Marino,
che, con buona pace per i detrattori,
dispone da alcuni anni di una legge
antiriciclaggio di tutto rispetto.
Tornando all’Italia, va precisato che la
disciplina del contrasto al riciclaggio
è contenuta non soltanto nella relativa
legge speciale (di cui si parla tanto),
bensì anche nel Codice penale (artt.
648-bis e 648-ter). Qui le criticità
non mancano e, da questo punto di
vista, ci troviamo purtroppo in una
posizione di retroguardia rispetto a
molti altri paesi.
In che termini?
In base al Codice penale italiano, il
riciclaggio si configura come reato
che presuppone necessariamente
la consumazione di un altro reato:
prima commetto una rapina, poi devo
ripulire questo denaro per renderlo
spendibile e, quindi, lo riciclo: si
tratta di due momenti differenti, che
il Codice tratta in maniera nettamente
separata. In pratica, chi commette la
rapina (e chi concorre nella commissione di quest’ultima) non è punito
per il riciclaggio del denaro rapinato,
bensì soltanto per la rapina. È il cosiddetto “privilegio di auto-riciclaggio”,
una incongruenza del nostro Codice
criticata da più parti. Ancor più criticata se solo si consideri che talvolta il
riciclaggio è punito più gravemente
rispetto al reato presupposto, talché,
colui il quale è preso con le mani nel
sacco a riciclare, spesso, ha paradossalmente interesse ad autodenunciarsi quale autore o “concorrente”
del reato-presupposto, per ottenere
una riduzione di pena. Si tratta di
un’incongruenza che penalizza non
poco l’efficacia della repressione del
riciclaggio. Varie sono le proposte di
riforma del Codice penale finalizzate
a recidere questa incongruenza. Spero
che ciò avvenga presto.
Le mafie riciclano ovunque perché il
riciclaggio dei proventi dell’attività
criminosa costituisce un elemento
irrinunciabile di sopravvivenza: senza
riciclaggio, le mafie non sarebbero
in grado di spendere i quattrini e le
utilità realizzate attraverso la propria
attività criminale.
Indubbiamente la mafie, forti di una
“professionalità” sorprendente, utilizzano i canali maggiormente fluidi
e per esse rassicuranti, ponendo in
essere, spesso, operazioni transnazionali comportanti uno scarrozzare
di quattrini fra vari Stati, allo scopo
evidente di far perdere le tracce dei
trasferimenti. Va da sé, inoltre, che
posta la stretta connessione fra il
riciclaggio del denaro e l’evasione
fiscale, gli arcinoti “paradisi fiscali”
costituiscono una meta, perlomeno di
passaggio, pressoché obbligata.
La normativa italiana di contrasto al
riciclaggio: quali i punti deboli?
La normativa antiriciclaggio italiana, come tutte le leggi, non è scevra
di criticità. Tanto per citarne una
77 | novembre 2012 | narcomafie
binetti del credito sono chiusi, le
mafie possono attingere a bacini
di denari praticamente sconfinati:
alle aziende lontane dal panorama
criminale, invece, in mancanza di
una protezione da parte dello Stato,
non restano molte possibilità di
sopravvivenza.
L’intermediario finanziario. Per
arginare il fenomeno del riciclaggio, è stata di recente introdotta la
responsabilità degli intermediari
finanziari, chiamati a segnalare le
operazioni sospette. «La norma in
esame – scrive nel volume Umberto Ambrosoli – ha introdotto una
prospettiva di portata fondamentale, trasformando l’intermediario
da garante del cliente a controllore e sostanziale ausiliario della
manciata, vale la pena di considerare, prima di tutto, che l’impianto
generale della norma si fonda sostanzialmente sul principio della c.d.
collaborazione attiva dei destinatari
(banche, finanziarie, fiduciarie, Poste, professionisti etc.) chiamati, fra
l’altro, a segnalare alla Uif, l’Unità
di informazione finanziaria istituita
presso la Banca d’Italia, le operazioni
sospette di riciclaggio.
È evidente che un sistema che faccia
perno su un meccanismo di mero
sospetto è di per se stesso debole: il
sospetto è un fatto psicologico imperscrutabile, tanto che la legge, almeno
in linea di principio, rivelandosi
assolutamente “diabolica” la prova
che il sospetto vi sia o non vi sia nella
mente del soggetto tenuto alla segnalazione, non sanziona penalmente la
mancata segnalazione di operazione
“sospetta”, ma la sanziona soltanto
in via amministrativa.
