Scarica allegato
Transcript
Scarica allegato
1 Vicenza 12/10/2012 Per una scuola a servizio della persona: il Concilio e l’educazione Dalla “GRAVISSIMUM EDUCATIONIS” a “Educare alla vita buona del Vangelo” Prof. Giuseppe MARI (ordinario di Pedagogia generale, Università Cattolica del Sacro Cuore) Buon pomeriggio a tutti! Sono veramente grato al Prof. Cerchiaro per l’invito che mi ha rivolto: venire questo pomeriggio tra voi. E sono molto onorato per la presenza di Monsignor Vescovo. Mi dispiace perché purtroppo non posso fermarmi all’Eucaristica (che rappresenta il culmine della giornata), ma devo rientrare a casa. Sono infine molto riconoscente per l’attenzione che porterete a questo percorso che faremo insieme e per quello che vorrete condividere con me a margine della mia esposizione, perché ogni volta che ho l’occasione di poter incontrare gli educatori, per me è sempre un’opportunità preziosa, in quanto io – per ragioni di ordine professionale, ma anche per passione personale – studio i temi dell’educazione: per questa ragione, per me, è essenziale poter incontrare gli educatori. Quindi, l’opportunità che mi è data in questo incontro è assolutamente preziosa e sono veramente molto grato. Mi riallaccio a quello che veniva detto poco fa: il richiamo alla speranza, penso che sia molto importante perché tutti noi – come genitori, come educatori, come insegnanti, sia come consacrati sia come laici – facciamo i conti con una evidente fatica di educare. Abbiamo tutti la percezione degli scarsi risultati e la cosa ci inquieta non solo in se stessa, ma anche perché – in generale – non possiamo rimproverarci l’improvvisazione. Come avviene per voi oggi, cerchiamo di programmare e preparare gli interventi, seguiamo una logica, ci aggiorniamo… Ma il problema – lo sappiamo bene – è che la realtà umana è ferita. Nei giorni scorsi, mi ha molto colpito quello che il Papa ha detto nella circostanza dei cinquant’anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II. Ha utilizzato l’immagine del deserto come percorso di purificazione. Credo che ci possa aiutare per coniugare la fatica con la speranza, dove la prima forse ci sta aiutando ad emendarci rispetto alle idee che noi ci siamo fatti di alcune cose, ma che non è detto che corrispondano alla realtà. Mi viene in mente quello che Benedetto XVI disse durante la prima GMG, a Colonia. Parlando dei Magi osservò che “incontrarono un Dio diverso da quello che si aspettavano”. Come accadde a loro, forse anche noi dobbiamo affrontare – attraverso fatiche che si stanno prolungando nel tempo – un bagno di umiltà che ci ricorda che siamo chiamati a scommettere non sulle nostre risorse, ma sulla certezza che non siamo soli nemmeno in questa congiuntura. Anche rispetto alle sfide scolastiche, è importante che noi le avviciniamo con una speranza realistica, rispetto alla quale vorrei fare con voi un percorso di questo tipo. Anzitutto, cercare di prendere in considerazione l’evento conciliare (relativamente alla Gravissimum Educationis) come una svolta non tanto nei contenuti, perché, se voi leggete la Gravissimum Educationis e la paragonate all’Enciclica di Pio XI Divini illius Magistri, potete facilmente constatare che i nuclei portanti sono gli stessi (il diritto/dovere di educare che incombe sui genitori e sulla Chiesa; la legge di natura che interviene perché lo Stato assuma un profilo sussidiario, non sostitutivo; il riconoscimento della originalità dell’educazione cristiana; l’avvaloramento della scuola cattolica in quanto luogo nel quale l’ispirazione confessionale diventa matrice della proposta formativa…), mentre cambia il punto di vista rispetto alla modernità. In precedenza prevaleva la sottolineatura delle differenze, ora il riconoscimento del pro vince rispetto al contro. Prima, anche per riconoscibili ragioni storiche, l’atteggiamento ecclesiale era stato essenzialmente conflittuale e contrappositivo (il Sillabo di Pio IX è esemplare, in proposito); ora il Concilio Vaticano II non introduce un mutamento di contenuti, ma un mutamento di prospettiva. 2 Per cui (secondo passaggio), a partire dal riconoscimento che la modernità c’entra col Cristianesimo (e questo vorrebbe essere il cuore di questa mia relazione), si ritiene che è bene partire dagli elementi di affinità, non per appiattirsi sulla modernità, ma per portare innanzi un processo storico che – riconoscibile nella modernità – non coincide con la modernità che ha prevalso, ma con una modernità – vedremo – che si può definire “altra”. Ed ecco, allora, il terzo ed ultimo passaggio: la sfida che abbiamo di fronte a noi oggi, una sfida di speranza, sobria direi. Mi pare che gli interventi che ha tenuto il Papa in questi giorni, richiamino la sobrietà di chi fa i conti anche con le difficoltà, ma da questa constatazione non è volto allo sconforto, bensì a camminare all’interno della condizione che Tommaso d’Aquino chiama “vespertina” (tipica della creatura), nella quale le luci si mescolano con le ombre, ma – paradossalmente – è proprio la condizione chiaroscurale che ci permette di esprimere il dono più grande (e rischioso) che Dio ci ha fatto: la libertà. C’è un bellissimo passaggio di Origene, a questo proposito. Quando si confronta con Celso, che – allo scopo di squalificare la Rivelazione cristiana – si era chiesto perché Dio non avesse redento l’universo direttamente da Sé, il teologo risponde sottolineando che questo gesto avrebbe annientato la nostra libertà. In effetti, la piena epifania di Dio si sarebbe imposta su di noi costringendo all’assenso, strappando un assenso coatto. 1. Che cosa vuol dire educare? Allora, a questo punto, veniamo incoraggiati a vivere la fatica, dentro una prospettiva di fede, riconoscendola come l’opportunità che ci permette effettivamente di essere l’unica creatura – dotata di corpo – libera. Se ci fate caso, questa è anche la grandezza dell’educazione. Perché essenzialmente educare non significa anzitutto trasmettere conoscenze: se così fosse, anche gli animali praticherebbero l’educazione perché sanno apprendere. Allo stesso modo, non possiamo dire che l’educazione coincida con la pura e semplice socializzazione (come s’è ripetuto continuamente negli ultimi decenni) perché anche questa – come insegna tragicamente il “branco” – può comportare un appiattimento sulla animalità. Dove sta allora la specificità dell’educazione? Nel fatto che la libertà, pur essendo costitutiva dell’essere umano, non si manifesta subito in modo maturo: l’educazione significa guidare la libertà a diventare matura cioè capace di scegliere il bene senza costrizione. È questo il valore specifico dell’educazione: la dimensione della moralità. Investe l’apprendimento perché lo promuove come l’acquisizione di ciò che fa diventare migliori e la stessa cosa accade per la socializzazione che diventa capace di esprimere solidarietà. L’educazione ha un intrinseco carattere morale – per questa ragione supera (senza negarli) sia l’allevamento sia l’addestramento – perché porta alla conquista di quella che Agostino chiama libertas maior: non semplicemente la libertà d’arbitrio (poter scegliere tra alternative, libertas minor), ma la libertà come scelta non costretta del bene. Occorre rovesciare il modo consueto di guardare alla libertà, perché l’enfasi circa la facoltà di scegliere perde di vista il fatto che non tutto ciò che possiamo scegliere ci merita. Non bisogna dimenticare il concetto aristotelico di prassi ossia il