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EDITORIALE
Un modello di business dalla parte del lettore
di Paolo Scandaletti
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STORIA,
CULTURA
E RICERCA
Il “magistero critico” di Carlo Bo
di Sergio Zavoli
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Carlo Bo tra fede e cultura
di Gianfranco Ravasi
La scelta della responsabilità: “che cosa siete andati a vedere”?
di Dionigi Tettamanzi
Faremo (ancora) notizia? La professione è al bivio
di Antonio Sciortino
La nascita della terza pagina: cronaca e gossip di un insuccesso
di Giorgio Tonelli
Panorama della stampa cattolica scritta in Romania
di Anca Martinas
PROFESSIONE
TESI DI LAUREA
DOCUMENTI
CONVEGNI
E NOTIZIE
LIBRI
Congresso FNSI: l’alleanza tra editori e giornalisti. Urge investire in
formazione
di Pino Nardi
Dicono di noi
di Stefania Di Mico
Relazioni pubbliche e occulte: files “ret put”.
L’inchiesta Parmalat e le responsabilità dei comunicatori
di Vanessa Russo
Roma: L’attività di lobbying tra trasparenza e partecipazione (Camilla Rumi)
p. 48 - Pescara: Cambiamo l’impianto della comunicazione con la Media
Education (Sabrina Speranza) p. 49 - Milano: si può migliorare la qualità
dell’informazione economica e politica (Veronica Todaro) p. 50 - Roma: Tv e
Minori, un rapporto controverso (Camilla Rumi) p. 51 - Rapporto Ossigeno per l’informazione e i cronisti sotto scorta (Simone della Ripa, Ejo
) p.53 - Roma: “E’ tutto per stasera. Quando la politica entra nei Tg”
(Rita Piccolini, Televideo Rai) p. 55 - Ricerca Università di Urbino:
Internet in ascesa ma la tv regge (Andrea Lombardinilo) p. 56 - Pubblicità: i ricavi dei quotidiani Usa calano ai livelli di 25 anni fa (lsdi) p. 60
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DESK cultura e ricerca della comunicazione
rivista trimestrale UniSOB e UCSI
Anno XVIII n. 1
direttori
Paolo Scandaletti (responsabile)
Lucio d’Alessandro
direttore editoriale
Massimo Milone
comitato scientifico
Francesco M. De Sanctis (Presidente), Giuseppe Acocella, Giuliano Adreani, Gianfranco
Bettetini, Isabella Bossi Fedrigotti, Gianluca Comin, Massimo Corsale, Piero Craveri,
Lucio D’Alessandro, Ornella De Sanctis, Furio Garbagnati, Enzo Iacopino, Andrea
Melodia, Paolo Mieli, Massimo Milone, Mario Morcellini, Agata Piromallo Gambardella,
Paolo Scandaletti, Franco Siddi
redazione
00186 Roma, Via in Lucina 16/A
Tel. 06 68802874
Fax 06 45449621
Rosa Maria Serrao (capo redattore)
[email protected] 06 68802874
Napoli: Pier Luigi Camilli, Franco Mennitto, Andrea Pitasi
proprietà ed editore
UCSI www.ucsi.it
giunta esecutiva
Andrea Melodia (presidente), Pino Nardi (vicepresidente), Franco Maresca (segretario), Mariella
Cossu (tesoriera), Maurizio Bassetti, Sara Bessi, Vania De Luca (presidente Ucsi Lazio), Massimo
Milone (past president), Guido Mocellin, Mario Repetto, Gaeano Rizzo, Francesco Occhetta s.i.
(consulente ecclesiastico), Paolo Scandaletti (past president), Paola Springhetti (delega statuto),
Donatella Trotta (delega cultura), Gianni Virgadaula (delega cinema).
stampa
CSR -00158 Roma, Via di Pietralata 157
iscrizione al ROC
n. 5421
arretrati
redazione DESK:
[email protected]
finito di stampare: marzo 2011
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UN MODELLO DI BUSINESS
DALLA PARTE DEL LETTORE
PAOLO SCANDALETTI
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Paolo Scandaletti, giornalista e
scrittore. Insegna Storia del giornalismo al Master di giornalismo dell’Università LUMSA di
Roma.
Dirige questa rivista con Lucio
d’Alessandro.
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uale modello di business va emergendo dalla discussione globale sulla
morte dei giornali e la crisi della professione giornalistica, nelle scelte e
nelle esperienze adottate dagli editori più avveduti? Ben poco si leva sull’orizzonte italiano: dai troppo promessi e mai realizzati stati generali di
governativa proposta, come dalle assemblee della Fieg e dai congressi di
Fnsi: dove prevalgono clamorose miopie e le ennesime incalzanti richieste di aiuti pubblici.
Altrove si parla meno e si realizza di più. Senza badare alla solita e
pur significativa America di Murdoch per soffermarci sul panorama
europeo, perché non animare qui e con tempismo un bel confronto fra
tutti i soggetti interessati sull’esperienza vincente dei tedeschi di Axel
Springer? Si potrebbe chiamare a riferirne il presidente di quella società
editrice, che presenta per noi l’ulteriore vantaggio di parlare italiano,
Giuseppe Vita.
A Berlino, l’amministratore delegato Mathias Dopfner è serenamente convinto che “la stampa vivrà più a lungo di quanto si pensi”,
ancorando questa convinzione su solide basi di no e si. Evitando consapevolmente l’avventura televisiva (mantengono piccole partecipazioni in
tv locali e in un grande canale turco), hanno preferito il vasto impegno
nella radio. Ma il successo e i soldi li fanno proprio sulla carta. E quale
carta? Quella del più diffuso quotidiano del Vecchio continente - 3,3
milioni di copie ogni giorno- la Bild ed il fratello più autorevole e vero
giornale nazionale della Germania Die Welt.
Accompagnati da 230 fra testate locali, periodiche e specializzate
(femminili, sportive, tecniche, consumi, ecc.). Con un’espansione rilevante ad Est, fin dalla caduta del muro: in Ungheria oggi il primo produttore di giornali, poi significative partecipazioni in Russi, Polonia,
Serbia, Slovacchia, Cechia. Spagna, Francia e Svizzera. Tutto ciò integrato da una vasta catena di siti-web e portali online: servono per vendere le informazioni, come per le redditizie compravendite immobiliari.
E’ stata unificata la raccolta e la preparazione delle informazioni nazionali ed internazionali per i giornali locali. Rafforzata la vastità e la qualità dei servizi, investendo sui giornalisti.
Ma la scelta chiave che identifica il posizionamento editoriale sul
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Mauro Calabresi afferma
che i giornali italiani debbono aiutare il lettore a
capire, sapendo scegliere
e rinunciando a spettacolarizzare ed enfatizzare.
Per Enrico Mentana
occorre ritrovare presto le
nostre ragioni di essere
giornalisti e fare informazione.
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mercato e sulla quale si fonda la credibilità del grande gruppo editoriale, sta nei cinque punti politico-sociali che fanno da preambolo alle attività e traccia la linea delle sue testate. Il grande gruppo, ponendosi dalla
parte del lettore - non da quella dei poteri forti della politica, dell’economia e della finanza - afferma di voler perseguire: 1. la difesa della
libertà e della legge in Germania, nella prospettiva dell’unificazione
europea; 2. la riconciliazione fra tedeschi ed ebrei e la difesa dello stato
d’Israele; 3. il sostegno all’’Alleanza atlantica e la solidarietà con gli Stati
Uniti; 4. il rifiuto dell’estremismo, 5. la promozione della libera economia sociale di mercato.
Su tali basi quei giornali hanno costruito la loro identità; vengono riconosciuti dai lettori, che li premiano con il successo. Non con la
sopravvivenza pelosa e gli aiuti di stato.
In tema, alcune segnalazioni sulle quali poggiare una qualche
nostrana speranza. Nella giornata dell’informazione al Quirinale, il Presidente ci richiama senza perifrasi alla “correttezza professionale”. A
Milano, nel tradizionale dibattito fra giornalisti di livello, Mauro Calabresi afferma che i giornali italiani debbono aiutare il lettore a capire,
sapendo scegliere e rinunciando a spettacolarizzare ed enfatizzare; per
Enrico Mentana, prevalendo la lite e l’urlato, l’omissione dei fatti e l’interesse delle persone per bene, occorre ritrovare presto le nostre ragioni
di essere giornalisti e fare informazione.
L’Ordine della Lombardia, in vista della ripresa dei convegni di
ottobre, promuove tra gli iscritti un sondaggio (a cura di AstraRicerche
Enrico Finzi ) su: fatti separati dalle opinioni, pressioni della pubblicità,
diritti della privacy, l’etica su web tv uffici stampa e quotidiani, i ruoli
dei comitati di redazione, degli Ordini, dei magistrati, degli editori, dei
consumatori. (Quanto a questi ultimi sarebbe stato più corretto parlare
di cittadini/lettori/utenti). Bravi, così si prende il toro per le corna: una
confessione pubblica e un rimettersi in gioco per il recupero della
dignità e della credibilità..
Il presidente del gruppo editoriale Longanesi Stefano Mauri scrive: “So che da quando è esplosa internet, nonostante i contenuti gratuiti disponibili, si sono venduti sempre più libri. Perché sedersi a leggere o entrare in una
libreria sono desideri che precedono la scelta dei libri”.
Paolo Scandaletti
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IL “MAGISTERO CRITICO” DI CARLO BO
SERGIO ZAVOLI
el consegnarmi a nome
del Senato Accademico
urbinate il diploma di
laurea in Lettere honorìs
causa, Carlo Bo, abbassando appena la voce, ma
non tanto da non farsi sentire, disse
semplicemente: “Non mi sembri nella
manica larga del potere, un giorno
potrebbe servirti!”. E la cerimonia finì
li. Con l’aula magna in piedi ad applaudirlo per quel piccolo sberleffo al
mondo di chi dà e toglie gli scranni,
nel quale più che farmi le ossa dovevo
avergli dato l’idea di potermele rompere. Gli sono rimasto riconoscente
anche per quella concreta testimonianza di solidarietà. Che poi non pensassi
di usare il prestigioso e gratuito “pezzo
di carta” è questione di ritegno; pur
sapendo che, se vi fossi stato costretto,
avrei potuto profittarne. Ricevevo
infatti non una pergamena, ma addirittura l’accesso a una professione
ancora, a malgrado di tante cose, tra le
più onorevoli.
L’ho sempre visto così, capace come
pochi di dare alle cose, specie se paludate, quella piegatura ironica che era
un tratto tra i più disarmanti della sua
personalità non solo privata, ma anche
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accademica e magistrale. Tralascio la
politica, che egli frequentava in virtù
di un forte sentire civile, non propriamente di una vocazione, “troppo al di
sopra dei miei mezzi”, diceva.
Mi sono fatto un’idea credo fondata
delle sue ritrosie osservandolo nelle
occasioni, diciamo, minori. Siamo
stati per tanti anni nella giuria del Premio Estense, di cui fu lo storico presidente, cui succedetti alla sua morte, e
ricordo anche i tratti più personali, per
esempio, del carattere. E va da sé che
quella familiarità è la sola a darmi titolo per tracciare, qui, un profilo dell’indimenticabile amico.
Ricordo quando gli si chiedeva di partecipare a qualcosa - fosse un dibattito,
una commissione, un verdetto, fino a
concedere l’aborrita intervista –
prima aveva immancabilmente la tentazione di non accettare, poi di non
presentarsi, quindi di fuggire e infine,
alle strette, di limitare i danni - i suoi,
naturalmente - parlando poco, e senza
andare troppo nei dettagli, come si
conveniva a un uomo di quel prestigio,
disincantato e libero. Sicché, il suo era
sempre un giudizio che più estorto, e
scarno, non avrebbe potuto essere. E
quando le decisioni finali prendevano
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Sergio Zavoli,
Senatore,
Presidente Commissione di Vigilanza
RAI
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forma dai suoi pareri, mentre la laboriosità profusa dagli altri non di rado
si risolveva in qualche ormai ininfluente pezzo di bravura, prendeva
congedo: raccoglieva in fretta sigari e
fiammiferi, cappello e bastone, abbandonando risolutamente la scena.
Cattolico con venature di giansenismo
e modernismo insieme, era antidottrinale, ma risolutamente “cattolico, apostolico romano” quando dovevano prevalere, sui giochi della Storia, le “questioni prime”. Animato da spirito preconciliare, interiormente manzoniano,
privo di qualunque esteriorità, viveva
con molti rischi, e altrettanta consapevolezza, l’arduo confronto fra intelligenza e coscienza. Una vita spesa con
la moneta volta a volta grave e mite
della parola: quella che distingue, separa, mette insieme universi di altre
parole, prese dalla vita e condotte alla
letteratura, o viceversa: cioè l’ordine
mentale, estetico ed etico di Carlo Bo,
direi l’ossessione umanistica del suo
cimento dentro la grande critica del
secolo appena trascorso.
Si era occupato, per quasi settant’anni,
di letteratura italiana, francese, spagnola. Nelle opere di critica, nelle raccolte antologiche, nelle riviste culturali, fossero o no di tendenza, nei saggi e
nelle traduzioni, un suo tratto originale e costante era “il tentativo di compenetrarsi nello spirito del poeta e
dello scrittore”, sono parole sue. E ciò
per fare della letteratura un universo
vivente, che ha per centro l’uomo, e
possiede “segno” e “scopo” solo se
incarna un fondamento etico. Con
questo sestante Carlo Bo ha attraversato i territori della saggistica e della critica, dell’università e del giornalismo,
nel quale ha esercitato soprattutto la
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riflessione civile, etica, morale. Il Corriere della Sera da questo punto di
vista è stato una delle sue palestre, e
finestre, privilegiate. Poi verrà il riconoscimento della politica, che lo volle
a Palazzo Madama, senatore a vita, per
i valori civili sempre testimoniati,
assertore e custode di scelte mai solenni, né sempre obbedienti ai canoni
obbliganti delle fedi e delle convinzioni, dalla più alta alla più terrena.
Fu uno dei padri, non solo spirituali,
dell’ermetismo ed ebbe subito per
sodali Luzi, Betocchi, Parronchi - forse
riservando a Betocchi un di più d’amicizia, nata fin dall’esordio critico di Bo
su Frontespizio, e dalle pagine di Letteratura come vita, due momenti in cui
affrontò i principi della cultura e della
critica e, con essi, la questione estetica;
manifestandosi come l’autorevole indicatore di un linguaggio che si affrancasse dai legami, fin troppo convenuti,
con la carducciana, austera letteratura
civile, le foscoliane, romantiche modalità neoclassiche e decorative, per non
dire del fastoso, corrusco decadentismo dannunziano, coi suoi raffinati
estetismi, e della prorompente rivoluzione futurista, la più temuta, anche
perché la più consentanea a una
modernità da cui il fascismo attingerà
la sua controversa identità culturale e
persino ideale.
L’ermetismo, per Bo, fu il segno che si
poteva far poesia senza cadere nella
corruttibilità di un humus culturale
influenzato dall’ideologia, cioè fuori
da ogni compromissione. La consuetudine di Bo con i più grandi poeti del
secolo sta a dimostrarlo. L’ermetismo,
riassumerà Bo in una intervista che gli
feci nel ’92, “nasceva dal bisogno di
allargare il campo delle esercitazioni
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letterarie concluse, da noi, con la stagione delle avanguardie. I giovani
ermetici pensavano di promuovere
una sorta di rinnovamento, riportando lo sguardo sulle letterature straniere, che una censura più o meno sommersa della politica fascista aveva cercato di relegare in un angolo. Può
darsi che questo fervore fosse anche
illusorio, può darsi che nel cercare
altre strade si cadesse in un altro errore di giudizio, ma tanta animazione era
il frutto di una ricerca e di un’attesa”.
D’altronde, venne subito il messaggio
di Montale con il suo verso temerario,
“ciò che non siamo, ciò che non
vogliamo”, che fu come il manifesto di
quella stagione non solo letteraria.
“Quel verso di Montale”, dirà Carlo
Bo, è stata la bandiera di almeno due
generazioni che intendevano affrontare la storia, e quindi il futuro, con un
cuore più libero, senza religioni ufficiali […]. Naturalmente, il verso è stato
anche inteso, in modo erroneo e abusivo, come un atto di dimissione. Ma
così va il mondo!” Carlo Bo non transigerà, in generale, sull’uso della parola. Ricordo quando mi segnalerà “un
buon libro”, dirà così, ed era Il giardino
delle esperidi, di Pontiggia, indicandomi
questo breve passaggio: “Ci si aspetta
ormai così poco dalla parola che essa
finisce quasi sempre per darlo”. Sebbene possa apparire superfluo, molta letteratura incoraggiata da Bo è percorsa
da una lucida nostalgia della parola.
Nulla di estetizzante, o bigotto: militava per un patrimonio da cui la letteratura, diceva, avrebbe tratto la sua stessa sopravvivenza. Ma non poté sfuggire, proprio a lui, che la parola letteraria, quando esaspera la sua letterarietà,
andandosene in eccessi di metafore, di
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allusioni o di ambiguità, senza la forza
necessaria per sostenerle, può diventare la più insidiosa per l’unità concettuale di chi legge, costretto ad affrontare una perdita di centralità, e persino di identità, della parola medesima.
Il concetto stesso di letteratura, intesa
come scienza, conoscenza e coscienza
della comunicazione rischiava di apparirgli un centro vuoto quando rivendicava un primato anziché “mettersi al
servizio” così diceva “di una parola
sacralmente libera nel suo arcano universo”. Era qualcosa di misticheggiante, ma corretto, lealmemte, da un laicismo che rivendicava la sua parte di
diritti, a cominciare da un neutrale
bisogno di purezza.
“Quando gli uomini del nostro tempo
parlano, ciò che si scambiano è solo
un rumoroso silenzio che copre tutto
quanto è interessante e vero, ma che
rimane in uno sfondo irraggiungibile
dalla parola”. A questa riflessione di
Kafka, nella sua gelida e definitiva
compostezza, Bo oppose il suo massimo calore civile e morale, dedicato
insieme a mente e spirito; del resto,
non si assuefece neppure alla radicale
sentenza di Silone, secondo cui “parlare e mentire sono oggi diventati sinonimi”.
Voglio ricordare che a Carlo Bo si deve
un magistero dal quale promana anche
la qualità non solo riflessa dell’Ateneo
di Urbino, al cui mutamento in istituzione pubblica il Senato della Repubblica avrebbe dedicato intere giornate
di lavoro. Un tempo, quello di Bo,
veniva chiamato “magistero critico”,
ma fu proprio lui a dire che quella cattedra non esisteva più, sopraffatta
dalle omologazioni mercificanti, suggerite dalle mode, istigate dagli affari,
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frutto delle indifferenze, delle pigrizie,
delle sottomissioni. In questo, nel
ribellarsi alla caduta del valore della
ricerca e della scelta, del consenso e
del rifiuto, Bo si è dichiarato, risolutamente, un “moralista”: forse per quel
rigore che dicevo - né solo intellettuale
né solo interiore - e poi per la dignità
dello studioso, la militanza culturale, il
magistero critico, il memorabile governo di una Università diventata, nel
frattempo, tra le più illustri, in cui gli
saranno successori Giovanni Bogliolo
e Stefano Pivato.
Fu un difensore mite e iracondo, riservato ed esplicito, di grandi principi via
via declinanti. La sua non era una conclusione sconsolata e grave: aveva già
fatto sentire la sua voce, non di rado
sferzante, nel tentativo di conciliare
l’insofferenza per l’“inaudita, inconsapevole millanteria” così la chiamava
“di non pochi sperimentalismi”, pur
mantenendo il più “fiducioso, solidale
consenso” altre parole sue “per ciò che
tenta, fatica e si fa notare lungo un
cammino di autentica, a volte dolorosa, ricerca”.
Restò attento, non sempre incoraggiandole, a quelle esercitazioni letterarie che subentrarono alla fine delle
avanguardie; e sino alla fine tenne fede
ai suoi modelli, per dir così, più alti e
fecondi. Penso, un po’ in disordine,
non soltanto a Leopardi, Mallarmé,
Pascal, Maritain, Claudel, Mauriac,
Bernanos, Lorca, ma anche a Serra,
Rebora, Sbarbaro, Macrí, Bigongiari, e
a Ungaretti, Montale, Cardarelli, Quasimodo, per citare chi non può non
venire alla mente. Una volta, tornando
a un nostro irrisolto argomento, gli
domandai se era ancora compito dei
maestri - non parlai di cattedre - guida-
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re le nostre letture, e che cosa pensasse
di quell’autorità ormai trasmigrata nel
marketing, cioè negli spot, nelle fascette, nelle classifiche, e via così. “I maestri non ci sono più” rispose “perché
non se ne sentiva più il bisogno. Le
scelte, ormai, venivano da altri mondi.
Avrai visto come alle librerie è stato
tolto quel senso di rispetto che ci incutevano. Che cosa si è perduto? L’educazione, lo stupore, il mistero, la voglia
di entrare in un libro come si entra
nell’esistenza”: un altro richiamo al
suo principio di totale, laico umanesimo. Nel chiamarlo “letteratura come
vita” escludeva ogni pretesa sistematoria, ma anche i vezzi arbitrali, le conventicole elitarie, i verdetti ingenerosi
o vessatori, le alleanze e i ripudi da
salotto, i cipigli e le corrività editoriali,
l’italiano e l’italianismo, l’arte della
prosa e la prosa d’arte, il pantheon e la
stroncatura, le tribune e i tribunali
mediatici.
Quando andò in crisi la “terza pagina”
– bellissima, un tempo, poi sempre più
manierata, fino a essere espulsa dai
nuovi criteri cui i giornali, intimoriti
dalla facilità televisiva, si erano convertiti - Bo fece notare come da quegli
elzeviri fossero nati dei libri idonei a
restare, a buon diritto, nelle biblioteche, e ciò negli anni in cui il lettore si
giovava di una selettiva continuità tra
le pagine del giornale e del libro; e ciò,
aggiungeva, “con la mediazione del
libraio assai più di quella affidata alla
critica letteraria”.
