I testi dei pannelli

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I testi dei pannelli
CANOVA
LA BELLEZZA E LA MEMORIA
PANNELLO INTRODUTTIVO
Il patrimonio di Antonio Canova pervenne al Museo Biblioteca Archivio di Bassano del Grappa
tra il 1849 ed il 1859, per volontà di Giovan Battista Sartori Canova, fratellastro dell’artista e suo
erede universale. Le opere ora bassanesi del grande scultore rappresentano il momento della
progettualità e dell’ideazione, i disegni, i monocromi, i bozzetti ed i modelli, nonché gli scritti e
la corrispondenza, che ne costituiscono il documento scritto e ne attestano i modi e i tempi
dell’ideazione e dell’esecuzione.
I dieci albums e gli otto taccuini di disegni di Antonio Canova conservati a Bassano, contenenti
più di 1876 disegni, costituiscono un patrimonio ineguagliabile per sondare le idee dell’artista
«nel momento in cui si formano». Canova «solea gittare in carta il suo pensiero con pochi e
semplicissimi tratti, che più volte ritoccava e modificava»: nelle parole di Cicognara si misura
l’urgenza della trasposizione del pensiero e dell’immagine sulla carta e la funzione personale e
segreta di questi segni, indice di una modernità esistenziale e di prassi esecutiva che
continuamente crea sorpresa e meraviglia in chi vi si accosta.
Esporre, dunque, una scelta di trentasei disegni dell’artista, opportunamente selezionati,
consente di ripercorrere le idee progettuali che hanno presieduto all’ideazione canoviana. A
questi sono accostati splendidi modelli in gesso, incisioni commissionate dall’artista, grandi e
suggestivi monocromi a tempera.
La scelta per l’esposizione fiorentina privilegia due filoni di ideazione.
Il primo è quello relativo alla Venere Italica, progettata e realizzata tra il 1804 ed il 1812, che
presuppone lo studio della scultura ellenistica della Tribuna degli Uffizi, e in generale il
ripensamento della figura femminile nella mitologia. Intorno al tema della bellezza e della grazia
e delle personificazioni di Venere e delle sue figlie, tema cardine dell’estetica neoclassica,
secondo la lettura kantiana, esaltato dai versi di Foscolo, Canova progetta una serie di studi sulla
figura femminile stante e in movimento. Da questa elaborazione, filosofica prima che formale,
derivano anche i progetti per i ritratti femminili, che si sublimano nelle teste ideali.
Il secondo filone di ideazione è relativo al monumento funerario, preparatorio alla
progettazione e realizzazione della Tomba di Vittorio Alfieri nella Basilica di Santa Croce nel
1806-1810, che costituisce il culmine dell’ ideazione del tema della memoria attraverso le diverse
soluzioni compositive. La stele e la piramide di derivazione classica e poi il sarcofago sono
parte di un lungo processo formale nel quale centrale è la figura femminile piangente, fulcro
della poetica degli affetti. La donna seduta accanto alla stele diventa l’Italia che piange sul
sarcofago del vate Alfieri, trasformando la pietas del singolo in sentimento collettivo della
Nazione in un afflato romantico che anticipa una nuova stagione dell’arte e della cultura.
PANNELLO 1
Canova e la bellezza femminile
Gli stupefacenti fogli dell’Album qui esposti sono parte di una raccolta di 27 fogli su carta
avorio di vario formato che comprende accademie ombreggiate di nudi femminili atteggiati in
modi diversi, disegnati con grande accuratezza, sapiente chiaroscuro e una morbidezza
luministica che ricordano lo sfumato di Correggio, ammirato da Canova nel viaggio a Parma del
’92, la grande e per l’artista veneto indimenticata tradizione tonale e la grafica dell’artista
francese Pierre-Paul Prud’hon, conosciuto a Roma tra il 1784 e il 1788. In realtà un riferimento
più diretto per questi fogli, eseguiti con straordinaria tecnica con una matita nera che si dilata
sulle accidentalità dei pori della carta, risultano essere le celebri accademie disegnate a Roma da
Pompeo Batoni e presentate ai suoi allievi durante le sedute della sua scuola di nudo, che
Canova frequentava durante i suoi primi mesi a Roma, come attesta un’ eloquente notazione
inserita nei Quaderni di viaggio: «Mi piacque molto il suo disegnare, tenero, grandioso, di belle
forme».