fatto che – in un certo senso – noi diventiamo come agiamo. Aristotele, infatti, osserva che – quando si tratta di azioni ossia di comportamenti che hanno una rilevanza totalmente etica – la loro ricaduta è sull’agente. Faccio un esempio. Perché non bisogna mentire? Non solamente perché la menzogna è sbagliata, ma anche perché – mentendo – diventiamo peggiori tant’è vero che ci abituiamo a mentire ossia acquisiamo un vizio. Ecco perché anzitutto, prima di qualunque scelta, occorre valutare ciò che può essere scelto. Ma questo che cosa significa? Che dobbiamo partire dal riconoscimento della nostra dignità. L’essere umano ha una dignità incommensurabile (questo vuol dire che siamo persone), non dobbiamo accontentarci di qualunque cosa ci venga buttata davanti, dobbiamo saper scegliere solo ciò che la nostra dignità 3 merita. Ecco la libertas maior che va oltre il libero arbitrio, perché esprime la responsabilità come – risposta – cioè corrispondenza delle azioni alla dignità della persona che le compie. Credo che, per mettere a fuoco questo, sia utile che noi ci misuriamo con la modernità come lo sfondo su cui il Concilio Vaticano II proietta i suoi insegnamenti per arrivare a incrociare la situazione contemporanea. Questo è tanto più necessario oggi, in una stagione nella quale, forse, essendoci finalmente emendati in gran parte dagli influssi ideologici che hanno contaminato gli ultimi cinquant’anni, possiamo avvicinare la realtà per quello che è (perché l’ideologia altera la conoscenza della realtà in quanto la semplifica). Credo che oggi finalmente siamo abbastanza vaccinati rispetto alle false promesse che hanno sviato molti, in quanto constatiamo che – in molti casi – i fatti non sono seguiti alle presunte previsioni di essi. Per questa ragione un certo numero di persone – anche tra coloro che in buona fede hanno seguito le ideologie – si sta interrogando. Porto solo una bella conferma di cui ho fatto direttamente esperienza intervistando l’anno scorso uno dei maggiori poeti contemporanei, Franco Loi (G. Mari, a cura di, Educare la parola, Brescia, La Scuola, 2011). Mi ha raccontato – come ha fatto anche in altri testi, tra cui una bella e molto più estesa intervista pubblicata da Garzanti – della sua convinta adesione al comunismo, ereditata dalla sua famiglia e nutrita di una genuina aspirazione alla giustizia sociale… ma mi ha anche detto che – nonostante le sue riserve personali – oggi, per lui, la Chiesa cattolica sa esprimere una presenza morale nel Paese assolutamente insostituibile. Non si tratta dell’unico esempio. Personalità come Barcellona oppure Ferrara – da fronti politici diversi – esprimono una riconsiderazione della figura di Cristo e del contributo culturale (quindi anche civile) del cristianesimo che – fino a una trentina di anni fa – non credo fosse nemmeno immaginabile. Gli indizi di un cambiamento nel segno della rivisitazione del ruolo pubblico della fede cristiana (a cui continuamente richiama Benedetto XVI) sono molteplici, come – ad esempio – il fatto che l’editrice Il Mulino sta pubblicando una collana in cui un laico ed un credente si confrontano sui Dieci Comandamenti. Ogni volume un Comandamento, come l’editrice Lindau sta facendo con le Beatitudini: chi poteva immaginare questo qualche tempo fa? Questo, come dice l’apostolo, non ci deve “gonfiare”, ma – alla luce della carità (che non è reticente perché si nutre della verità) – ci deve chiamare alla responsabilità. Certo, stiamo facendo fatica, ma ci può illuminare la parola di Agostino nel Trattato sulla vedovanza: “Quando uno ama, non sente la fatica, e – se anche sente fatica – ama la fatica che fa”. Non significa essere masochisti, ma ricordarsi del “perché” stiamo facendo quello che facciamo che, in realtà, è un “per chi”. Quindi noi dobbiamo assolutamente porci in termini attivi e propositivi, eventualmente amando la fatica che facciamo, per il fatto che – ciascuno nel suo stato di vita – amiamo Gesù Cristo, per quello che ci riesce. 2. Il messaggio conciliare e la modernità Vediamo allora il primo passaggio: Divini illius Magistri, 1929, Pio XI. Si tratta dell’unica Enciclica esplicitamente dedicata alle problematiche educative. L’impostazione è quella che dicevo prima: di una contrapposizione rispetto alla modernità. La modernità che gradualmente ha espresso una disposizione sempre più secolarizzante, che arriva alla fine a concludersi con l’investitura nello Stato della pienezza del potere (i molti totalitarismi, di ogni colore, che punteggiano il Novecento). Infatti, Pio XI si confronta col totalitarismo: questo spiega perché l’Enciclica essenzialmente si ponga in maniera polemica rispetto al naturalismo inteso come “totalitarismo del pensiero” e allo statalismo inteso come “totalitarismo politico”. Questo è lo sfondo, rispetto a cui il Concilio Vaticano II (la Gravissimum Educationis in particolare) cambia la prospettiva, perché – come dicevo prima – si mette a esplorare e scrutare la positività riconoscibile nella prospettiva moderna (senza dimenticare i fattori negativi) per farne la leva per rilanciare con piena convinzione l’educazione cristiana. Questo è un passaggio importante 4 perché non può essere solo volontaristico. Mi spiego. Non si tratta di agire come se la modernità avesse un qualche nesso con il cristianesimo perché un’azione ciecamente volontaria sarebbe – oltre che rischiosa – oltremodo faticosa: come uno che intendesse scalare una parete rocciosa senza verificare se la superficie della roccia offre dei punti d’appoggio oppure di presa. Pur con l’indispensabile impegno di volontà, occorre verificare se c’è qualcosa di comune, qualcosa evocando il quale risulti più praticabile la salita. In proposito, gli elementi da riconoscere sono almeno due: 1) il logos (su cui tornerò alla fine); 2) una genealogia storica, su cui mi soffermo ora. Quando noi parliamo di modernità, parliamo essenzialmente degli ultimi cinque secoli, nei quali si esprime il graduale emergere – sul piano antropologico – di quella che, con grande efficacia, Hegel chiama libera soggettività autocosciente. Di chi si tratta? Dell’essere umano che intende essere – e di fatto diventa – attore protagonista sulla scena della storia. Il punto è questo: il fenomeno assume solamente la declinazione della modernità che ha prevalso oppure percorre anche un’“altra” modernità, che potremmo identificare come minoritaria? A mio avviso, la seconda risposta è quella corretta perché, in realtà, la parola modernità, oltre che un plurale, è un singolare. Siamo abituati a identificare con la modernità una precisa genealogia di autori, essenzialmente questa: Bacone, Cartesio, Hobbes, Spinoza, Locke, Hume, tutti accomunati – pur con le differenze specifiche – da una esplicita “riforma del sapere”, la cui discontinuità – rispetto alla tradizione – è ben sottolineata da Bacone (non a caso riconosciuto capostipite di questa nuova stagione culturale dal massimo documento in cui si specchia la modernità – a parte la prima Critica kantiana – che è l’Enciclopedia illuministica) quando afferma che “sapere” e “potere” coincidono. Non è casuale che questo principio lo formuli nel suo Novum Organum ossia nel testo che – secondo lui – dovrebbe sostituire il vecchio Organon, quello aristotelico, nel tracciare il profilo della razionalità come “organo” conoscitivo. In effetti, con questa affermazione, Bacone sostiene che ogni sapere deve condurre ad un potere, cioè che la