“Certo, diceva, occorre avvedutezza,
ma anche sensibilità e senso pratico,
dedizione e misura”. E tutto questo,
concludeva, mentre “le armate dell’eccessivo, del clamoroso, del perentorio
appaiono ormai invincibili”. “Quando
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i lettori” disse un’altra volta “finiranno
per sentirsi esautorati, vittime di un’indigestione colossale, chissà che non si
possa tornare a dei piccoli discorsi
timidi e onesti, che qualcuno non c’insegni a potare, a dividere, a scegliere.
Non era per la misura delle piccole
cose di Aragon, secondo cui “solo il
normale è poetico”, era l’arduo dovere
di scegliere e rifiutare. E il maestro, nel
quale non si riconosceva più, in queste
parole si rifaceva vivo.
Parlava anche per chi era alle prese con
la fatica artigiana, e certo non inutile,
dei cosiddetti comunicatori, chissà se
pensando di più o di meno ai giornalisti, specie quando esortava a tenersi
lontani dalle prove virtuose, che raramente sono garanzia di buona scrittura, invitando chi ha una quotidiana
familiarità con la parola a stare al largo
da bravure e malizie di giornata, dagli
effetti speciali, insomma, che oggi
dominano in tanta parte della comunicazione. Una fatica tanto più delicata, rischiosa e responsabile in tempi di
gravi cadute dell’uomo, di vere e proprie catastrofi umane, e questo mentre
la televisione prende per sé tutto quanto. Mi viene in mente un giudizio di
François Revel, non so quanto ispirato
dalla simpatia, che trassi dal suo famoso Pour l’Italie: “Tutto, in Italia, finisce
in giornalismo”. E ciò mentre altrove,
prima che arrivassero le “parabole”
della Tv, si guardava alle grandi proiezioni sul mondo, ai contributi, persino
epici, di André Malraux, per esempio,
quando affermava: “Il XXI secolo sarà
religioso o non sarà”. E Carlo Bo, con
un semplice articolo di giornale, gli
rispondeva: “Correggerei la sentenza
di Malraux. Il mondo, è vero, esprime
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sempre più un bisogno di religiosità,
ma è un magma di attese, di sguardi.
Ho l’impressione che la voce di Dio
corra ancora per il deserto, che passi
sui nostri cuori e non lasci traccia. Il
consenso senza sofferenza che diamo
a Dio è solo un altro modo, fra tanti,
di non rispondergli”. Sembrano parole di oggi, suggerite da ciò che sta
sotto i nostri occhi. Il mistero, la profezia, il mondo come luogo anche dell’anima, i frammenti della nostra esistenza: tutto richiamato, addolorato,
consacrato nel ciclo spirituale che
muove dalla creazione, se è vero che
“Dio è disseminato nella moltitudine
del mondo”.
Quello stesso, d’altronde, disseminato anche di violenze, ingiustizie, negazioni e perduranti barbarie. Andrebbe
detto soprattutto ai giovani, insisteva
Bo, che la conoscenza non genera una
sbiadita, indolore coscienza, ma una
pedagogia reale, sensibile, fraterna,
fondata su un lascito di carne e spirito, che scorre in una provvida indissolubilità umana prima ancora che
nelle pagine, via via meno laboriose, e
lette, della storia.
Ma la funzione dell’uomo non può
fermarsi qui, dovrebbe comportare
una visione il più possibile ampia e
mirare, oltre la nostra persona, a tutta
la famiglia umana: proprio quello che
la grande politica sembra avere cancellato dal quadro delle sue scelte e
dei suoi doveri”. Citando Luzi, incalzava: “Un attimo di beatitudine, oggi,
corrisponde a evi di angoscia. Solo un
inesplicabile impeto coraggioso può
sospingerci sempre verso il dopo”. Era
la misura massima di un ottimismo
che Bo moderò sempre con una sof-
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ferta riserva lucidamente definita la
“speranza ragionata”.
“A noi che facciamo anche questo
mestiere - rispose a un sondaggio del
suo giornale, Il Corriere della Sera - è
affidato il compito di saper scegliere
libri che producano conoscenza, consapevolezza e, magari, coscienza”. Ne
parlava senza venir meno alla sua lezione laica, e persino a una certa arguzia,
dietro la quale continuo a sentire l’autorevole odore del suo inseparabile,
quasi connaturato “toscano”. E sempre più spesso i suoi silenzi, risvegliati
dal rumore del suo bastone.
Qualcuno lo definì laconico e, rispetto
all’essere eloquente, certamente lo fu.
Preferirei dire che spesso “taceva in
modo eloquente”, per prendere un
verso da una poesia di Enzensberger.
Gli abbiamo voluto bene, e ancora
gliene vogliamo, per ciò che ci ha insegnato, di sicuro lasciandoci l’intoccabile libertà del dissenso, per la net-
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tezza con la quale si inoltrava nei ragionamenti, per quel senno liberale e cristiano formatosi in un universo di
valori che mettono l’uomo né prima
né dopo la vita, ma in questa stessa, di
ogni giorno e momento, da cui non si
esce mai completamente indenni “perché tutto - diceva - rientra in ciò che ci
è stato dato per non essere meno di un
uomo”. Lui, con la sua religiosità mai
canonica, anzi, a volte persino eretica,
aveva in mente una trascendenza
anche verso il basso, verso quella che
Teilhard de Chardin chiamava la
“santa materia”: cioè noi, noi e la
nostra natura, noi con le nostre debolezze e i nostri coraggi, noi, la nostra
mente e il nostro spirito. Noi, insomma, e la nostra misteriosa esistenza.
Sergio Zavoli
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CARLO BO
TRA FEDE E CULTURA
GIANFRANCO RAVASI
Milano abitavamo vicino,
in due piccole strade a
poca distanza dal Duomo: lui in via Maria Teresa, io in via Cardinal
Federico, una laterale
della Biblioteca Ambrosiana. Ci incontravamo
talora in quel dedalo di viuzze e ci
scambiavamo poche parole. Avevo
conosciuto Carlo Bo durante una cena
nella casa dello scrittore Luigi Santucci, amico carissimo a entrambi: era
stato l’avvio di una conoscenza rarefatta che però aveva una sua intensità,
soprattutto attorno a quei temi ecclesiali che avevano sempre appassionato
e un po’ anche tormentato il pensiero
e la fede del famoso scrittore, studioso
e uomo pubblico. L’ultimo incontro
avvenne nella sua casa milanese tutta
foderata di libri. Alcuni amici della
scrittrice Lalla Romano, che era allora
da poco scomparsa e della quale avevo
celebrato i funerali, si erano ritrovati
per costituire un’associazione o una
fondazione che ne custodisse il lascito
culturale. Bo assisteva e partecipava
con quei silenzi “omerici” che erano
divenuti quasi una sua sigla e che,
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n. 3/2010
quindi, alonavano di rilievo le sue
poche parole.
Alla fine volli trattenermi e,
da soli, parlammo dei temi che erano
stati sollevati durante un’intervista
radiofonica che avevo rilasciato quella
stessa mattina. Era il giugno 2001 e
poche settimane dopo, il 21 luglio, egli
sarebbe morto a Genova (era anche
ligure la città della sua nascita avvenuta cent’anni fa, il 25 gennaio 1911,
cioè Sestri Levante). La sostanza di ciò
che mi disse allora la ritrovai in un suo
dialogo riferito da Sergio Zavoli nel
suo Diario di un cronista (RAI-Eri/Mondadori 2002): «Ho l’impres-sione che
la voce di Dio passi nei nostri cuori e
non lasci traccia. Il consenso senza sofferenza che diamo a Dio è solo un
modo, fra tanti, di non rispondergli».
Si intravedeva in quelle parole non
solo la sua fede che vibrava degli stessi
battiti di quella degli amati Pascal, Bernanos, Péguy, Claudel, Maritain (senza
dimenticare Mallarmé e Rivière), ma
anche il suo tormento per il passaggio
spesso frustrato e frustrante di Dio
nelle strutture ecclesiastiche da lui
considerate troppo pesanti, opache e
resistenti a quella voce.
11
Gianfranco Card.
Ravasi, presidente
del Pontificio consiglio della cultura
DESK
S T O R I A ,
Non si inseriva
né nel dissenso
molto vivace
nei decenni
conciliari, né nel
consenso, prevalente negli
anni precedenti
e successivi, ma
semplicemente
nella ricerca di
senso.
DESK
C U L T U R A
Eppure egli era rimasto sempre un cattolico tout court, perché – per usare
un’espressione del suo e mio amico
padre Turoldo – egli non si inseriva né
nel dissenso molto vivace nei decenni
conciliari, né nel consenso, prevalente
negli anni precedenti e successivi, ma
semplicemente nella ricerca di senso.
E in questo sono emblematici i personaggi religiosi del suo ideale pantheon
spirituale. Al primo posto è collocata
la figura di uno straordinario parroco
di campagna, la cui voce fu così intensa da essere definita da un Papa, Giovanni XXIII, «tromba dello Spirito
Santo» nella terra padana: era don
Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo
(Mantova), «obbedientissimo in Cristo» alla sua Chiesa, ma così libero
nella sua fedeltà al Vangelo da non esitare a far vibrare la sua parola contro
ogni compromesso. «Noi passeremo –
scrive Bo che lo conobbe, lo ascoltò e
lo lesse – col rumore dei nostri problemi, con tutti i cartoni dei ridicoli teatri spirituali che abbiamo messo insieme da letterati e don Primo resterà
sulla porta della sua parrocchia con le
braccia aperte, a ricevere tutti, senza
mai chiedere il nome o la nostra piccola odissea».
Seguono i testimoni della
carità e della società come Manzoni,
Semeria, Orione e Sturzo. C’è, poi, la
teoria dei sacerdoti che seppero intrecciare fede e cultura, una delle sfide che
resse l’intera esistenza di Bo, a partire
da quella sorta di manifesto che fu il
saggio Letteratura come vita, letto al congresso degli scrittori cattolici del 1938:
«Rifiutiamo una letteratura come illustrazione di consuetudini e di costumi
comuni, aggiogati al tempo, quando
sappiamo che è una la strada più com-
12
E
R I C E R C A
pleta per la conoscenza di noi stessi,
per la vita della nostra coscienza…
Non esiste un’opposizione fra letteratura e vita. Per noi sono tutt’e due, e in
ugual misura, strumento di ricerca e
quindi di verità: mezzi per raggiungere
l’assoluta necessità di sapere qualcosa
di noi». Ecco, allora, don De Luca,
don Cesare Angelini, Rebora, lo storico Bedeschi, il mistico Divo Barsotti, il
collega all’Università di Urbino Italo
Mancini con la «ragnatela delle sue
meditazioni» dai molteplici fili teologici, filosofici, sociali, culturali, la cui
finestra illuminata nella notte urbinate diventava un simbolo di ricerca
della verità. Ma non sono mancate
neanche pagine di forte suggestione
dedicate ai papi della sua maturità e
degli ultimi anni: dalla lezione d’amore di Giovanni XXIII all’umanesimo
cristiano di Paolo VI fino alla «Chiesa
di popolo» di Giovanni Paolo II .
In questo «nugolo di testimoni» sacerdotali, per ricorrere a un’espressione biblica (Ebrei 12,1), raccolti
in un unico coro dal volume Don Mazzolari e altri preti (La Locusta, Vicenza
1979), brilla un trittico fiammeggiante.
La prima a venirci incontro è una figura segno di contraddizione, quell’Ernesto Buonaiuti che non volle mai
considerarsi ex sacerdote nonostante
la censura ecclesiastica abbattutasi su
di lui per il suo modernismo, convinto
del tradimento che talora la Chiesa
storica poteva consumare, ma ancor
più convinto che la salvezza avviene
proprio nella stessa Chiesa storica. C’è
poi l’amato don Milani, per molti versi
simile a don Mazzolari, combattente
per la verità naturale e soprannaturale
da cristiano e da prete, nonostante «il
lungo calvario» impostogli dalle auto-
n. 2/2010
S T O R I A ,
C U L T U R A
rità ecclesiastiche. E, infine, ecco
padre Turoldo nel quale la passione si
fa parola, la fede poesia e la verità storia. Sì, perché – sulla scia della concezione di un Teilhard de Chardin letto
con entusiasmo appena pubblicato in
Francia – Bo è certo che «il cristiano
deve bagnarsi nel mare della storia»,
anche correndo il rischio di infangarsi,
«rifiutando quella perniciosa opposizione tra cristianesimo e mondo degli
uomini».
Qui si coglie uno dei nodi
fondamentali del pensiero spirituale di
Carlo Bo e della sua stessa storia personale, quella del dialogo tra fede e
cultura, dell’incontro tra il cristiano e
l’agnostico che s’interroga, tra il tempio e la strada, nella linea della lezione
di Maritain al cui “stile” di pensiero è
dedicata un’altra raccolta di saggi (Lo
stile di Maritain, La Locusta 1981) nella
quale scriveva con amarezza: «Per anni
la Chiesa è rimasta immobile e quando finalmente ha sentito il dovere di
intervenire, si è accorta di non avere
più gli strumenti adatti e si è limitata a
ripetere altre voci o ha taciuto». I rischi
in questa operazione di incrocio tra
fede e altre visioni dell’essere e dell’esistere non sono mancati, soprattutto
quando ci si muoveva in territori borderline, come nel caso del dramma Il
Vicario di Rolf Hochhuth che ebbe
una veemente e partecipe prefazione
alla traduzione italiana firmata proprio da Carlo Bo. Rimaneva, però,
indiscutibile la sincerità della persona
e delle sue interrogazioni e soprattutto
la consapevolezza della necessità del
confronto tra la Chiesa e il mondo.
Alle soglie della morte, in
un’intervista, egli confessava che la
magna quaestio del XXI secolo sarebbe
n. 2/2010
E
R I C E R C A
stata il «ritrovare le ragioni ultime di
quei valori che consentono una vita
umanamente e umanisticamente motivata, che tenga conto non solo delle
cose visibili ma anche e soprattutto di
quelle invisibili… Bisognerà insomma
costruire insieme, credenti e no, un’altra civiltà che sappia finalmente ritrovare lo spirito della carità cristiana:
cioè saper perdonare e cercare di risolvere problemi epocali, inevitabili e
giganteschi, secondo uno spirito di
carità». Agli occhi di Carlo Bo il cristianesimo non era né stinto né estinto, ma aveva ancora in sé tutto il suo
lievito di trasformazione della pasta
della storia.
Gianfranco Ravasi
13
DESK
S T O R I A ,
C U L T U R A
E
R I C E R C A
LA SCELTA DELLA RESPONSABILITA’
CHE COSA SIETE ANDATI A VEDERE?
DIONIGI TETTAMANZI
L
Dionigi Card. Tettammanzi, Arcivescovo di Milano
DESK
’informazione, la comunicazione sono
attività che riguardano tutti e coinvolgono tutta la vita, sono pensiero prima
che tecnica, sguardo sulla realtà prima
che preoccupazione di ricavarne una
cronaca. Il vostro interesse per le riflessioni sui temi della comunicazione
lascia ben sperare per un futuro all’insegna di una più lucida consapevolezza
e di una più forte responsabilità circa
la comunicazione stessa.
Ho ascoltato con interesse i
giornalisti affermati, responsabili e stimati che hanno voluto condividere a
voce alta la propria esperienza: mi
hanno aiutato a comprendere meglio
quanto sia impegnativo il vostro lavoro, quanto può influire sul bene delle
persone, quanto sia possibile svolgerlo
bene. Mi chiedo: può veramente avere
futuro il giornalismo se non avrà come
protagoniste persone animate da questo stile?
Vorrei anch’io portare un
contributo a questo dibattito a partire
dalla mia personale esperienza di cittadino utente dei media, di cristiano e di
vescovo. In particolare vorrei considerare con voi gli effetti che gli attuali
stili della comunicazione hanno nella
vita della gente. Vorrei inoltre riflette-
14
re su come è possibile proporre il racconto intelligente della vita reale delle
persone, chiedermi cosa significhi narrarla secondo verità, e infine cercare
con voi il contributo che dobbiamo
offrire per sospingere il Paese fuori
dalla situazione difficile e critica in cui
si trova. La realtà l’avete presentata voi
stessi e su questa vorrei ora esprimere
alcune mie impressioni.
I media, il Paese e la vita della gente
La prima impressione riguarda l’immagine del Paese offerta dai
mezzi di comunicazione oggi. Non mi
pare azzardato affermare che questi
media vecchi e nuovi presentano un
Paese che sembra preda di un litigio
isterico permanente. Personalizzazione, esasperazione, drammatizzazione,
contrapposizione sono il “sale” con il
quale si tenta di dare sapore a una
realtà che, altrimenti, si ritiene destinata alla inevidenza. Se ogni pioggia è
un diluvio, se tutti gli immigrati sono
delinquenti, se ogni politico è corrotto, se ogni influenza è pandemia,
come potrà vivere sereno chi di tv e
giornali è utente abituale e non ha
mezzi e capacità per esperire personalmente la realtà presentata dai media
n. 2/2010
S T O R I A ,
C U L T U R A
con questo stile fuorviante? Come
potrà non provare ansia nei confronti
della vita quotidiana?
Per la verità non manca chi
sperimenta la sensazione opposta,
rimanendo quasi anestetizzato davanti
a ciò che accade. Se è sempre emergenza, non sarà mai emergenza, nemmeno nelle evenienze reali: la tensione
non può essere sostenuta a lungo e
finisce per generare assuefazione.
Molti poi provano una specie di straniamento dalla realtà, una distanza scettica da ciò che non sperimentano
direttamente, riducendo così il reale
solo a ciò che materialmente è sottoposto ai propri sensi.
Gli stili prevalenti della comunicazione tendono inoltre a causare rassegnazione. Sono tante le persone che si
stanno rassegnando alla mediocrità.
Assistiamo all’eccessiva esibizione del
privato in pubblico. Troppi programmi
sono fondati sull’esposizione oltre
misura dell’intimità delle persone. Una
tendenza che, andando oltre i reality,
sta contagiando ogni campo della
comunicazione generando nello spettatore mimetismo, rassicurazione, rinuncia a pensare a se stesso come a qualcosa di grande. Non sempre è un privato
esemplare quello mostrato: spesso è stereotipato, caricaturale se non addirittura patologico e grottesco. Anzi, se fosse
normale non sarebbe interessante
mostrarlo. Pare si voglia diffondere l’idea che “così fan tutti”. Confrontarsi
con simili “modelli” non contribuisce
al benessere personale e alla crescita
collettiva, ma - riempiendo gli occhi di
banalità e di mediocrità - spinge il pubblico a rassegnarsi alle proprie “debolezze”, non certo a uno scatto in avanti, a un moto di sano orgoglio.
n. 2/2010
E
R I C E R C A
Si è spinti alla rassegnazione
anche dall’enfasi eccessiva che è data a
ciò che nel Paese non funziona, a ciò
che non è come dovrebbe essere. I processi di comunicazione tendono a dare
evidenza agli episodi negativi, procedendo poi, per analogia, ad associarne
altri: ecco, ad esempio, che, scoperto
un episodio di grave malasanità, ne
viene immediatamente mostrato un
secondo e magari un terzo. È certo
importante che i media svolgano
anche questa funzione di denuncia,
ma occorre porgere queste notizie con
responsabilità, così che non appaia che
nulla funziona, che tutto è corrotto,
che la situazione è irreparabile. Quanto contribuiscono i media a creare e ad
alimentare il clima di rassegnazione
che si respira?
Alcune realtà del nostro Paese
non sono rassegnate ma costruttive,
positive verso il futuro. Il clima dannoso prima descritto, però, tende ad
isolarle e, quel che forse è peggio, a
renderle poco “notiziabili”. Siamo allora chiamati a essere vigilanti: non mancano quanti in questo clima di sfiducia
e scoraggiamento trovano l’ambiente
ideale per perseguire interessi legittimi
ma privatistici, raggiunti senza far crescere il bene comune, o interessi ricercati a proprio vantaggio ma a danno di
altri. Questo modo di agire è evidentemente inaccettabile, e lo è ancor più
quando proviene da quanti del bene
comune dovrebbero essere garanti e
promotori.
Un racconto intelligente della vita
reale delle persone
So bene che le notizie - di cronaca bianca o nera, di politica o economia, di cultura o sport - che hanno
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Non mi pare
azzardato affermare che questi
media vecchi e
nuovi presentano un Paese
che sembra
preda di un litigio isterico permanente. Personalizzazione,
esasperazione,
drammatizzazione, contrapposizione sono
il “sale” con il
quale si tenta di
dare sapore a
una realtà che,
altrimenti, si
ritiene destinata
alla inevidenza.
DESK
S T O R I A ,
I problemi veri
del nostro
Paese non sono
certo quanto da
mesi leggiamo
nelle cronache
politiche. Non
si tacciano gli
scandali (veri o
presunti) ma
l’informazione
politica non
può, non deve
esaurirsi al racconto di scandali.
DESK
C U L T U R A
il sapore della normalità raramente
troveranno posto: ma, mi domando, se
viviamo in tempi in cui si possano definire “normali” alcuni stili che riscontriamo in diversi ambiti della vita
sociale. In politica, ad esempio, da
tempo non sono in discussione i temi
che dovrebbero realizzare il bene
comune adesso, in questo delicato
frangente storico, dentro questa congiuntura economica segnata pesantemente dalla crisi.
Dai mezzi di comunicazione
emerge una classe politica che tende a
mettere al centro della propria azione
le vicende personali dei suoi più diversi protagonisti. Certo, nessuno chiede
di tacere episodi, fatti, denunce, indagini che riguardano quanti sono chiamati ad animare e a guidare il Paese e
dai quali tutti attendono esemplarità,
nel pubblico e nel privato. Ma, mi
domando: giornali e tv contribuiscono
davvero a costruire e a promuovere la
pubblica opinione quando si lasciano
contagiare dal clima avvelenato e violento causato da una politica che
dimentica o sottovaluta i bisogni reali
e concreti delle persone?