Uno degli aspetti di maggiore interesse e novità, sia nelle figure stanti sia in quelle sedute, è
l’attenzione che Canova dedica all’incidenza della luce sui corpi in rotazione, fase progettuale
per la complessa elaborazione delle sue scultore e per la loro collocazione ideale nello spazio.
In questa fase del progetto Canova elabora la sua concezione del nudo femminile, ancorato sì
all’ideale classico, ma anche fortemente carico di quella carnale sensualità offerta dalla ricercata
raffinatezza del segno, del chiaroscuro e del suggestivo sfumato della grafite, contraltari grafici
della ineffabile “ultima mano” dei marmi canoviani.
PANNELLO 2
La Venere italica (1803/1804-1812)
Pur anticipata da una serie di proposte non portate a compimento, la definitiva commissione
dell’esecuzione in marmo della Venere moderna giunse da parte della regina reggente d’Etruria
Maria Luisa di Borbone durante un passaggio di Canova a Firenze nel novembre del 1805. Gli
studi sulla scultura ellenistica della Venere Medici potrebbero tuttavia essere stati compiuti da
Canova nel 1803, quando egli accettò la proposta di Lodovico I re d’Etruria di scolpire una
copia della Venere Medici trasferita dai francesi a Parigi nel settembre del 1802 e che la
commissione canoviana avrebbe inizialmente dovuto sostituire. Canova raffigura, insolitamente
a sanguigna, nel foglio dell’Album B (31.58-32.59), il marmo antico senza le braccia dovute al
criticato restauro tardo secentesco che nel corso del Settecento aveva suscitato un folto
dibattito, per l’evidente incongruità degli arti rispetto alla scultura, forse utilizzando una copia
antica romana. Non è da escludere tuttavia che il foglio risalga invece al primo soggiorno
romano di Canova del 1779-80 e rientri nel progetto di studio del giovane artista sull’antico.
Precede di poco la scultura in marmo e l’incisione di Marchetti lo stupefacente studio a penna,
il cui le forme della Venere assumono evidenza nel tratto reiterato e veloce che ritorna più volte
sui contorni dei volumi. La Venere italica è terminata nel 1811 e collocata nel 1812 al posto della
Venere antica nella Tribuna degli Uffizi. Capolavoro nel genere “grazioso” dopo i grandi
traguardi raggiunti dall’artista a cavallo tra anni ’80 e ’90 del Settecento, divenne una delle opere
più celebrate di Canova, tra le più decisive nel formarne e nel consolidarne la fortuna in piena
temperie romantica, grazie agli entusiastici pareri di Foscolo e Quatremère de Quincy. L’umana
naturalezza della donna colta nel tentativo di coprire le proprie nudità mentre esce dal bagno
attraversò in Italia i nuovi sentieri figurativi della Restaurazione, allineandosi alle ricerche di
Ingres, e creò un nuovo canone estetico, vinta la sfida con la Venere antica. Negli stessi anni
l’artefice era salutato come gloria nazionale per aver restituito all’Italia, in un momento così
difficile e cruciale, il primato artistico con opere destinate a pubblici musei, con una chiara
valenza risarcitoria nei confronti delle razzie francesi, come i Pugilatori e il Perseo trionfante dei
Musei Vaticani e, appunto, la Venere italica della Galleria Palatina di palazzo Pitti.
PANNELLO 3
La grazia e le Grazie
La sezione espone disegni ed incisioni legati alla progettazione di più figure femminili,
principalmente di ispirazione mitologica, nelle quali all’idea della bellezza si aggiunge quella
della grazia. Associando le due categorie estetiche, Canova creò gli assoluti capolavori di
un’epoca. La grazia è, secondo la definizione kantiana, un sentimento di piacere sostenuto dalla
ragione, è portatrice di bellezza e civiltà e consente di stemperare le astrattezze sideree del bello
ideale (Venturi 1992) in più carnali dolcezze naturali.