conoscenza deve servire a qualcosa: la funzionalità elevata a criterio della scientificità! Badate che c’è un’inversione polare rispetto al concetto classico e cristiano, perché – nel mondo classico e cristiano – si è sempre affermato che la funzionalità, pur essendo un valore, non è “il valore”. Gli antichi infatti sostengono che il sapere più importante è la “teoria” cioè il sapere che è fine per sé stesso, quindi non serve a nulla! Non è casuale che comunemente l’espressione greca sia tradotta col termine contemplazione, per dire che questa conoscenza non si obiettiva in qualcosa, ma forma colui che la acquisisce. Per questa ragione, dal momento che rimanda all’essere umano la cui originalità consiste nella libertà come capacità di elevarsi al di sopra del bisogno, si costituisce attorno a quelle che venivano chiamate “arti liberali”. Di che cosa si tratta? Delle conoscenze a cui ci si dedica quando qualcuno ha già soddisfatto i suoi bisogni primari, per questa ragione esprimono la coltura animi, la coltivazione di sé. Il cristianesimo si è inserito in questa prospettiva quando – ad esempio, con Agostino – distingue tra l’uti e il frui. Noi di alcune cose facciamo uso, per poter fruire di ciò che è bene in sé, cioè Dio. Si tratta quindi di un’idea di conoscenza che, senza snobbare il bisogno, però lo ordina, lo subordina all’azione che non risponde ad un movente funzionale, strumentale. Si tratta dell’esatto contrario di quello che dice Bacone. A questo punto la conoscenza viene finalizzata all’agire utile. Non sono parole così lontane da noi. La riforma scolastica recentemente varata è passata attraverso quattro maggioranze diverse: centro sinistra; centro destra; centro sinistra; centro destra. Su che cosa nessuno mai ha avuto dubbi dei quattro ministri coinvolti? Sul fatto che la scuola deve preparare per il lavoro. Evidentemente, siamo tutti d’accordo circa l’esigenza che il titolo scolastico debba avere una spendibilità, ma un conto è questo, un altro è finalizzare la scuola all’occupazione. Lavoriamo per vivere o viviamo per lavorare? In realtà, la scuola mentre prepara anche evidentemente per uno sbocco occupazionale, lavorativo, deve anzitutto operare perché l’essere umano arrivi ad esprimere fino in fondo la sua 5 umanità. E la sua umanità l’essere umano la esprime nell’esercizio della libertà come capacità di elevarsi al di sopra del bisogno. È tuttavia sintomatico che maggioranze diverse abbiano convenuto sulla centralità del lavoro: ci fa capire quanto spazio si è fatto il richiamo moderno alla utilità del sapere. 3. Modernità e cristianesimo Ciò che serve, per il fatto che serve, è importante: non c’è dubbio. Ma per il fatto stesso che serve, non è la cosa più importante. La cosa più importante è ciò in vista di cui si fa ciò che serve, è il fine. È fondamentale che noi cogliamo quest’ordine dei mezzi e dei fini, se vogliamo custodire l’originalità umana. Perché è vero, come dice Guardini, che noi possiamo descrivere la società umana come un qualunque formicaio, ma alla fine non ci viene restituita una comunità umana, perché, mentre le formiche sono identiche l’una all’altra, gli esseri umani hanno la medesima dignità, ma esprimono ciascuno una singolarità irripetibile. Allora credo che sia essenziale che noi, a questo punto, ci reimmergiamo nella modernità per vedere se, nel momento in cui sta entrando in crisi, non sia possibile distinguere tra la crisi di “una” modernità (quella che ha prevalso) e la possibilità offerta da questa crisi a una modernità “altra”, a un vettore minoritario, che però oggi può finalmente affermarsi. A che cosa mi riferisco? Alla modernità che si è alimentata attraverso il cristianesimo. Può apparire sorprendente, ma è il cristianesimo che ha generato la modernità. Che cosa vuol dire “modernità”? Il termine deriva dall’avverbio modo che in latino significa “ora”, cioè “adesso”. La modernità, quindi, si connota come la stagione culturale che valorizza il presente nel suo distinguersi dal passato ossia nel suo introdurre in un futuro. Del resto, in tedesco, viene chiamata “Neuzeit” ossia “tempo nuovo”. Ma non è il cristianesimo la fede nell’“avvento”, in un Dio “che è, che era e che viene”, in un Dio che fa “nuove tutte le cose”? Non bisogna, peraltro, dimenticare che la prima generazione moderna – quella degli umanisti del XV secolo – non annoverava nemmeno un ateo: erano tutti cristiani convinti. Com’è possibile allora che da una stagione in cui tutti gli umanisti (citiamo il più famoso: Vittorino da Feltre, ma anche gli altri, tutti quanti) erano credenti convinti, com’è possibile che da quella stagione ne sia uscito un percorso storico che ha portato al graduale abbandono del riferimento religioso? Forse perché – dentro la modernità – qualcosa, ad un certo punto, è mutato. Oggi noi però possiamo tornare su quel passaggio per cercare una pista diversa imboccando la quale possiamo immaginare uno sviluppo differente della modernità. E per illustrare questa pista diversa, vorrei evocare solo due nomi; uno più comune come riferimento, l’altro forse di meno. Il più comune è Pascal. Pascal non era per nulla estraneo alla modernità. È stato un ragazzo prodigio che ha inventato la prima macchina calcolatrice: era uno scienziato a tutto tondo. E appunto perché scienziato a tutto tondo, si rese conto (come anche altri, non ultimo Einstein) che non è possibile consegnarsi solamente ad un dispositivo descrittivo (l’esprit de géométrie, come lo chiama lui) perché il dispositivo descrittivo – essendo funzionale – non corrisponde alla differenza specifica dell’essere umano, ossia la libertà. Il dispositivo meccanico-descrittivo è automatico (o comunque vive del dinamismo stretto delle cause e degli effetti), la libertà non “funziona” così. Tutti quelli tra noi che hanno a che fare con un ragazzo o un adolescente, e che devono motivarlo a studiare, sanno perfettamente che la libertà non funziona così. Nessuno di noi è capace di causare la motivazione allo studio. Noi possiamo favorirla, renderla più o meno probabile, ma nessuno è capace di causarla. Perché? Perché la motivazione allo studio intercetta la libertà, e noi non possiamo causare la libertà. Permettetemi di usare un’immagine: chi volesse causare la libertà, si comporterebbe come colui che volesse trasportare acqua col colabrodo – il problema è che non c’è “coerenza” tra il contenitore e il contenuto, sono due cose strutturalmente diverse –. Infatti, Pascal all’esprit de 6 géométrie accosta l’esprit de finesse. La finesse identifica la parola che lungo la modernità (da Pascal attraverso Gracián, grande autore spagnolo, fino ad arrivare al Kant della terza Critica, quella del giudizio) viene messa in campo per identificare un riferimento diverso da quello della matematizzazione: il gusto come espressione della singolarità irripetibile, come dinamismo attraverso cui il singolo (quello di cui parla Kierkegaard) si rapporta alla realtà. Ma – attenzione! – non è una singolarità di tipo relativistico, perché il concetto di gusto, come lo presentano questi autori, certamente rimanda alla singolarità irripetibile di ognuno, ma rimanda anche (come vedremo alla fine parlando di logos) alla condivisione. Non è casuale che il termine rimandi alla fruizione artistica. Che cosa rende un oggetto “opera d’arte”? Certamente il fatto che esprime la singolarità di chi l’ha prodotto, ma – insieme a questo – anche il fatto che suscita la fruizione di altri