Parole di limpida saggezza sull`aspetto più lacerante della crisi del
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Parole di limpida saggezza sull`aspetto più lacerante della crisi del
STRANIERO LA NUOVA PAURA DEL’OCCIDENTE Parole di limpida saggezza sull'aspetto più lacerante della crisi del nostro sistema globale. Il servizio de la Repubblica del 13 novembre 2007: articoli di Gustavo Zagrebelsky e di Tahar Ben Jelloun e un’intervista a Emmanuel Todd Gustavo Zagrebelsky Lo straniero che bussa alle porte dell’Occidente Quelli che, come me che scrivo e voi che leggete, stanno dalla parte di gran lunga privilegiata del mondo hanno forse perso il significato drammatico della parola straniero. Se i rapporti sociali fossero perfettamente equilibrati, la parola straniero, con i suoi quasi sinonimi odierni (migrante, immigrato, extracomunitario) e le loro declinazioni nazionali (magrebino, islamico, senegalese, rom, cinese, cingalese, eccetera), sarebbe oggi una parola neutrale, priva di significato discriminatorio. Non sarebbe più una parola della politica conflittuale. E invece lo è, e in misura eminente. Se consultiamo costituzioni e convenzioni internazionali, traiamo l’idea che esiste ormai un ordinamento sopranazionale, che aspira a diventare cosmopolita, dove almeno un nucleo di diritti e doveri fondamentali è riconosciuto a ogni essere umano, per il fatto solo di essere tale, indipendentemente dalla terra e dalla società in cui vive. Questo è un progresso della civiltà. Nelle società antiche, lo straniero era il nemico per definizione (hospes-hostis), poteva essere depredato e privato della vita. Il presupposto era l’idea dell’umanità divisa in comunità separate, naturalmente ostili l’una verso l’altra. Lo straniero, in quanto longa manus di potenze nemiche, era da trattare come nemico. Da allora, molto è cambiato, innanzitutto per le esigenze dei traffici commerciali. Il nómos panellenico e lo jus gentium, lontanissimi progenitori del diritto internazionale, nascono da queste esigenze. L’universalismo cristiano, in seguito, ha dato il suo contributo. Nella medievale res publica christiana e nello jus commune l’idea di straniero perde di nettezza, sostituita se mai, nella sua funzione discriminatoria, da quella di infedele o di eretico. E l’universalismo umanistico e razionalistico ha dato l’ultima spinta. Il concetto di straniero, nella sua portata discriminatoria, non è però mai morto, anzi ha sempre covato sotto la cenere, a portata di mano per affermare "legalmente" l’esistenza di una nostra casa, di un nostro éthnos, di un nostro ordine, di un nostro benessere. I regimi totalitari del secolo passato vi hanno fatto brutale ricorso. Ad esempio, per restare da noi, la "Carta di Verona", manifesto del fascismo di Salò, all’art.7 dichiarava laconicamente: «Gli documento9/13 novembre 2007 appartenenti alla razza ebraica sono stranieri», come prodromo della confisca dei beni e dello sterminio delle vite. Una sola parola, terribili conseguenze. Si può ben dire che, dopo quelle tragedie xenofobe, la "Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo" del 1948 rappresenti, nell’essenziale, la condanna di quel modo di concepire l’umanità per comparti sociali e territoriali, ostili tra loro. «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti»: l’appartenenza a uno Stato o a una società, piuttosto che a un’altra, passa in secondo piano e non può più essere motivo di discriminazione. Ciò che conta è l’uguale appartenenza al genere umano e la fratellanza in diritti e dignità non conosce confini geografici, etnici e politici. Da allora, l’idea di una comunità mondiale dei diritti ha fatto strada. Le convenzioni e le dichiarazioni internazionali si sono moltiplicate e hanno riguardato ogni genere di diritti. Se si tratta di essenziali diritti umani, la protezione non dipenderà dalla nazionalità, riguardando tutte le persone che, per qualsiasi ragione, si trovano a essere o transitare sul territorio di un Paese che aderisce a questa concezione dei diritti umani e non è condizionata dalla reciprocità. Tutto bene, dunque? La parola straniero non contiene oggi alcun significato discriminatorio o, almeno, è destinata a non averne