Arte e politica Un nuovo scenario Nel porsi la questione se vi sia in

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Arte e politica Un nuovo scenario Nel porsi la questione se vi sia in
Arte e politica
Un nuovo scenario
Nel porsi la questione se vi sia in generale, ma in particolare oggi, in qualche modo e per qualche
verso, un compito 'politico' dell'arte, occorre dire subito che è cambiato, radicalmente, il modo di
vedere il mondo e la realtà: un modo, diverso da quello di ieri, quando ancora era fortemente sentita
la necessità proveniente della realtà esterna, storica e sociale, e quasi l'indispensabilità del
condizionamento di quel rapporto. Oggi siamo dominati da uno scenario nuovo come condizione, e
nuovo nelle conseguenze, a causa d'un rapporto che con la realtà politica e sociale non ha le
mediazioni che lo avevano fino ad ora costruito e strutturato.
Sul valore di 'generalità' di quel compito politico, potremo dire che esso è ora indiretto ed
immanente ad un rapporto che l'arte ha invece con la cultura.
E' caduto l'impegno militante che s'era fatto sentire, nei contenuti e nelle scelte formali, non solo
durante il ventennio fascista (quando i fattori costrittivi, da una parte e dall'altra dello spettro
politico, avevano anche avuto un ruolo forte), ma soprattutto dopo la liberazione e addirittura fino
alla caduta del muro di Berlino. Si può dire che oggi c'è un diverso genere d'impegno, senza più
funzione 'sostantiva' di universalità supposte date, segnato invece da finalità di prospettive tutt'al
più utopistiche, lontane dalla realtà politica, capaci di rivangare radici lontane, miti ormai di
un'epica conforme a qualche antico ideale.
In queste condizioni l'arte può conformarsi, senza più scandalo, anche ad utopie del gioco e del
futile, riconfermando ben provate convinzioni sulla sua non-moralità, anche se non immoralità, e
sul fatto che il suo rapporto col mondo avvenga attraverso 'scelte'; scelte, oggi del tutto individuali.
Né per questo essa sarà meno arte: semmai, andrà meno incontro alla società e ai suoi bisogni
materiali.
Ed allora un rapporto con gli spazi della politica, se e quando ce ne siano, non riesce ad escludere
una qualche parte dello spettro organizzativo, fino all'economia, in tutte le sue forme di
mercificazione, sponsorizzazione, mecenatismo ed intervento statale.
Ben diverso è il rapporto dell'arte alla cultura. Questo ambito è più esteso di quello della politica,
che vi è compresa. Secondo le definizioni dell'etno-antropologia, cultura è quella totalità che
comprende le credenze, la morale, le conoscenze, l'arte stessa, il diritto, il costume, le capacità e le
abitudini acquisite nei rapporti sociali: e cioè l'insieme di tutte le attività e di tutti i prodotti non
fisiologici, non automatici e non istintivi riflessi. Cultura è, positive o negative che siano, la
memoria e le aspettative, sicché essa non può che esser mossa da se stessa e muoversi
circolarmente. Ciò che conta allora è il suo livello, il 'potenziale' suo intrinseco per dare spinte
ascendenti e per impedire la sua caduta. Il rischio della barbarie è infatti immanente alla cultura
stessa.
Quale è lo spazio dell'arte, allora, all'interno della cultura? In primo luogo risulta evidente che la
'forma' non può essere condizione sufficiente per la certificazione del livello della collocazione di
essa nella cultura; è infatti la cultura stessa a generare la validità artistica dell'opera d'arte. In altre
parole, l'arte è generata come tale dall'insieme degli uomini, trascendendo così l'atto creativo
(individuale) dell'artista in un atto riconoscitivo-sociale, con una 'decisione' socialmente condivisa.
Quindi l'arte viene perduta, se e quando la società non è più in grado di leggerla.
Ciò che distingue l'arte (come arte) dal suo ricettacolo culturale è proprio il livello, l'organizzazione
del ricettacolo, la sua capacità di conservazione.