ossia che si identifica per la comunicazione che sa alimentare. Il gusto non rimanda soltanto alla singolarità, ma rimanda anche alla comunicazione che, come vedremo, connota l’essere umano. Ecco in che senso può alimentare il relativismo (così accade nella prospettiva postmoderna), ma non si tratta di un destino fatale. Anzi, il relativismo è la caricatura della singolarità umana, perché, se è vero (come diremo alla fine) che l’essere umano è strutturalmente comunicativo (questo vuol dire che ha il logos), il relativismo nega questo, perché il relativismo nega la comunicazione, proiettando una falsa luce di autosufficienza. Il secondo autore: Giambattista Vico. Giambattista Vico prende sul serio la modernità che – a differenza di ciò che sostiene una certa “vulgata” – non ha abbandonato il concetto aristotelico di scienza. Aristotele dice, nella Metafisica, che c’è scienza solo quando c’è conoscenza della causa. La modernità prende alla lettera queste parole, e le legge in questo modo: se io riesco sperimentalmente a riprodurre il fenomeno, questo vuol dire che io lo causo; se lo causo, vuol dire che lo conosco. Ecco allora che la modernità, attraverso la logica sperimentale, non fa altro che assumere il concetto aristotelico di scienza, ed esprimerlo secondo una modalità di tipo funzionale: l’esperimento. Ma quale obiezione fa Vico a questo dispositivo? Lui osserva che, se conoscere, fare scienza, significa essere causa, causare qualcosa, allora non è coerente elevare a scienza la conoscenza naturale perché il mondo naturale non è l’uomo a causarlo: montagne, boschi, fiumi, animali… ce li troviamo davanti a prescindere dalla nostra azione. Che cosa invece l’uomo causa? L’uomo causa le sue azioni. Ecco perché Vico sostiene che la vera scienza, la “scienza nuova” è la storia in quanto narrazione/descrizione dell’agire umano. C’è una formidabile differenza tra la storia e le scienze naturali, perché, mentre le scienze naturali si esprimono dentro la logica delle cause e degli effetti (e l’esperimento lo rende manifesto), la storia non “funziona” in questa maniera, perché avanza lungo quel vettore motivazionale che rimanda alla libertà. Ecco perché da Vico prendono forma le scienze dello spirito, che conducono alle scienze “umane”. È interessante notare come le scienze umane sono tutte nate dal positivismo, ma – nel giro di poco tempo – hanno cambiato radicalmente direzione. Lo possiamo constatare sul versante psicologico, come su quello sociologico, come su quello antropologico. Di che cosa ci si è resi conto? Del fatto che non si può restituire il profilo umano di queste conoscenze (collegato alla libertà) attraverso la pura e semplice descrizione. In ambito psicologico, questo si verifica nel passaggio dal comportamentismo alla Gestalt e al cognitivismo; in ambito sociologico, nel passaggio da Durkheim a Weber; in ambito antropologico, nel passaggio dall’antropologia evoluzionistica a quella dell’osservazione partecipante incarnata da Malinowski. 4. La sfida di una modernità “altra” Allora, questo vuol dire che c’è un’altra modernità! Una modernità che è arrivata ad esprimersi compiutamente nel XX secolo; e infatti il XX secolo è stato il secolo nel quale la dimensione della singolarità è stata più frequentata (pensate ad orientamenti come quello fenomenologico oppure 7 ermeneutico) – anche se talvolta col rischio di planare su forme autoreferenziali, ma comunque, se non altro, si è messo in discussione il dispositivo positivistico. Continuo a insistere su questo perché è bene che ci rendiamo conto del fatto che oggi siamo investiti da una nuova sfida positivistica, forse più “soft” di quella ottocentesca, ma non meno grave. Basti pensare a come stiamo declinando la qualità nella scuola, affidandoci a dispositivi meramente descrittivi. A me pare che la Gravissimum Educationis recepisca questa prospettiva nel momento in cui, rispetto alla modernità, non abbraccia una disposizione volta a rimarcarne la critica, ma piuttosto è attenta a riconoscere i punti di convergenza, ad esempio la libertà scolastica. Badate che la libertà scolastica è stato il risultato di una conquista moderna, perché nel mondo antico tutto era ricondotto allo Stato, o comunque a chi deteneva il potere. Benjamin Constant è molto preciso nell’osservare che il mondo antico non ci restituisce la libertà come la concepiamo noi; e la stessa cosa afferma anche Pohlenz riflettendo sull’uomo greco. Il mondo antico guardava alla libertà con diffidenza, perché associava la libertà alla hybris, cioè alla tendenza a trasgredire l’ordine cosmico. In fin dei conti era un mondo che riteneva che tutto fosse immancabilmente sottoposto al fato, gli dèi stessi. A questo punto, come era possibile parlare di libertà? Tutto era necessario: tant’è vero che il mondo antico concepisce il tempo in modo circolare, come l’“eterno ritorno” in cui – non a caso – si riconosce Nietzsche da una prospettiva polemica rispetto al cristianesimo che ha spezzato la circolarità greca sostituendola con un vettore rettilineo che va dalla creazione alla fine del mondo. Sulla stessa linea si pone la sottolineatura che fa il Concilio Vaticano II dell’integrazione tra formazione cristiana e formazione umana: anche questo è un dato che prende forma dentro la modernità. Questa prospettiva non è abbracciata casualmente perché, nei decenni precedenti, a partire almeno dal rilancio di Tommaso d’Aquino voluto da Leone XIII con l’Enciclica Aeterni Patris, si pongono le premesse per un ripensamento del rapporto con la modernità. Non bisogna dimenticare che il Dottore Comune, pur essendo un uomo del XIII secolo, è profondamente moderno. Abbiamo traccia della sua intuizione dei tempi nuovi che avanzavano nella scelta – da lui compiuta in aperto conflitto con la famiglia – di entrare in un ordine mendicante e non tra i benedettini. Il monachesimo benedettino era la forma tipica della consacrazione come la concepiva l’alto medioevo ossia il monastero assimilato a una “società perfetta” che, in antitesi al crollo dell’ordinamento civile con la fine dell’Impero romano e alla profonda crisi che lo aveva accompagnato, esprimeva una società ordinata e autosufficiente sul piano economico. Tommaso decide di diventare domenicano ossia di abbracciare la vita religiosa all’interno di una comunità che, in modo profetico rispetto alla ripresa economica e al crescente richiamo esercitato dal denaro, pone la povertà come propria regola, vivendo di elemosina. Non solo. Tommaso non frequenta un’università pontificia, ma un’università imperiale, quella di Napoli, quindi entra in contatto con le punte più avanzate, anche estreme, della cultura che si stava laicizzando sull’onda di alcune tendenze che venivano dal mondo musulmano. E, da ultimo, Tommaso dove va ad insegnare? Nella più tumultuosa delle università medievali, quella di Parigi, dove si trova coinvolto nello scontro tra le dottrine tradizionali e le nuove tendenze laicizzanti. Come stupirci del coraggio intellettuale dell’Aquinate che – per ripensare interamente la fede cristiana – prende il pensiero di un pagano, Aristotele, che veniva trasmesso da quelli che allora noi chiamavamo “infedeli” (ma anche loro ci chiamavano così), cioè i musulmani, e che aveva già generato le eresie (cioè l’averroismo latino)! Non è casuale che il suo biografo, quando descrive il suo insegnamento, continui a connotarlo come “nuovo”. L’attitudine tomista è molto moderna, avvalora