più. Possiamo stare tranquilli? Proviamo a guardare la questione dal punto di vista degli stranieri che stanno dalla parte debole e oggi si riversano nei nostri paesi. Essi sono alla ricerca di quelle condizioni di vita che, nei loro, sono diventate impossibili, spesso a causa delle politiche militari, economiche, energetiche e ambientali dei paesi più forti. Si riconoscerebbero costoro in quella "famiglia umana" di cui parlano le convenzioni internazionali sui diritti umani? Concorderebbero nel giudizio che la parola straniero non comporta discriminazione? La trappola sta nella distinzione tra straniero "regolare" e "irregolare". Ciò che è irregolare, per definizione, dovrebbe trovare nella regola giuridica il suo antidoto: quando è possibile, per impedire; quando è impossibile, per regolarizzare. Invece, nel caso degli stranieri migranti, la legge promuove, anzi amplifica l’irregolarità, invece di tentare di ricondurla nella regola. Così facendo, è legge criminogena. Fissiamo innanzitutto un punto: il flusso migratorio non si arresterà con misure come quote annue d’ingresso, permessi e carte di soggiorno, espulsione degli irregolari. Questi sono strumenti spuntati, che corrispondono all’illusione che lo Stato sia in grado di fronteggiare un fenomeno di massa con misure amministrative e di polizia. Esse potevano valere in altri tempi, quando la presenza di stranieri sul territorio nazionale era un fenomeno di élite. Oggi è un fatto collettivo che fa epoca, mosso dalla disperazione di milioni di persone che vengono nelle nostre terre, tagliando i ponti con la loro perché non avrebbero dove ritornare. Li chiamiamo stranieri "irregolari", ma sono la regola. 2/7 Siamo in presenza di una grande ipocrisia, che si alimenta della massa degli irregolari, un’ipocrisia che va incontro a radicati interessi criminali. Non ci sarebbe il racket sulla vita di tante persone che muoiono nei cassoni di autotreni, nelle stive di navi, sui gommoni alla deriva e in fondo al mare; non ci sarebbe un mercato nero del lavoro né lo sfruttamento, talora al limite della schiavitù, di lavoratori irregolari, che non possono far valere i loro diritti; non ci sarebbe la facile possibilità di costringere persone, venute da noi con la prospettiva di una vita onesta, a trasformarsi in criminali, prostituti e prostitute, né di sfruttare i minori, per attività lecite e illecite; non ci sarebbe tutto questo, o tutto questo sarebbe meno facile, se non esistesse la figura dello straniero irregolare, inerme esposto alla minaccia, e quindi al ricatto, di un "rimpatrio" coatto, in una patria che non ha più. La prepotenza dei privati si accompagna per lui all’assenza dello Stato. Per la stessa ragione, per non essere "scoperto" nella sua posizione, l’irregolare che subisce minacce, violenze, taglieggiamenti non si rivolgerà al giudice; se vittima di un incidente cercherà di dileguarsi, piuttosto che essere accompagnato in ospedale; se ammalato, preferirà i rischi della malattia al ricovero, nel timore di una segnalazione all’Autorità; se ha figli, preferirà nasconderne l’esistenza e non inviarli a scuola; se resta incinta, preferirà abortire (presumibilmente in modo clandestino). In breve, lo straniero irregolare dei nostri giorni soggiace totalmente al potere di chi è più forte di lui. I diritti valgono a difendere dalle prepotenze dei più forti, ma non ha la possibilità di farli valere: il diritto alla vita, alla sicurezza, alla salute, all’integrazione sociale, al lavoro, all’istruzione, alla maternità… Davvero, allora, la parola straniero, nel mondo di oggi, è priva di significato discriminatorio? Possiamo da qui tentare una sintetica conclusione, molto parziale, sul tema della sicurezza e della legalità, oggi così acutamente avvertito. Quella sacca di violenza che è il mondo degli irregolari è una minaccia non solo per loro, ma per tutta la società. La condizione dello straniero irregolare, su cui incombe la spada di Damocle dell’espulsione, sembra essere studiata apposta per generare insicurezza, violenza e criminalità che contagiano tutta la società. Quando si metterà mano alla legge n. 189 del 2002 (la cosiddetta Bossi-Fini) sarà utile rammentarsi di queste connessioni. Tahar