Leopoldo Cicognara, nella Storia della scultura giudicherà determinante per la scultura di Canova
il tema della grazia, capace di togliere, scriverà, «al marmo tutta la rigidezza rendendolo molle e
quasi flessuoso», «la più pastosa carne che da scarpelli fosse trattata».
Afferisce al genere “grazioso” l’ideazione e realizzazione dei gruppi con Venere e Adone, della
Ebe, di Amore e Psiche, delle danzatrici, fino alla realizzazione dei due gruppi de Le Grazie, la cui
prima progettazione per Joséphine Beauharnais risale al 1812. Raccordo ideale tra la Venere
Medici e i gruppi delle Grazie è il monocromo M.7 qui esposto, che si data intorno al 18051806, in cui le Grazie, accompagnate dal suono dei flauti suonati da due amorini, danzano al
cospetto del simulacro di Venere, ma anche il rilievo in gesso con Le Grazie e Venere che danzano
dinanzi a Marte del 1797 e dell’analoga tempera del nel 1799, entrambe a Possagno, cui si
riferisce il disegno del foglio 63 dell’album E.b, qui esposto.
Canova, che nel gruppo di Amore e Psiche stanti riconosceva la metafora dell’amore spirituale e
contemplativo contrapposto a quello sensuale rappresentato dalle due figure avvinte e in moto
dell’ Amore e Psiche che si abbracciano descrive così la composizione del primo: «Amore che
appoggia la sua testa sulla spalla sinistra di Psiche passando il suo braccio dritto sopra le di lei
spalle, a segno che la mano viene a cadere sulla spalla diritta di Psiche, la quale inclina la sua
testa sopra quella di Amore, stringendo con il braccio sinistro un lembo della veste che la copra
dalla metà in giù, e con la mano del braccio stesso prende la sinistra mano di Amore entro di
cui sta in atto di posare la farfalla sostenuta dalle dita della sua mano divina. L’Amore pianta
colla sinistra, e lascia in abbandono il dritto fianco appoggiandolo sopra di Psiche». Il disegno
1123 del taccuino Eb, esposto, si rivela di grande interesse per la doppia giacitura, a destra e a
sinistra, che Canova sta testando per Amore adagiato sulla spalla di Psiche. Ne risulta una
composizione a tre figure stanti, che, come è stato più volte sottolineato dalla critica, sembra
prefigurare la più tarda elaborazione del tema delle Grazie avviluppate. È davvero
impressionante l’ «immensa copia dei disegni leggiadri» – è Cicognara che scrive – nei quali
«ogni più gentile atteggiamento studiando, parve aver esaurite le grazie del ballo». Di questi
disegni, quasi tutti compiuti con ogni probabilità tra il 1792-3 e il 1798-9, molti dei quali in tutto
o parzialmente ripresi per le composizioni delle tempere di Possagno o dei monocromi (18056), o per le pose delle danzatrici scolpite, se ne offre in mostra un’esaustiva campionatura, a
matita ma soprattutto a penna, abbozzi larvali, procedimento creativo impressionante, che è
ben percettibile analizzando moltissimi dei pensieri d’invenzione, ma che qui, nel tratto asciutto
e sottile del lapis, assume un’evidenza veemente.
PANNELLO 4
Il ritratto femminile dal vero
Canova non amava particolarmente il genere del ritratto, soggetto vincolato alla verifica del
dato reale e non particolarmente adatto a essere proiettato nella sfera dell’ideale.Tuttavia,
quando non poté sottrarsi, vedi i casi “obbligati” di Napoleone e dei napoleonidi, di papa Pio
VII o dell’imperatore Francesco I d’Austria, egli riuscì anche in questo genere a concepire dei
capolavori. Un processo elettivo del reale, proprio della cultura figurativa neoclassica anche nel
genere ritrattistico, in virtù del quale Canova fu in grado di restituire con uno straordinario
occhio indagatore il rilievo psicologico, intellettuale e morale degli effigiati – in sostanza la loro
realtà interiore – su fattezze “semplificate”, emendate, cioè, da inutili o non funzionali accidenti
fisiognomici.