l’attivismo dell’uomo, il lavoro, la tecnica, la produzione dei beni, ma sempre dentro un ordine chiaro dei fini, dentro la costitutiva dipendenza dalla “Causa prima”, da Dio. Perché ho voluto esplicitamente richiamare Tommaso? Perché è l’unico autore di cui la Gravissimum Educationis raccomanda esplicitamente lo studio. Si tratta del n. 10 e non è l’unico punto: anche nel documento relativo alla preparazione dei futuri preti, il Concilio sostiene la stessa cosa. 8 5. Di fronte al presente Credo sia chiaro, a questo punto, che siamo messi di fronte alla sfida di confrontarci con la modernità, considerando che non ci è estranea, ma che in essa si è espressa una deviazione rispetto alla quale oggi è possibile un ripensamento. E siamo, così, al presente. Rispetto al presente è importante che noi riprendiamo coraggio, perché rischiamo altrimenti di non cogliere alcuni passaggi importanti che si sono verificati negli ultimi decenni. In particolare ne vorrei evocare uno: ci rendiamo conto che per vent’anni (tra gli anni '60 e gli anni '80) ci siamo massacrati sulla questione se la scuola dovesse educare o istruire? Ci rendiamo conto del fatto che oggi, finalmente, a livello normativo nessuno ha dubbi sul fatto che la scuola deve educare. Cos’è capitato in questi decenni per determinare un simile mutamento di rotta? È capitato un fatto assolutamente nuovo e imprevedibile: lo spostamento – pacifico – di milioni di uomini e donne. Questo fenomeno, il fenomeno migratorio, pone il problema dell’integrazione che richiede il riconoscimento di un orizzonte comune. Da questa esigenza prende forma il riconoscimento della scuola come realtà educativa perché è l’unica istituzione in cui passano tutti. Ecco perché alla scuola è stato restituito esplicitamente il mandato educativo. Questo lo voglio ricordare non per fare cronaca spicciola, ma perché la Chiesa, a differenza di altri soggetti pubblici, non ha mai avuto dubbi sul fatto che la scuola dovesse educare. Quindi, su questo terreno, i fatti ci hanno dato ragione, e certamente noi usciamo da quel confronto piuttosto provati, ma dobbiamo avere anche la serenità di dire che questo approdo al riconoscimento del fatto che la scuola educa, è precisamente l’auspicio che la Chiesa ha sempre fatto, e per la quale si è sempre battuta, e infatti mai nella scuola cattolica si è messo in dubbio questo assunto. In proposito, occorre rilevare i problemi – sul piano degli orientamenti didattici – che questa tendenza ha alimentato nella scuola di Stato. Voglio essere molto chiaro su questo punto. La scuola cattolica e la scuola di Stato sono diverse, ma non contrapposte. Entrambe – alla luce del mandato educativo – puntano a fare in modo che il ragazzo e la ragazza possano esprimere i loro talenti. La scuola cattolica persegue lo scopo a partire dalla Rivelazione cristiana come orizzonte culturale, la scuola di Stato prende le mosse dalla Costituzione la quale – evidentemente – è un riferimento anche per la scuola cattolica, ma non l’unico in quanto la sua matrice confessionale le attribuisce un preciso progetto educativo che si specchia nella evangelizzazione attraverso la cultura. Come si conciliano le due cose? Semplice: per il fatto che la cultura cattolica ha contribuito alla elaborazione della Costituzione, la scuola cattolica è in linea con la Costituzione; per il fatto che la scuola cattolica fonda il proprio curricolo sulla cultura ispirata dalla fede cristiana, va oltre il riferimento costituzionale senza negarlo: così pone la sua originalità. Non possiamo infatti ridurre la “mission” (come si dice oggi) della scuola cattolica al fatto che costituisca un ambiente moralmente sano e didatticamente efficiente perché anche la scuola di Stato ha queste medesime caratteristiche: è la confessionalità come matrice pedagogica che fa la differenza. Negli ultimi decenni, un passaggio è stato fondamentale e purtroppo vive una situazione difficile a causa della scarsità di risorse: l’autonomia scolastica. L’autonomia scolastica ha rappresentato – anch’essa – un riconoscimento per la scuola non statale che si è sempre riconosciuta “autonoma”, nel senso di collegata ad una progettualità propria, pur in presenza – evidentemente – del rispetto di standard comuni. Inoltre, dalla prospettiva cattolica (che è sempre stata sensibile al nesso scuolacomunità), il fatto che – grazie all’autonomia scolastica – le scuole siano state restituite alle comunità (attraverso la cooperazione con il territorio) e siano state esse stesse ricomprese come comunità (in particolare attraverso l’elaborazione del Piano dell’Offerta Formativa da parte del collegio docenti) è di grande rilievo sui piani culturale e pedagogico. L’autonomia scolastica, non dimentichiamolo mai, è stata l’ultima riforma scolastica “bipartisan”, a conferma di un valore 9 aggiunto di grande importanza, anche se ora rischia di scivolare verso una banale forma di decentramento amministrativo, nel momento in cui viene a mancare – soprattutto attraverso il contributo dei docenti, ma anche grazie ai genitori (che metto in secondo piano non perché contino meno, ma perché la loro presenza è transitoria essendo collegata alla frequenza scolastica dei figli) – il riconoscimento di un’identità e di un progetto culturali che vanno oltre la – pur essenziale – azione amministrativa. In tale senso, è importante che il POF affronti esplicitamente le sfide educative poste alla scuola da fenomeni come il disagio giovanile, che individui precisi orientamenti valoriali e introduca strategie concrete per incoraggiare – da parte degli studenti – l’adozione di comportamenti virtuosi, capaci di far passare dalle pure enunciazioni di principio (che – da sole – sono frustranti) a concreti stili di comportamento buono. La scuola ha una enorme incidenza sui ragazzi che almeno vi trascorrono una decina d’anni, in genere molti di più. Il fatto che, dopo anni e anni di frequenza scolastica, ci ritroviamo con adolescenti e giovani che faticano a darsi una progettualità, che con sconcertante facilità praticano comportamenti devianti o comunque manifestano disagio, deve farci riflettere. Il rischio – a mio avviso – è che abbiamo ceduto a una deriva di tipo meramente funzionale che ha trasmesso svariate competenze strumentali, ma non ha comportato un’effettiva educazione ossia la maturazione della libertà come capacità di scegliere il bene: la qual cosa richiede che si vada oltre la pura e semplice utilità. L’autonomia – ripeto – rappresenta un’opportunità. Perché? Perché permette ai docenti e ai genitori di confrontarsi attorno ad un progetto culturale. Si tratta di una cosa essenziale, rispetto alla quale – data la platea a cui mi sto rivolgendo – intendo soffermarmi sul ruolo dei docenti. Credo che siano sottoposti ad una resistenza non comune, perché è da vent’anni che li stiamo formando e riformando in continuazione, in una spirale che – avendo spesso ceduto alle mode – non rende sempre riconoscibile la ratio di quello che si sta facendo. Non dobbiamo mai dimenticare che il docente è essenzialmente un educatore. Se ripercorriamo la storia dell’Occidente, troveremo che dalla confraternita pitagorica in avanti (che è la più antica scuola di cui siamo a conoscenza) sempre la pratica educativa si prevalentemente connotata in senso comunitario. Quando Platone, nella Lettera VII, dice che la sua conoscenza non si può trasmettere come un sapere qualunque, afferma che – per essere comunicata – necessita di dialogo e prolungata frequentazione reciproca. È importante ricordarsi che il docente essenzialmente si qualifica come magister, come colui che è chiamato ad esprimere una prevalenza (di servizio evidentemente) perché la sua maturità personale e il controllo disciplinare di cui è dotato gli permettono di essere paidagogos cioè guida; è minister perché si pone al servizio di coloro che gli sono affidati e – grazie a questo atteggiamento – favorisce la loro espressione originale, cioè si comporta da maieuta. Dice bene Tommaso (che fu un grande magister): “è meglio illuminare, piuttosto che limitarsi a risplendere”. Temo che si tratti di riferimenti che abbiamo messo in ombra, talvolta almeno, quando abbiamo dato prevalenza ad un profilo docente connotato in modo formale, scommettendo soprattutto sulle competenze del docente. Weber fa notare come la parola tedesca Beruf – che significa sia “vocazione” sia “professione” – esponga al rischio di contrarre il significato di ciò che si fa, sulla pura e semplice strumentalità. Ma, a questo punto, ci sporgiamo sull’oggi. Oggi noi facciamo i conti con un richiamo frequente alla qualità. Questo richiamo alla qualità è collegato all’introduzione dell’autonomia per un verso e alla crisi delle risorse per l’altro, perché, evidentemente, è indispensabile procedere a delle rendicontazioni soprattutto quando le risorse sono limitate. Evidentemente, il riferimento alla qualità, anche quando è collegato alla rendicontazione, non è improprio, ma ci può essere un problema: come facciamo noi a valutare la qualità dell’offerta formativa? Prendiamo, ad esempio, il cosiddetto accreditamento dei corsi di laurea universitari che viene svolto – in vista della verifica della loro qualità – attraverso l’adozione di criteri quantitativi. Il problema è: noi possiamo far transitare tutta la qualità della sfida educativa dentro criteri quantitativi? Faccio un esempio. Uno di questi criteri è che non devono esserci “fuori corso”, perché – si ragiona così – se gli studenti non riescono a tenere il passo con gli esami, allora questo 10 significa che la qualità della didattica non è adeguata. Ora, a parte il fatto che un “fuori corso” può essere tale anche perché sta – contemporaneamente – sia lavorando sia studiando, si può anche verificare il caso – spesso è tale – che il ritardo sia dovuto al fatto che qualche esame non è stato superato. In quest’ultimo caso, è evidente che, se tutti venissero fatti passare senza adeguatamente accertarne la preparazione, non ci sarebbero più i “fuori corso”, ma – paradossalmente – avremmo un’università di eccellenza che sforna una massa di ignoranti. Non è l’unico esempio che ci può far riflettere, voglio farne un altro. Prendiamo i test Invalsi. Sono stati introdotti per valutare comparativamente i livelli di conoscenza degli studenti italiani, confrontandoli con quelli stranieri. Risultato: dal momento che i livelli di riuscita sono conosciuti, sta prendendo piede la convinzione che questi test possano differenziare le scuole secondo la loro presunta qualità formativa. Ne segue che i docenti stanno inclinando verso l’idea che i test Invalsi debbano condizionare l’intera offerta formativa. Si tratta di un’autentica aberrazione. Sappiamo infatti che i test, in generale, valutano solo una componente degli apprendimenti; inoltre che, concretamente, si tratta di uno strumento che può rivelarsi scarsamente affidabile per quanto concerne la selezione, come si è constatato anche recentemente quando si è proceduto a valutare e selezionare i candidati al “tirocinio formativo attivo” (finalizzato all’insegnamento) attraverso i test. Ecco perché – come mostra lo sviluppo storico della docimologia (la scienza della valutazione), dopo l’iniziale entusiasmo per i test, si è abbracciata una disposizione molto più critica. 6. Il problema della tecnica Con questo giungiamo a focalizzare il vero problema. Dopo la crisi delle ideologie, un’ideologia su tutte si va imponendo, quella della tecnica. La tecnica è l’ultima ideologia sul tappeto perché la tecnica, attraverso il criterio della funzionalità, si spaccia come “meta-ideologica”: è chiaro che un orologio funziona a prescindere dalle preferenze politiche oppure dagli orientamenti ideologici, ma – come insegna appunto la modernità “minoritaria” (da Pascal in avanti) – l’esprit de géométrie non basta. Non si tratta di abbracciare una disposizione ostile nei confronti della tecnica, ma di rilevare che la logica del funzionamento, pur essendo importante, non corrisponde a ciò che è più importante ossia la condizione etica della persona. Il problema è che, sulla scia di un positivismo che definirei di ritorno, stiamo mescolando tipi di riscontro che sono eterogenei. Il criterio quantitativo ha un senso, ma deve essere integrato con altri riscontri di tipo qualitativo, descrittivo, narrativo, che sappiano differenziare l’approccio. Credo che sia molto importante. In questo senso è strategico il termine competenza. Non dimentichiamo che la parola “competenza” deriva da cum-petere, che significa “dirigersi verso la stessa meta”: la competenza non può essere liquidata con un “saper fare”! La competenza deve essere un saper fare che dirige verso l’umanizzazione, in quanto meta comune. Parliamoci chiaro: la crescente enfasi sull’eccellenza, in tanto in quanto conduce a trascurare la normalità, è semplicemente ridicola. Evidentemente, l’eccellenza – quando c’è – va valorizzata, ma, ovviamente, si tratta di un fenomeno limitato; inoltre non implica alcuna garanzia di tipo morale: si può essere eccellenti – in senso scolastico – e filibustieri. Quindi: cerchiamo gli eccellenti, valorizziamoli, ma non dimentichiamo tutti gli altri che sono comuni e ordinari, perché non possiamo trattate l’ordinarietà come se costituisse qualcosa di scontato e banale. Non è casuale che Aristotele consideri l’eccesso come vizio, esattamente come il difetto: questo lo dico non per avvalorare la mediocrità, ma per avvalorare l’idea che non dobbiamo inseguire lo straordinario dimenticandoci dell’ordinario, anche perché l’ordinario può essere molto straordinario: un ragazzo e una ragazza normali che fanno le loro belle fatiche per crescere, sono straordinari. Quindi, attenzione al positivismo di ritorno. Mi avvio a concludere. 11 Io spero, con questo mio intervento, di aver fatto cogliere che noi dobbiamo – come ci ha insegnato il Concilio Vaticano II – avvicinare la modernità, e quindi il mondo, considerando che c’è corrispondenza tra noi, la modernità e il mondo. Ma, come ci è stato detto da sempre (e in particolare prima del Concilio Vaticano II), non dobbiamo confondere la corrispondenza con l’identificazione. Noi siamo chiamati a fare il nostro dovere perché le cose evolvano verso quello che è il compimento che Dio ha posto di fronte alla storia. Non possiamo quindi tranquillamente andare a braccetto con la modernità (questa è la critica infatti dell’ultimo Maritain ad un certo modo di concepire la recezione conciliare), perché, se le cose stessero così, non ci sarebbe alcuno scandalo nella Croce, non ci sarebbe nessun elemento di radicale novità dentro l’annuncio cristiano, e invece questo elemento c’è. Allora, a questo punto, dobbiamo prendere veramente in mano l’emergenza educativa e affrontarla come una sfida. Mi piace molto questa parola, perché la parola “sfida” esprime tutta la fatica di chi non si rassegna, ma affronta le cose in chiave di conquista, in chiave agonistica. Non è casuale che san Paolo utilizzi immagini agonistiche quando parla dell’educazione alla fede (quella militare e quella sportiva). C’è un bel passo dell’opera teatrale La bottega dell’orefice, scritta da Wojtyla quando era giovane vescovo, che mi piace citare avviandomi alla conclusione. Parlando dell’amore e delle sue indubbie difficoltà, un giovane dice in quel testo: “L’amore è una sfida continua. Dio stesso forse ci sfida affinché noi stessi sfidiamo il destino!”