I problemi veri del nostro
Paese non sono certo quanto da mesi
leggiamo nelle cronache politiche.
Non si tacciano gli scandali (veri o presunti) ma l’informazione politica non
può, non deve esaurirsi al racconto di
scandali. Guardiamo con onestà e
intelligenza al Paese reale che è sempre
meno raccontato, guardiamo a chi è in
difficoltà ed è sempre più solo, alle
forze del bene così poco testimoniate
dai media, all’esemplarità positiva così
raramente mostrata.
Il racconto presuppone la
ricerca di un senso e incoraggia la valu-
16
E
R I C E R C A
tazione: come scriveva Paul Ricoeur, è
una vera “palestra etica”. Solo il racconto dunque, e non una valanga di
“fatti” bruti, esibiti in nome del diritto
di informazione senza tener conto
degli effetti che produrranno sulle persone, può costituire la condizione di
quello “scambio di esperienze” che è
alla base della comunicazione autentica. Una simile comunicazione non è
pura “trasmissione” di notizie, bensì
costruzione di un bene comune attraverso la testimonianza della verità.
Dire la verità: è possibile?
Ed eccomi ora a un punto che
ritengo centrale per questo nostro
incontro: riguarda il dire la verità e il
testimoniarla. Testimoniare la verità
non può ridursi al fedele racconto di
un fatto. Troppo poco. Cosa significa
“dire la verità” per un giornalista?
Cerco la risposta in un testo antico e
quanto mai attuale: il testo sacro della
Bibbia. Questa fin dalle prime pagine
ci dice che la verità (a-letheia) giunge
all’uomo mediante un processo continuo di svelamento. La verità di Dio non
si offre solo all’intelligenza, e quindi
non è possibile scoprirla solo con la
ricerca razionale, nella forma del possesso. La verità si offre a noi nella
forma di un Dio che si china sull’uomo dentro un processo d’amore, di
cura, di crescita. Lo stile è quello di un
popolo che si lascia condurre verso la
sua liberazione (Antico Testamento), è
quello di un Dio che si fa Uomo
offrendo a tutti il suo amore perché
tutti lo vivano e ne diano testimonianza (Nuovo Testamento).
Vorrei riascoltare con
voi un breve brano del Vangelo di Luca:
n. 2/2010
S T O R I A ,
C U L T U R A
Giovanni il Battista ci ha mandati
da te per domandarti: “Sei tu colui
che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”“. In quello stesso
momento Gesù guarì molti da
malattie, da infermità, da spiriti
cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro questa risposta:
“Andate e riferite a Giovanni ciò
che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i
sordi odono, i morti risuscitano, ai
poveri è annunciata la buona notizia. […]”. Quando gli inviati di
Giovanni furono partiti, Gesù si
mise a parlare di Giovanni alle
folle: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta
dal vento? […] Un profeta? Sì, io vi
dico, anzi, più che un profeta. Egli
è colui del quale sta scritto: Ecco,
dinanzi a te mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la
tua via. Io vi dico: fra i nati da
donna non vi è alcuno più grande
di Giovanni, ma il più piccolo nel
regno di Dio è più grande di lui
(Luca 7,18-27).
Testimoniare la verità significa
inserire i fatti della realtà in un più ampio
contesto, gli episodi in un orizzonte di
senso. Questo il procedimento che
Gesù ci spiega nel brano evangelico.
La domanda di Giovanni il Battista è
alta: il figlio del falegname, quell’uomo di Nazareth, è il Messia o no? Gesù
non risponde affermando la verità (“sì,
sono io”) bensì offre a quanti lo interrogano fatti concreti, alcuni miracoli
compiuti davanti ai loro occhi quali
segni messianici da riconoscere, così
come la Sacra Scrittura li aveva presen-
n. 2/2010
E
R I C E R C A
tati: indicatori della venuta del Figlio
di Dio.
C’è poi un’ulteriore domanda
che Gesù pone a tutti i suoi ascoltatori e a noi con loro: “Che cosa siete
andati a vedere?”. Egli si riferisce anzitutto all’esperienza di Giovanni impegnato a battezzare sulle rive del fiume
Giordano, interrogando chi aveva vissuto quell’esperienza. Gesù con la sua
domanda “che cosa siete andati a vedere?” interroga anche noi e ci propone
un salto di qualità, nella vita, prima
che nella professione. Qual è il senso
complessivo dei fatti che quotidianamente viviamo, incontriamo, raccontiamo? In quale contesto complessivo
dobbiamo inserirli? Ponendo la
domanda, Gesù obbliga i suoi interlocutori a una riflessione: la verità non si
esaurisce nei fatti puntuali, non è
“sequestrata” da una serie frammentata di episodi.
Quello di Gesù è un metodo
per comunicare secondo verità. È nella
realtà che si manifesta la verità, ma la
realtà non può essere utilizzata come
una “cava di pietre” da saccheggiare
per costruire a nostro piacere un orizzonte di senso preordinato, aprioristico. Purtroppo pare proprio questo
uno degli stili dominanti dell’informazione, specie in politica: usare gli episodi della realtà per dare forza a questo
o a quello schieramento politico, per
consolidare questa o quella costruzione artificiale della realtà. E a rimanere
esclusa sono la preoccupazione e la
responsabilità di contribuire al processo di scoperta della verità a beneficio
degli utenti dei media: persone reali
con bisogni reali.
Rispetto ai fatti della cronaca c’è
un “oltre” verso il quale dobbiamo aiu-
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Testimoniare la
verità significa
inserire i fatti
della realtà in
un più ampio
contesto, gli
episodi in un
orizzonte di
senso.
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S T O R I A ,
Un giornalista –
sia cattolico
che laico - testimonia la verità
se non ostacola
ma permette
alle persone di
accedere alla
verità complessiva, più grande:
di quel determinato evento,
della realtà che
sta vivendo, del
momento storico che si sta
attraversando,
della propria
esistenza.
DESK
C U L T U R A
tare lettori e spettatori ad alzare lo
sguardo. Di questo abbiamo bisogno,
di questo ha bisogno il Paese. La politica pare che stia abdicando a questa
responsabilità: non lo deve fare chi
vuole essere un comunicatore veramente libero, chi vuole restare fedele al
proprio mestiere, chi vuole essere – in
una parola - giornalista responsabile.
Un “oltre” che per gli strumenti di comunicazione ecclesiali e di
ispirazione cattolica dovrà condurre al
confronto con la verità ultima di Gesù
Cristo; un “oltre” che per i mezzi di
comunicazione laici (di qualsiasi ispirazione politica o filosofica, di proprietà di qualsiasi imprenditore) sarà la
consapevolezza dell’influenza che, con
il proprio lavoro, i giornalisti esercitano sulla vita delle persone, sul loro giudizio sulla realtà, sulle loro decisioni e
scelte… Un giornalista – sia cattolico
che laico - testimonia la verità se non
ostacola ma permette alle persone di
accedere alla verità complessiva, più
grande: di quel determinato evento,
della realtà che sta vivendo, del
momento storico che si sta attraversando, della propria esistenza.
Sto forse esagerando sull’istanza
etica? È troppo etico questo compito
per un “semplice” giornalista? Direi
proprio di no! So bene però di prospettare una missione che è ritenuta
pura utopia da chi pensa che il giornale sia un oggetto che il giorno dopo “è
buono solo per incartare il pesce” e da
chi pensa che un telegiornale debba
servire solo per tenere alti gli indici di
ascolto e per vendere pubblicità.
Carissimi donne e uomini
impegnati nel giornalismo: vi auguro
di saper riconoscere ogni giorno le
grandi responsabilità che esercitate
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E
R I C E R C A
nella professione, di essere consapevoli del contributo che potete dare o
negare alla vera realizzazione delle persone e del bene del Paese. E lo stesso
augurio lo estendo a tutti gli attori dei
processi di comunicazione: gli editori,
i lettori, il mondo della pubblicità...
Il modo prevalente di fare
comunicazione – cioè la rappresentazione isterica del reale - falsa la percezione della realtà e causa disagio concreto. E si realizza così un tragico paradosso: la comunicazione, quella
facoltà che consente all’uomo di diventare e di essere ciò che veramente è, si
sta invece volgendo contro di lui degradandone la caratteristica fondamentale: la sua umanità.
Per scacciare questi sentimenti negativi che i processi di comunicazione generano, dobbiamo ripartire
proprio dalla verità, dall’innestare il
racconto fedele degli episodi della
realtà dentro un orizzonte alto e autentico di senso complessivo.
Dalla passione personale al benessere
collettivo
Il clima di scoraggiamento e
di depressione di cui abbiamo detto
all’inizio, rischia di diventare cronico,
intrappolando il Paese e i cittadini nei
propri mali, bloccando o rallentando
la crescita e lo sviluppo delle comunità
e delle persone.
Da dove ripartire? Quale scossa
potrà svegliare il Paese dal suo torpore?
Sono sicuro che i giornalisti possano
fare davvero tanto. Ci sono modelli
alternativi di vita da raccontare. Ci
sono persone e comunità che attendono di essere narrate perché hanno
intuizioni, progettano, studiano, lavorano, conseguono successi.
n. 2/2010
S T O R I A ,
C U L T U R A
Mostriamo il Paese che “ce la
fa”, mostriamo l’azione di quanti operano per uscire dalla crisi morale,
sociale, economica, politica. Mostriamo la loro volontà, la loro passione, la
forza, la generosità, la lungimiranza:
atteggiamenti quotidiani ma che
diventano straordinari in un momento in cui l’ordinario pare essere sempre
più l’egoismo, l’avidità, le scorciatoie,
la corruzione, l’immoralità…
Non serve creare ingenue
rubriche di buone notizie, ma recuperare passione per la vita reale della
gente, aiutarla a ripartire, sostenerla
nel suo darsi da fare. La situazione
pare speculare a quella che l’Italia ha
sperimentato alla fine della seconda
guerra mondiale: distruzioni, limitazioni delle libertà, macerie, povertà,
frammentazioni, depressione… Noi
però oggi non ne siamo tutti consapevoli. I nostri padri erano consci della
gravità della situazione perché toccavano con mano quelle macerie, la
povertà li privava del cibo quotidiano,
la costrizione della libertà li limitava
anche fisicamente. Noi invece rischiamo di essere vittime del benessere che
ci rende ciechi e sordi, tanto da non
accorgerci di quante disuguaglianze
ancora affliggano il mondo e di quanto le nuove povertà, morali e spirituali
anzitutto, le ferite del corpo e ancor
più dell’anima impoveriscano e spengano la nostra stessa umanità.
Raccontare la realtà aiuta a
comprendere il reale per quello che è
in profondità, a dare a ogni fenomeno
il nome vero. La verità è l’unica via che
possa condurci alla consapevolezza del
momento presente, è l’unica via che
possa spingere a quel sussulto collettivo capace di toglierci dalle secche in
n. 2/2010
E
R I C E R C A
cui siamo arenati. Titolare giornali e
telegiornali con i sintomi del male o
con pretestuose ricostruzioni della
realtà per nascondere la gravità della
situazione non è la strada per uscire
dalla crisi. Per recuperare un clima
complessivo più sereno, nella comunicazione e soprattutto nel Paese, oltre a
denunciare con forza i sintomi del
male, proviamo – con maggiore decisione - a ricercarne onestamente le
cause, proviamo a dare voce a chi è credibile e ha intuito una cura per la guarigione e magari già la sta sperimentando con successo.
Le promesse di libertà generate in continuità dalla cultura dell’autonomia assoluta hanno prodotto un
mondo sociale e culturale povero.
Altra è la strada da percorrere: si tratta
di ritrovare la passione per il lavoro, la
famiglia, la città, i percorsi di crescita
personali. Alziamo lo sguardo al
mondo, spingiamolo fino al cielo: non
lasciamoci rapire e imprigionare solo
da quanto sta entro il giardino di casa.
Torniamo a guardare al futuro,
alla possibilità di un futuro migliore. Questa tensione ideale che permetterà al
Paese di ripartire non è assente affatto
dalle nostre comunità: solo non è
oggetto di attenzione e di narrazione e
non viene adeguatamente amplificata.
A voi giornalisti auguro di
vivere con passione la vostra professione, di avere a cuore il vostro futuro,
quello della vostra famiglia e del vostro
Paese: così riconoscerete e metterete
in circolo le energie positive che già
sono operanti tra noi. La passione
riconosce la passione: vale per il giornalista che vuole raccontare la realtà
secondo verità, vale anche per l’utente
dei media che davanti alla passione
19
Non serve creare ingenue rubriche di buone
notizie, ma
recuperare passione per la vita
reale della
gente, aiutarla a
ripartire, sostenerla nel suo
darsi da fare.
DESK
S T O R I A ,
DESK
C U L T U R A
rimane affascinato e ne è mosso interiormente.
Lasciamoci contagiare dalla passione “sana”, sapendo che è sempre in
agguato il rischio di scambiare la passione con il livore o l’accesa militanza
di una parte, in contrapposizione con
le altre. La vera passione – quella di
Gesù ce lo insegna in modo insuperabile – non è mai contro qualcuno ma
sempre a beneficio di tutti.
Parlandovi con il cuore e la
responsabilità di un pastore d’anime
mi sento di offrirvi ancora qualche suggerimento che so corrispondere ai
vostri desideri più profondi. La passione vi sia da guida nel lavoro: sarete così
immunizzati dalla tentazione di perdervi nel racconto delle banalità che altri
potranno usare per distrarre il Paese
dalla necessaria presa di consapevolezza
dei propri mali. Siamo in una situazione di crisi: assumiamoci per primi il
compito di fare qualcosa per uscirne,
visto che in troppi stanno abdicando a
questo dovere morale caratteristico dei
buoni cittadini. Aiutiamo la gente a
reagire alla depressione e all’immoralità, stimoliamola a desiderare un Paese
migliore, mostrando che è possibile
costruirlo ed evidenziando chi già lavora per un futuro migliore.
O il giornalismo diverrà protagonista di un simile racconto oppure, se cederà completamente alle logiche di potere, si degraderà fino all’irrilevanza, come è stato per altre funzioni
un tempo fondamentali della società.
La passione positiva di tanti
giovani, la loro competenza, la loro
voglia di sperimentare, di giocarsi personalmente e di costruire futuro ci
siano di esempio e ringiovaniscano
anche la nostra stessa passione.
20
E
R I C E R C A
Abbiamo bisogno di giornalisti responsabili, ne ha bisogno il Paese.
Dunque, non rassegniamoci! Perché?
Trovo la risposta in Dostoevskij:
perché io ho visto la verità, perché
io ho visto e io so che gli uomini
possono essere belli e felici senza
perdere la possibilità di vivere sulla
terra. Io non posso e non voglio credere che il male sia la condizione
normale degli uomini (Il Sogno di
un uomo ridicolo).
Dionigi Tettamanzi
n. 2/2010
S T O R I A ,
C U L T U R A
E
R I C E R C A
FAREMO (ANCORA) NOTIZIA?
LA PROFESSIONE È AL BIVIO
ANTONIO SCIORTINO
possibile coniugare verità
e informazione? Oggi,
pare che questo binomio
sia in sofferenza. Come
giornalisti, quanto a credibilità, non siamo al massimo nell’opinione della
gente. Ci considerano
“poco obiettivi” e “di parte”. O a “servizio degli interessi di qualcuno”. Opinioni avvalorate da ricerche ben precise
(vedi Il futuro del giornalismo, settembre
2008, commissionata dall’Ordine dei
giornalisti della Lombardia a Enrico
Finzi, dell’agenzia AstraRicerca). Pare
che non abbiamo più a cuore la ricerca
della verità e il servizio ai lettori. Che,
dovrebbe essere l’unico obiettivo per
chi fa informazione.
Oggi, siamo messi in discussione anche
dall’avvento del digitale e dall’”orgia di
notizie multimediali”, che ci arrivano in
ogni ora del giorno. Ognuno può farsi
un “palinsesto personalizzato”, passando da un mezzo all’altro, a cominciare
dal telefonino. Di fronte a questa vasta
offerta multimediale, che corre rapidamente sul web, qual è il ruolo del giornalista: con quale professionalità, con
quale etica? La professione è a un bivio.
E qualcuno si chiede se c’è ancora bisogno dei giornalisti.
È
n. 3/2010
Internet è una grande opportunità. Ma
non è privo di rischi. Soprattutto quando trasforma il reale in virtuale. E il virtuale in reale. Paradossalmente, l’immensa mole di notizie, può renderci più
ignoranti. Non è automatico che più
dati abbiamo più sappiamo. Perché
Internet livella tutto, notizie vere e
autentiche bufale, fatti rilevanti e quelli
insignificanti. Tutto trattato allo stesso
modo. E con la stessa rilevanza. Sul
piano dei valori, poi, contribuisce ad
accrescere quella “deriva relativistica” o
“relativismo morale”, denunciato in
più occasioni da Benedetto XVI.
Oggi, più che in passato, nel mondo
multimediale che monta e smonta le
verità in continuazione, c’è bisogno di
una nuova figura di giornalista, capace
di operare contestualmente su diverse
piattaforme di comunicazione. Il futuro
non è nello scontro tra un mezzo e l’altro, tra il cartaceo e l’on line, ma nell’integrazione tra on e off line. Cambiano modi, tempi e organizzazione del
lavoro. Ma ai nuovi mezzi non corrispondono nuovi valori. Che per la professione sono quelli di sempre. A
cominciare dall’amore e la passione per
la verità. E da quell’onesta mediazione
che aiuta gli utenti a non restare “impigliati nella rete” e a capire la realtà.
21
Antonio Sciortino,
giornalista, Direttore Famiglia Cristiana
DESK
S T O R I A ,
Nonostante l’insoddisfazione
prevale nel pubblico l’idea che
il ruolo del giornalista è quanto
mai utile e indispensabile. E
questo grazie ai
tanti esempi di
giornalismo
appassionato.
DESK
C U L T U R A
Oggi, purtroppo, come operatori dell’informazione abbiamo perso credibilità. Siamo dediti alla spettacolarizzazione della notizia, che non si ferma
neanche davanti al dolore e alla tragedia. Come ad Avetrana, paese trasformato in set televisivo, con una logica
da “Grande Fratello”. Tutti investigatori e tutti protagonisti davanti alle
telecamere. E non una parola di pietà
per la povera vittima. Abbiamo trasformato la realtà in finzione. Convinti che il “cinismo” sia un ingrediente
indispensabile per la professione. E
che lo scoop valga più della dignità
della persone.
Così come rincorriamo un’informazione scandalistica, perché lo vuole il pubblico, perché fa vendere più copie, perché accresce l’audience. Un alibi, a
mio parere, per il disimpegno di chi
cerca scorciatoie anche nel campo dell’informazione.
Nonostante l’insoddisfazione, prevale
nel pubblico l’idea che il ruolo del giornalista è quanto mai utile e indispensabile. E questo grazie ai tanti esempi di
giornalismo appassionato. E a giornalisti competenti e credibili, che si mettono a servizio dei lettori e della verità.
Anche quando costa. Ed è a rischio
della vita, come inviati nel mondo a raccontare conflitti e guerre. O quando si
indaga sulla malavita organizzata di casa
nostra.
Alla domanda spesso insoddisfatta di
buona informazione, corrisponde un
campo aperto per operare. Ma da dove
ripartire? Forse, cominciando a raccontare di più la realtà e la vita di tutti i
giorni, quella dei cittadini e dei loro
problemi reali: povertà, lavoro, disoccupazione, scuola, giovani senza futuro,
integrazione degli immigrati, conviven-
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E
R I C E R C A
za civile in una società che è già multietnica e multireligiosa.
Giornali e Tv, oggi, più che informare
sono usati come strumento di consenso
per battaglie politiche o di potere. O,
peggio, come “armi mediatiche” per
delegittimare o distruggere qualcuno.
Dal “dossier” di approfondimento
siamo passati al “dossieraggio” contro la
“vittima” di turno. Non importa più
che i fatti siano veri, basta che siano
verosimili. E’ un’informazione che
prima forma le opinioni, poi cerca le
evidenze!
Il “metodo Boffo” ha fatto scuola. Passerà nella storia del giornalismo come
“killeraggio mediatico”. La dura contrapposizione oggi in atto, non solo in
politica, ma tra gli stessi mezzi di informazione è una sorta di “guerra civile
verbale”, che sta avvelenando ogni rapporto, a tutti i livelli. I giornalisti
dovrebbero fare i giornalisti e basta.
Senza altro interesse. Assistiamo, invece, a politici che si sostituiscono ai giornalisti; giornalisti che fanno i politici, o
i giudici o gli uomini di spettacolo. Difficile distinguere il confine tra informazione, militanza, spettacolo e intrattenimento.
Bisogna tornare a raccontare la realtà di
questo Paese. Non distrarre l’opinione
pubblica con temi marginali. Come
scriveva don Leonardo Zega, mio predecessore alla direzione di Famiglia Cristiana, “bisogna avere la pazienza di
stare addosso alla vita, cercare di vederla, conoscerla dall’interno, se si vuole
parlarne con qualche competenza. La
vita odia le schematizzazioni. Prima di
parlare, bisogna avere la pazienza di
ascoltare e discernere. E avere anche
tanta cura. Nel senso di ‘prendersi cura’
degli altri e delle loro situazioni. E poi
n. 2/2010
S T O R I A ,
C U L T U R A
trovare le parole giuste per dirlo, e per
raccontare”.
Su un tema come l’immigrazione, ad
esempio, un’informazione che si rifà a
stereotipi e luoghi comuni non aiuta il
Paese a crescere. Una cattiva informazione rafforza i pregiudizi della gente e
alimenta paure e insicurezze. Se non
vera e propria xenofobia. Ma chi si
impegna più a fare cronache oneste e
obiettive su questi poveri disgraziati? Se
ne dà sempre e solo un quadro in negativo. Enfatizzando qualsiasi episodio criminale che vede protagonisti gli stranieri. Diverso il trattamento quando si
tratta di italiani.
