I Nero su bianco 24 gennaio, notte Anita aveva

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I Nero su bianco 24 gennaio, notte Anita aveva
I
Nero su bianco
24 gennaio, notte
Anita aveva freddo. Di fuocherelli come il suo ce ne
volevano mille, e i vestiti che le aveva dato il suo capo
facevano entrare tutto il gelo del mondo.
Non poteva ancora permettersi una pelliccia finta. Il
capo la dava solo alle più brave. Alle più vecchie. A
quelle che guadagnavano di più, due, trecento euro per
notte. Come Gaia, quella giraffa del Ghana, a cui i clienti davano anche un pezzo da cinquanta per una sveltina
in macchina. O Sara, quella del Camerun.
La città. Una immensa macchia nera nella notte.
Pozzanghere e miseria. Vestiti occidentali, trucco pesante e coltellate di freddo nella schiena. Il gelo del
mondo era tutto là, davanti a quella fabbrica di mostri
meccanici giganteschi, sconosciuti.
Lei era appena arrivata a Torino. Doveva ancora
farne di strada. Doveva ancora prenderne di freddo, fare
marchette per pochi spiccioli e prendere botte dal suo
capo. Non doveva piangere, però. Questo le avevano detto le più anziane. Le lacrime non consolano, e non ti faranno ritornare nella tua Nigeria.
Anita non poteva fare a meno di pensare al suo
paese. Stava lì impalata, ore e ore, sotto il suo lampione davanti all’uscita della fabbrica, e rispondeva come
un automa alle domande dei clienti.
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Boccaculofiga, le prime parole di italiano che aveva
imparato.
E con il pensiero ritornava al suo paese, sperduto nel
cuore dell’Africa. Capanne e fango. Tante mosche e
poco cibo. Ma il sole ce l’aveva ancora sulla pelle che
stava diventando dura come una crosta. Coriacea come
il cuoio.
Quando la macchina si fermò, Anita stava pensando
a casa sua.
Una macchina di grossa cilindrata, sportiva, potente,
con i vetri fumé.
L’uomo alla guida ben vestito. Aveva la faccia pulita, da persona raccomandabile. Sembrava anche timido,
come se avesse paura di lei.
– Quanto?
– Dieci.
– Sali.
Finalmente il caldo. L’uomo le offrì una sigaretta,
ma Anita non aveva mai fumato in vita sua. Nell’abitacolo della macchina si diffuse un insolito odore di legno
di sandalo, che sembrava sprigionato da quello strano
uomo con la faccia da bambino e con la voce tenera.
– Mi eccitano le donne che fumano prima dell’amore. Ti do ancora dieci euro.
Anita odiava le sigarette, ma per quella cifra avrebbe fatto di peggio.
Mentre la macchina si fermava in una stradina appartata, vicino al cimitero, l’uomo continuava a fissarla
e a buttare fuori velocemente il fumo dalla bocca.
Anita lanciò il suo sguardo fuori dal vetro del finestrino, tagliando la città che aveva smesso di respirare.
La neve cadeva con grossi fiocchi leggeri, sfarfallando nell’aria.
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– Spogliati, ora, – disse l’uomo mentre si accendeva
la sua Marlboro Light.
Anita fece con calma. Voleva approfittare il più a
lungo possibile del tepore della macchina. – Altri dieci
se ti metti tutta nuda.
Stasera è una buona serata, pensò Anita, mentre l’uomo le metteva nella tasca del cappotto un’altra banconota. Da vicino sembrava ancora più giovane di prima.
– E tu? – chiese Anita con gentilezza, fissando il pesante piumino scuro del giovane. – Non sono granché,
nudo, – rispose lui sorridendo.
– Cosa vuoi fare, allora?
L’uomo girò la faccia dall’altra parte, come per cercare un’idea.
Anita pensò che era davvero un tipo strano, e cominciò a ridere.
– Allora, cosa vuoi fare?
L’uomo aspirò avidamente una boccata di fumo e si
voltò di scatto.
– Questo, – rispose secco.
Anita rimase stupita, poi quasi svenne dal dolore.
La sua pelle stava bruciando. Il mozzicone si spense
contro il capezzolo sinistro e sprigionò un odore di
carne alla brace. L’uomo guardava compiaciuto.
Anita urlò, ma nessuno poté sentirla. Ebbe la forza
di aprire la portiera e di buttarsi fuori dalla macchina.
I piedi affondarono nella spessa coltre di neve, ma
non sentì il freddo contatto di quella cosa bianca e viscida.