Fu in funzione di questo processo estetico che Canova si trovò costantemente a studiare le
fattezze reali e i caratteri delle fisionomie umane di persone comuni, soprattutto di genere
femminile, come modelle o popolane, o i caratteri delle fisionomie umane corrispondenti ai
“tipi” codificati dalla fisiognomica settecentesca. Questo lavoro emerge, in maniera più che
sporadica, all’interno del corpus grafico canoviano ed è qui esemplificato nel foglio, eseguito
nel 1804 – 1805, con lo studio per il ritratto estemporaneo della popolana Anastasia Pacciotti,
di Fiano romano, a nord di Roma, esponente di un popolo – quello di Roma e dei suoi dintorni
– ritenuto da una folta tradizione letteraria dotato di una bellezza non comune e di una
congenita nobiltà, derivata dalla commistione tra una natura benigna e una storia gloriosa.
Diverso è il caso del ritratto cosiddetto emblematico, riguardante Leopoldina Esterházy (180515; Eisenstadt, Castello Esterházy), di cui è qui esposto il modello in gesso della testa. La
fanciulla è rappresentata seduta – come scrisse Canova a Quatremère il 21 gennaio del 1809, «in
attitudine di disegnante: pregio distinto della giovane dama» (Il carteggio Canova-Quatremère de
Quincy 2005, p. 109), mostrando, dunque, l’elemento più proprio e caratterizzante, comunque
attinente allo spirito e all’intelletto e dunque di per sé idealizzante, della sua indole. Nella Storia
della scultura Cicognara si soffermò proprio sulla maggiore carica realistica del ritratto di
Leopoldina, di carattere ufficiale e a figura intera sedente. Secondo lo storico, la principessa, «in
atto di disegnare una veduta di paese», «non può indurre allo equivoco d’essere creduta una
musa», perché si ravvisano «realmente nel marmo visibili le traccie dell’imitazione del naturale,
piuttosto che il solo ideale dell’artista» (Cicognara 1823-4 [2007]; VII [1824], pp. 142-3).
PANNELLO 5
La Bellezza Femminile delle Teste Ideali
Il gesso con la Testa di Elena di Troia, di cui sono documentate sei versioni in marmo, attesta
un’interessante frammento di vita dell’artista ed un processo ideativo emblematico. La prima
versione del marmo, ora in collezione privata, fu scolpita da Canova nel 1811 e donata l’anno
seguente a Isabella Teotochi Albrizzi in segno di riconoscenza per aver pubblicato, nel 1809, la
prima edizione delle Opere di scultura e di plastica di Antonio Canova descritte da Isabella Albrizzi nata
Teotochi. A Possagno si conserva il modello originale in gesso della testa, da cui furono tratti gli
esemplari marmorei, tutti scolpiti con varianti, soprattutto nella capigliatura, secondo una tipica
prassi canoviana che prediligeva sempre apportare delle variazioni nelle opere tratte da uno
stesso modello in gesso. Rispetto agli esemplari marmorei noti (quelli Albrizzi, Castlereagh e
Pac) il calco di Bassano ha una notevole variante nella minore lunghezza delle ciocche di capelli
che scendono lungo le gote, qui ben più corte che nei marmi.
Il marmo donato alla Albrizzi, da subito oggetto di una straordinaria popolarità, al punto da
essere cantato da Lord Byron in un epigramma composto a Venezia (On the Bust of Helen by
Canova, November 1816), inaugurò, insieme alla Clio (o Calliope) del Musée Fabre di Montpellier, il
nuovo e fortunato filone tematico delle teste ideali, con le quali Canova, nella sua incessante
ricerca intorno ai temi della “bella natura” e del bello ideale, riuscì a perseguire un ineffabile
connubio tra analisi naturalistica, svincolata dalle istanze eccessivamente realistiche dovute al
ritratto, e bellezza ideale. Le eroine effigiate in queste teste, recuperate nel mito o nel mondo
delle lettere antiche e moderne, divennero così il distillato figurativo del concetto della grazia.