L'impegno fondamentale dell'arte finisce quindi per essere quello di fronte alla cultura, non quello
di fronte alla politica: un impegno, da commisurare, non a necessità immediate, non a qualche
fattore di indispensabilità derivante dalla realtà esterna storica (che ci porterebbe alla teoria
sartriana dell'engagement), [1] ma con la funzione di valutare, in esso impegno, la 'responsabilità
delle conseguenze' del suo operato, sulla cultura. Questo è il valore di 'generalità' del compito
dell'arte, del quale s'è fatto prima cenno.
Questo impegno dell'arte è segnato anche dalla sottile contraddizione che corre tra una sua
caratterizzazione laica ed una, viceversa, etico-utopistica: l'arte non dovrebbe, infatti, essere segnata
da un dover essere e da sottostanti 'principi regolativi', perché la 'responsabilità delle conseguenze'
nei confronti della cultura, a cui abbiamo alluso, non può che essere una responsabilità artistica
(potremmo dire: solo 'estetica'); l'impegno non dovrebbe avere finalità metastoriche,
universalizzanti, ma essere costitutivo, immanente alla categoria stessa dell'arte, non dell'etica e
della morale: costitutivo impegno del modo d'essere dell'attività produttiva dell'arte e costitutivo
nell'origine di essa, fatta di memoria e d'immaginazione, di memoria e di aspettative, non di
fondamenti e di postulati.
L'arte e la storia
La storia è una condizione oggettiva dell'arte e quindi la conoscenza di quella è certo auspicabile.
Non c'è dubbio che, in questo senso, il contributo del pensiero di Marx e di Engels è stato decisivo,
[2] sia per il riconoscimento del condizionamento storico dell'arte, sia per quello dello sviluppo
storico del 'senso artistico' (al di là di ogni ricaduta possibile in un qualche schematismo
sociologico). E così un dato di fatto è anche la correlazione che si stabilisce tra classi dominanti
(società economicamente dominanti) e lingue dominanti. Assai più discutibile, invece, è la
correlazione tra forma della divisione del lavoro (intellettuale e manuale, in primo luogo) e relativa
coscienza sociale, [3] che si allarga alla questione, ripetutamente sollevata, del rapporto tra lingua
colta e lingua bassa, che è invece rapporto assai più complesso del meccanico rapporto tra lingua
dell'intellettuale e lingue del 'lavoro'. [4]
Ma la storia è poi anche interpretazione soggettiva di fatti, anche per l'arte; e allora, se
l'interpretazione (della storia) è una 'condizione' della critica, per cui non si può non essere
d'accordo con W. Benjamin [5] quando dice che «è necessario percorrere la via indiretta [nella
critica letteraria] attraverso una critica materialistica che sappia collocare i libri [le opere] nel
contesto del loro tempo», l'interpretazione stessa della storia, in quanto tale, a sua volta, non
dovrebbe essere vincolata alla politica e condizionata dalla contingenza della politica. Gli scritti
della Luxemburg, le critiche della Korallov, i saggi di Stalin, sebbene su fronti diversi e opposti, ne
sono un triste esempio. [6]
La soggettiva interpretazione della storia (a causa dei limiti soggettivi delle metodologie storiche) è
soggetta dunque, ove più ove meno, a ideologie (politiche o d'altro genere). Questo pericolo di
confessionalità dell'arte e della critica è una sorta di zdanovismo sempre latente, [7] denunciato
dalla critica anche nelle forme e nelle modalità degli 'zdanovismi di sinistra'. [8]
Nella riflessione della sinistra sull'arte, tuttavia, contro lo zdanovismo si erge il pensiero di
Gramsci, che difende la priorità della forma e l'immanenza della politica,che richiama il rapporto
crociano di contenuto e forma: «l'osservazione politico-economica (pratica-didascalica) distrugge
l'arte [...] quando è esteriore, imposta con la forza [...] ma può diventare implicita nell'arte ecc.