Difficilmente si raccontano storie di
vera integrazione, che pur esistono nel
Paese. E si nasconde un dato rilevante
(tra i tanti), che, col loro lavoro, contribuiscono al dieci per cento della ricchezza nazionale. Perché? Forse, perché
non è “politicamente” corretto. Non è
funzionale a una politica ispirata a principi di indesiderabilità, più che di inclusione e accoglienza.
Dei fatti di Rosario, la stampa se ne è
occupata solo quando sono scoppiati
casi di violenza. Nessuno prima aveva
raccontato le condizioni di vera schiavitù e degrado di vita, da bestie, in cui
vivevamo migliaia di immigrati nordafricani.
Qual è, allora, il ruolo del giornalista?
Innanzitutto, quello di sentirsi a disagio
con le “verità prefabbricate”. Quali che
siano i referenti. Se non c’è questa attitudine a raccontare i fatti con onestà
intellettuale, meglio non fare questa
professione. La libertà del giornalista è
il fondamento della libertà di stampa.
“La verità vi renderà liberi”, ci ricorda il
Vangelo. E il giornalista deve essere
libero per raccontare la verità. Difficile
n. 2/2010
E
R I C E R C A
servire un padrone e la verità al tempo
stesso.
Scriveva ancora don Zega: “Mi sento
profondamente vicino a chi fatica e
lavora per cercare la verità. Non a chi
presume o pretende di fornirla come
fosse un piatto già “confezionato”.
Potremmo disquisire a lungo su che
cos’è la verità. Ma su alcuni criteri
dovremmo essere d’accordo. A cominciare dalla completezza dell’informazione, che vuol dire fornire tutti gli elementi a disposizione perché ci si possa
fare un’opinione corretta. Senza reticenze e senza nascondere nulla. Se per i
credenti è un peccato grave quello d’omissione, lo stesso vale per la nostra
professione, quando si omette di dire
qualcosa per calcoli precisi. Quando si
nascondono i fatti o si manipolano le
notizie.
Paradossalmente, il successo del telegiornale di Mentana, oltre alla sua bravura e credibilità professionale, è dovuto al fatto che “dà le notizie”. Come si
sente dire in giro da tanta gente. E questo la dice lunga sullo stato generale dell’informazione televisiva. Ma non solo.
Ricerca della verità vuol dire anche essere meno omologati e autoreferenziali.
Portare, cioè, all’attenzione dell’opinione pubblica temi “scomodi” o controcorrente. Non solo gossip e pettegolezzi.
Parlare, ad esempio, delle guerre dimenticate o dei tanti drammi del mondo, a
cominciare dalle nazioni più vicine. Parlare dell’Egitto che “brucia”, più che
della “nipotina” di Mubarak. La globalizzazione ha reso il mondo come un villaggio, nessuno può più dire che non lo
riguarda quel che accade altrove.
Si può fare un’informazione a “testa
alta” e “schiena dritta”, nel rispetto
della propria deontologia. I condiziona-
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Qual è, allora,
il ruolo del giornalista? Innanzitutto, quello di
sentirsi a disagio con le
“verità prefabbricate”. Quali
che siano i referenti.
DESK
S T O R I A ,
Un’informazione indipendente
e di qualità, che
faccia ancora
da “cane da
guardia al potere” è ingrediente
indispensabile
della democrazia. E’ la sua
cartina di tornasole.
DESK
C U L T U R A
menti dall’esterno spesso sono un alibi
al disimpegno. O all’assenza di etica
professionale.
La stampa di ispirazione cristiana non è
estranea a tutto ciò. Ha stessa dignità,
purché accetti la competizione e le sfide
del mercato. Evitando la comodità dei
sacri recinti. Senza complessi di inferiorità. Ma, al tempo stesso, senza la presunzione di voler imporre la verità. La
stampa cattolica partecipa pienamente
al confronto e al dibattito che è nel
Paese. Su tutti i temi e in dialogo con
tutti.
“Non solo casa e chiesa”, come recitava
una nostra campagna promozionale.
Ma anche la “piazza”, luogo pubblico
dove si incrociano credenti e non credenti. In redazione abbiamo uno slogan: “Nessun argomento è tabù”. Purché si abbia la competenza necessaria
per affrontarlo. E lo si sappia situare dal
punto di vista cristiano. Che è il nostro
punto di vista, alla luce del Vangelo e
della dottrina sociale della Chiesa, che
mette al centro dell’attenzione la
dignità della persona e l’uguaglianza di
tutti gli esseri umani. Senza distinzioni.
L’etichetta “cristiana” non è una limitazione. Semmai è un valore aggiunto.
Un “di più” di responsabilità nella
ricerca di senso e di significato nel flusso delle informazioni. O nel dimostrare
più coraggio nella denuncia dei mali e
nella difesa dei più deboli, che non trovano spazio sui mass media. La stampa
cattolica, per svolgere bene il proprio
ruolo, deve essere pienamente ortodossa sulle verità di fede, ma libera e autonoma, nonché responsabile, su tutto
ciò che è oggetto di legittimo dibattito e
confronto. E suscitare “sane inquietudini”, scuotere un’opinione pubblica
silente e addormentata. Anche all’inter-
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E
R I C E R C A
no della stessa comunità ecclesiale,
dove ci vorrebbero più voci e più vivacità. Soprattutto da parte dei fedeli
laici, che sono quasi scomparsi dalla
scena pubblica. La diversità di opinione
non è eresia, ma ricchezza. Se si ha tutti
di mira il bene comune.
Nessuno ha la sfera di cristallo per leggere con chiarezza una realtà complessa
come quella d’oggi. Anche al tempo del
digitale, resta sempre valido il bisogno
di ricercare, informarsi, documentarsi.
Le nuove tecnologie non ci dispensano
dall’uso corretto delle fonti, dai controlli severi prima di “sparare” una notizia. E magari fare qualche “vittima”. Va
poi ristabilito il “patto di lealtà” con i
lettori: loro devono sapere che di noi
possono e devono fidarsi, perché non li
inganniamo, perché la nostra informazione è al loro servizio, e non dei potenti di turno.
Un’informazione indipendente e di
qualità, che faccia ancora da “cane da
guardia al potere” è ingrediente indispensabile della democrazia. E’ la sua
cartina di tornasole.
Potremo ridare più dignità alla comunicazione, se entriamo nella logica del servizio, più che del potere. Servizio che si
avvale oggi di tecnologie sempre più
sofisticate e veloci, ma che va fatto ancora “coi piedi”. Oltre che con intelligenza e col cuore. Nel senso che occorre
“consumare scarpe”: andare a vedere,
verificare e poi scrivere. Lasciando parlare i fatti e le persone. Con fedeltà e
verità.
Antonio Sciortino
n. 2/2010
S T O R I A ,
C U L T U R A
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R I C E R C A
110 ANNI FA, CON LA PRIMA DELLA ‘FRANCESCA DA RIMINI’, NASCEVA LA TERZA PAGINA
CRONACA E GOSSIP
DI UN’ INSUCCESSO
GIORGIO TONELLI
N
ella storia del giornalismo c’è anche Francesca
da Rimini. Galeotto, in
questo caso, fu D’Annunzio. Francesca
è
infatti la protagonista della nascita
della ‘Terza pagina’, cioè la pagina culturale. E’ l’11 dicembre del 1901 (cioè
110 anni fa) quando Alberto Bergamini, da meno di un mese fondatore e
direttore del quotidiano “Giornale d’Italia”, decide di far seguire da ben
quattro giornalisti la prima al teatro
Costanzi di Roma (ora teatro dell’Opera) della “Francesca da Rimini” di
Gabriele D’Annunzio e interpretata
da Eleonora Duse. L’intuizione è ottima. Quando nasce la Terza Pagina l’amore fra Gabriele D’Annunzio ed
Eleonora Duse è al suo apogeo. Lei ha
43 anni ed è nel fiore della sua carriera. Lui ne ha cinque in meno, 38, portati però male. Già in gran parte calvo,
ha pure i denti cariati. Ma è comunque uno straordinario affabulatore.
Un anno prima, D’Annunzio aveva
pubblicato il romanzo “Il fuoco”, ispirato alla sua relazione con Eleonora
Duse, suscitando anche critiche vivaci
da parte degli ammiratori dell’attrice.
n. 2/2010
Inoltre per l’allestimento della “Francesca da Rimini”, la Duse, di tasca propria, sborsa ben 400mila lire, una
cifra esorbitante per l’epoca. Che
rischia però di lasciarla sul lastrico. La
serata si annuncia comunque di una
certa importanza culturale.
D’Annunzio è molto abile nelle pubbliche relazioni e nel saper costruire
l’attesa dell’evento. Ma, per la loro
relazione amorosa, D’Annunzio e la
Duse suscitano anche un certo interesse mondano. Il gossip del resto ha
sempre funzionato come elemento di
curiosità e richiamo.
Alberto Bergamini è un direttore che
ha dei numeri. E poi è single, non ha
legami familiari, tutto casa (poca) e
redazione (tanta). E’ambizioso e vuol
ben figurare coi suoi sponsor, Antonio
Calandra e Sidney Sonnino e soprattutto ha solo 30 anni.
Nato nel bolognese, a San Giovanni in
Persiceto, mescola la passione giornalistica a quella teatrale. A neanche 18
anni scrive i testi del dramma ‘Alice’.
Presentato anche all’ ‘Arena’ di Bologna, lo spettacolo è giudicato mediocre, ma la compagnia e l’autore vengono applauditi. Di un altro lavoro tea-
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Giorgio Tonelli,
giornalista Rai,
Bologna
DESK
S T O R I A ,
C U L T U R A
trale ‘Battaglie della vita’ è conservato
il testo. Giovanissimo, Bergamini collabora con ‘Il Resto del Carlino’, poi
presto dirige “Il Corriere del Polesine’
per finire a fare il segretario di redazione al ‘Corriere della Sera’ di Luigi
Albertini. Quindi l’avventura romana
per fare un quotidiano critico nei confronti di Giolitti, refrattario ai trasformismi del tempo, di orientamento
liberal-nazionale, rivolto soprattutto al
Centro-Sud, anche per evitare di entrare in concorrenza con l’amico Albertini del ‘Corriere della Sera’.
La ‘Terza pagina’ diventa lo
spazio riservato
alla cultura, alle
recensioni, ai
racconti agli
elzeviri (da
‘elzevir’ nome di
un particolare
carattere particolarmente leggibile ed elegante inventato
da una famiglia
di stampatori
olandesi, gli
Elzevire).
DESK
Alberto Bergamini: un servizio da
fare colpo
E’ in questo humus che nasce la ‘Terza
pagina’. Bergamini decide dunque di
mandare quattro giornalisti. Uno per
la recensione, un altro per la partitura
musicale, un terzo per le scenografie e
il quarto per la cronaca della serata.
Ma dove mettere tanto materiale? In
ordine sparso? Meglio in una sola pagina monografica. E, non essendo utilizzabile la prima (specchio di tutto il
giornale), meglio la Terza, quella che
capita sotto l’occhio del lettore appena
girato il primo foglio.
In questo modo la ‘Terza pagina’ favorisce l’immedesimazione e l’impressione di partecipazione a un grande
evento cultural-mondano. Dunque, il
‘Giornale d’Italia’ dell’11 novembre
1901 esce con sei pagine, contro le tradizionali quattro dei giorni feriali. In
prima pagina è pubblicato un pezzo su
un’intera colonna per richiamare l’attenzione del lettore e incuriosirlo sull’argomento mentre tutta la terza è
dedicata all’evento.
Da allora, la ‘Terza pagina’ diventa lo
spazio riservato alla cultura, alle recen-
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E
R I C E R C A
sioni, ai racconti agli elzeviri (da ‘elzevir’ nome di un particolare carattere
particolarmente leggibile ed elegante
inventato da una famiglia di stampatori olandesi, gli Elzevire).
Ricordando il giorno in cui nasce la
Terza Pagina Bergamini scrive, quando già ha 88 anni: “ Dissi (alla redazione) che la tragedia dannunziana, fragorosamente annunciata, aveva non
minore importanza di un discorso dell’on. Giolitti ai suoi elettori di Dronero o di una crisi ministeriale o di un
concitato congresso socialista. Dunque volevo per la Francesca da Rimini
che veniva alla ribalta del teatro
Costanzi un servizio da fare colpo”.
Diego Angeli: una mirabile ricostruzione estetica
L’ampia relazione dell’agitata prima
nazionale a Roma ha un titolo in
realtà non molto originale “La Francesca da Rimini di Gabriele D’Annunzio
al teatro Costanzi”. Dunque, nessun
riferimento al sostanziale insuccesso
della serata, di cui è ben cosciente solo
Eugenio Checchi, anche se fra le righe
dei testi, soprattutto di Nicola D’Atri e
Domenico Oliva, si coglie un certo
disagio per dover assecondare il Vate
proteso nella costruzione del suo mito.
Il primo articolo è di Diego Angeli.
Elenca i vip presenti a teatro, gli esponenti del governo, del parlamento,
della stampa straniera, marchesi e contesse. “Per Roma è stato quello di ieri
sera il primo e più grande avvenimento mondano della stagione….” Quindi
Angeli descrive le scene con la corte
romagnola allo scorcio del XIII secolo
con ampie sale e volte affrescate, stemmi ed armi. La dimora dei Polentoni
non meno fastosa di quella dei Mala-
n. 2/2010
S T O R I A ,
C U L T U R A
testa con vesti, stoffe, broccati e ricami.
Scrive, quasi estasiato Diego Angeli,
evidentemente gran fan del Vate:
“Questa straordinaria rievocazione di
un secolo è dovuta all’intelletto colto e
geniale di un grande artista. Gia nei
versetti dell’‘Isotteo’ Gabriele D’Annunzio aveva dimostrato di avere nello
spirito la visione del mondo medievale
italiano. Questa volta il fantasma è
divenuto realtà ed egli ha potuto presentare al pubblico l’immagine viva di
una Corte sontuosa di un signore
romagnolo verso la seconda metà del
XIII secolo.
Bisogna essergli grati del tentativo e
bisogna anche rivolgere un pensiero di
ammirazione e riconoscenza alla grande artista che contribuì a dar vita a
questo bel sogno d’arte. Eleonora
Duse, senza rivolgersi a nessuno, senza
implorare nessun aiuto, convinta del
suo ideale, ha voluto che questa rappresentazione della ‘Francesca’ fosse
veramente degna del suo nome e del
teatro italiano…. con la semplicità e la
grandezza della sua anima eletta ha
offerto al pubblico italiano la più mirabile ricostruzione estetica che un poeta
abbia mai potuto desiderare”.
Nicola d’Atri: pubblico troppo nervoso
Segue una breve nota del giornalista
Nicola D’Atri sulla musica del maestro
Antonio Scontrino. Scrive D’Atri “Le
angosce d’amore di Francesca, la spigliatezza dei cavalieri che vanno alla
guerra, il bacio degli amanti, una
melodia dolce davvero, la denuncia del
feroce Malatestino, la vendetta del tradito Gianciotto e la morte dei due
cognati sono peripezie descritte con
evidenza di espressione e di colorito”.
n. 2/2010
E
R I C E R C A
Poi arrivano le note dolenti “Il lavoro
però è solo ricco di buone e nobili
intenzioni che onorano chi lo compose. Sventuratamente - sottolinea il critico musicale- il pubblico nervosissimo
e non abituato al duplice spettacolo
poetico e musicale, all’infuori dell’antifona che fu ascoltata con intensa
attenzione e vivamente applaudita fra i
richiami insistenti al maestro non fece
caso della musica, rumoreggiando
d’impazienza come in molti punti
della tragedia”. Insomma, bravo il
maestro Falchi ed ottima l’esecuzione
dell’orchestra, ma pubblico inadatto
alla grandezza dell’evento.
Domenico Oliva: non dirò degli altri
e dell’insieme
Denuncia quasi il complotto il critico
Domenico Oliva: “Color che iersera
s’accaloravano non intendevano
disputare se l’opera drammatica debba
essere scritta in versi o in prosa.
Questione difficile, intricata nella
quale i più fra i convenuti erano e si
sentivano incompetenti. Credo piuttosto che vi fosse quello che si dice una
montatura pro o contro il poeta: amici
ed ammiratori fervidissimi da una
parte: dall’altra gente che aveva in
uggia l’avvenimento, preparato con
troppo fasto e con troppa iattanza, l’afferma-zione dell’esistenza del capolavoro lanciata sicuramente prima che le
cortine del sipario riaprissero per
mostrare al pubblico tutto quel bel
medioevo di tela e cartone. Da queste
passioni diametralmente opposte ma
singolarmente fittizie, è sorto il dramma che si è svolto nella platea, nei palchi, nelle gallerie del Costanzi, mentre
sulla scena si rappresentava quello di
Francesca.
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DESK
S T O R I A ,
DESK
C U L T U R A
Analizzando il secondo atto con la battaglia a Rimini nelle case fortificate dei
Malatesta, il critico scrive: “ Il dramma
familiare e la battaglia si nuocciono: la
battaglia è estremamente lunga e confusa…Qui D’Annunzio non ha avuto
né il concetto dell’unità drammatica,
né la misura. L’effetto legittimo che
egli aveva predisposto con cura sapiente e grande è mancato”.
Nel terzo atto, Domenico Oliva rileva
una eccessiva lentezza: “Molti particolari, disegni di ambiente, ricostruzione
archeologiche, graziose inutilità, le
quali fanno parere più lungo che mai
il tempo”. Poi descrive Paolo mentre
cerca di far leggere a Francesca il libro
di Lancillotto: “Francesca tenta e non
riesce che ha la vista confusa e si prova
a distrarre il giovane amante e a
distrarre se stessa andando al verone,
lodando la bellezza del mare (ecco un’idea che Dante non ha avuto) invano,
la lettura prosegue e si giunge al punto
che li vince. Scena questa di cui ho già
dubitato. Né l’averla veduta ha fugato
i miei dubbi che il ritornare sui dieci
versi che siano più belli al mondo mi è
sembrato una temerarietà non felice”.
Inoltre, ad esclusione della Duse,
Oliva esprime il proprio disagio sulla
recitazione: ”Eleonora Duse ha recitato il primo atto deliziosamente, colla
sua voce divina piena di carezze, con
quel suo accento spirituale che illumina e benefica gli ascoltatori. Poi trascinata nelle contraddizioni del dramma,
preoccupata della tempesta che si scatenava nella sala di tratto in tratto,
parve non potesse lottare contro le difficoltà le quali si facevano giganti”.
Difende dalle contestazioni del pubblico Gustavo Salvini (Paolo Malatesta)
ed Emilia Varini (Malatestino) ma con-
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E
R I C E R C A
clude quasi sconsolato: “Non dirò
degli altri e dell’insieme. Ed è silenzio
che vale un giudizio”.
Eugenio Checchi: molto fumo, poco
arrosto
Chiude la pagina la cronaca mondana
arguta di Eugenio Checchi che firma il
pezzo con lo pseudonimo Tom.
Raccogliendo voci ‘in platea e fuori’
così si esprime Checchi: “Sfido io
(diceva uno spettatore ancora tremante di commozione estetica) tira più un
bacio peccaminoso di donna che le
cento balestre saettanti dalla torre di
Rimini”. E sugli scarsi entusiasmi del
secondo atto con la battaglia aggiunge:
“Anche dà noia tutto quel fumo greco
che invade come fastidioso polverio il
palcoscenico e la platea. Le gole sollecitate e vellicate tossono, i rumori
delle gallerie aumentano, il contrasto
delle disapprovazioni e degli applausi
si fa più vivo. Tirata la tenda su quel
secondo atto, pare che il partito contrario prevalga: ma allora con giovanile slancio (una cinquantina circa) scoppia come un uomo solo in una dimostrazione solenne di grida e applausi e
l’autore si presenta tre volte ai tre
inchini di prammatica…Dopo quel
secondo atto della battaglia a base di
pece greca, colgo nel corridoio dei palchi questo giudizio di un’Eccellenza
“Molto fumo…e poco arrosto”. Siamo
al quarto atto e le conversazioni negli
ambulatori e nei corridoi aumentano
d’intensità di nervosità. Se ne sentono
di tutti i colori. Un discepolo imberbe,
superuomo lattante grida gesticolando
che questo è il vero testo tragico, libero da tutte le pastoie convenzionali,
tantoché da ora in poi si potrà dare un
calcio anche a Shakespeare. Un vicino
n. 2/2010
S T O R I A ,
C U L T U R A
vede che il tocco è dopo la mezzanotte
e ci sono ancora da sentire due atti e
commenta: “Viva la faccia di Silvio Pellico! Con lui almeno si andava a teatro
alle otto, alle undici tutto era finito…”
Finirà alle due di notte, dopo quasi sei
ore . Checchi raccoglie alcune frasi del
dramma “Parlando di Francesca che
sorride fra le lacrime, dice una delle
ancelle ‘tutte le sue lacrime ridon
come la brina’. E un balestriere della
torre parlando di lei afferma che ‘non
v’è spada che sia diritta come lo sguardo dei suoi occhi’. Poi soggiunge ch’ella cammina più leggera di una lonza .
Con dolcissima voce Francesca scandisce al terzo atto questo verso ‘è dolce
cosa vivere obliando’. E molti altri
potrei citarne, gemme di quella bella
corona lirica,che posta in capo a
Gabriele D’Annunzio per unanime
consentimento di pubblici, lo può
compensare ad usura della completa
calvizie. Ma sono vicine le due dopo la
mezzanotte. Il pubblico si rovescia in
dipartiti torrenti verso le uscite. Colgo
a frullo un breve dialogo fra due speculatori di borsa “Povera Francesca io
lo dicevo che non poteva finire bene.
Hai sentito quel balestriere quando ha
gridato ‘Madonna Francesca è allo scoperto?’ ‘Ho sentito e che vuol dire?’