. Noi dobbiamo non dimenticarci mai del fatto che il Cristianesimo ci ha introdotti in una prospettiva di sfida al destino, non di acquiescenza al destino, come era nel mondo antico. In questo c’è molto della novità cristiana. È questo che anche la Gravissimum Educationis afferma chiaramente quando dice che lo scopo dell’educazione è far imparare agli educandi a vivere la propria vita secondo l’“uomo nuovo” L’“uomo nuovo” sfida il destino, perché Dio – in Cristo – gli ha fatto riconoscere – come dice la Gaudium et Spes – la sua (la nostra) altissima vocazione. Siamo quindi sollecitati ad abbracciare una speranza fondata. Negli anni Novanta un politologo francese ha pubblicato un volume – La rivincita di Dio – che è stato tradotto in tutte le principali lingue del mondo. La tesi che sostiene è questa: a dispetto di ciò che dicevano le ideologie del Novecento, tutte le rivoluzioni degli ultimi quarant’anni sono partite da un movente religioso. Altro che “religione oppio dei popoli”! Nel mondo cristiano, pensate a quello che è successo nell’Est europeo, ma anche a quello che è avvenuto nelle Filippine, a Timor, e via di questo passo. La stessa primavera araba – nel mondo musulmano (ma con la significativa partecipazione cristiana, se pensiamo al ruolo giocato dai copti in Egitto) – ha una chiara matrice religiosa. Perché la religione non è l’“oppio dei popoli”? Perché, in generale, ma soprattutto – e in forma assolutamente originale – nel Cristianesimo fa incontrare l’uomo con la sua dignità: come spiegarci diversamente ciò che accade nell’incontro tra creatura e Creatore? Del resto, se ci pensiamo bene, è la fede che spinge a non rassegnarsi. È fondamentale che noi ci ricordiamo di questo. Comprendiamo, allora, perché – nella scuola e in ogni altra realtà che abbia un ruolo pubblico – noi cattolici siamo sfidati a incarnare una presenza significativa, una presenza propositiva, che sa attingere alla fede per fare una proposta culturale a tutti. Se vogliamo evitare il peccato di omissione, dobbiamo proporre con convinzione, all’interno del dibattito democratico, ciò che per noi è essenziale argomentandolo per renderlo accessibile a tutti. L’autonomia offre questa possibilità, per quanto attiene alla scuola, ma questo domanda la capacità di riordinare le idee. Benedetto XVI ci sta aiutando a riordinare le idee, perché ci sta aiutando – come ha detto chiaramente a margine del Sinodo dei Vescovi dedicato alla nuova evangelizzazione – a identificare l’essenziale. È indispensabile organizzare la presenza cattolica nella scuola e fuori di essa (ad esempio, attraverso le associazioni dei docenti, degli studenti, dei genitori). È indispensabile esprimere una presenza che evita di cedere al narcisismo individuale e sa manifestarsi comunitariamente, in completa e convinta comunione con la Chiesa e con il Vescovo. Concludo citando un testo che credo sia un vero e proprio manifesto culturale e pedagogico: il discorso che il Papa ha tenuto a Ratisbona. Questo testo è importante che venga letto, che venga 12 presentato, che venga studiato, perché in quella sede Benedetto XVI ha ricordato che il Cristianesimo è la fede nel Logos. La parola logos è quella che il mondo greco classico utilizza per identificare il principio. Il Logos cristiano (come dice il prologo del Vangelo secondo Giovanni) ha la “L” maiuscola, perché è una Persona, è il Principio fatto carne, è Cristo che diventa verità concreta: questo spiega perché il Cristianesimo – contrariamente a ciò che ha sostenuto e continua a sostenere il nichilismo – abbia restituito all’essere umano la mondanità. Che cosa significa? Lo spiego con un esempio. Quando Aristotele, nella Metafisica, illustra il concetto di relazione, porta come esempio di essa anzitutto la relazione matematica: il doppio, il triplo… Perché noi oggi, quando pensiamo a questa realtà, pensiamo anzitutto alla relazione interpersonale? Perché tra noi e Aristotele c’è stata l’evangelizzazione alla luce della quale è stato riconosciuto il primato del concreto sull’astratto. In questo senso, la mondanità è stata restituita all’uomo, anche se – come tutti sappiamo – costituisce la realtà penultima, non quella ultima e definitiva. Dentro questa rivalutazione della concretezza c’è la rivalutazione della condizione umana, qualitativamente distinta da quella animale. Già gli antichi avevano identificato l’essere umano come l’animale dotato di logos. Ma che cosa significa questo? Rimanda solo al pensiero e alla parola come opportunità strumentali? No. La parola logos deriva dal verbo leghein che significa “raccogliere”: l’essere umano è l’animale che sa raccogliersi cioè condividere. È stato trovato uno scheletro neanderthaliano risalente a 40/50.000 anni fa. Presenta un trauma osseo che impediva al soggetto in questione di alimentarsi da solo, ma la sua crescita ossea dimostra che è sopravvissuto a questo evento, evidentemente perché il gruppo se ne è preso cura. Questa è l’originalità umana: la cura prestata non solamente ai cuccioli (come accade in ogni realtà animale), ma anche agli adulti quando non sono più capaci di badare a se stessi. L’originalità umana, scaturente dalla libertà, mostra la capacità di elevarsi al di sopra di ciò che è utile, per questa ragione apre sulla dimensione del gratuito, dell’amore. Ma questo è il tratto tipico di Dio, secondo la Prima Lettera di Giovanni; quindi qui si gioca la nostra somiglianza con il Creatore. Da questa condizione strutturale, ma non fatale (perché – essendo liberi – siamo chiamati continuamente a sceglierla) discende la sfida fondamentale dell’educazione: accompagnare chi cresce a saper scegliere il bene, cioè a saper prendere decisioni e praticare comportamenti che siano all’altezza della singolare dignità di cui è dotato l’essere umano. Vi ringrazio per l’attenzione. Primo intervento (un insegnante di religione). I nostri alunni, e anche noi docenti, in questo momento siamo legati alla competizione: fin dalla scuola primaria questo richiamo si fa sentire… La competizione unita soprattutto con la tecnica! Trovo importante sottolineare questa dimensione della competizione e della tecnica, che sembra l’arma vincente della scuola e anche dell’alunno. Più che la persona, il richiamo che sembra prevalere – almeno tra i miei studenti – è la competizione. Più che l’educazione in sé della persona, la sua libertà e le sue potenzialità, sembra prevalere la ricerca di strumenti utili. Per gli insegnanti, questa tendenza è spesso problematica. Secondo intervento (un insegnante di religione). Mi sembra che in questa società, dove forse mai come prima d’ora si è riusciti appunto a raggiungere un riconoscimento dei diritti dell’essere umano, dell’essere umano in quanto tale, però si faccia una fatica enorme a riconoscere un senso comune all’interno dell’“umano”: la qual cosa alimenta atteggiamenti contraddittorii sulla famiglia, sulla scuola… Risposta al primo intervento. Facciamo il punto