quando il processo è normale, non violento, quando tra struttura e superstruttura c'è omogeneità e lo
Stato ha superato la sua fase economico-corporativa». [9] E ancora: «ciò che si esclude è che
un'opera sia bella per il suo contenuto morale e politico e non già per la sua forma in cui il
contenuto astratto s'è fuso e immedesimato». [10] Infine: «Non si riesce a intendere concretamente
che l'arte è sempre legata a una determinata cultura o civiltà, e che lottando per riformare la cultura
si giunge a modificare il 'contenuto' dell'arte, si lavora a creare una nuova arte, non dall'esterno [...]
ma dall'intimo [...]» [11]
Se W. Benjamin respinge sia la politicizzazione dell'arte che una possibile 'estetizzazione' della
politica, l'idea di una priorità di valore della forma sul contenuto politico viene riconfigurata,
particolarmente in Italia (con una riconduzione e poi riduzione, tra l'altro, della teoria critica alla
teoria politica), come l'idea di una forma che possa e debba essere segnata, ora essa stessa, da un
suo intrinseco carattere 'politico'.
Questa idea si delinea prima come critica a quell'idea gramsciana di letteratura nazional-popolare
che viene interpretata come populismo della forma narrativa e come tale messa in questione:
populismo della forma, che (si sostiene) verrebbe a definire un confronto scorretto fra intellettuale e
'classe' e un distorto rapporto fra scrittore e popolo. [12] La critica alle applicazioni letterarie
dell'idea gramsciana si precisa, dunque, per questo tramite, come critica agli stessi esistenti
organismi politici, che quell'ideologia hanno sviluppato e continuato: una critica alle relative
soluzioni formali (nelle quali il rapporto si esprime), che entra a far parte di una linea politica tout
court.
Questa riconfigurazione della forma, nel segno della sua possibile politicità immanente, si esprime
poi, in altro contesto, come critica all'avanguardia e ai modi della lingua che essa implica, [13] per
il motivo che segue. Se si può dire che una documentabile caduta della nozione di 'impegno' ha
trascinato con sé anche l'intrinseca forza della problematicità ad esso connessa, della contestazione
e della diversità, sottolineando così un sostanziale e implicito bisogno di stabilità, anche qui la
ricerca tematica del rapporto di avanguardismo e popolo rimane irrisolta: se si sviluppa una critica
alla poesia civile d'ispirazione social-marxista, dove il contenuto viene sostanzialmente identificato
con la borgata e con i suoi modi di vita, mentre la forma resta quella neorealista, che trae origine da
Gadda, l'avanguardia, tuttavia, che tale critica ha portato avanti e che intende porsi contro i modi
quotidiani della lingua piccolo-borghese e, insieme, contro i modi alto-gergali della lingua letteraria
tradizionale, continua tuttavia ad essere e a rimanere, suo malgrado, opera 'letteraria'. Ma - dice
Pasolini - «quando la letteratura è letteratura e basta, allora diventa un fatto sociale».
Il recupero 'politico' della forma prende, infine, proprio con la transavanguardia e con le riflessioni
di Sanguineti, un nuovo indirizzo, questa volta quello della critica alla letteratura del mito e
dell'utopia. [14] La critica alle protoavanguardie romantichee alla loro teoria del mito, la critica
dell'opera di D'Annunzio, ultimo mitografo della poesia italiana, e delle avanguardie storiche, come
il Marinetti dei Calligrammi e del Manifesto, e dell'ultimo tentativo di remitologizzare l'arte (con
l'introduzione della macchina e del movimento) nella forma dell'utopismo futurista, si risolve,
malgrado forse le intenzioni, in una sorta di neutralismo, che - tagliato il passato del mito ed il
futuro mitologizzato dell'utopia - si trova in conclusione a difendere un vuoto presenzialismo, un
attualismo antistoricistico, insomma la mera fenomenologia di quel che c'è.