Vuol dire che la disgraziata giocava in
Borsa al ribasso!’. Inorridii - conclude
l’ironico Checchi - e caddi come corpo
morto cade”.
Gli altri giornali: un grande flop
La cronaca del quotidiano di Bergamini risulta comunque ben più benevola
di altri giornali che, in maniera ben
più evidente, sottolineano l’eccessiva
durata del dramma, il crollo delle
scene, il fumo in sala per il fuoco dei
n. 2/2010
E
R I C E R C A
combattimenti, gli spegnimenti di
luci, i fischi e i pochi applausi. Nella
stessa pagina del ‘Giornale d’Italia’
vengono riportate le sintesi dei giudizi
di altri quotidiani sotto il titolo “La
stampa lombarda”. Per ‘La Perseveranza’ la figura di Francesca non viene
rispettata nella tragedia dannunziana
“messa nel grande quadro dei conflitti
medievali, Francesca quasi scompare”.
Sul quotidiano ‘L’Alba’ si sostiene che
“la parafrasi tragica nulla toglierà al V
canto della Commedia né lo farà
impallidire”. Per Giovanni Pozza del
‘Corriere della Sera’. “ La ‘Francesca’
non ebbe buon successo, ma non
credo che il giudizio del pubblico
romano possa essere definitivo…La
Duse stessa recitò affannosamente,
con grande monotonia d’intonazione,
agitata da evidente sovreccitazione nervosa”. Simoni sul ‘Tempo’ nota come
“troppo spesso il poeta tragico si lascia
sopraffare dal poeta lirico”. Poco teneri anche Carducci, Pirandello: “Un
testo senza vita” o Fusero “Prolisso,
verboso, noioso, povero di pensiero e
bolso d’enfasi”. Anche la stampa d’oltreoceano va giù pesante. Per il ‘New
York Times del 15 dicembre 1901 si è
trattato di una commedia “lenta e
noiosa, fischiata a ragione dalla galleria”.
E i fischi continuano anche nei teatri
delle maggiori città italiane ove viene
rappresentata nell’inverno 1901-1902
mentre migliore è l’accoglienza in
Austria e Germania. Nel frattempo
D’Annunzio accetta di alleggerire il
testo di oltre mille versi ed mette maggiore linearità alla vicenda. Portata
negli Stati Uniti da Eleonora Duse, la
‘Francesca da Rimini’ dopo l’iniziale
insuccesso a Boston (dovuto anche
29
DESK
S T O R I A ,
C U L T U R A
all’ostilità americana nei confronti di
D’Annunzio) riesce a conquistare New
York e le tutte le altre città dove fa
tappa. Merito comunque più della
Duse e del suo mito che del testo dannunziano.
DESK
Da Saluzzo cinque nuovi abbonati
La storia narra che, dopo qualche giorno dalla nascita della ‘Terza pagina’,
anche dal piccolo comune di Saluzzo,
roccaforte piemontese del liberalismo,
arrivano all’amministrazione del
‘Giornale d’Italia’ cinque abbonamenti sottoscritti dal medico condotto, dal
farmacista, da due maestre ed uno studente. Per gli intellettuali della provincia italiana e per i lettori colti è nata
una specie di oasi fra la politica e la
cronaca nera. Inoltre, a differenza di
altri Paesi come Francia ed Inghilterra,
in Italia la distinzione fra giornalismo
e letteratura è sempre stata poco rigorosa. Bergamini avuta l’idea, la sviluppa nel corso degli anni, chiamando a
collaborare gli scrittori più in voga del
tempo e invitando “storici, filosofi e
scienziati a uscire dalle università e
dalle accademie per partecipare alla
vita squillante di un giornale moderno”. Collaborano attivamente alla
‘Terza pagina’ i giornalisti Luigi Federzoni, Mario Missiroli e Goffredo Bellonci. Fra le firme più illustri del ‘Giornale d’Italia’ Benedetto Croce, Giustino Fortunato, Gaetano Mosca, Maffeo
Pantaloni, Alfredo Oriani ma scrivono
anche Antonio Fogazzaro, Luigi
Capuana, Giovanni Pascoli, Luigi
Pirandello, Alfredo Panzini, Giovanni
Papini,Vilfredo Pareto, Marino Moretti. La formula viene presto copiata
anche dagli altri quotidiani. La ‘Terza
pagina’ diventa per tutti il ‘salotto
30
E
R I C E R C A
buono’. Bergamini nel 1920 viene
nominato senatore da Giolitti che
pure aveva combattuto tenacemente.
Tornato per la terza volta alla presidenza del consiglio, Giolitti fa infatti
ottenere la nomina di Bergamini a
senatore nonostante appartenesse
all’opposizione perché – spiega: “ Io
apprezzo i giornalisti coerenti”. Da
sempre liberal-conservatore, ma mai
fascista, Alberto Bergamini lascia il
‘Giornale d’Italia’ dopo 22 anni, nel
1923 quando capisce che sul suo quotidiano si stanno allungando le mani
del nascente regime. Muore a Roma
nel 1962, all’età di 91 anni.
Giorgio Tonelli
n. 2/2010
S T O R I A ,
C U L T U R A
E
R I C E R C A
PANORAMA DELLA STAMPA CATTOLICA SCRITTA IN ROMANIA
RINATA CON NUOVO VIGORE
DALLE CENERI DEL REGIME
ANCA MARTINAS
S
Sono passati ventidue
anni dalla caduta del regime dittatoriale comunista in Romania e si può
parlare di importanti progressi per quanto riguarda i mass media, non
solo per la modernizzazione dei mezzi ma anche per un’ampia possibilità di scelta per il pubblico.
Non dimentichiamo che, negli anni
del totalitario, quei mezzi erano pochi
e totalmente controllati dal regime,
essendo un monopolio del potere e,
più che rappresentare fonti di informazione, erano veri strumenti di
disinformazione e propaganda.
Oggi c’è una grande possibilità di scelta tra la rete televisiva e radiofonica
pubblica, con più canali, e le reti private, che funzionano tutte in un quadro competitivo secondo leggi di mercato. Anche i giornali hanno conosciuto un’importante crescita, con
un’ampia varietà di generi, con l’aumento delle tirature e delle cifre d’affari, con lo sviluppo dei canali di distribuzione, con la modernizzazione tecnologica e il passaggio al digitale e alle
rotative a grande velocità. Tuttavia,
n. 3/2010
nonostante la qualità tecnica in
costante miglioramento, i contenuti
tendono a svolgere soprattutto una
funzione di divertimento e di informazione che punta più al sensazionale e
allo scandalistico che all’approfondimento.
In questo quadro generale, la stampa
cattolica scritta è molto, come dire,
locale. In Romania ci sono undici diocesi: sei romano-cattoliche (quattro
delle quali di lingua ungherese) e cinque greco-cattoliche. E’ certamente
una situazione di varietà che, sfruttata
al meglio, potrebbe anche portare a
ottimi risultati.
Si utilizza il termine “locale”, o si
potrebbe usare quello di “individuale”,
per definire la stampa cattolica perché
ogni diocesi ha le proprie pubblicazioni, spesso più di una, in quanto, oltre
la rivista diocesana che può essere settimanale o mensile, ci sono quelle dei
vari seminari o istituti di teologia, o
anche di movimenti, come quella, per
esempio, dei Focolari. Ma esse rimangono tutte limitate entro i confini
della diocesi, anche perché la diffusione di quelle pubblicazioni si fa a livello locale, nelle parrocchie. Una rivista
31
Anca Martinas,
giornalista, Radio
Vaticana
DESK
S T O R I A ,
Durante mezzo
secolo di regime comunista
non era stato
più permesso
che uscissero
pubblicazioni
cattoliche: niente giornali, riviste o libri dei
cosiddetti “reazionari cattolici
al servizio di
una potenza
straniera”, come
si era definiti dal
potere politico
dell’epoca.
DESK
C U L T U R A
diocesana non si trova in edicola,
anche perché ha basse tirature e i costi
di diffusione sono altissimi, o, forse,
anche per la permanenza di una limitazione psicologica da parte dei cattolici stessi che, essendo in Romania in
minoranza (all’incirca il sei per cento),
preferiscono restare un po’ nell’ombra
e non avere troppa visibilità.
Ricordiamo che per quasi cinquant’anni la Chiesa greco-cattolica è
stata fuori legge mentre quella romano-cattolica era solo tollerata. Parliamo di condizioni in cui era impensabile proporre una visione cattolica e
forse si portano ancora i segni della
paura di esprimere il proprio punto di
vista; come minoranza, infatti, si ha
l’impressione di contare poco nella
società.
C’è anche un altro aspetto sfavorevole,
e che sta soltanto ai cattolici risolvere.
Non si ha una pubblicazione comune,
di tutti fedeli romano-cattolici della
Romania, con la quale provare a presentarsi a livello nazionale e ottenere
una maggiore diffusione.
La Chiesa ortodossa, al contrario, ha
una pubblicazione del genere, che si
può trovare in edicola, con un’edizione centrale e quattro locali.
Dobbiamo certamente prendere in
considerazione il potenziale economico della Chiesa ortodossa in Romania:
il giornale di cui si è parlato viene
finanziato con il contributo di tutte le
parrocchie, tante in un Paese in cui il
novanta per cento della popolazione è
di religione cristiano-ortodossa. E’
vero che i cattolici hanno un sito vicino alla Conferenza episcopale:
www.catholica.ro copre tutte le realtà
cattoliche. Ma ci vorrebbe un giornale
o una rivista cattolica nazionale che
32
E
R I C E R C A
trasmettesse la visione della Chiesa
latina, reperibile in edicola.
E, entro questi limiti, si può parlare di
una vera esplosione mediatica cattolica
in Romania, avvenuta progressivamente dopo la caduta del regime totalitario. All’inizio, chiaramente in maniera
timida e con mezzi rudimentali, poi
sempre più accurata nei contenuti e
nella presentazione grafica.
Durante mezzo secolo di regime comunista non era stato più permesso che
uscissero pubblicazioni cattoliche:
niente giornali, riviste o libri dei cosiddetti “reazionari cattolici al servizio di
una potenza straniera”, come si era
definiti dal potere politico dell’epoca.
I pochi testi che circolavano erano tradotti e dattiloscritti in più copie e in
gran segreto da qualche prete che
rischiava per questo la libertà. Essi
erano distribuiti tra la gente di nascosto e venivano considerati più preziosi
dell’oro.
Quando ora si vedono i Messali stampati su carta pregiate e rilegati in pelle
non si può non pensare con commozione ai Messali che venivano usati
nelle parrocchie durante il comunismo, copiati a macchina da un originale che era diffuso di nascosto nelle
diocesi.
Chi scrive conserva alcuni cimeli che
hanno non soltanto un valore sentimentale, ma soprattutto un forte valore morale. Per esempio un piccolo quaderno che contiene preghiere scritte a
mano; il libriccino di orazioni di una
madre, scritto attorno agli anni 50.
Siccome i libri di preghiere non esistevano, la gente le scriveva a mano sui
quaderni. C’è un altro cimelio: una
rivista per bambini del 1947. E’ stata
trovata da una bambina in casa della
n. 2/2010
S T O R I A ,
C U L T U R A
nonna, che viveva in un paesetto della
Moldavia romena, Barticesti. Non era
sua la rivista, ma di un suo compaesano che, prima che i comunisti arrivassero al potere, era un fedele lettore
della stampa cattolica, alle cui pubblicazioni era abbonato e delle quali non
si disfaceva mai, così che ne aveva
riempito la soffitta di casa.
Quando ne fu vietata la pubblicazione
e diffusione, l’uomo, di nome Petru
Fechet, fece circolare le sue riviste tra
la gente del paese, in modo di mantenere vivo lo spirito di fede. Quella
copia è stata regalata a chi scrive, che la
conserva religiosamente non solo
come ricordo, ma soprattutto come
simbolo della resistenza cattolica, vissuta da gente semplice ma di grande
fede in Dio, durante la dittatura comunista.
Si è passati lentamente da una penuria
assoluta di mezzi di comunicazione
cattolici a una loro rinascita ed espansione quantitativa e qualitativa. Il sito
www.catholica.ro, già citato, fa anche
da agenzia. L’unica radio cattolica è
Radio Maria, con una redazione in lingua romena e un’altra in ungherese,
con una copertura di trasmissione in
FM soltanto per quattro città della
Transilvania: Oradea, Zalau, Blaj e
Baia Mare. Non è stato possibile ottenere una licenza di trasmissione anche
a Bucarest, nonostante tutti i tentativi.
A Iasi, nella Moldavia romena, dove i
romano-cattolici sono numerosi, si è
molto desiderato disporre di una radio
cattolica e si è realizzato un progetto
che ha ottenuto i complimenti della
commissione, ma la licenza è stata poi
concessa a una emittente ortodossa
che trasmette anche a Bucarest, dove
Radio Mario non è riuscita a ottenere,
n. 2/2010
E
R I C E R C A
come si è detto, la licenza di trasmissione. Anche a non voler avanzare supposizioni, si percepisce un certo tentativo da parte della Chiesa ortodossa di
monopolizzare i mass-media, soprattutto quelli che riescono a raggiungere un
gran numero di persone.
Comunque i cattolici della Romania
continuano a utilizzare molto la stampa scritta: c’è una lunga lista di pubblicazioni importanti, almeno 23, di
cui 16 in lingua romena, tra riviste settimanali, quindicinali, mensili e trimestrali, e 7 in lingua ungherese.
Ci sono i mensili diocesani, come
“Actualitatea crestina” (“L’Attualità cristiana”) dell’arcidiocesi di Bucarest,
“Lumina crestinului” (“La luce del cristiano”) della diocesi di Iasi, e in
ungherese “Vasàrnap” (“La domenica”), settimanale, e “Kerestèny Szò”
(“Parola cristiana”), mensile, ambedue
della diocesi di Alba Iulia. E le pubblicazioni delle diocesi greco-cattoliche,
come – per citarne solo alcune – i
mensili “Unirea” (“L’unione”) di Blaj e
“Vestitorul Unirii” (“L’Annunciatore
dell’unione”) di Oradea, e il bimensile
“Viata crestinà” (“La vita cristiana”) di
Cluj. Ci sono inoltre riviste per bambini, come il trimestrale “Isus, prietenul copiilor” (“Gesù, l’amico dei bambini”) della diocesi di Iasi, il mensile
“Suflet tànàr” (“Anima giovane”) per i
fanciulli di quella di Bucarest, “Tinerimea crestinà” (“La gioventù cristiana”)
di Baia Mare, “Kistetsvér” (“Il fratellino”), bimensile in lingua ungherese
per i giovani. L’elenco delle pubblicazioni alle quali si fa riferimento è frutto dell’impegno e di una attenta ricerca di Mons. Anton Lucaci, responsabile della sezione romena della Radio
Vaticana, al quale vanno i ringrazia-
33
Si è passati lentamente da una
penuria assoluta
di mezzi di
comunicazione
cattolici a una
loro rinascita ed
espansione
quantitativa e
qualitativa.
DESK
S T O R I A ,
La galassia
Gutenberg ha i
suoi piccoli e
grandi astri di
stampa cattolica; alcuni
nascenti, altri
ricchi di un passato e di una
tradizione,
come “Lumina
crestinului”, fondato nel 1903,
ridotto al silenzio nel 1948, e
riapparso nella
nuova serie a
partire dal 1989.
DESK
C U L T U R A
menti di chi scrive.
Ogni diocesi, oltretutto, ha un suo sito
internet dove si pubblicano le notizie
riguardanti la vita e le rispettive attività; e, in più, ogni scuola cattolica,
ogni seminario o istituto, e quasi ogni
parrocchia ha la propria pagina web,
una vetrina su internet, dove si presentano le informazioni sulle proprie iniziative.
Da sottolineare, infine, l’importanza
della Radio Vaticana in lingua romena, che viene usata dai giornalisti – e
non soltanto da quelli cattolici – come
agenzia di stampa, come fonte di informazione attendibile per quanto riguarda il Santo Padre e la Santa Sede.
La galassia Gutenberg ha i suoi piccoli
e grandi astri di stampa cattolica; alcuni nascenti, altri ricchi di un passato e
di una tradizione, come “Lumina crestinului”, fondato nel 1903, ridotto al
silenzio nel 1948, e riapparso nella
nuova serie a partire dal 1989.
Tra le pubblicazioni cattoliche vorrei
citare “Vita cattolica Banatus”, che
appare nella diocesi di Timisoara, di
lingua ungherese; ma la rivista è bilingue, in romeno e in magiaro, ed è un
bell’esempio di comunicazione e
comunione tra i giornalisti delle due
etnie, e anche tra i fedeli che possono
essere separati dalla lingua ma sono
uniti dalla stessa fede.
Il ruolo che svolgono le pubblicazioni
diocesane è principalmente di educazione alla fede, lungo itinerari che
accompagnano i credenti nel cammino cristiano; si tratta di voci di una
Chiesa che è sul territorio, ma anche
universali perché, accanto agli insegnamenti del pastore locale appaiono
anche le notizie sul Santo Padre, sulla
sua attività pontificale, sul magistero
34
E
R I C E R C A
della Chiesa.
Il ruolo è ovviamente anche di comunicazione, per le informazioni sulle
attività delle parrocchie e di solito si
riesce a coprire la sfera sociale, non soltanto quella religiosa. Tra gli strumenti di comunicazione delle varie diocesi
esiste certamente un po’ di concorrenza, che tuttavia, entro determinati limiti, è anche positiva perché mette in
moto meccanismi che danno vivacità
al lavoro.
Ma non si tratta, fra i giornalisti cattolici, di concorrenza dannosa: si può
parlare qualche volta di collaborazione
non esemplare, non di conflitti.
Anzi gli operatori cattolici della comunicazione si incontrano regolarmente
una volta l’anno e hanno un forum
web che permette di scambiare opinioni e informazioni: se nascono discussioni, magari un po’ frizzanti e condite
di ironia, si finisce con il restare amici
come prima.
Per quanto riguarda la preparazione
dei giornalisti cattolici, essi di solito
seguono corsi di teologia e di lettere
negli Istituti universitari cattolici in
Romania, e in molti casi continuano a
studiare comunicazioni sociali, per lo
più all’estero, nelle Università pontificie.
Non pochi di essi lavorano per i mezzi
di informazione laici e il loro ruolo
diventa prezioso perché possono
diventare voci cristiane in ambienti
più secolarizzati o punti di riferimento
per i loro colleghi e soprattutto aiutare
a dare una chiave di lettura cristiana
agli eventi di cui si occupano nei vari
mass-media nei quali lavorano.
E’ una categoria molto importante e il
vescovo di Bucarest, come responsabile della Commissione episcopale delle
n. 2/2010
S T O R I A ,
C U L T U R A
comunicazioni sociali, ha voluto
incontrarli, cosa che i giornalisti
hanno molto gradito e che ci si è ripromesso di ripetere.
Anca Martinas
E
R I C E R C A
dell’Arcidiocesi di Bucarest
Vasàrnap (La domenica), settimanale in
ungherese della diocesi di Alba Iulia
Verbum, rivista annuale di teologia dell’Arcidiocesi di Bucarest
Vita Cattolica Banatus, in ungherese,
della diocesi di Timisoara
PUBBLICAZIONI CATTOLICHE
PUBBLICAZIONI GRECO CATTOLICHE
Actualitatea crestina (Attualità cristiana),
quindicinale dell’arcidiocesi di Bucarest
Almanahul presa bunà (Almanacco la
buona stampa), annuale
Buzamag (Il chicco di grano), mensile in
ungherese per i giovani
Drumuri deschise (Vie aperte), rivista del
seminario diocesano di Iasi
Glasul nostru (La nostra voce), rivista dei
laici della diocesi di Iasi
Gyertyalang (La fiamma della candela),
settimanale in ungherese per i bambini,
diocesi di Satu Mare
Isus, prietenul copiilor (Gesù, l’amico dei
bambini), trimestrale della diocesi di Iasi
Kerestèny Szò (Parola cristiana), mensile
in ungherese della diocesi di Alba Iulia
Kistetsvér (Il fratellino), bimensile in
ungherese per i giovani
Lumina crestinului (La luce del cristiano,
mensile della diocesi di Iasi (fondato nel
1903, nuova serie dal 1989)
Mesagerul Sfantului Anton (Messaggero di
Sant’Antonio) mensile
Oras Nou, mensile dei Focolari, Timisoara
Providenta Divina (Provvidenza divina),
bimestrale dell’Amministrazione apostolica di Moldova
SIS, rivista mensile in ungherese del
seminario diocesano di Alba Iulia
Suflet tànàr (Anima giovane), mensile
Unirea (L’Unione), mensile dell’Arcidiocesi di Faragas –Alba Iulia
Cultura crestinà (Cultura cristiana), mensile dell’Arcidiocesi di Faragas-Alba Iulia
Tinerimea crestinà (Gioventù cristiana),
mensile della diocesi di Baia Mare
Vestitorul Unirii (L’annunciatore dell’unione), mensile della diocesi di Oradea
Viata crestinà (Vita cristiana), bimensile
della diocesi di Cluj
n. 2/2010
35
DESK
P R O F E S S I O N E
26° CONGRESSO NAZIONALE DELLA STAMPA ITALIANA
L’ALLEANZA TRA EDITORI E GIORNALISTI
URGE INVESTIRE IN FORMAZIONE
PINO NARDI
U
Pino Nardi,
giornalista “Il
Segno” Milano,
Vicepresidente
UCSI
DESK
n’alleanza tra editori e giornalisti per
gestire il cambiamento epocale in atto
nel modo dell’informazione italiana. È
questo il messaggio emerso dal 26°
congresso della Federazione nazionale
della stampa italiana, che si è svolto a
Bergamo dall’11 al 14 gennaio scorsi.