Ben Jelloun Noi, ospiti di un’Europa che ci vede con sospetto Viviamo in un’epoca in cui lo straniero è diventato un’ossessione: «Abbiate timore di lasciar morire lo straniero in povertà: lo straniero che supplica è inviato dagli dei» ci avverte il poeta André Chénier vissuto all’epoca della rivoluzione francese (1762-1794). Un po’ più di un secolo dopo, l’uomo politico Maurice Barrès (1861-1923) dichiara che «lo straniero, come un parassita, ci avvelena». Percepito come un pericolo per la coesione della comunità che lo accoglie, lo straniero è sempre stato sospettato di portare con sé gli ingredienti 3/7 per far saltare in aria l’identità del paese in cui sbarca. Sarà sempre malvisto e mal considerato in ogni epoca e paese. Scrive Primo Levi in Se questo è un uomo che la convinzione che lo straniero è nemico «giace in fondo agli animi come un’infezione latente». Siamo prevenuti. Lo straniero è una figura che preoccupa, più che rassicurare. E questo da sempre. Verrebbe da pensare che con l’evoluzione delle società, con il progresso della comunicazione, lo straniero debba essere accettato più facilmente. Macché. La paura, la vecchia paura dei tempi della guerra del fuoco è ancora qui, ad accompagnarci e a osservarci. Potrebbe sparire se considerassimo che non esiste uno straniero assoluto, poiché siamo sempre stranieri rispetto agli altri come loro sono stranieri rispetto a noi. Non esiste una terra in cui nascano soltanto stranieri. È impossibile. Lo straniero è un cittadino che si muove. Tutto dipende dalle motivazioni. Potrebbe venire da me per prendere la mia casa come potrebbe intervenire per salvarmi se vengo attaccato o c’è un incendio. Ma l’idea più diffusa è quella dell’invasore, quello che vorrebbe approfittare dei miei beni o magari anche portarmeli via. Come direbbe l’umorista francese Coluche, oggi «ce n’è che sono più stranieri di altri». Pare infatti che ci siano vari gradi nella scala della "stranierità", una tavolozza di colori. Più lo straniero mi somiglia, meno è sospetto. Prova ne sia che per molti decenni italiani, spagnoli e portoghesi sono emigrati in Francia. Appartenere alla stessa sfera della civiltà giudaico-cristiana li ha aiutati a integrarsi e a passare quasi inosservati. Con gli Africani e gli Arabi è un’altra faccenda. Con i musulmani, un’altra storia. L’integrazione non funziona più. Il razzismo è quasi istituzionale. L’immigrato è improvvisamente malvisto. Non si cercherà di far valere le sue qualità, i suoi contributi, il suo lato positivo: si vedrà soltanto quello che disturba, quello che dà fastidio e che allontana gli uni dagli altri. La sua religione è stigmatizzata. Le sue tradizioni sono presentate come strane e barbare. Si fanno pochi sforzi per eliminare le distanze, le riserve e il sospetto. Si troverà sempre un individuo – venuto da fuori – per commettere un crimine spaventoso, un atto brutale che susciterà una generalizzazione; si passerà da un atto isolato a un’azione collettiva e si dirà «i gitani sono tutti ladri e assassini»! Proprio come, dopo la Seconda Guerra mondiale, dopo quanto era accaduto a Montecassino, è stato detto che i Marocchini sono stupratori di donne. La gente si costruisce, per rassicurarsi, immagini che mettono gli "altri" in categorie caricaturali. È quello che sta succedendo adesso in Europa. Uno squilibrato musulmano fanatico ha assassinato un cineasta olandese ad Amsterdam e il ministro dell’interno dei Paesi Bassi ha cambiato la politica dell’immigrazione mettendo in atto una serie di dure restrizioni. Il male è stato fatto e tutta la Comunità immigrata deve pagare. Un proverbio arabo dice «un solo pesce guasto fa marcire tutta la cassa». Il concetto di ospitalità è cambiato. La parola greca xenos rimanda a un patto preliminare, la xenia, che impegnava la città nei confronti degli stranieri. L’Europa non rifiuta questo patto ma vi aggiunge condizioni. Così la nuova 4/7 politica di Nicolas Sarkozy in materia d’immigrazione si è indurita: per immigrare in Francia bisogna conoscere la lingua francese; per riunire la propria famigli, occorre dimostrare con prove del Dna che i bambini sono effettivamente figli propri, eccetera. L’ospitalità ha le sue leggi e lo straniero