Cicognara in una lettera a Canova del 10 giugno 1812, ricordava il marmo Albrizzi come una
«Elena veramente greca» scrivendo di avervi rintracciato «quella maestà e dignità grave mista di
voluttà e di bellezza egregia che a tal donna conveniva». E se la sfera ideale della «beltà classica,
e severa» era ben ravvisabile nelle «forme grandiose, e belle del collo e del viso», le cure
canoviane per rendere vero e sensuale quel sembiante erano evidenti nella «voluttà del collo» e
nell’ «acconciatura dei capelli», i quali «sono realmente quali esser denno le anella d’una chioma
reale coltivata a disegno di piacere».
PANNELLO 6
Monumento a Vittorio Alfieri (1806-1810)
Firenze, Basilica di Santa Croce
Il 28 di febbraio del 1804 il pittore francese François-Xavier Fabre scrisse a Canova, per
conto della contessa d’Albany, compagna di Vittorio Alfieri, richiedendogli un
monumento funerario al grande drammaturgo, scomparso l’anno precedente, per la
basilica di Santa Croce a Firenze, pantheon del genio italiano: «il primo scultore
dell’Italia non sdegnerà di unire la propria gloria con quella del suo primo poeta, e che
non sarà insensibile al piacere di sentire lodato i suoi rari talenti accanto alle ceneri del
divino Michelangelo».
Canova si convinse e, nel mese di marzo, scrisse alla Albany, proponendole una stele
funeraria tipologicamente esemplificata sulla stele sepolcrale attica, con una «semplice
rappresentazione di due figure, la tragedia forse e l’Italia, addolorate piangenti davanti
all’immagine sua, grandi al vero, in tutto rilievo col suo finimento sopra, alla maniera
delle memorie greche sepolcrali». Il progetto prevedeva, di fronte all’Italia, nel campo
opposto al di là del cippo, la presenza di un genio della tragedia dalle fattezze efebiche,
con la face rovesciata e la maschera tragica ai suoi piedi, in atto di indicare il busto del
defunto, e, alle spalle dell’Italia, a formare un raccolto corteo, un genietto piangente
recante il lungo scettro che l’Italia ha deposto in segno di cordoglio, come documenta il
disegno 79.1494 del taccuino F.2 esposto, che testimonia uno stato ideativo più avanzato,
posteriore cronologicamente al piccolo modellino in gesso del Museo di Bassano, in cui
compare soltanto l’Italia piangente con il gomito poggiato al cippo con il busto di
Alfieri. Da questo disegno Canova trasse in controparte il modello grande in gesso,
conservato a Possagno, già compiuto entro l’estate del 1804.
Ma la contessa d’Albany non fu soddisfatta del progetto e chiese allo scultore un’opera
più maestosa, affidata a «une figure ou deux entières», cioè a tutto tondo, nella quale
fossero celebrati, in un magico e irripetibile rimando di affinità elettive, il più grande
poeta che l’Italia aveva avuto e il più grande scultore dell’età presente. Il definitivo
monumento di Santa Croce, cui Canova lavorerà dal 1806 al 1810, è un’opera totalmente
diversa rispetto alla prima idea della stele. Il monumento è rievocato dall’incisione, intera
e in dettaglio, eseguita da Domenico Fontana tra 1807 e 1808, molto probabilmente su
modello del pittore lucchese Bernardino Nocchi.
L’elemento di raccordo con il precedente modello della stele sarà, appunto,
rappresentato dall’Italia piangente, al cui pianto Canova ha affidato la rappresentazione
della riconoscenza e del dolore della patria per il grande poeta, fissando in un’immagine
universalmente nota, «d’uno stile grave e maestoso», come egli stesso dirà, l’esito più alto
mai raggiunto dall’arte italiana nella raffigurazione del bello sepolcrale, che esalta il tema
del culto degli uomini illustri della nazione.