Vi sono poi varie incongruenze di
tipo tecnico, che riguardano la formulazione delle norme, spesso di
difficile interpretazione, a scapito
dell’efficacia delle stesse.
Vi è altresì una certa asimmetria fra
il dovere di collaborazione dei desti-
Giustizia». E intervistato da «Narcomafie», Ambrosoli specifica:
«Dimensione e complessità dei
rapporti nell’ambito dei quali
azioni di riciclaggio possono
avere luogo, non deve stupire
che lo Stato chieda aiuto a chi di
quei rapporti, in piena fisiologia,
è tipicamente artefice. L’affidare ai professionisti una parte di
responsabilità nel contrasto al
riciclaggio non è dunque altro
che responsabilizzazione».
Ma tra le possibili soluzioni per
ostacolare il riciclaggio attraverso
la tracciabilità, quella di far pagare anche cifre minime attraverso
canali elettronici. Una via teorica
che però, secondo Ambrosoli,
ancora non è praticabile. «Il pagamento elettronico – spiega – ha
dei costi che troppi utenti – anche
potenziali – vivono come eccessivo, non sempre a torto. Certamente, intervenendo a riguardo,
la politica potrebbe ottenere il
risultato di meglio contrastare
“il nero” (troppo radicato nelle
abitudini del Paese, così come
di altre economie)».
Ad oggi contro il riciclaggio servono solo ed esclusivamente i controlli e le risorse per far applicare
leggi e norme che pure esistono
(vedi l’intervista box sotto, ndr.),
ma che troppo spesso sono armi
di un esercito povero di uomini e
mezzi. Per tacer delle mafie che
continuano a “ripulire” denaro
e capitali frutto di operazioni illecite. Per la criminalità la crisi
economica è solo un’occasione.
natari delle norme e l’attività delle
autorità inquirenti e di polizia, attività
quasi sempre coperta dal segreto.
Vi è infine un certo abbandono degli
operatori i quali, ad esempio, dopo
avere segnalato come sospetto un
cliente, faticano ad operare con lui,
o a chiudere il rapporto, in assenza
di istruzioni precise da parte degli
inquirenti.
Insomma, la legge è perfettibile; tuttavia è necessaria e irrinunciabile.
fia, con un fatturato di 150 miliardi di
euro la “holding del riciclaggio” è la
prima azienda del Paese, davanti – ad
esempio – a un colosso come Eni. Con
ciò, non credo – non voglio credere
– che la criminalità organizzata si sia
impossessata dell’impresa Italiana.
Certo è che, con la forza finanziaria
perversa di cui dispone, dobbiamo
considerare l’impresa criminale come
il più temibile competitor dell’impresa legale e quindi, in ultima analisi,
come il peggior nemico dell’economia legale. Nessuno può abbassare
la guardia.
Quanto, mediante il riciclaggio, la
criminalità organizzata è ormai
entrata nel sistema legale?
Temo vi sia già entrata in maniera consistente. La criminalità organizzata
ricicla a più non posso: varie sono le
stime in circolazione e secondo le più
accreditate (Banca d’Italia, Procura
antimafia) ogni giorno, soltanto in
Italia, vengono riciclati 400 milioni di
euro: una “industria” che rappresenta
il 10% del Pil. Le segnalazioni di
operazioni sospette di cui si è detto,
peraltro, sono indubbiamente uno
strumento utile (oltreché necessario)
e danno luogo ogni anno ad investigazioni, processi e condanne non da
poco. Secondo il Procuratore Antima-
Nuove forme di riciclaggio: Money
Transfer e Compro Oro. Due piani
diversi per diverse entità di denaro
riciclato?
Sì, i due piani sono diversi, ma lo
sono soltanto dal punto di vista
delle singole strutture organizzative
e delle singole quantità relative
alle operazioni svolte. Al di là di
ciò, credo che il riciclaggio vada
considerato unitariamente come un
fenomeno di inquinamento degli
affari, dell’economia, della democrazia e della civiltà, da contrastare
senza cedimenti.
78 | novembre 2012 | narcomafie
“La Battaglia
contro la mafia”
Una, Letizia, è una delle più
apprezzate fotografe a livello
internazionale. Negli anni in
cui la mafia ha insanguinato
la Sicilia, era sempre in prima
linea, immortalando momenti
drammatici e cruenti della
storia italiana contemporacontempora
nea, dagli anni di piombo ai
giorni nostri. L’altra, Michela,
è una giovane professionista
SHARE
le segnalazioni del mese
a cura di Marika Demaria
raccolta fotografica
del settore della fotografia.