che viene accolto ha dei doveri. Va da sé. Ma che fare quando lo straniero non è più una persona venuta da fuori ma chi è nato e vive in Europa? Chiedete attorno a voi: quel giovane che parla italiano, dall’aspetto meticcio, nato a Torino da genitori marocchini, è un cittadino italiano o è uno straniero, un immigrato? È esattamente il dramma che sta affrontando la Francia con i figli di immigrati, che non sono a loro volta immigrati perché non hanno fatto il viaggio. Sono nati in Francia, sono francesi ma portano nomi arabi e hanno la pelle un po’ più scura dei Normanni. Quando questi francesi di seconda categoria si sono rivoltati, nell’ottobre 2005, sono stati trattati come stranieri. Alcuni uomini politici hanno anche chiesto che fossero "rispediti al loro paese"! I loro genitori sono stranieri, ma loro sono cittadini europei. Questo non impedisce che siano visti come stranieri, invasori, "barbari". Nell’antica Grecia era considerato barbaro chi non parlava la lingua della città. In Francia si nega a milioni di giovani l’appartenenza al panorama umano francese e la loro lingua non è considerata del tutto francese. L’epoca in cui viviamo, con le sue guerre e i suoi conflitti, favorisce grandi spostamenti umani. Sempre più persone fuggono le guerre e cercano di trovare una terra d’asilo. La storia dell’umanità è fatta di queste ibridazioni. La mescolanza degli individui è inevitabile. Fino a poco tempo fa, la Francia era il paese d’Europa che accoglieva il maggior numero di esiliati. Ma i tempi cambiano. Sappiate che siamo sempre lo straniero dell’altro. Tutto dipende da dove ci si trova, quello che si fa e perché ci si è spostati. Un turista che viene a spendere il suo denaro è certo percepito come straniero, ma come una presenza positiva perché il suo soggiorno è limitato. Lo straniero che fa paura è quello che viene a insediarsi, per rifarsi una vita; spesso è povero e disperato. La povertà non è fotogenica. Ma quell’uomo disperato potreste essere voi o potrei essere io. Non dimentichiamo mai che il destino non è un fiume tranquillo né una serata estiva con gli amici. Il destino è misterioso. Non si sa mai che cosa ci riserva. La paura dell’altro, la fissazione che lo straniero sia una minaccia per la mia sicurezza, sono sensazioni irrazionali che appartengono all’istinto animale. Siamo uomini: facciamo qualcosa per espellere di nostri cuori questi istinti primordiali e nocivi! Perché un giorno o l’altro, saremo noi a trovarci sull’altro versante di questa paura e di questa esclusione, perché saremo diventati stranieri. (Traduzione di Elda Volterrani) 5/7 Intervista a Emmanuel Todd Quando il pregiudizio travolge la ragione La crisi sociale fa nascere il capro espiatorio «In una società in crisi, che non riesce a risolvere i propri problemi economici e d’identità, lo straniero diventa un nemico e un capro espiatorio ideale». Emmanuel Todd ha iniziato a occuparsi d’immigrazioni parecchi anni fa con Le destin des immigrés. Di recente, in collaborazione con Youssef Courbage, ha pubblicato Le rendez-vous des civilisations (che in Italia verrà tradotto da Tropea), dove, in polemica con la tesi di Huntington sullo scontro delle civiltà, smonta i pregiudizi di chi sostiene l’impossibile modernità del mondo musulmano. «Quando si parla d’immigrazione si tende sempre a idealizzare il passato, ma ci si sbaglia», spiega lo storico e antropologo francese, di cui in Italia stati pubblicati Dopo l’impero e Il crollo finale. «Tutta la storia dell’immigrazione è costellata di difficoltà e incomprensioni. Al loro arrivo, gli stranieri vengono sempre guardati con sospetto e diffidenza. È accaduto perfino negli Stati Uniti, dove ad esempio i primi immigrati irlandesi dovettero scontare il pregiudizio anticattolico». Oggi però l’Europa percepisce gli stranieri più come una minaccia che come una risorsa. «La vera differenza rispetto al passato è che oggi l’immigrazione sta diventando un’ossessione anche in paesi dove le difficoltà concrete sono in fondo limitate. Naturalmente, non nego che i problemi esistano. L’Italia ad esempio in questi anni scopre l’immigrazione di massa, con tutte le contraddizioni e le tensioni che ne conseguono. In Francia però la