In conclusione, l'interpretazione soggettiva della storia, a partire dalle rozze modalità dello
zdanovismo, ha visto ribaltare le operazioni della politicizzazione dell'arte, riconducendo politica e
storia alla sua interiorità formale nell'idea di una letteratura nazional-popolare, che non intende
essere 'estetizzazione' della politica, ma semplicemente intimo legame di arte e cultura e storia.
Un'idea, questa, che è andata incontro alla critica, da un lato, sui modi della lingua (populismo e
avanguardismo letterario), dall'altro, sui contenuti (mitomanie e utopismi).
Forma e politica
C'è una 'forma' dell'arte, che sia anche politica in se stessa? Narrazione, allegoria, metonimia: in
questi tre concetti si racchiude l'idea della funzione mediatamente e indirettamente politica della
forma letteraria e, più in generale, dei linguaggi dell'arte. Una forma, che intenda essere anche
politica e che si proponga di cogliere più esplicitamente le istanze politico-culturali e la 'temperie'
del mondo moderno, non può che assumere le specifiche proprietà che la fissano entro l'ambito di
questo quadro definitorio: questo è stato variamente sostenuto.
Il primo concetto nasce con l'alternativa posta da Lukàcs, [15] che, nella riflessione sul romanzo
moderno, nel serrato confronto fra Nanà di Zola e Anna Karenina di Tolstoj, attraverso l'esame dei
due episodi 'paralleli' della corsa dei cavalli e del teatro, coglie e risolve il dilemma posto, tra
partecipare o osservare, tra narrazione o descrizione, tra 'vita' o scrittura, a favore del primo corno:
la forma della narrazione, quindi Tolstoj e il punto di vista del 'partecipante', di fronte a Zola, il
punto di vista dello 'spettatore'; Tolstoj e la 'necessità' e la 'forza causale' della rappresentazione,
dove, come in Balzac o in Scott, accade che il lettore viva gli avvenimenti, a differenza che in Zola
o in Flaubert, dove i personaggi sono spettatori, in 'quadri' che il lettore osserva; 'racconto', che
distingue e raggruppa, contro 'descrizione', che livella ogni cosa.
Il secondo concetto, di allegoria, ha invece la sua fonte nell'alternativa goethiana [16] fra allegoria e
simbolo e nella prima vede caratterizzata una problematica formale intrinseca all'arte moderna. [17]
I linguaggi sono segnati dal valore 'allegorico' e 'simbolico' dei loro codici, dove l'uno e l'altro si
pongono, rispettivamente, come ricerca del particolare in vista del generale, cioè come esempio del
generale (poniamo: l'Allegoria della prudenza, di Tiziano), e come visione, invece, del generale nel
particolare, enunciato, ma senza tendere esplicitamente ad esso. [18] 'Particolare' è comunque il
significante, in quanto esempio (simbolo, parte, che rappresenta l'idea, il tutto); 'Generale' è il
significato, indeterminato, come contenuto immanente.
Benjamin, rovesciando i valori goethiani, connette l'allegoria all'avanguardia: «laddove l'allegoria è
modo di espressione decentrante, e immagine 'dialettica' di sensibilità e intelletto (sì che si rompe
l'apparenza e 'l'eidos si oscura') e si 'contrappone polarmente' al simbolo che è fusione nebulosa
nell'“attimo mistico” dell'intuizione (a trasferire surrettiziamente nella sublimazione estetica
caratteri religiosi)» [19]
Il terzo concetto, della metonimia, [20] configura insieme la tendenza a mettere da parte la
metaforicità della lingua, abusata nel linguaggio delle avanguardie di origine 'rimbaudiana'. [21]
Rispetto alla metafora, alla similitudine, in cui l'oggetto viene designato da altro, dal nome di un
oggetto simile, e la parola viene usata in un senso simile e diverso dal suo senso abituale, il valore
'associativo' della metonimia, che porta l'oggetto a designazioni con nomi di altri oggetti, associati
ad esso dall'esperienza, e dove la parola viene usata per designare proprietà che esistono in altri
rapporti esistenziali rispetto alla sua referenza abituale, è un valore ritenuto capace di superare la
macchinosità degli spazi semantici delle avanguardie storiche e di approdare ad una immediatezza,
ad una sovrapposizione per contiguità, dei sensi, che è più conforme alla 'lateralità' propria dell'arte
contemporanea e alla sua ideale fonte manieristica e barocca (tanto nella sua poesia quanto nella
pittura). L'associazione metonimica soccorre la volontà dell'autore di esprimere sensi piuttosto che
significati e di evocare, con questo, in modo diretto una realtà che è sede di un 'senso' che trascende
i 'significati' singoli. C'è una intensionalità della metonimia, che porta la relazione semantica sul
piano del rapporto nome-concetto e quindi del pensiero, anziché su quello del rapporto estensionale
nome-cosa significata: una funzione 'sintetica', la prima, che riporta anche la parola sul terreno della
simbolicità e che si contrappone alla seconda, 'analitica', estensionale, che riconsegna però la parola
anche e di nuovo al suo valore allegorico, di paragone.