Entrambe palermitane. Con
lo stesso cognome: Battaglia.
I loro lavori, rispettivamente
“Il dolore della battaglia” e
“Topografia della memoria”,
raccontano luoghi, nomi e
volti di una Palermo, di una
Sicilia degli anni 80 e 90.
Un prezioso cofanetto il cui
contenuto, ha nei mesi scorsi
dato vita anche a una mostra
fotografica. Due i volumi racchiusi all’interno del cofanetto: all’interno della prima
pubblicazione ritroviamo gli
scatti più belli della fotoreporter palermitana, mentre nella
seconda i luoghi degli eccidi,
della Palermo degli anni 80 e
90, sono descritti con dovizia
di particolari.
Letizia Battaglia e Michela Battaglia, “Storie di mafia” Postcart Edizioni, 2012
raccolta iconografica
Museo della ‘ndrangheta, il libro
Più di 400 pagine per raccontare,
in maniera documentata, con
scritti e fotografie, l’ultimo qua
quadriennio della storia calabrese.
Le attività delle Procure anti
antimafia e Direzione distrettuale
antimafia reggine, la presenza
e il radicamento della ’ndran
’ndrangheta nella provincia di Reggio,
la strategia della violenza e del
consenso. E ancora: l’economia
della mafia liquida, la zona gri
grigia, i latitanti e i collaboratori di
giustizia. Capitoli scritti da chi
la lotta alla ’ndrangheta l’ha vis
vis-
suta e la vive in prima persona,
come magistrato, rappresentante
delle forze dell’ordine, amministratore pubblico. La prefazione
è affidata al già presidente della Commissione parlamentare
antimafia Francesco Forgione,
mentre il docente universitario
Enzo Ciconte cura le conclusioni. L’ultimo capitolo è dedicato
all’“Altra città”: come la Calabria, Reggio in particolare,
ha deciso di ribellarsi al giogo
mafioso, impegnandosi anche
come società civile.
Claudio La Camera, ricerca iconografica e foto di Adriano Sapone,
Libro bianco sulla ‘ndrangheta
‘ndrangheta, Aracne editrice, 2012
79 | novembre 2012 | narcomafie
libri
“Storia di una 11 vite per
testimone
il giornalismo
di giustizia” «Chi ha in mano il testimone ha
teatro
Entra
in scena
la lotta
alla mafia
«Finché la mafia esiste bisogna
parlarne, discuterne, reagire.
Il silenzio è l’ossigeno grazie
al quale i sistemi criminali
si riorganizzano e la pericolosissima simbiosi di mafia,
economia e potere si rafforza. I
silenzi di oggi siamo destinati
a pagarli duramente domani».
Così Pietro Grasso, nel suo
“Per non morire di mafia”, incitava i lettori a occuparsi della
lotta alle mafie, che non deve
essere un dovere di qualcuno,
ma di tutti. La sua biografia
viene riproposta in versione
teatrale da Sebastiano Lo Monaco, già applaudito interprete
al debutto della pièce.
Per informazioni:
www.teatrocarcano.com
Nel 1991 Cosa nostra le uccise il marito Nicola, boss di
Partanna, lasciandola vedova
con una bambina piccola da
crescere e una cognata, Rita,
da proteggere, da tenere per
mano per affrontare insieme
una nuova vita, per fidarsi insieme di un magistrato, Paolo
Borsellino. Il 26 luglio 1992
Rita Atria si toglierà la vita a
soli 17 anni, a una settimana
di distanza dalla strage di Via
d’Amelio.
A combattere questa battaglia
rimane solo lei, Piera Aiello.
Per la prima volta, la sua storia raccontata a quattro mani
con il giornalista Umberto
Lucentini, già autore di “Paolo
Borsellino. Il valore di una
vita”, la biografia autorizzata
del magistrato ucciso il 19
luglio 1992.
una grave responsabilità: non
perderlo, non farlo cadere, essere
degno dello sforzo del compagno che glielo ha passato, anzi,
tentare di fare meglio». Nella
prefazione scritta da Salvo Vitale
il senso di un progetto promosso
da Navarra editore: 11 giornalisti
contemporanei raccontano tratti inediti di chi ha pagato con
la vita l’amore per la verità. Le
royalties saranno devolute alla
rivista «Casablanca».
Vivere Napoli
Un racconto realistico e crudo,
uno squarcio della vita di quartiere, in una città come Napoli.