Non a caso il tema congressuale era «Il
giornalismo e le sfide del cambiamento». Il dibattito tra i delegati è stato di
buon livello e l’esito ha visto confermati i vertici, Franco Siddi alla segreteria e Roberto Natale alla presidenza,
consolidando ulteriormente la larga
maggioranza che governa il sindacato.
Ma la vera novità del congresso bergamasco è stata l’apertura dei lavori con
la tavola rotonda alla quale hanno partecipato gli editori più importanti del
Paese. Un segnale del cambiamento di
clima nei rapporti tra giornalisti ed
editori. Da parte imprenditoriale infatti è arrivato un riconoscimento - che si
auspica non formale - della centralità
del giornalista nell’informazione.
Intanto lo scenario è sempre più drammatico come emerge dalla relazione
della Giunta esecutiva della Fnsi: nell’ultimo triennio 580 giornate di vertenze sindacali per stati di crisi, cessazione di attività, trasferimenti di azien-
36
de e contenziosi di lavoro; 243 accordi
sindacali e verbali di riunioni con le
controparti e/o al ministero del Lavoro (con un incremento del 400%
rispetto al triennio precedente) e 47
quotidiani, 44 periodici e 6 agenzie di
stampa che hanno presentato piani di
riorganizzazione. Uno scenario che
rischia di acuirsi nei prosssimi mesi.
Quale allora la via d’uscita? Dicono in
coro editori e sindacato: investire sulla
qualità, innanzitutto del giornalista e
quindi dell’informazione.
«Devo dare atto che a Mediaset, siamo
riusciti a fare grandi cose con la collaborazione dei rappresentanti sindacali
che hanno capito la rivoluzione tecnologica in atto - ha sottolineato Fedele
Confalonieri, presidente Mediaset -.
Oggi i giornalisti devono diventare
multimediali e digitali. I nostri programmi del mattino e del pomeriggio,
ad esempio, hanno giornalisti di valore che lavorano a stretto contatto con
le star della Tv, inventando cose
nuove. Secondo me questo arricchisce
la nostra Tv. Abbiamo poi creato un’agenzia, News Mediaset, con la quale
abbiamo in progetto un canale All
News. Razionalizzazione e tagli non
possono arrivare all’osso perché i bravi
n. 2/2010
P R O F E S S I O N E
tagliatori di teste ti lasciano il corpo
esangue, ma stiamo attenti a non fare i
“celoduristi” stile anni Ottanta. I giornalisti, oltre che multimediali, devono
essere flessibili».
Qualità, ma anche flessibilità; innovazione contro conservazione. Lo ha
detto Carlo De Benedetti, presidente
del Gruppo L’Espresso. Ha stroncato
come «sciocchezze colossali» le previsioni che danno per morti i giornali a
scapito di Internet. «E sono considerazioni oscene anche quelle che davano
per scontato che i giornali si potessero
fare senza i giornalisti. Credo che i
giornali non moriranno mai, ma certo
non stanno bene - ha affermato De
Benedetti -. Oggi infatti siamo a una
diffusione inferiore ai 5 milioni di
copie, cioè agli stessi livelli del 1939,
gli investimenti pubblicitari sono calati del 16% e i fatturati sono diminuiti
del 40% dal 2000 al 2009. Entro tre
anni, noi vogliamo raggiungere il 20%
d’introiti pubblicitari dal web».
Dalla tribuna De Benedetti ha lanciato
il suo triplice motto: «Innovare, innovare, innovare». Per garantire il futuro
del giornalismo ha proposto un’alleanza fra editori e giornalisti, spiegando
che la qualità è essenziale per l’informazione e la qualità dell’informazione
è necessaria per la democrazia. «Prima
i cambiamenti avvenivano ogni 50
anni, oggi i modelli di business impongono rinnovamenti radicali ogni due
anni - ha proseguito De Benedetti -.
Sia tra editori, sia tra giornalisti ci
sono gli innovatori e i conservatori. Si
vince la crisi solo lavorando insieme,
nell’innovazione».
Internet non uccide il ruolo del giornalista. Anzi. De Benedertti lo ha
rilanciato: «I giornalisti devono accet-
n. 2/2010
tare l’aumento della produttività del
lavoro che oggi si può ottenere proprio
con le nuove tecnologie. Il nostro
gruppo punta a un quotidiano di qualità su iPad senza incorrere in quella
marmellata d’informazioni non verificate che circola sul web. Per fare questo c’è bisogno di buoni giornalisti che
facciano da filtro, verifichino le fonti e
organizzino le notizie permettendo ai
lettori di essere opinione pubblica.
Editori e giornalisti sono le piccole
sentinelle della democrazia».
Sulla multimedialità ha insistito anche
Piergaetano Marchetti, presidente di
Rcs MediaGroup, che ha messo in
guardia anche dall’invadenza della
pubblicità nell’informazione: «Il mercato dell’editoria ha bisogno di regole
e pluralismo. Mi domando se valga
ancora l’attuale disciplina che regolamenta le concentrazioni. Per i giornalisti invece c’è necessità non solo di
aggiornamenti, ma anche di acquisire
nuove competenze. C’è bisogno di
giornalisti non più generalisti, ma multimediali e specializzati».
«Mi ha colpito la notevole convergenza
di opinioni sulla crisi che stiamo attraversando e sulla necessità di cambiamento e di innovazione. Non è in
discussione la centralità e la necessità
che gli editori hanno di investire, dopo
una prima fase di ristrutturazione. È in
atto una trasformazione del modo di
lavorare del giornalista: sono cambiati
gli strumenti, le piattaforme, il linguaggio e i fruitori dell’informazione».
Sono le parole di Alberto Donati,
responsabile relazioni sindacali Fieg e
vice presidente Inpgi, in genere ruvido
nei rapporti con i giornalisti. Anche
questo un segnale di cambiamento
rilevante, soprattutto quando ha sotto-
37
Per i giornalisti
invece c’è
necessità non
solo di aggiornamenti, ma
anche di acquisire nuove competenze multimediali e specializzate.
DESK
P R O F E S S I O N E
«Bisogna far
chiarezza nel
sistema e mettere un freno alle
illusioni di chi si
deve accontentare di 2 euro e
50 ad articolo.
Le sfide le possiamo vincere,
ma le condizioni di lavoro
devono essere
dignitose».
DESK
lineato la necessità di investire nella
formazione. «Il bene fondamentale di
qualsiasi impresa editoriale sono i giornalisti - ha detto Donati -. Per questo è
essenziale un processo di formazione
permanente, gestita con programmi di
alto livello e finanziata con risorse adeguate. Credo che gli editori siano a
disposizione nel mettere mano al portafoglio per questo scopo. Che finora è
stato affrontato con superficialità da
parte degli editori che hanno scambiato l’aggiornamento professionale o la
formazione come incentivi elargiti al
posto di quelli retributivi. La formazione serve a chi già opera nelle redazioni
e a tutti coloro che per varie ragioni
sono stati espulsi dalle redazioni e
hanno necessità di riqualificarsi. È
utile anche quella di base per incentivare l’ingresso di giovani professionisti, visto che università e scuole di
giornalismo probabilmente non sono
sufficienti per affrontare la vita lavorativa. Non è continuando a tagliare che
si risolvono i problemi: è giunto il
momento di investire e la formazione è
uno degli investimenti più importanti».
Dunque, la sfida agli editori è stata
lanciata da Franco Siddi, segretario
generale Fnsi, che ha fortemente voluto questo dibattito. «Bisogna far chiarezza nel sistema e mettere un freno
alle illusioni di chi si deve accontentare di 2 euro e 50 ad articolo. Le sfide
le possiamo vincere, ma le condizioni
di lavoro devono essere dignitose. Le
ristrutturazioni aziendali sono state un
passaggio doloroso che abbiamo
affrontato con grande fatica. Oggi il
nostro obiettivo è tenere insieme un
sano mix tra l’esperienza degli anziani
38
e l’entusiasmo dei giovani. La soluzione potrebbe essere pagare un articolo
quanto un’ora di lavoro intellettuale. I
margini di profitto infatti non sono
uguali a quelli degli altri settori: sono
pochi i giornalisti ben pagati. L’idea di
giornalisti a 1200 euro non ci piace e
non dovrebbe piacere neanche agli editori, perché avremmo solo giornalisti
ideologizzati e urlatori di parte. No
allo sfruttamento, sì al coinvolgimento
e alla partecipazione».
Una risposta immediata è giunta da
Alessandro Brignone, direttore generale Fieg (nel frattempo ha lasciato l’incarico per l’insegnamento universitario, con il ritorno a quella carica di
Fabrizio Carotti): «Quando Siddi
affronta il difficile tema della “buona”
occupazione, anche noi non possiamo
non stigmatizzare il fenomeno delle
collaborazioni sottopagate. È anche
vero, però, che se oggi il giornalista è
più flessibile, questo consente all’editore di veicolare meglio le news – ha
spiegato Brignone -. È uno scambio
che ci interessa perché di buonsenso.
Penso anche che se vogliamo mettere
mano a un grande patto per avere relazioni sindacali più moderne, imprese e
sindacato devono lavorare insieme su
piattaforme condivise».
Un impegno per i diritti, contro la precarietà e per l’affermazione della
libertà di informazione come pilastro
di una democrazia sana, al centro del
lavoro che la Fnsi porterà avanti nei
prossimi anni. Così lo ha delineato il
segretario, lanciando la proposta di
costituire un fondo per la libertà di
stampa al quale partecipino, in primo
luogo, le fondazioni bancarie attingendo a una quota dei loro proventi da
gestire con criteri di assoluta indipen-
n. 2/2010
P R O F E S S I O N E
denza finalizzati alla promozione del
bene informazione: «Vogliamo un sindacato delle idee, della libertà, delle
diverse opinioni, ma unite dalla
volontà di stare insieme. Diciamo no
ai bavagli. No alla precarietà. Occuparsi di questo non significa mettere a
rischio le proprie sicurezze. Il sindacato vuole aumentare le garanzie, non
aumentarle a chi già ce le ha. Cambiamo le relazioni interne. Cambiamo il
modo di fare impresa, perché cambia il
mondo e cambiano i bisogni. Ecco
perché dobbiamo stare insieme. E vinceremo solo se riusciremo a tenere
insieme le differenze. Dico questo,
non nel tentativo di omogeneizzare,
ma per migliorare le condizioni della
libertà. Vorrei ricordarlo: il giornalismo ha una grande responsabilità
democratica, è un mestiere che mantiene la propria identità se riesce a fondarla nella responsabilità, nell’etica e
nelle competenze. Il giornalismo non
solo è necessario, ma contiene in sé
anche quelle condizioni che rendono
dignitosa la vita di chi lo pratica. Ecco
perché mi inquieta la precarietà. Ho
lanciato una sfida: quella di un piano
strategico per far emergere la precarietà e il lavoro dei freelance. E la priorità di questo congresso».
Pino Nardi
Per conoscere
la storia
a cura di Vittoria Fiorelli
contributi di
Giuseppe Galasso,
Giuseppe Laterza,
Massimo Mastrogregori,
Edoardo Tortarolo
pag. 70, euro 9,00
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DICONO DI NOI
STEFANIA DI MICO
a quando era un piccolo
D
editore, i suoi sogni si sono
avverati in pieno. E negli Stati Uniti la
Stefania Di Mico,
Ufficio Marketing
Unilever, Roma
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sua influenza sulla politica repubblicana è
straripante. NEW YORK - "Information
does not want to be free". E' il Verbo di
Rupert
Murdoch, che oggi compie 80 anni. Quella frase pronunciata pochi giorni fa per
lanciare la sua nuova creatura, The Daily,
cattura l'ambivalenza del più potente
magnate mondiale dei mass media.
L'informazione non vuole essere "free",
nel senso di gratuita? O "libera"? A un età
in cui la maggioranza si gode la pensione,
Murdoch non è solo all'apice della sua
espansione (con il controllo totale di Sky)
e appassionato di nuovi progetti come il
"giornale fatto solo per l'iPad". E' anche
capace più che mai di eccitare passioni
bipolari: odio estremo, ammirazione sconfinata. L'America si scopre ossessionata
da quest'uomo, gli rimprovera un potere
politico perverso; e gli riconosce una fede
tenace nel futuro dell'informazione.
Per chi ha a cuore la libertà di stampa, è
uno spettacolo deprimente. Eppure Murdoch è anche un'altra cosa. Da mesi è tornato a fare il "redattore capo", tutti
i giorni al lavoro nei locali della sua
nuova creatura: The Daily, il primo giornale soltanto per l'iPad. Solo in formato
digitale, quindi, ma un vero giornale.
Con 100 reporter assunti apposta, contenuti originali, l'ambizione di parlare, "a
una generazione istruita e sofisticata che
non legge più la carta né guarda la vec-
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chia tv". Un giornale bipartisan, anzi apartisan, molto diverso dalla Fox e dal
Wall Street Journal (non uno dei reporter
è stato preso dalle altre testate del gruppo).
Un prodotto a pagamento, con cui Murdoch alleato a Steve Jobs porta l'affondo
nell'offensiva contro la gratuità di Internet, l'altra sua battaglia del momento. A
80 anni è così indaffarato - a scegliere il
prossimo presidente Usa, a decidere il
futuro dell'informazione - che gli sfugge
solo un piccolo problema: la successione.
Con i tre figli del secondo matrimonio James, Lachlan, Elisabeth - si alternano
liti e riappacificazioni. La terza moglie,
l'ambiziosa cinese Wendi Deng, gli legge
le e-mail "perché lui non sa usare il computer". E forse anche per altre ragioni. La
questione del dopo-Murdoch non è risolta. E' rinviata al 90esimo compleanno?
Federico Rampini
La Repubblica, 11 marzo 2011
upert Murdoch ha fatto
incetta di grandi firme per il
R
suo The Daily, dichiarando pubblicamen-
te di voler rilanciare «il giornalismo che si
fa consumando le suole delle scarpe».
Non è il solo a puntare sulla qualità. L’ex
azienda numero uno del web a stelle e strisce, AOL, ha appena comprato (strapagato?) per 315 milioni di dollari l’Huffington
Post, il più seguito sito d’informazione
politica negli Stati Uniti. Arianna Huffington, fondatrice sei anni fa del sito, sarà
nominata presidente e guiderà l’Huffing-
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ton Post Media Group. Lo scorso novembre, invece, il sito Daily Beast di Tina
Brown, la più nota giornalista d’America
(anche se inglese), aveva di fatto inglobato
Newsweek, glorioso settimanale già del
gruppo del Washington Post. Ma anche
senza andare a studiare i trend americani,
le già citate esperienze italiane di Nóva e
R7 confermano che solo l’integrazione tra
innovazione e buon giornalismo è garanzia di successo. Bisogna investire su
entrambi, perché l’una senza l’altro, o viceversa, non funzionano più.
Carlo De Benedetti
Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2011
rriva la prima edizione del
A
Daily: a lanciare il quotidiano per iPad è stato Rupert Murdoch,
numero uno del gruppo News Corp.
Avrà più di cento pagine ogni giorno,
fotografie immersive, grafici interattivi. E
ancora: una pagina dedicata alle condizioni meteorologiche locali aggiornata in
tempo reale e un approfondimento sullo
sport con notizie in diretta dai social
network. Gli articoli si potranno salvare
per leggerli in un secondo momento.
Ecco le immagini della presentazione. Il
Daily punta sulla partecipazione del pubblico: i lettori possono condividere gli
articoli con Facebook e Twitter. Inoltre,
consente di prendere note di testo e vocali. “Le notizie non esistono nel vuoto:
sono condivise, e la capacità di seguire i
link è decisiva” ha detto Jonathan Miller,
direttore dell’area digitale di News Corp,
durante la conferenza a New York. Lo
staff di giornalisti al quotidiano per iPad è
di cento persone: finora l’intero progetto
ha richiesto un investimento di 30 milioni di dollari. Secondo Rupert Murdoch i
costi operativi arriveranno a 500mila dollari a settimana.
Luca Dello Iacovo
Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2011
recentoquindici milioni di
dollari per il blog di culto
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della sinistra liberal americana: il provider
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internet Aol acquista The Huffington
Post, uno dei siti più seguiti e popolari in
rete, con 25 milioni di visitatori al mese.
Un’operazione che darà vita alla fusione
fra due veri giganti dell’online. Per Aol si
tratta della acquisizione più importante
da quando si è separata nel 2009 da Time
Warner e in prospettiva darà nuova linfa
al colosso nel settore dell’informazione e
della produzione di contenuti originali,
aree vitali secondo l’ad Tim Armstrong
per contrastare il declino degli ultimi
anni.
Arianna Huffington, la giornalista che ha
inventato il seguitissimo e autorevole
blog, sarà presidente e redattore capo del
nuovo gruppo (The Huffington Post
Media Group) che integrerà i contenuti
delle due aziende. L’accordo consentirà
anche al sito icona della sinistra Usa di
raggiungere un enorme nuovo pubblico,
sino ad arrivare ad almeno 100 milioni di
visitatori potenziali al mese nei soli Stati
Uniti.
Uno dei punti di maggiore forza dell’Huffington Post è la comunità online di decine di milioni di lettori che il sito è riuscito a creare, grazie anche alla possibilità di
lasciare commenti agli articoli pubblicati
sul blog e di condividerli sui social
network come Facebook o Twitter: un
sistema di richiami incrociati che aumenta esponenzialmente i lettori. Ed è una
potenzialità che fa gola ad Aol soprattutto
per quei servizi come Seed, al servizio del
citizen journalism o giornalismo “dal
basso”, in cui ogni lettore può trasformarsi in potenziale reporter, o Patch, per le
notizie locali.
Alessia Manfredi
Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2011
l Corriere della Sera ne ha
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dato notizia l’1 febbraio,
annunciando l’uscita di un reportage di
Jonathan Littell – autore del romanzo La
benevole – sul Congo. Eppure la cosa
non ha fatto molto rumore, anche se
potrebbe essere un altro piccolo segno
della rivoluzione che ci attende. Sì perché
The Invisible Enemy di Littell fa parte di
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una singolare collana dal nome “Kindle
Single” che, come dice il nome, propone
storie brevi da leggere sul reader di Amazon. Non fiction, però, bensì inchieste o
(appunto) reportage giornalistici più lunghi di un articolo di giornale (cartaceo) e
più brevi di un libro. Prezzo: da 1,14 a
4,59 dollari (da 84 centesimi a 3,27 euro).
Insomma, come vendere in edicola un
proprio articolo di giornale. Ogni libro ha
una breve presentazione da parte di Amazon, con le ormai classiche recensioni dei
lettori ma anche una scelta curiosa: due
di queste, di segno opposto, vengono scelte e giustapposte, divise dal classico “vs”
(contro), quasi si trattasse di una schermaglia dialettica fra lettori.
Tommaso Pellizzari
Ehi Book, Corriere della Sera, 8 marzo
2011
volte ritornano. Parliamo dei
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quotidiani della sera, una
razza che sembrava in via d’estinzione –
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legata com’è agli albori del giornalismo –
e che dal 28 febbraio conta invece su un
nuovo esemplare che si aggiunge ai due
già esistenti di Bari e Taranto. L’esemplare
in questione è La Sera di Parma.
Il giornale – venti pagine che spaziano
dalla cronaca alla politica, dalla nera alla
giudiziaria, dalla provincia allo sport e agli
spettacoli – si trova nel centro storico di
Parma, conta su una redazione di sette
giornalisti ed è diretto da Massimo Cappuccini. E’ venduto – oltre che nelle edicole – anche tramite un gruppo di 15 strilloni che batte tutti i giorni la città a partire
dalle 17.
Cappuccini, ci vuole un bel coraggio a lanciare
un giornale della sera in questo periodo di forte
crisi. A cosa è dovuta questa scelta?
Essenzialmente a due motivi: a una necessità di demarcazione del mercato (al mattino sono presenti in edicola già tre quotidiani) e al fatto che uscendo nel pomeriggio abbiamo la possibilità di dare notizie
più “fresche” rispetto ai quotidiani del
mattino che sono in parte superati da
internet.
Cosa vi fa ritenere che ci sia spazio per questa
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nuova avventura?
La certezza che a Parma c’è gente che ha
voglia di leggere cose che gli altri non
vogliono scrivere.
Perché, voi cosa volete scrivere?
Vogliamo scrivere i fatti, parlare delle
inchieste giudiziarie, delle aziende in crisi,
di sindacato. Insomma, vogliamo scrivere
semplicemente cosa succede in città.
Stefano Natoli
Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2011
l confine fra le pressioni del
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mercato pubblicitario e l’indipendenza editoriale sta diventando sem-
pre più esile? Con la crisi che molte testate stanno affrontando, essere in grado di
attirare più investimenti pubblicitari può
essere un fattore chiave per la sopravvivenza. E i contenuti ‘’brandizzati’’, o gli
advertorial (“redazionali” e materiali
aziendal-editoriali) diventano sempre più
diffusi. Ed è vitale, quando vengono
usati, mantenere una integrità e indipendenza editoriale. Come racconta Journalism.co.uk, l’Association of Online Publishers ha realizzato una importante iniziativa dedicata al modo con cui le testate possono usare questi contenuti senza perdere
la fiducia dei lettori e organizzato nei giorni scorsi a Londra un convegno dal titolo
“Maintaining editorial integrity and
making partnerships pay”.
Per anni i pubblicitari hanno tentato di
integrarsi sempre più intensamente con le
testate editoriali online e ora stanno
emergendo modelli diversi dalla semplice
partnership, soprattutto ora che la pubblicità digitale diventa più ricca e più complessa.
Come si potrà continuare a contrassegnare chiaramente i contenuti pubblicitari da
quelli giornalistici? Gli utenti si dovranno
preoccupare? Ci dobbiamo convincere
che la pubblicità possa diventare un contenuto editoriale? E gli editori come
potranno goderne i benefici senza compromettere i loro rapporti con i lettori?