Fece due metri e scivolò. L’uomo l’aveva già raggiunta. Non vide i suoi occhi accesi dalla rabbia di vivere, ma fissò la lunga lama che teneva nella mano sinistra. Pensò, distesa in mezzo alla fredda coperta di
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neve, che non avrebbe rivisto mai più le capanne e il
fango del suo paese, nel cuore della lontana Africa.
Tracce nella neve.
Questo è l’unico problema.
Devo cancellarle subito? O aspettare di vedere se
nevicherà ancora, fino a coprire tutto? Fino a coprire
tutto, anche il sangue nero di quella troia, quella pelle
d’ebano così lucida e spessa, quel sorriso da prendere
per il culo il mondo intero.
Ma il mondo intero non sono io.
Nessuno può prendermi per il culo senza pagarla.
Nessuno mi prenderà mai per il culo senza pagarla.
L’ispettore Bianco non ci poteva credere. La terza nel
giro di un mese e alla centrale nessuno parlava di omicidi seriali. Un serial killer a Torino nessuno lo voleva.
Tanto meno la polizia. Quando arrivò, alle due di una
notte bianca come uno spettro, sul posto c’erano già
quelli della Scientifica. Sempre i primi a mettere le mani
sui cadaveri. Sembrava si divertissero, loro.
– Ben svegliato, ispettore, – disse quello più alto e
brizzolato, con la faccia di chi vuole sfottere.
Bianco lo fissò con uno sguardo assassino. Quello fu
il suo saluto a Colapresti. Non gli era simpatico, Colapresti, e non faceva nulla per nasconderglielo.
– Di buon umore come al solito.
– Quando ti vedo, il buon umore mi passa.
Colapresti smorzò la risata in un ghigno ironico e si
chinò sulla ragazza mezza nuda stesa a terra, puntandole
il fascio di luce sugli occhi sbarrati. Tirò fuori dalla valigetta in dotazione all’ESC, l’ufficio specializzato nell’Esame della Scena del Crimine, un po’ di cianfrusaglie, fra
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cui la lampada a infrarossi. L’accese e proiettò la luce
opalescente sul corpo della vittima, alla ricerca di qualche piccola macchia di sperma o di saliva.
La ragazza era rannicchiata in posizione fetale, quasi
come per proteggersi da una fine ineluttabile. Il corpo
nero faceva uno strano contrasto con il candore della
neve. Era senza scarpe.
– Che ferite ha riportato? – chiese l’ispettore, evitando lo sguardo di Colapresti.
– Ce n’è una mortale sul collo. La baldracca è stata
sgozzata come...
– La baldracca è una donna come tutte le altre, e in
più una donna morta. Cerca di rispettare almeno i morti,
stronzo.
– Ah, già, dimenticavo che sei amico dei negri... comunque la povera donna ha anche una bruciatura sul
capezzolo sinistro. Il pervertito le ha spento la sigaretta
addosso.
– Avete trovato il mozzicone?
– No.
– Tracce ematiche o roba del genere?
– No.
– Qualche altro indizio?
– No.
Bianco fece roteare le orbite degli occhi, quasi a
esprimere il fastidio di parlare. Se avessero fatto il festival degli stronzi, Colapresti avrebbe meritato il
podio, e non solo a Torino.
La sua meschinità era universale. Aveva una moglie
– una specie di sanguisuga mesciata – che lo risucchiava. E lui riversava la sua bile acida sul resto dell’umanità.
– Altro?
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– Nella borsa della donna abbiamo trovato una busta
con un bigliettino da visita.
– Un biglietto da visita?
– Sopra c’è scritto col normografo BRIDGE OVER
TROUBLE WATER.
Colapresti, che non sapeva nemmeno l’italiano,
ignorava il significato, ma non chiedeva spiegazioni a
nessuno.
– Posso vederlo?
– Nisba. Deciderà il capo. Domani.
E gli lanciò un’occhiata che conteneva la cattiveria
di una fucilata.
Due gazzelle della Squadra Mobile con le sirene ululanti si avvicinavano in fretta.
L’ispettore Bianco frugò con lo sguardo la terra, ma
non vide nulla, se non qualche orma degli stivali con il
tacco alto che la nigeriana portava. Niente di più. L’assassino doveva aver sfilato le scarpe della donna dopo
averla ammazzata e quindi aveva cancellato tutte le
tracce in qualche modo.
Bianco salì in macchina senza aspettare l’arrivo
delle due gazzelle.
La neve si stava facendo pioggia. Cominciava a
sporcarsi e questo lo detestava.
Aveva sempre odiato il fatto che la candida neve si
sporcasse, nel fango e nelle pozzanghere. Questa la
legge che governa il mondo. Inesorabile.
L’ispettore Bianco guardò il cielo, dove una luna alla
Méliès sembrava avere occhi solo per lui.
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