Poco più di cento pagine per
descrivere con ritmo, con lo
stile di appunti di vita annotati
sul diario personale, storie di
camorristi, tossicodipenden-
AA. VV.
Passaggio di testimone
Navarra editore, 2012
ti, prostitute. Il protagonista
è un giovane trentenne che,
dopo essere partito per “cercare
fortuna” al Nord, decide, vedendo le proprie aspettative
deluse, di ritornare a Napoli,
scegliendo la periferia. Con un
finale a sorpresa.
Antonio Montanaro,
Rabbia e camorra,
Round Robin, 2012
“Va in onda la camorra”
Piera Aiello e
Umberto Lucentini,
“Maledetta mafia”
Edizioni San Paolo, 2012
In Campania si contano 77 televisioni e 165 radio locali registrate. Un “bottino” che non
può non far gola alla camorra
e ai suoi accoliti, costituito da
finanziamenti pubblici – 12
milioni di euro annui –, spot
elettorali, posti di lavoro. Da
tradursi in consenso sociale e
“pulizia” del denaro sporco.
Le prefazioni sono firmate da
Giommaria Monti, direttore di
«Left», e da Amato Lamberti,
scomparso poco dopo la pubblicazione del libro-inchiesta.
Alessandro
De Pascale
Telecamorra
Lantana, 2012
80 | novembre 2012 | narcomafie
Lampedusa,
vietato
morire
Nell’indifferenza mediatica (quasi)
generale Giusi Nicolini, sindaco di
Lampedusa, ha dichiarato che il
cimitero locale dei “senza nome”
(i migranti) è pieno e, quindi, non
si sa più dove collocare le bare di
quei poveracci che non ce l’hanno
fatta, da vivi, a raggiungere la “terra
promessa”. Triste e mortificante
la riflessione del sindaco: «Sono
sempre più convinta che la politica
europea sull’immigrazione consideri questo tributo di vite umane
un modo per calmierare i flussi, se
non un deterrente». Considerazione
ancor di più umiliante e amara se
si riflette sulla importante presenza
di personalità del mondo cattolico
nel governo “tecnico” e, comunque,
in un governo dove non c’è più
l’ingombro di quei politici leghisti
che tanta parte hanno avuto, in un
recente passato, nella creazione
artificiale della paura e dell’odio
verso gli “invasori”.
Una notizia brutta che si aggiunge
alle molte altre che ancora caratterizzano quel mondo di disperati, uomini, donne e bambini,
che arrivano dalle nostre parti per
un’accoglienza e una solidarietà
spesso carenti. Il fenomeno migratorio, d’altronde, non diminuisce affatto, anzi. Né possono
essere confrontati (magari per far
contenti quei politici che hanno
strumentalizzato l’immigrazione e
che vedono “nero” dappertutto),
i dati (diminuiti) sugli “arrivi”
del 2012 soltanto con quelli del
2011, quando si registrò il picco
degli sbarchi a causa delle guerre
e rivolte (alcune, apparentemente, risolte, altre attenuate e altre
ancora in svolgimento), in diversi
paesi del nord Africa.
di Piero Innocenti
Dal primo gennaio di quest’anno al primo novembre, le forze
di polizia, nei consueti servizi di
controllo sul territorio nazionale,
hanno rintracciato 30.583 stranieri “irregolari” e di questi 10.850
sono quelli “sbarcati” sulle coste
o, comunque, soccorsi in mare. Dei
30.853 ne sono stati rimpatriati
effettivamente 15.602 attraverso
le procedure previste dalla legge
(respinti alla frontiera, respinti dai
questori, espulsi dal prefetto con
accompagnamento alla frontiera,
espulsi su provvedimento della
magistratura, riammessi nei paesi
di provenienza). Per i rimanenti
14.891, il rimpatrio non c’è stato in
quanto sono stati “inottemperanti”:
all’ordine del questore; all’intimazione del prefetto; all’ordine del
questore con la denuncia alla magistratura per la sanzione pecuniaria
conseguente (non ci sono notizie
di sanzioni inflitte dal giudice di
pace che siano state pagate).