Oltre le forme e i contenuti
Il riferimento che abbiamo fatto a quelle tre coppie di figure (della retorica o della tipologia
semantica o della descrittiva testuale) accompagna - certamente in Italia - la storia della riflessione
sulla funzione politica che può avere la forma linguistica. Ma è una storia che non ha vincitori né
vinti, una storia che ha visto solo l'incattivirsi d'uno scontro di schieramenti, che ha prodotto un
oscuramento, nella ricerca formale e di contenuti (transavanguardie), e che ha portato allo stallo e
ad un indifferente sincretismo. Il problema dell'impegno politico non poteva continuare ad essere
risolto in base ad ostracismi e ai dettati sulla forma da perseguire, por poter essere 'oltre' qualcuno o
qualcosa.
Se c'è impegno 'politico', questo deve porsi allora davvero 'oltre' certe scelte formali e di contenuto,
che nessuno è in grado di imporre a qualcuno, in nome di qualcosa. E questo impegno, ci sembra,
interessa invece il rapporto fra lingue dominanti e minoranze linguistiche (la riproposizione della
vecchia questione della lingua, associata alla divisione sociale e politica), per un verso, e la
questione della traducibilità, per un altro ma pur collegato verso. [22] E, con questo, si presenta, con
tutta la sua carica dirompente, la relativa questione politica del bilanciamento necessario tra il
rispetto delle differenze e la difesa dell'integrazione culturale.
Sia W. Benjamin che A. Gramsci, affrontando il tema della traducibilità sotto il profilo del suo
valore di 'messaggio', pongono al centro la comunicazione, e cioè la necessaria tendenza alla
mondializzazione della cultura, ma valorizzando il rispetto delle 'differenze', dunque contro
l'esasperazione delle singolarità, che sarà affermata come valore dagli 'ermeneuti', Heidegger,
Gadamer, Derrida. Il senso della posizione gramsciana si può così riassumere: se l'unità linguistica
è di norma 'egemonica' (rispetto ai dialetti e alle lingue marginali), la minaccia dell'universale
(logocentrismo, etnocentrismo, ipertestualismo) si bilancia nella conflittualità della traduzione; ed
occorre avere ben presente che l'esasperazione ermeneutica porta la diversità (l'originalità e la
particolarità) delle lingue storico-culturali alla impossibilità della traduzione, alla mistica
dell'intraducibilità e all'isolamento delle culture.
Occorre però dire che, nella traducibilità, come condizione della possibilità di un corretto rapporto
tra culture marginali e integrazione culturale, non è sufficiente il punto di vista, difeso da Benjamin
e Gramsci, dell'approccio 'comunicativo': la traduzione è innanzi tutto - sostenendo un quadro di
incommensurabilità linguistico-culturale, che ponga al riparo da facili riduzionismi - una
'conversione' di lingue (di codici e di sintassi), tale che, per tradurre, occorre risalire alla
metaforicità (alla analogicità) delle culture fra loro, affrontabile solo sul terreno del
comparativismo (in base a 'somiglianze' e 'costanti') e quindi nel quadro di una visione geo-culturale
e geo-politica, orizzontale, che si ponga accanto a quella verticale, diacronica, della storia. [23] E
con ciò il tema si sposta sul terreno della distinzione e del rapporto istituibile fra 'messaggio' e
'comunicazione'.