Erano questi gli interrogativi al centro del
convegno di AOP. Se questa ibridazione
di pubblicità e informazione (’admixture’)
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è il rischio principale, la trasparenza può
essere una risposta: conservare una separazione fra notizie e pubblicità utilizzando
dei contrassegni specifici è cruciale. Il
fatto che le testate giornalistiche mantengano la loro credibilità come affidabili fornitori di informazione indipendente è
importante anche per gli inserzionisti perché i loro contenuti pubblicitari possono
beneficiare di quella credibilità.
Federica Cherubini
www.lsdi.it, 27 febbraio 2011
a tenuta del sistema giornaliL
stico italiano è oggi il primo
valore, un valore che deve superare ogni
visione di parte. La crisi economica, la perdita di posti di lavoro, la tenuta previdenziale ed assistenziale, l’importanza del contratto di lavoro e della sua rinnovazione,
l’impianto del welfare non possono essere
considerati fattori indipendenti, necessitano oggi più di ieri di una visione sistemica. I problemi si pongono sul lungo periodo, la responsabilità di chi fa previdenza è
guardare alla tenuta a cinquant’anni, mettendo in campo una serie di misure che
influiscano sulla crisi attuale.
Andrea Camporese, Presidente Inpgi
Inpgi Comunicazione, luglio/dicembre
2010
o stato spende poco meno di
L
tre miliardi per l’industria
culturale e delle telecomunicazioni, ma
manca un progetto complessivo e molto
poco viene speso per l’innovazione.un
progetto complessivo e molto poco viene
speso per l’innovazione. Sono questi i
principali risultati del primo studio analitico condotto in Italia sugli investimenti
pubblici nei settori dell’industria culturale
– televisione e radio, cinema e spettacolo,
editoria – e delle telecomunicazioni da un
gruppo di ricerca della Fondazione Rosselli coordinato da Flavia Barca, responsabile dell’Istituto di economia dei media.
Nel campo dell’editoria, secondo la ricerca, i contributi pubblici sono pari al 6%
del fatturato di settore. Questo per quanto riguarda i numeri. Ma come vengono
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spesi questi soldi? “In Italia non c’è una
vera politica industriale per lo sviluppo
dell’industria culturale – afferma Barca –
che però è strategica per le economie
avanzate basate sulla conoscenza. Soprattutto per l’Italia, un paese che viene considerato un faro di cultura a livello internazionale”.
Enrico Grazzini
Corriere Economia, 24 gennaio 2011
l New York Times vara l'accesso
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a pagamento: sono gratuiti fino
a venti articoli da leggere sul sito web, poi
sarà necessario abbonarsi a partire da una
spesa di 15 dollari (circa undici euro). È
una scelta già annunciata la scorsa estate. I
canadesi saranno i primi a sperimentare il
cambiamento: negli Stati Uniti, invece, la
transizione avverrà tra meno di due settimane, lunedi 28 marzo. Ogni mese i lettori online hanno venti accessi "free" al sito
Nytimes.com: nel conteggio sono inclusi
articoli, immagini, video, blog e altri progetti multimediali. Le pagine, dunque,
saranno visibili attraverso il browser dagli
schermi di computer, cellulari e tablet,
digitando l'indirizzo web del quotidiano.
Superata la soglia, gli utenti devono pagare. Ma possono ancora guardare senza
spese la home page del Nytimes.com, le
aperture di alcune sezioni tematiche (ad
esempio, "politica") e le prime pagine dei
blog, oltre agli annunci economici (classified). Inoltre, se scaricano l'applicazione
per smartphone e tablet, hanno sempre la
possibilità di entrare all'interno dell'area
"top news". Nell'annuncio ufficiale il
direttore Bill Keller sottolinea che saranno abilitati alla lettura online anche coloro che «arrivano attraverso link dai motori
di ricerca, blog, social media come Facebook e twitter (…) anche se hanno raggiunto il loro limite mensile. Per alcuni
motori di ricerca, gli utenti avranno una
soglia giornaliera di link gratuiti».
Luca Dello Iacovo
Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2011
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Vanessa Russo
Relazioni pubbliche e occulte: files “ret put”.
L’inchiesta Parmalat e le responsabilità dei comunicatori
Tesi di laurea specialistica in Organizzazione e relazioni sociali
Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara
Relatore: Prof.ssa Sabrina Speranza
Tesi ispirata dal Seminario di aggiornamento su Le criticità del sistema dei media svolto
nell’a.a. 2009/2010 dal Prof. Paolo Scandaletti
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li americani inviarono in Sicilia, al seguito delle proprie truppe, i primi
operatori di comunicazione e relazione con le amministrazioni locali perché non finissero in mano ai comunisti. La nostra pubblicistica e alcuni storici parlano di mafiosi italoamericani [T. MUZI FALCONI, Governare le relazioni,
2004]. La tesi anticomunista non è del tutto inverosimile, così come non si può
escludere che qualche operatore lo fosse davvero.
Nel corto circuito del sistema dei finanziamenti illeciti degli anni Novanta (Tangentopoli), alcuni responsabili-comunicatori delle Relazioni Esterne si rivelano
anche intermediatori di tangenti. E la stampa non risparmiò i nomi.
Pietro Pelosi – Responsabile Relazioni Esterne Consorzio Intermetro (ditta che
aveva costruito uno dei tronconi della metropolitana di Roma). Condannato a
tre anni e otto mesi di carcere, il teorema accusatorio riguarda il pagamento di
tangenti in cambio di appalti. [LA REPUBBLICA 19.02.1993, In manette luogo
tenente di Sbardella da giornalaio a portavoce inerme; CORRIERE DELLA SERA
15.03.1998, Intermetro: pioggia di assoluzioni]
Francesco Fusco – ex responsabile delle Relazioni Esterne dell’Agusta, alla
quale fu versata una tangente di due miliardi e cinquecento milioni di lire per
l’appalto della fornitura di elicotteri per la polizia e la protezione civile, le accuse per Fusco vanno dalla corruzione alle false comunicazioni sociali.
[LA REPUBBLICA 8.12.1993, Caso BNA Agusta, D’Angeli rivela: tangenti per
ungere i politici; CORRIERE DELLA SERA, 28.12.1995, Le tangenti Agusta: chiesto il processo per Giallombardo]
Sergio Roncucci – ex manager della Fininvest e direttore delle Relazioni Pubbliche dell’Edilnord, accusato di aver versato tangenti per circa un miliardo tra
l’88 e il ‘90, per sbloccare un piano di lottizzazione presentato dalla società
Europea Golf del gruppo Edilnord al fine di convincere gli amministratori e i
tecnici comunali di Pieve Emanuele a dare via libera al progetto di ristrutturazione del castello medievale di Tolcinasco, con cascinali e impianti sportivi tra
cui un “green” con 36 buche.
[CORRIERE DELLA SERA, 6.03.1994, Roncucci pagò per avere i permessi]
Lorenzo Cesa – direttore delle Relazioni Esterne alla Efimpianti Spa, di consigliere di amministrazione di importanti società e banche, fra cui l’ANAS, e di
direttore commerciale marketing di una società di comunicazione. Indagato per
concussioni per avere truccato le gare d’appalto dell’ANAS in cambio di tangenti. [CORRIERE DELLA SERA, 4.04.1993, Anas: Prandini e 25 miliardi di
tangenti]
Il sistema di Relazioni Pubbliche è coinvolto anche in quello che viene ricordato
come il principale troncone di tutta l’inchiesta mani pulite: la maxitangente Eni-
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mont (i centocinquanta miliardi di lire da Raul Gardini per uscire dall’affare Enimont, e finiti per finanziare in maniera illecita i partiti).
Il postino della transazione occulta tra Montedison e il sistema politico è proprio un relatore pubblico: Luigi Bisgnani, giornalista, scrittore, ex piduista,
democristiano e dal 1992 direttore delle Relazioni Esterne del gruppo Montedison. Bisgnani era inoltre incaricato di gestire i rapporti con lo Ior (banca vaticana) diventato il “lavatoio” dei soldi sporchi. Le tangenti in Cct partivano dalla
Montedison dirette allo Ior da li venivano “ripulite” e indirizzate direttamente
nelle tasche di chi di dovere. Bisgnani viene condannato in primo grado a tre
anni e quattro mesi di carcere, diventati tre anni e sei mesi in secondo grado,
dietro patteggiamento.[CORRIERE DELLA SERA 5.11.1993, I Cct ENIMONT
cambiati dallo Ior]
Un mondo, quello degli affari e delle imprese, abituato storicamente a muoversi nell’ombra e al riparo delle tutele normative, si trova ora sempre più esposto alla luce del sole:
nell’ultimo decennio, il 30 per cento dell’informazione economico-finanziaria ha riguardato gli scandali verificatisi nel settore. Vi sono senza dubbio dei trend delicati: l’opacità
delle fonti e il linguaggio autoreferenziale di molti articoli, la sostituzione dei pezzi dei
giornalisti interni con quelli di analisti esterni, non di rado tendenziosi se non al limite
dell’insider trading, la dipendenza dai persuasori più attivi delle agenzie di relazioni pubbliche (spesso assai competenti), la scomparsa quasi totale di inchieste e ricerche in proprio e indipendenti. L’informazione economico-finanziaria giunge cioè al destinatario dopo un lungo percorso: parte da società, enti o istituzioni economiche,
passa agli intermediari e poi agli analisti, per tornare agli intermediari incaricati
della vendita dei prodotti finanziari; senza contare i ruoli che vi giocano le associazioni di categoria, spesso a protezione dei propri iscritti [P. SCANDALETTI,
Etica e deontologie dei comunicatori, 2008]. Vi sarebbe in questo caso di specie da chiedersi perché a colmare la lacuna informativa non provvedano gli intermediari sottostanti, e dunque la stampa che ospita e rilancia quelle comunicazioni ufficiali. Ma qui si
tornerebbe a rigirare il dito nelle piaghe dell’approssimazione e delle insufficienze di un
giornalismo, che troppo spesso ha rinunziato a formare e si è persuaso che di molte notizie basti assicurare l’inoltro [V. POGGIALI, L’inquinamento delle fonti primarie dell’informazione, 2010].
Nel 2003, il crac Parmalat rivela come quell’inoltro di notizie abbia finito per trascurare l’attento lavoro di falsificazione dei bilanci, di occultamento dei fondi
neri e di una comunicazione d’impresa tendenziosa con cui Calisto Tanzi e collaboratori riescono per anni a frodare banche e risparmatori. Le accuse sono state
bancarotta fraudolenta (art. 216 RD 267/1942) e aggiotaggio (art. 501 Codice
penale).
Tra gli imputati Andrea Petrucci ex direttore generale della Parfin, e responsabile della redazione dei comunicati stampa, condannato a quattro mesi di reclusione dietro patteggiamento con l’accusa di: aggiotaggio dei titoli Parmalat; ostacolo alla vigilanza della Consob; falso nelle relazioni e comunicazioni ai revisori
della Deloitte & Touche e della Grant Thornton S.p.a. Per gli stessi reati è stato
imputato Domenico Barili ex direttore del marketing Parmalat dal 1961. Malagutti lo descrive un comunicatore nato: riesce a parlarti con entusiasmo perfino del mercato della besciamella [V. MALAGUTTI, Buconero Spa: dentro il crac di Parmalat,
2004].
I comunicatori sono stati, questa volta, esecutori corrotti. Preparavano i formu-
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lari, al contenuto pensavano i vertici di Collecchio. In una mail del 27.11.2002,
Fausto Tonna scriveva a Petrucci: sul file allegato dei bonds, il dettaglio non è da pubblicare; il 6.07.2003 Petrucci consigliava invece al nuovo direttore finanziario Ferraris le informazioni da inserire in un comunicato stampa: Per quanto riguarda la
prima operazione non ho, ovviamente, indicato l’utilizzo di parte dei fondi per l’acquisto
dei bond emessi da un’altra società. Ho inoltre il dubbio se scrivere qualcosa per giustificare la recente operazione di private placement collocata ad un tasso significativamente
più oneroso rispetto a questa operazione. Il 13.11.2003, la Parmalat emette il comunicato stampa in cui annuncia che sta per liquidare il Fondo Epicurum, la notizia fa guadagnare al titolo 7.78% e Petrucci riceve una mail di complimenti da
Ferraris [SOLE 24 ORE 20.04.2005]. Ma un analista di Bank of America nel
Report del 12.11.2003 dice a proposito del Fondo: the details sound like a bad mafia
movie.
Mentre tutto il management era impegnato in una complessa operazione “tritacarta” Tonna trovava il tempo di redigere anche il bilancio ambientale Parmalat, un resoconto di ventiquattro pagine in cui l’azienda descrive a fondo i suoi
principi etici ed ambientali, dunque uno strumento di comunicazione di distintiva qualità. Il documento è descritto a fondo da Mario Gervini: Parmalat nel
Rapporto è rappresentata nella sua effettiva e riconosciuta forza industriale, tecnologica, innovativa. Ma i sorrisi amari si sprecano a leggere alcuni passaggi del
«Messaggio del Presidente»: Sono lieto di presentare il secondo Rapporto Ambientale
del gruppo Parmalat per due ragioni: la prima riguarda la conferma del nostro impegno,
avviato lo scorso anno, nel raccogliere, valutare, diffondere i dati relativi alle prestazioni
ambientali e di sicurezza; la seconda è relativa ad una sempre Maggiore consapevolezza
del gruppo in merito all’ importanza del concetto di sostenibilità delle nostre operazioni
dal punto di vista economico, ambientale e sociale». Per la «sostenibilità» delle operazioni dal punto di vista economico sono in carcere il presidente e diversi suoi
dirigenti. Non parliamo poi di un’altra «missione» citata tra gli obiettivi del
Rapporto, ovvero «rispettare sempre la legislazione applicabile nei diversi Paesi dove operiamo con successo da anni». Per il gruppo, è scritto, «considerata terminata la fase di
rapida espansione», adesso è l’ora del consolidamento e «dell’ ottenimento del massimo
valore dato dall’ espansione stessa». Sembra una presa in giro. Ma il «meglio» di
questo Rapporto arriva quando si dice che «il management si sente impegnato a creare valore per gli azionisti».[CORRIERE DELLA SERA 26.01.2004]
Tre sono stati i segmenti di storia maggiormente oggetto di trattazione da parte
dei giornali: la lunga serie di indagini della procura; il dibattito politico sviluppatosi intorno alla necessità di una legislazione che imponga controlli più severi,
in altre parole una delle tante leggi “mai più” che costellano la storia del Paese;
la tragedia di chi è stato toccato dallo scandalo Parmalat, i risparmiatori. Non c’è
dubbio, è stato sottolineato, sul fatto che tutti e tre gli argomenti andassero affrontati
per dare una copertura informativa completa del caso Parmalat. Tuttavia, essi sono stati
trattati per lo più in un modo che ha evidenziato soprattutto o la loro carica sensazionale o i loro aspetti superflui, oppure, quando la spettacolarizzazione e la sovrinformazione
si sono presentate insieme la carica sensazionale degli aspetti superflui. […] questi pezzi
hanno ottenuto, messi insieme, l’effetto non sappiamo quanto involontario di trasformare
Tanzi da oscuro truffatore in personaggio a suo modo ricco di fascino: trasformazione
senz’altro utile ad aumentare nel lettore l’interesse per la copertura informativa della vicenda, a sua volta parallelamente trasformata nel racconto di una storia, ma assai meno a
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favorire le ragioni del crac truffa [M. NIRO, Verità e informazione, critica del giornalismo contemporaneo, 2005].
E non c’era modo di andare in profondità, neanche per chi seguiva da anni le
strategie, i progetti e gli affari del gruppo. Lo racconta Vittorio Malagutti: Fin del
1990 ho segnalato sul settimanale “il Mondo” i legami del cavalier Callisto con Florio Fiorini, il lavandaio della finanza nazionale. In alcuni articoli mi sono interrogato sulle complicate acrobazie contabili che in quello stesso anno salvarono l’azienda di Collecchio dal
crac. E ancora, nel 1996 ho dato conto sul Corriere della Sera delle difficoltà di Tanzi, un
capitalista senza capitali, costretto a chiedere continuamente soldi in prestito per soddisfare le sue smisurate ambizioni di crescita.
I miei strumenti di indagine allora erano limitati. E i miei poteri di controllo nulli. Ai
tempi d’oro (per loro) ho cercato più volte di intervistare i manager di Collecchio, ottenendo
rifiuti o risposte evasive. Chissà forse non si fidavano. E allora, come provo a fare sempre
nelle mie inchieste, sono andato alla fonte. Per anni ho frequentato depositi di tribunali e
stanze di Camere di Commercio alla ricerca di dati. Ho cercato di ragionare sui numeri
che però erano falsi. Tanzi ha ingannato tutti, compreso me. Forse però sono riuscito a salvarmi dall’errore più grave: l’esaltazione acritica di un modello di crescita che non ero mai
riuscito a spiegarmi fino a fondo [V. MALAGUTTI, op. cit., 2004].
La “macchina” di registrazione e comunicazione dei falsi faceva nel frattempo
anche salti di qualità, per confondere i revisori. Nei documenti relativi alla perizia della Procura di Milano si legge: Il salto di qualità nella registrazione dei falsi si
verifica attraverso la produzione di supporti cartacei delle singole operazioni, apparentemente accettabili, ma in realtà tutti rigorosamente falsi: Bonlat (società “discarica”
delle perdite, ed altro, del gruppo) diventa una vera e propria “stamperia” da cui viene
prodotta la falsa documentazione di supporto delle singole operazioni. Pertanto, se nel
periodo di revisione Grand Thorton ci si limitava, tutt’al più, a produrre un supporto contrattuale fittizio senza alcun riguardo alla formalizzazione del momento esecutivo di tali
contratti, nel periodo di revisione Deloitte & Thouche tali supporti vengono invece creati,
fornendo così una base documentale e formale sia alla concezione sia alla realizzazione
delle singole operazioni che, tuttavia, nella sostanza, erano tutte, come si vedrà, inverosimili ed incongruenti, oltre che false.
Un muro di omissioni ha contribuito a mantenere in piedi, per dieci anni, un’azienda che aveva un debito di quattordici miliardi e quattrocentomila euro nascosti da un quantitativo impressionante di documenti falsi, e da una gestione manageriale accentrata sul gruppo di “falsari” a cui nessun altro poteva accedere. E si
poteva immaginare che tutte le carte della “stamperia” fossero raccolte nei 700
files “ret put” di un CD Rom? Nel corso di un interrogatorio, la dott.ssa Chiaruttini, il consulente tecnico che ha svolto la perizia tecnica sui profili di falsità
di bilanci, ha raccontato di aver aperto il CD consegnato da Gianfranco Bocchi,
contabile falsario di Parmalat, per mera curiosità e di aver scoperto come fosse invece corposo; le colonne dei falsi recavano spesso la dicitura “ret put” e alla domanda rivolta a Bocchi, sul significato di tale singolare acronimo, questi le aveva
risposto: Ma rettifiche puttanate, Dottoressa, non ha ancora capito? [Procura di
Milano, ud. 7.03.06]
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Roma: L’attività di lobbying tra trasparenza e partecipazione
“
L’attività di lobbying rappresenta uno dei nodi più importanti delle società
contemporanee perché affronta il rapporto tra interessi generali e interessi particolari, distinguendo un sistema liberale da uno corporativo”. Con questa
affermazione di Giovanni Tria, presidente della Scuola Superiore della Pubblica
Amministrazione (SSPA), si è aperto il Convegno “L’attività di lobbying tra trasparenza e partecipazione”, tenutosi lo scorso 17 febbraio presso la Sala polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
La scelta della sede dell’incontro da parte dei soggetti promotori (SSPA in collaborazione con il Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione e il
Master in Processi decisionali e lobbying in Italia e in Europa dell’Università Tor
Vergata) testimonia la consistente crescita di attenzione e considerazione verso l’attività lobbistica. Se un tempo le lobbies erano viste unicamente come gruppo di
potere occulto, volto ad influenzare le decisioni politiche tramite la pressione economica, oggi costituiscono una delle principali questioni su cui si trovano a dibattere le moderne democrazie liberali.
Giovanni Guzzetta, direttore del Master avviato dall’Università degli Studi di
Roma Tor Vergata, ha ricordato come la crisi dei soggetti e degli strumenti operativi coinvolti nel processo decisionale abbia profondamente trasformato “la fase
del conoscere per deliberare”. Alla pluralità dei saperi è infatti corrisposta una
frammentazione degli interessi che, secondo Pier Luigi Petrillo, docente di Diritto pubblico comparato presso l’Università “La Sapienza”, non può che concorrere in maniera significativa all’individuazione dell’interesse generale. Dello stesso
parere anche Carlo Deodato, capo di gabinetto del Ministero per la Pubblica
Amministrazione e l’Innovazione, che ha definito l’attività delle lobbies “espressione immediata del pluralismo delle società contemporanee”, dove l’interesse
generale è sintesi e mediazione degli interessi particolari.
La sessione pomeridiana, seguita all’intervento del ministro Renato Brunetta,
diretto a sottolineare l’intima connessione tra la qualità della pubblica amministrazione e quella dell’attività di lobbying, considerate come “due facce della stessa medaglia”, ha visto politici, esperti e professionisti del settore confrontarsi sul
tema della regolamentazione e sul futuro delle lobbies. “A partiti moderni e partecipativi – ha affermato Giulio Santagata, autore dell’ultima proposta di legge in
materia – si devono affiancare soggetti intermedi portatori di interessi legittimi”,
che, come evidenziato da Antonio Catricalà, presidente dell’Autorità garante della
concorrenza e del mercato, “devono essere oggetto di una regolamentazione basata su principi orientati alla trasparenza”. Una reale crescita dell’attività lobbistica
è possibile, secondo Claudio Velardi, fondatore di Reti, società di lobbying e
public affairs, anche attraverso la creazione di nuovi luoghi di rappresentanza, che
possano garantire una partecipazione crescente dei cittadini ai processi decisionali.