sul tema della competizione. È vero: noi ormai stiamo, direi per disperazione, scommettendo sulla competizione come matrice della motivazione, e molto spesso, nelle famiglie in particolare, si adotta una strategia strumentale per cui il figlio è incentivato all’impegno scolastico attraverso la promessa di qualcosa: un giocattolo, un oggetto che interessa il ragazzo, tempo libero da gestire come vuole… Ma questa modalità di agire è sbagliata perché, strumentalizzando la conoscenza umana, ci rende dipendenti dalle cose. Guardini è chiaro quando osserva che le cose ci addomesticano, mentre le usiamo. Faccio un esempio. La gran parte 13 di noi è diventata adulta senza il cellulare, di cui però oggi non riusciamo a fare a meno: non vi sorge il dubbio che ci abbia addomesticato? Occorre tenere ben presente che l’essere umano rischia di alienarsi nelle cose. Su questo problema ha attirato l’attenzione il Novecento, ad esempio l’opera di Maritain L’educazione al bivio. In essa lo studioso, per suggerire un concreto riferimento utile in vista del governo della tecnica, richiama l’antico principio dell’ars cooperativa naturae: la tecnica corrisponde a ciò che deve essere, se mantiene un profilo cooperativo rispetto alla natura, cioè se non la sostituisce. In caso contrario si verifica una deriva di tipo tecnico, strumentale, consumistico… Il consumo non va demonizzato in sé, perché rimanda a un bisogno, ma occorre tenere presente che, perseguendo la soddisfazione del bisogno e basta, difficilmente si matura stima di sé perché ciò di cui si fa esperienza è l’asservimento. Il problema non va trascurato perché, di fronte ai comportamenti irresponsabili delle giovani generazioni, il dubbio è che siano praticati perché i nostri ragazzi – mediamente presi – hanno scarsa stima di se stessi. Paradossalmente il consumismo, nel momento in cui alimenta il nostro io, lo alimenta in chiave narcisistica, e quindi ci impedisce di costruirci una stima di noi stessi. Su questo è bene che noi riflettiamo attentamente, perché forse ci aiuta a cogliere alcuni dinamismi giovanili (e non solo). La competizione non va demonizzata, ma può essere apprezzata solo ad una condizione. Dato che è cum-petere, deve mettere capo anzitutto alla competizione con se stessi e al riconoscimento del fatto che questo competere con se stessi è comune a tutti. Se noi riusciamo a volgere la competizione all’interno della persona, con sé stessa, noi attiviamo un potente canale etico perché coniughiamo competizione e cooperazione. Per questa ragione, sono contrario all’affermazione che occorre mettere in campo solo logiche cooperative, perché l’essere umano deve diventare anche capace di decidere da sé, deve essere anche capace di assumersi le sue responsabilità e anche di correre i suoi rischi. A patto però che questa competizione sia vissuta anzitutto all’interno, con se stessi, quindi in chiave cooperativa con gli altri, perché si riconosce che anche gli altri sono coinvolti in questa logica di miglioramento di sé, che è poi la logica dell’ascesi, se ci facciamo caso. Risposta al secondo intervento. La seconda questione, sui diritti dell’uomo: è un tema molto importante, per più ragioni. Io concordo con lei in merito al problema: la fatica di cogliere ciò che è comune. Due considerazioni vorrei fare. La prima riguarda la scuola: perché è da tempo in crisi? Forse perché, in quanto la scuola è l’istituzione che la comunità ha deputato ad introdurre in essa comunità i più giovani, se la comunità non ha più un’identità condivisa, la scuola come fa a riconoscere quella che oggi viene chiamata mission? La crisi della scuola è sintomatica della crisi della comunità cioè di un aggregato che fatica a riconoscersi attorno a dei nuclei etici e culturali condivisi. Del resto, è esemplare – negativamente – quello che sta accadendo all’Europa. Il progetto dell’unificazione europea ha preso forma decenni fa anche da motivazioni economiche, ma soprattutto in una prospettiva etica e valoriale: questa era l’Europa che avevano in mente Adenauer, Schuman e De Gasperi. Oggi ne parliamo soltanto per le fluttuazioni dell’euro e per lo spread: ma ci rendiamo conto?! La crisi della scuola è, quindi, il sintomo di un malessere più ampio, rispetto al quale, sul piano culturale, dobbiamo cogliere forse una cosa che esporrei sommariamente così. Negli ultimi decenni si sono contrapposti due modelli sociali, politici, ed economici – quello orientale e quello occidentale – ed è chiaro che il secondo ha prevalso sul primo, perché non c’è una sola società che funzioni secondo quella che era la logica propagandata dai “Paesi dell’Est”. Anzi, assistiamo al paradosso dell’ipercapitalismo dell’unica potenza che continua a definirsi comunista: la Cina. Tuttavia, è altrettanto chiaro che il modello liberista sta degenerando in un relativismo distruttivo, ma anche incoerente con le sue premesse. Nella lettera che Benedetto XVI ha inviato a Marcello Pera in risposta al dono del suo libro Perché dobbiamo dirci cristiani, il Papa osserva che il liberalismo delle origini era composto di credenti che professavano l’esistenza di una comune natura umana. Questo spiega perché, alle origini del liberalismo, ci siano le Dichiarazioni dei diritti (inglese, americana, francese) che erano avanzate sulla base del riconoscimento della comune 14 natura tra gli esseri umani. Infatti, le rivoluzioni liberali inglese, francese, americana, per poter obbiettare al potere monarchico assoluto, facevano leva sull’affermazione che gli esseri umani sono tutti uguali per nascita! La nascita rimanda alla ”natura”. Questo però significa che il liberalismo delle origini non era individualista, perché, se si afferma che esiste una natura umana, cioè che esiste una condizione comune, vuol dire che c’è qualcosa di comune tra gli esseri umani. Torna il logos, tradotto come individuo-in-relazione. Ma che cos’è l’individuo in relazione? L’individuo-inrelazione è la persona. Il Cristianesimo ha raccolto nell’idea di persona questa identità strutturalmente relazionale perché ad immagine e somiglianza di un Dio Trinitario che è (come dice Tommaso) relazione sussistente. E allora, a questo punto, la sfida che abbiamo davanti, è quella di non consegnarci passivamente alla logica dei soli diritti quella che – alimentata dalla cultura radicale – sta portando alla dissoluzione della trama comunitaria, ma di riconoscere diritti e doveri in quanto correlati ad una fondamentale corresponsabilità che unisce gli uomini in quanto soggetti dotati di logos nel senso di soggetti comunicativo-comunionali. Ultima considerazione: a questo punto dobbiamo vincere una certa ritrosia rispetto al concetto di natura, di natura umana, di legge naturale (e l’attuale Pontefice infatti ce la continua a richiamare) ed è fondamentale che noi riconsideriamo questo concetto in questa sua valenza formidabile comunionale-comunicativa. Sul piano degli studi, questo significa rimettere in onore la metafisica. Questo lo dico perché le prospettive fenomenologiche ed ermeneutiche, che hanno tenuto banco negli ultimi decenni, pur essendo apprezzabili per il fatto che si oppongono al positivismo, sono esposte alla deriva di tipo soggettivista. Al contrario la metafisica – in quanto conoscenza intelligibile – mentre avvalora la singolarità, la declina in chiave comunicativa e non soggettivista, secondo quello che sostiene già Eraclito: ossia che il logos costruisce koinonia cioè comunanza