Messaggio e comunicazione
E il tema 'politico' è quello della priorità del messaggio, non uno di priorità della comunicazione.
Dice Benjamin: [24] «Che cosa comunica la lingua? Essa comunica l'essenza spirituale [vale a dire:
il messaggio] che le corrisponde. È fondamentale sapere che questa essenza spirituale si comunica
nella lingua, e non attraverso la lingua». Cioè la lingua è l'essenza spirituale, la cultura, quel
messaggio che poi la lingua comunica.
Questa tesi si contrappone nettamente, per il suo drammatico valore politico, a quella di McLuhan.
Occorre mettere in evidenza, più che l'oggettività metastorica del fenomeno comunicativo nel
'villaggio planetario' post-guten= berghiano (dunque: più che una constatazione di tesi, date come
fotografia immodificabile del reale), il fatto che questo stato di cose è capitalisticamente
determinato, è una 'condizione', ma solo in senso capitalistico, ed è quindi fenomeno storicamente
oggettivo e reale, ma perciò anche socialmente e tecnicamente modificabile: non è 'tesi'
ontologicamente oggettiva, ma fenomeno socialmente controllabile, che può essere reso
storicamente transitorio.
I media non sono a priori, nella loro forma attuale, la nostra condanna, la nuova estraniazione,
l'alienazione 'perenne' e 'strutturale' del post-capitalismo.
Le riflessioni dell'analisi metodologica sulla fenomenologia della comunicazione di massa partono
dall'osservazione che oggi è il mezzo che - invece di trasmettere (neutralmente) l'informazione (il
contenuto) - determina le condizioni dell'informazione e quindi opera già a monte, prima
dell'informazione. È per questo - si dice - che l'informazione assume contenuto e forma, imposti dal
mezzo stesso; o meglio, li trova modificati da un contenuto-forma che è indotto (aggiunto a quello
trasmesso) dal mezzo stesso di trasmissione. In questo senso si dice (con grande approssimazione
logica e terminologica) che il mezzo 'è' il messaggio; cioè s'intende dire che lo strumento di
comunicazione, imponendo al messaggio le sue modalità, assegna a quel messaggio (al contenuto
ad esso immanente) un altro contenuto e un'altra forma, quelli che sono indotti e imposti dal mezzo
stesso. In altri termini: il mezzo, con cui si trasmette il contenuto informativo, comunica, ma
condizionando l'informazione stessa e, quindi, imponendo implicitamente un suo proprio messaggio
criptato. Il mezzo pertanto determina le condizioni dell'informazione e non è neutrale.
Ma il mezzo può essere controllato all'atto della sua invenzione, all'atto in cui si possono studiare i
criteri strutturali con cui esso verrà a organizzare quella comunicazione. Il controllo è
nell'invenzione, dice McLuhan, non nella gestione del mezzo, che diventa invece indipendente
dall'intervento umano.
Ma è su questa impossibilità di controllo della gestione che nasce il dubbio 'politico'. Ci sono
dunque due aspetti da sottolineare: quello dell'osservazione oggettiva di un mezzo che non opera
neutralmente, ma che determina il contenuto e che, quindi, pur essendo mezzo, è anche messaggio
implicito; e quello del controllo sul mezzo, in cui si pongono, all'atto della sua invenzione, i criteri
strutturali con cui, nel mezzo stesso, si organizza la sua capacità di comunicazione. Qui si può e si
deve intervenire per rompere l'identità 'mezzo-messaggio', per tornare a separare e distinguere
messaggio e comunicazione, per restituire di nuovo il possesso del mezzo all'uomo, liberando
l'implicito (e poi prevalente) messaggio aggiunto. In questo senso l'operazione è di demistificazione
della base di persuasione, della base di retorica persuasiva, neo-sofistica, propria del medium. [25]
Nella cultura della cosiddetta postmodernità c'è una perdita totale di 'valore d'uso' nella produzione
di linguaggi estetici e c'è la sua radicale riduzione a quel 'valore di scambio' che s'ingenera con
l'identificazione e la riduzione del messaggio al suo mero valore comunicativo, con una
comunicazione paradossalmente senza messaggio.