PANNELLO 7
I monumenti funerari e il bello sepolcrale.
I disegni con le donne sedute che piangono dell’Album C e il monocromo M.18 con Due figure
femminili in attitudine dolente esposti, rappresentano la sintesi di una categoria estetica che Carlo
Sisi ha definito, riflettendo sulle categorie della bellezza messe a punto da Antonio Canova, il
bello sepolcrale, trasferendo nelle immagini canoviane sul tema il carattere elegiaco della grande
poesia preromantica. I monocromi di Bassano vanno considerati opere sperimentali, grandi
progetti di studio per bassorilievi, compiuti con una tecnica mista che, con una mirabolante
avanguardia materica, assomma l’impiego di olio, biacca, carboncino, tempera su tela, grezza o,
in altri casi, preparata a stucco color grigio. Con la pittura che assume, talvolta, uno spessore
quasi inverosimile. Queste opere, soprattutto quelle di carattere funerario, valevano per Canova,
esclusivamente come «modelli, quasi cartoni preparatori» (Pavanello 2003), in cui l’utilizzo della
biacca e del carboncino e la preparazione di gesso servivano a simulare i passaggi luce/ombra,
la consistenza materica e la politezza del bassorilievo in marmo. Anche se, svincolati da questo
aspetto contingente, i monocromi assurgono, per innovazione e sperimentalismo, ai ranghi più
alti della pittura europea degli inizi del XIX secolo.
La messa a punto della nuova categoria estetica da parte di Canova rappresenta il punto finale
di una lunga progettazione di monumenti sepolcrali, iniziata, grazie alla mediazione dell’incisore
bassanese Giovanni Volpato, alla fine dell’ottavo decennio del Settecento con il Monumento a
Clemente XIV nella chiesa dei Santi Apostoli a Roma. L’ideazione di modelli formali diversi con
l’introduzione della piramide e della stele di matrice attica segnano l’approfondimento
contemporaneo del significato dei sepolcri. Nel bozzetto per il Monumento sepolcrale ad un amico di
Frank Newton, unica testimonianza figurativa di una commissione del 1794 non realizzata,
l’elemento ricco di significati sepolcrali della piramide, il sarcofago come luogo di passaggio tra
la vita e la morte, divengono gli elementi centrali e significanti dell’opera, mentre il ricordo
concreto di questo giovane prematuramente strappato alla vita è affidato esclusivamente alla sua
immagine clipeata.
Ancora intorno alla piramide ruotano gli studi dell’irrealizzato monumento a Tiziano, con i vari
modellini eseguiti tra 1790 e 1795 e la lunga vicenda del Monumento funerario all’arciduchessa Maria
Cristina d’Austria, iniziato nel 1798 e ultimato nel 1805. Mentre, alla morte di Canova, avvenuta
nel 1822, quella stessa idea fu ripresa per la tomba che gli fu dedicata ai Frari nel 1827.
Ma, mentre la successiva stele Emo, come le contemporanee stele per Leonardo Pesaro,
Girolamo Giustiniani e Giuseppe Nicola de Azara, si incentra sulla celebrazione del defunto e
delle sue virtù terrene, la nuova ideazione delle più tarde stele di matrice attica, cui Canova si
dedicherà tenacemente a partire dal 1804-5, si legherà ai temi elegiaci della rimembranza, alla
riflessione laica sulla morte e della condivisione del cordoglio, sulla celebrazione foscoliana degli
estinti.
Nella stele Volpato, come nelle immediatamente successive dedicate al conte Alessandro de
Souza Holstein (1805-8), a Giovanni Falier (1806-8), al principe Guglielmo d’Orange Nassau
(1806-8), Canova sostanziava la nuova estetica in figure allegoriche femminili dolenti, scolpite a
forte aggetto, sedute o stanti. Contemporaneamente, veniva approfondendo gli elementi
formali e significanti della figura maschile angelicata del genio funebre come componente
dell’estetica del bello sepolcrale.