Anche dal confronto con i dati degli
sbarchi nel 2010, si vede chiaramente come i flussi nel corrente
anno continuino ad interessare
l’Italia in modo consistente. La
conferma che le “drastiche” misure
legislative (alcune illegittime) ed
operative (inopportune e ingiuste)
adottate dal ministro dell’Interno
del tempo, il leghista Maroni, non
siano servite a nulla se non a far
morire, in mare o nelle carceri libiche, centinaia di migranti. Infatti,
se nel 2010 a Lampedusa, Linosa e
Lampione, i migranti sbarcati erano
stati “soltanto” 459, nel 2012, alla
data del 10 novembre, sono stati
ben 3.792. Analogamente per gli
altri “approdi” siciliani quando
nel 2010 furono 805 e nel 2012
ben 2.934. Le cose non sono andate
diversamente sulle coste pugliesi
(1.513 sbarcati nel 2010, contro i
2.393 del 2012) e su quelle calabresi
(1.280 nel 2010 e 1.727 nel 2012),
con stranieri di origine prevalentemente afghana, irachena e iraniana,
spinti a raggiungere queste coste per
la recrudescenza dei conflitti che
stanno devastando quei Paesi.
Il sindaco di Lampedusa – che,
giustamente, sottolinea come la
morte in mare dei migranti «debba
essere per l’Europa motivo di
vergogna e di disonore» – fa riferimento all’impiego, per i soccorsi
nei tratti di mare vicino alle coste
libiche, delle “velocissime motovedette” regalate a Gheddafi dal
nostro Governo nel 2009/2010. La
realtà, anche qui, è avvilente. Sin
dall’aprile 2012, l’ambasciata italiana a Tripoli, dopo un incontro
con il capo delle Capitanerie di
Porto della Libia, comunicava al
nostro ministero dell’Interno le
«difficoltà a riprendere i pattugliamenti delle coste in quanto
delle sei motovedette donate a
suo tempo dall’Italia ne restano
quattro, non operative (sic!), per
il cui ripristino occorrerebbe, tra
l’altro, una fornitura urgente di
almeno 15 pezzi di ricambio».
Da allora non si sono avute più
notizie di pattugliamenti “congiunti” in mare nelle rispettive acque territoriali secondo il
protocollo tecnico operativo del
2009 firmato dai Capi delle Polizie
italiana e libica.
Questa è la drammatica e vergognosa realtà. Destinata, purtroppo,
a non cambiare nonostante le belle
e ripetute dichiarazioni pubbliche
dei nostri governanti.
numero 11 | 2012 | 3 euro
Mensile | Anno XX | Poste italiane S.p.A | SPED. IN A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1 DCB | To. ISSN 1127-9117
numero 11 | 2012
IL CALO DELLE DENUNCE, L’ASCESA
DELLA CRIMINALITà ORGANIZZATA
NELLE MAGLIE
DELL’USURA
SOMMARIO
3 | L’EDITORIALE
I costi della mancata prevenzione
di Livio Pepino
6 | RIFIUTI IN CAMPANIA
Il ricatto della munnezza
di Roberta Polese
12 | I GIORNI DELLA CIVETTA
Brevi di mafia
a cura di Manuela Mareso
15 | INTERVISTA AD ALESSANDRA CERRETI
Essere donna contro la ’ndrangheta
di Emanuela Zuccalà
19 | TRENTESIMO ANNIVERSARIO
Un poliziotto semplice
di Elisa Latella
21 | NUOVE RESISTENZE
Denunciare a Palermo
di Laura Galesi
22 | COSE NOSTRE
Antimafia all’ombra della madonnina
di Marika Demaria
24 | STROZZATECI TUTTI
Il papà dei pulcini
di Marcello Ravveduto
35 | DOSSIER USURA
Il bot delle mafie
di Peppe Ruggiero
Il bilancio dei cravattari
di Laura Galesi
Viaggio dove i soldi
sparano più della lupara
di P. P.
Il tesoro scippato
di P. P.
Il galateo degli strozzini
di P. P.
Quando l’economia è in crisi,
esplode l’usura
intervista a Dario Scaletta
di Angelo Meli
54| ALTARISOLUZIONE
Taranto resiste
testo e foto di Marika Puicher
58 | OCCIDENTI
Rassegna stampa internazionale
a cura di Stefania Bizzarri
61 | RAPPORTI UE-PRISTINA
Kosovo, la legge dell’impunità
di Matteo Tacconi
69 | CRONACHE SOMMERSE
Sochi non può attendere
di Andrea Giordano
72 | SEGNALI
Napoli illegal tour
di Guido Piccoli
75 | SEGNALIBRO
Riciclaggio, sorridono le mafie
di Emilio Fabio Torsello
78 | SHARE
Le segnalazioni del mese
a cura di Marika Demaria
80 | L’OPINIONE
Lampedusa, vietato morire
di Piero Innocenti