Sul fronte della 'comunicazione', invece, il problema politico si può porre in questi termini: qual è il
livello di adeguatezza del linguaggio, quale la forma adeguata allo stato d'afasia e di trasformazione
in corso nella società e nella sua cultura? Come rompere il sistema delle 'regole' che ossificano? E
come conservare, insieme, la comprensibilità della comunicazione?
Raccogliendo in una sintesi i temi di un nuovo, possibile e diverso livello politico dell'arte,
possiamo elencare: la difesa di un linguaggio in cui si ricomponga la scissione e l'estrema
divaricazione di interessi tra semantiche linguistiche e sintassi; un impegno dell'arte, inteso come
responsabilità delle conseguenze che essa può avere sulla cultura; il carattere mediato dell'impegno
politico nell'arte; il rapporto tra le culture e il tema della traducibilità; la funzione del mito e
dell'utopia nella ricostruzione di una visione storica, non neutrale e strettamente fenomenologica
della cultura; la funzione primaria del messaggio nella comunicazione; il tema della 'creazione'
come atto innovativo, ma non sottoposto all'idea di una cultura e di un'arte intese come soggette al
'progresso': progresso verso quale cultura, verso quale arte? [26]
[1] Formulata con la nascita di 'Les Temps Moderns', nel 1945.
[2] Cfr. ad es. Scritti sull'arte. K. Marx e F. Engels, a cura di Carlo Salinari, Laterza, Bari 1967.
[3] Cfr. K. Marx, F. Engels, L'ideologia tedesca, Opere di Marx ed Engels, vol V, Editori Riuniti,
Roma 1972.
[4] Su questo argomento, si ricorda, di A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Samonà e Savelli, Roma
1965; inoltre, P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1991. Un esempio di uso di lingua
alta e bassa non corrispondente allo schema dell'Ideologia tedesca è l'opera teatrale di Mimmo
Cuticchio burattinaio, L'urlo del mostro. Viaggio nei poemi omerici, con S. Licata, dove lingua
bassa è il siciliano usato come pseudo-greco, metrico, per la cronaca e, in genere, per i rapporti
umani, mentre lingua alta è l'italiano come lingua della storia e della relazione con gli dei.
[5] W. Benjamin, Ombre corte. Scritti 1928-1929, a cura di Giorgio Agamben, Einaudi, Torino
1993, p. 582 sgg.
[6] Cfr. R. Luxemburg, Scritti sull'arte e sulla letteratura, Bertani ed., Verona 1976 e, in appendice,
le critiche di Marlen M. Korallov alla Luxemburg. Inoltre, G. Stalin, Il materialismo e la linguistica
(titolo originale e tre saggi diversi), Feltrinelli, Milano 1968.
[7] Zdanov, responsabile della politica culturale sovietica durante la direzione di Stalin, eliminato
poi con le 'purghe' politiche del '36-'38 e morto nel '48, spinse l'arte al culto della personalità, alla
glorificazione del capo, alla radicalizzazione del patriottismo contro l'internazionalismo leninista,
all'oggettivismo che volle caratterizzare la terza internazionale contro il soggettivismo della
seconda, social-democratica, e al realismo socialista, contro il formalismo di Sklovskij (autore, nel
'19, del saggio L'arte come artificio), di Jakobson (più tardi caposcuola dello 'strutturalismo' del
Circolo di Praga), di Tomaševskij, Ejchenbaum e altri, contro il suprematismo di Malevic. Cfr.
Marxismo e formalismo, 'La Spirale', Guida Ed., 1975.
[8] Cfr. di P.P. Pasolini, Ciò che è neo-zdanovismo e ciò che non lo è, in Empirismo eretico, cit., p.