situazione è molto diversa, dato che da noi gli immigrati sono arrivati molti anni fa. Nonostante ciò, si continua ad agitare lo spettro dell’immigrazione come invasione. Ciò dimostra che quello dell’immigrazione è un fantasma esagerato». Come si spiega questa paura degli stranieri? «La diffidenza rivela soprattutto l’incertezza della società europea. L’Europa è in crisi, prigioniera dei dubbi, incerta sulle proprie potenzialità economiche, preoccupata per il futuro. Negli ultimi trent’anni ha rimesso in discussione tutte le certezze, comprese le credenze religiose. Più o meno consapevolmente, cerca un capro espiatorio che molto spesso trova negli stranieri». Li respinge perché la loro presenza rimette in discussione i nostri valori e i nostri costumi? «Non credo. L’arrivo degli stranieri dovrebbe avere l’effetto contrario, rassicurandoci sul valore del nostro mondo. Invece di rimetterci in discussione, ci valorizzano». Come rendere l’integrazione meno problematica? «Più che d’integrazione, preferisco parlare di assimilazione. Di fronte all’immigrazione di massa ci sono infatti due sole possibilità. L’assimilazione, che, attraverso l’adozione dei costumi e dei valori del paese d’accoglienza, 6/7 permette ai figli e ai nipoti degli immigrati di fondersi nella popolazione locale. Oppure la segregazione, con la nascita di comunità separate che conservano costumi e valori tradizionali. Nessun paese però vive serenamente la presenza al suo interno di un gruppo separato. Per questo preferisco l’assimilazione. È il modello difeso dallo stato francese, che nonostante tutto funziona meglio di quello anglosassone basato sul multiculturalismo e la creazione di comunità separate. Lo dimostra tra l’altro il numero di matrimoni misti, che in Francia è oggi in crescita». Tolleranza e ospitalità hanno ancora un senso? «Certo, purtroppo però funzionano bene solo quando si tratta di pochi individui. Allora lo straniero è un ospite che non disturba nessuno, anche se ha costumi molto diversi dai nostri. Di fronte all’immigrazione di massa, tutto ciò è molto più complicato. Per questo occorre avere il coraggio di dire che la vera generosità consiste nel domandare allo straniero di accettare i nostri costumi». Alcuni però rimproverano a questa prospettiva un eccesso di eurocentrismo. Come risponde? «Non si tratta di giudicare i sistemi di valori e i costumi negli altri. Ogni popolazione ha i suoi e quelli europei non sono certo superiori. Tuttavia, la tolleranza che isola gli stranieri nelle loro tradizioni nasconde spesso un vero e proprio rifiuto degli altri, e in particolare dei figli degli altri. Gli immigrati in fondo resteranno stranieri, anche se possono integrarsi felicemente. I loro figli invece non lo saranno più, saranno francesi o italiani. Motivo per cui hanno bisogno di aderire ai nostri valori e ai nostri costumi. Insomma, nei confronti degli stranieri occorre un discorso generoso ma chiaro, un misto di pragmatismo e comprensione. Dobbiamo comprendere i loro costumi, ma aiutandoli a fare sì che i loro figli siano come i nostri». I pregiudizi e luoghi comuni nei confronti degli stranieri rendono difficile questa prospettiva... «L’ignoranza degli altri che nutre i pregiudizi è purtroppo una costante della storia dell’immigrazione. Oggi oltretutto si diffonde anche tra le élite, che invece avrebbero la possibilità di accedere alle informazioni necessarie. Proprio per combattere i pregiudizi, ho scritto insieme a Youssef Courbage Le rendezvous des civilisations. Volevo mostrare che l’islam non è assolutamente incompatibile con la modernità, come invece molti sostengono. Anche al suo interno, la progressiva alfabetizzazione e la rapida riduzione del tasso di natalità mostrano una profonda evoluzione delle mentalità e dei costumi. L’individualismo e l’arretramento della religione, che molti considerano due condizioni proprie della modernità occidentale, sono tendenze che si sviluppano rapidamente, spingendo il mondo musulmano verso strutture sociali moderne. Il fondamentalismo religioso esiste, ma non è certo rappresentativo di tutto l’islam. Avere coscienza di questa realtà permette di guardare con occhi diversi i musulmani che giungono in Europa». 7/7