160 sgg., contro la rivista 'Quaderni Piacentini'.
[9] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, 4 voll.: sub indice 'Arte e politica', p. 1316.
[10] Ivi, p. 1793.
[11] Ivi, sub indice 'Per una nuova letteratura [qui: arte] attraverso una nuova cultura, p. 2109.
Stessi argomenti ancora sub indice 'Arte e lotta per una nuova civiltà', p. 2187 e 'Arte e cultura', p.
2192.
[12] Cfr. A. Asor Rosa, Scrittori e popolo. Saggio sulla letteratura populista in Italia, Samonà e
Savelli, 1965, ried. con nuova prefazione del 1966, Roma 1969. La critica coinvolge scrittori come
Vittorini, Pavese, Carlo Levi, Pratolini, così come Calvino e la rivista 'Il Politecnico'. Contro le tesi
di Asor Rosa si esprime C. Salinari, che dice, senza tuttavia difendere né l'autonomia della forma
dal contenuto politico, né d'altronde il valore formale di quella nuova forma letteraria
intrinsecamente politica: “La Resistenza e il neorealismo, con tutti i difetti, restano ancora l'unica
proposta di cultura antagonista alla cultura borghese italiana. Quindi Asor Rosa ci riporta indietro”.
[13] Cfr. P. P. Pasolini, La fine dell'avanguardia [1966, p. 122 sgg.], in Empirismo eretico [1972],
Garzanti, Milano 1991. La critica s'incentra sul Gruppo 63, che, dopo il convegno di Palermo, vede
confluire Il Verri, Marcatrè e Quindici e si raccoglie attorno ad Anceschi, Eco, Barilli, Antonio
Porta, Sanguineti e Balestrini.
[14] Cfr. E. Sanguineti, J. Burgos, Per una critica dell'avanguardia poetica in Italia e in Francia,
Bollati Boringhieri, Torino 1995.
[15] Cfr. György Lukàcs, Il marxismo e la critica letteraria [Karl Marx und Friedrich Engels als
Literaturhistoriker], Einaudi 1964, in particolare: Narrare o descrivere.
[16] Cfr. Massime e riflessioni.
[17] Cfr. Walter Benjamin,L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica [1936] e
Charles Baudelaire. Un lirico nell'età del capitalismo maturo, in Ombre corte. Scritti 1928-1929, a
cura di G. Agamben, Einaudi 1993.
[18] Secondo Goethe, natura propria della poesia è il simbolismo.
[19] Cfr. Bettini, Carlino, Mastropasqua, Muzzioli, Patrizi, Avanguardia vs. postmodernità (saggio
a 5 mani), in Studi (e testi) italiani, 2, 1998, Bulzoni, Roma.
[20] In proposito, cfr, P.P. Pasolini, La fine dell'avanguardia, 1966, in Empirismo eretico, 1972,
Garzanti 1991, p. 122 sgg.
[21] Si può ricordare l'abuso di 'ainsi que' e di 'comme' nel Baudelaire di Les fleurs du mal.
[22] Vale ricordare che un problema di traducibilità esiste solo nel linguaggio verbale e i quello
sonoro (p. es. la versione dei Kindertotenlieder di G. Mahler fatta da Uri Caine, Producer Stefan
Winter, Winter & Winter, 910 004-2, New Edition; München.
[23] Occorre dire che esiste anche un'ermeneutica 'di sinistra', accanto a quella heideggeriana; cfr:
D. Jervolino, Le parole della prassi. Saggi di ermeneutica, La città del sole, Napoli 1996.
[24] W. Benjamin, [Schriften, Suhrkamp 1955] Angelus Novus, Saggi e frammenti a cura di Solmi,
Einaudi, Torino 1999, p. 53.
[25] In questo senso, pertinente è il richiamo anche all'opera di Perelmen e di Olbrecht-Tyteka.
[26] Ch. Baudelaire, Scritti sull'arte, Einaudi, Torino 1981.