Le conclusioni dell’incontro sono spettate a Gianfranco Pasquino, docente di
Scienza politica presso l’Università di Bologna, il quale ha sottolineato come sia
fondamentale instaurare un processo decisionale “prevedibile”, in cui risulti chiaro all’intera società chi prende le decisioni e sulla base di quali pressioni: solo così
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infatti si potrà realizzare una vera etica pubblica nel nostro Paese.
(Camilla Rumi)
Pescara: Cambiamo l’impianto della comunicazione con la Media Education
M
edia Education e scuola: idee ed esperienze in Abruzzo è il titolo del convegno
che si è svolto il 5 Marzo a Pescara, nell’Aula “F. Caffè” dell’Università
degli Studi “G. d’Annunzio”.
La media education, arrivata in Italia agli inizi degli anni Novanta, si è data nel
1996 una struttura di appoggio come associazione culturale – il MED-Media Education – per volontà di un gruppo di docenti universitari, di professionisti dei
media, di educatori (soprattutto della scuola) per costituire un luogo ideale di collegamento e di servizio nel dialogo tra esperti e professionisti della comunicazione, insegnanti ed educatori. Scopo della ME è offrire alle nuove generazioni non
solo le chiavi di comprensione dei media ma anche suscitare nuovi artigiani per una
migliore qualità di essi e per un apporto costruttivo della loro cultura alla civiltà degli uomini.
Il convegno è stato coordinato dal Prof. Ezio Sciarra (Università “G. d’Annunzio”)
e dalla Prof.ssa Giselda Antonelli (Università “G. d’Annunzio” – referente MED
Abruzzo), introdotto dal Prof. Paolo Dell’Aquila.
Le relazioni: Perché la media education, perché il MED? - Roberto Giannatelli (Prof.
Emerito, Facoltà Scienze della comunicazione sociale, Università Pontificia Salesiana, Roma); La comunicazione, un virus o una risorsa per la scuola? - Mario Morcellini (Preside della Facoltà di Scienze della comunicazione, Università Sapienza,
Roma); Media education e apprendimento – Carlo Petracca (già Direttore Generale
dell’Ufficio Scolastico Regionale per l’Abruzzo, Università “G. d’Annunzio”);
Esperienze di media education in Abruzzo: 2003-2011 – Giselda Antonelli; ed infine
La media education a Pescara e Chieti: parola agli insegnanti che si spendono nella e
per la media education, ai loro progetti e alle loro esperienze nella Scuola Primaria.
Le riflessioni: (Dell’Aquila) L’insegnante è un edu-comunicatore.
(Giannatelli) Crisi delle istituzioni, emergenze: che l’Italia si desti! Io vorrei aiutarla
a destarsi. La scuola non può assentarsi. I media sono macchine e tecnologia: viene
prima la cultura dell’umanità. I loro contenuti vanno studiati individuando i collegamenti dei mezzi con l’ideologia, la pubblicità. Così educare significa capire e
aiutare a capire, attraverso un’indagine non censoria, non curriculare ma interdisciplinare. E la scuola è il punto guida per fare comunità, e da cui partire per continuarlo a fare con le associazioni, i gruppi di amici.
(Morcellini) La società non è più educante: non ci siamo accorti delle conseguenze
penose della comunicazione. Non ce l’abbiamo fatta a civilizzare la comunicazione. Essa
va bruscamente interpellata. Interferisce nella formazione e la scuola è in emergenza.
Non ha saputo capire la comunicazione ed ha subito anzi due sconfitte: dal pluralismo formativo (vincono quasi sempre i media) e dall’esaurimento della forza progettuale dei valori. Ma i docenti hanno un compito con i giovani, devono acchiappare le loro culture, recuperare la desiderabilità del passato attraverso la trasmissione
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della tradizione. Le condizioni per il cambiamento ci sono. Dai dati Istat emerge
che la tv perde potere, eccezionalmente anche la radio, perdono i quotidiani, perché non colgono le culture giovanili. Giornali e tv sono seguiti soprattutto dagli adulti. Ma tutti i consumi culturali innovativi (teatro, musei, cinema) riprendono grazie ai giovani: si va di più a teatro, nei musei, mentre i media costruiscono la recessione culturale. Questo significa che i soggetti sono meglio della comunicazione che ricevono. Sono i segni del bene comune sui quali la scuola può tornare a lavorare.
(Petracca) La scuola non deve temere infatti la disintermediazione. Gli strumenti
- lingua, costumi, tecniche, valori - sono proprio ciò che inventa per trasmettere e
permettere di elaborare cultura. La capacità di inventare strumenti permette il possesso della cultura scientifica e tecnologica e quello pieno della democrazia: come
fa altrimenti un cittadino a dare una risposta ai grandi problemi, a livello etico, a livello
ambientale. Media education significa che il medium insegnante va integrato con
tutti gli altri mezzi per la costruzione della conoscenza nel soggetto attivo, che assimila, esplora con atteggiamento critico e ridimensiona il mito della macchina (che
è come tutti gli strumenti che abbiamo inventato) e ne determina l’uso. Dunque
una critica benevola al MED: perché faccia passi più veloci (Morcellini). Scuola e
comunicazione insieme sanno e possono fare la stessa cosa: occuparsi degli altri.
(Sabrina Speranza)
Milano: Si può migliorare la qualità dell’informazione economica e
politica
S
i può migliorare la qualità dell’informazione economica e politica in Italia? È
quello su cui si è discusso mercoledì 16 marzo allo Iulm a Milano. Un dibattito pubblico promosso da Rena, Rete per l’eccellenza nazionale, in collaborazione con Linkiesta, giornale online di inchieste ed approfondimenti su temi economici, politici e sociali. A «Dati, bugie, politiche», questo il titolo della tavola
rotonda, hanno preso parte Alessandro Fusacchia, presidente di Rena; Jacopo
Tondelli, direttore de Linkiesta; gli “arenauti” Giuseppe Ragusa, docente di Econometria alla Luiss; Serenella Mattera, giornalista di Ansa e Sky.it; Eva Giovannini, inviata di Annozero (Raidue), co-autori de «Il dato è tratto». Al dibattito hanno
inoltre preso parte Alessandra Galloni, direttore Sud Europa del Wall Street Journal; Enrico Giovannini, presidente dell’Istat e Alessandro Profumo, moderati dal
caporedattore news Radio24, Sebastiano Barisoni.
Ad aprire i lavori Alessandro Fusacchia: «Questo incontro deve servire a far passare un messaggio chiaro: numeri, dati, cifre e statistiche sono fondamentali per
capire il mondo in cui viviamo e per compiere scelte strategiche e lungimiranti.
Vanno rispettati. Dobbiamo pretendere di più dalla stampa. Tutti, ma soprattutto le nuove generazioni di giornalisti, devono fare uno sforzo ulteriore per produrre informazione accurata. Perché una buona informazione è la base di una
buona politica.
A forza di ripeterci che le opinioni contano, ci siamo infatti dimenticati che contano altrettanto gli argomenti usati per farle valere, e quindi i dati e i fatti che le
sorreggono. Se continuiamo a usare i dati senza nessun controllo, o peggio ancora con dolo, non abbiamo nessuna speranza di migliorare la qualità della nostra
democrazia». «Il lavoro che dobbiamo fare è moltiplicare il numero delle eccezio-
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ni in questa Italia che così com’è non sempre ci piace - ha proseguito il presidente di Rena - per fare in modo che tutte queste eccezioni diventino insieme una
nuova norma. Basta con i giornalisti che prendono un lancio di agenzia, lo copiano, non controllano mai un dato, contribuendo a diffondere notizie inesatte,
infondate, ancora una volta senza essere chiamato a risponderne.
Dobbiamo cominciare a fare le cose diversamente, e pretendere di cambiare le
regole. Dobbiamo cominciare non ad essere eccezionali, ma ad essere eccezioni».
Il dibattito poi è entrato nel merito di «Il dato è tratto», lo studio che mette in luce
come la stampa italiana troppo spesso diffonda dati senza opportune verifiche e
soprattutto senza preoccuparsi dell’attendibilità della fonte.
Gli autori hanno parlato delle azioni da intraprendere per sostenere e incoraggiare l’uso di informazione statistica valida e attendibile. Tra queste la creazione di
verifatti.it, un sito web in via di costruzione che ha lo scopo di verificare le dichiarazioni ai media di politici e decision maker quando sono accompagnate dalla diffusione di cifre, dati e statistiche di carattere economico-sociale e raccogliere e sottoporre a peer review gli studi e le ricerche di varia natura prodotti da associazioni
non governative ufficiali.L’imprescindibilità dei “dati”, sia nelle culture di governo sia nelle culture, in generale, della democrazia, dell’economia e dell’informazione è stata al centro dell’intervento di Enrico Giovannini, che ha sottolineato
come il ceto politico, gli apparati istituzionali, l’impresa e il suo sistema associativo, i media e il sistema educativo devono avere strumenti, magari minimi ma
metodologicamente corretti, per valutare, interpretare e discutere la statistica.
Tre sostanzialmente i profili di assoluta centralità della statistica nel campo dei
nuovi equilibri tra istituzioni e società: la qualità delle rilevazioni (metodologia,
ampiezza, profondità); la trasparenza e l’indipendenza del trattamento degli esiti
statistici; l’innovazione e l’efficacia di “racconto” di tali esiti.
(Veronica Todaro)
Roma: Media e Minori, aumentano i programmi e ancor più le infrazioni
“
La tutela dei minori nella programmazione televisiva non è una battaglia
persa: ciascuno deve contribuire per la propria parte. L’introduzione dei ragazzi alla realtà, la loro conoscenza e educazione devono rappresentare, al contrario, una battaglia prioritaria”. Questa considerazione di Franco Mugerli, Presidente del Comitato Media e Minori, ha aperto la giornata di presentazione del
consuntivo 2010 dell’attività svolta dal Comitato, tenutasi lo scorso 15 marzo a
Roma presso Palazzo Ferrajoli.
Dal gennaio 2003, anno in cui è stato insediato presso il Ministero delle Comunicazioni, il Comitato Media e Minori (oggi operante all’interno del Ministero per
lo Sviluppo Economico) ha preso in esame ben 2693 casi di possibile violazione
del Codice di autoregolamentazione, instaurando 835 procedimenti in contraddittorio con le emittenti ed accertando 346 casi di violazione, di cui ben 72 nell’anno appena trascorso. Nel 2010 si è infatti registrato un incremento delle violazioni accertate: quasi il 60% in più rispetto a quelle del 2009 e del 150% in più
rispetto a quelle del 2008. Un segnale allarmante che può essere soltanto parzial-
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mente ricondotto alla crescente offerta televisiva (e quindi al conseguente aumento di programmi inadatti ad un pubblico di minori), dato il significativo incremento di violazioni nella programmazione delle reti Rai e Mediaset (nel caso di
quest’ultima si sono addirittura triplicate rispetto al 2009).
Secondo Alessandra Mussolini, Presidente della Commissione parlamentare per
l’infanzia e l’adolescenza, i punti critici dell’attuale offerta televisiva riguardano
soprattutto la pubblicità e le fiction, attraverso le quali vengono diffusi modelli
valoriali e stili di vita potenzialmente molto dannosi per la crescita dei minori.
L’introduzione di banner negli spot pubblicitari per trasmettere messaggi positivi
sulla qualità della vita (come ha recentemente fatto la Francia) e di telegiornali a
carattere familiare, contraddistinti da meno cronaca nera, potrebbero rappresentare un grande passo in avanti. A tali disposizioni sarebbe opportuno accostare
una seria regolamentazione anche per Internet, ma soprattutto incrementare la
sensibilizzazione verso queste problematiche ed avviare programmi di educazione
ai media nell’intero corpo sociale. La necessità di una risposta corale all’annosa
questione che lega la tv ai soggetti in età evolutiva è stata messa in luce anche da
Roberto Napoli, Commissario dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni,
che ha evidenziato come “sia necessario supportare con le regole i minori e le famiglie, ma soprattutto dare il buon esempio e trasmettere valori positivi”.
Nella convinzione che l’attenzione al problema dei minori che guardano la tv
debba tradursi, prima e più che in divieti, nell’offerta di programmi caratterizzati
da un buono standard qualitativo, il Comitato ha cercato di sensibilizzare soprattutto le reti Rai e Mediaset circa l’importanza di una programmazione aderente
alle esigenze dei piccoli telespettatori. Alla luce dei principi stabiliti dal Codice, il
Comitato ha così fornito alle emittenti una serie di orientamenti, emanato documenti di indirizzo e sperimentato forme di tempestiva collaborazione per evitare
che comportamenti potenzialmente negativi potessero originare nuove violazioni.
I tre documenti di indirizzo adottati nel corso del 2010, come sottolineato dal Presidente Mugerli, hanno riguardato: l’apposizione di segnaletica in caso di servizi
televisivi con immagini storiche di contenuto problematico, le trasmissioni riguardanti minori vittime di violenze e assassinii e l’interpretazione della definizione di
“programmi adatti ad una fruizione familiare congiunta”.
Stefano Selli, Capo Segreteria del Ministero per lo Sviluppo Economico, ha infatti evidenziato il lavoro esemplare compiuto dal Comitato fin dalla sua costituzione, caratterizzato da “un entusiasmo disinteressato che ha portato a risultati
importanti, non soltanto sul piano sanzionatorio, ma soprattutto su quello della
sensibilizzazione generale”. Giuseppe De Rita, Presidente del Censis, ha invece
menzionato la necessità di interrompere la fusione, ormai in atto, tra mondo dell’informazione e minori, affinché questi ultimi possano riconquistare la propria
libertà e ricominciare a desiderare. “A fronte dell’invasione della comunicazione
nel mondo dell’infanzia come un vero e proprio tsunami – ha affermato De Rita
– non possiamo soltanto difenderci, dobbiamo reagire: c’è un problema culturale
da affrontare non solo in termini legislativi”. L’aumento delle infrazioni al Codice sarebbe infatti da considerare, secondo il Presidente del Censis, un chiaro esempio di una più generale situazione di malessere, in cui il minore è prigioniero di
una programmazione televisiva che dimostra mancanza di responsabilità tanto nei
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contenuti quanto nel modo di presentarli.
Il dibattito si è concluso con l’intervento di Maria Eleonora Lucchin, Vicepresidente del Comitato Media e Minori, che ha evidenziato, in accordo con Franco
Mugerli, come siano stati compiuti importanti passi in avanti in termini di responsabilità e sensibilizzazione, sicuramente da incrementare nel prossimo futuro. Le
emittenti, così come tutti gli altri attori coinvolti, “dovranno quindi rendersi
disponibili ad instaurare una dialettica costruttiva, aperta a tutte le istanze, per il
bene di un solo soggetto: il minore”.
(Camilla Rumi)
Rapporto di Ossigeno per l’informazione: aumentano i cronisti sotto
scorta
S
crivere, fare domande, elaborare inchieste, è diventato pericoloso anche a
latitudini prima impensabili. Questo è il risultato dell’indagine condotta
dall’Osservatorio Ossigeno 2010*, un rapporto completo ed esaustivo che
fotografa quanto anche in Italia, fatte le dovute proporzioni, la professione del
giornalista sia oggetto di pericolosi attacchi. E non ci riferiamo alle leggi all’esame dell’Esecutivo italiano che tanto fanno discutere, niente “legge bavaglio”, qui
si parla della possibilità di morire per aver compiuto il proprio mestiere. Il rapporto, presentato recentemente al Circolo della Stampa di Milano, si focalizza su
centinaia di giornalisti che, negli ultimi due anni, ha ricevuto pesanti minacce,
pressioni, intimidazioni di ogni genere, fino alle più gravi che, tutt’oggi, costringono molti colleghi a vivere sotto scorta.
Le dimensioni del fenomeno in Italia parlano da sole: almeno 12 giornalisti
sotto scorta, 78 casi di minaccia censiti, 23 di questi investono intere redazioni,
coinvolgendo oltre 400 giornalisti.
Chiaro, i numeri registrano solo chi ha denunciato il fenomeno ma il timore è
che questo “tumore” sia molto più vasto. A farne le spese maggiori, per giunta,
sembrano essere quei cronisti free-lance, precari, isolati pure dal resto della redazione. Il rapporto Ossigeno segnala che 52 colleghi tra quelli che hanno sporto
denuncia hanno un lavoro stabile, 18 precario e ben 8 sono liberi professionisti
o free-lance. Le aggressioni fisiche sono state 13 con 15 danneggiamenti alle
cose. I casi di minacce ed intimidazione, verbali e fisiche, sono state 34 con 16
denunce legali. Per molti di questi si va dalle auto bruciate ai proiettili recapitati
nelle redazioni quando non teste di animali, insomma tutto ciò che occorre per
imprimere una sentenza di morte. Dalle carte emergono lettere di minacce
inquietanti, come quelle rivolte al giornalista Sandro Ruotolo e per le quali la
Digos di Roma sta indagando. Ruotolo non ha un servizio di scorta e dai suoi
racconti traspare una certa preoccupazione, che comunque non gli impedisce di
continuare a fare il proprio mestiere e di raccontare l’Italia a modo suo.
Atri colleghi hanno la scorta ma il potere di penetrazione di messaggi fin troppo
chiari sembra inarrestabile. Sempre il rapporto cita l’esempio di Rosaria Capacchione, la giornalista de Il Mattino di Napoli sotto scorta da tempo per le numerose minacce subite dai Casalesi. Lo scorso 11 febbraio – attesta il rapporto
2010 – durante la presentazione di un libro alla libreria Feltrinelli di Napoli, è
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stata avvicinata dal cugino del superlatitante Antonio Iovene che le ha contestato alcuni articoli scritti un anno prima su un altro congiunto «eccellente», Riccardo Iovene, arrestato assieme all’autore della strage di Castelvolturno, il boss
Giuseppe Setola, nel gennaio del 2009. Oltre alla scorta – conclude il racconto
– in libreria erano presenti decine di persone, carabinieri graduati e il magistrato
italiano Raffaele Cantone.
Lirio Abbate non gode di più fortuna, autore di numerose pubblicazioni di
grande diffusione in Italia sui legami mafia-politica, soprattutto di un volume
intitolato “I Complici. Tutti gli uomini di Bernardo Provenzano da Corleone al
Parlmamento”.
La sua capacità di fare inchieste e di “scovare” elementi oscuri gli è valsa una
bomba sotto la sua auto a Palermo nel settembre 2007. Da quel tentativo si è
passati a minacce sventate e riportate su lettere anonime giunte nelle redazioni
presso le quali Abbate lavora.
Questi sono solo tre esempi eclatanti in uno scenario molto più ampio che ha il
denominatore comune in bravi colleghi impegnati giornalmente a raccontare i
fatti. Sicilia, Calabria e Campania sono spesso balzate agli onori delle cronache
per il controllo che alcuni gruppi criminali operano su una parte del territorio
ma dalle associazioni dei giornalisti arriva forte il segnale che anche all’ombra
della Madonnina le cose non vanno bene.
Anche nel Nord Italia si insinua lentamente un comportamento inaccettabile
nei confronti della categoria, soprattutto, evidenziano i giornalisti, a danno di
coloro facilmente individuabili, cronisti magari in testate minori, corrispondenti
in piccole porzioni di territorio, conosciuti dalla gente. Non sempre, come detto,
si viene raggiunti da buste di minacce.
Ci sono altri deterrenti come le preventive richieste di risarcimento, la gogna
politica nel caso l’oggetto delle inchieste siano gli amministratori politici sul territorio.
Taluni denunciano addirittura l’impossibilità di intervistare questo o quel rappresentante delle istituzioni, irritato con loro per alcuni articoli apparsi sui
media. Poco lusinghieri nei confronti loro, poco inclini ad assecondare linee o
programmi amministrativi.
Ben vengano dunque rapporti come quelli stilati da “Ossigeno per l’informazione“, l’Osservatorio della Federazione nazionale stampa italiana e dell’Ordine dei
giornalisti. E’ un modo per rendere noto e amplificare quanto sta accadendo a
molti colleghi senza risparmiare pure una proposta al legislatore: l’ipotesi di
reato per ostacolo all’informazione, dal momento che quest’ultima è sancita
dalla Costituzione italiana.
Censure e minacce – secondo l’osservatorio – dovrebbero entrare con urgenza
nell’agenda della politica italiana.
(Simone della Ripa, Ejo)
Roma: “E’ tutto per stasera. Quando la politica entra nei Tg”
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a lezione di Emilio Rossi nel libro autobiografico, uscito due anni dopo la
morte, e raccontato a Viale Mazzini alla presenza di coloro che fecero grande
la Rai : “E’ tutto per stasera. Quando la politica entra nei Tg”. Edito da UCSI,RAI ERI, CDG. Il primo direttore del Tg1 dopo la riforma del 1975 è stato ricordato da Biagio Agnes, Ettore Bernabei, Fabrizio Del Noce, Paolo Garimberti,
Jas Gawronski, Arrigo Levi, padre Federico Lombardi, Andrea Melodia, Emmanuele Milano, Roberto Natale.
Emilio Rossi narra la sua vita professionale dalla Rai di Genova, alla Segreteria
programmi di Bernabei, alla direzione del Tg1. Il volume è il testamento di un’intensa esperienza dominata sempre da un’idea forte di servizio pubblico che,
nonostante fosse bersagliato da mille tentazioni di parte, osservasse una sola regola: esercitare le proprie funzioni al meglio nell’interesse di tutti, nel pieno rispetto della politica, ma senza sottomettersi ad essa.
“Facciamo vedere che siamo giornalisti, non burocrati”. E’ l’esortazione di Enzo
Biagi quando nel 1961, assunto da Bernabei, approdò alla direzione del telegiornale. L’autore comunica emozione ed entusiasmo nel descrivere quel periodo.
“Furono mesi di emergenza quotidiana, ma anche di scuola professionale veramente straordinaria. Ogni mattina per tutti riunione alle 9. Obbligatorio essere
puntuali. Quasi altrettanto aver già letto i giornali e arrivare con proposte fresche,
attraenti…venire incontro alla gente, coinvolgerla, soddisfarne le curiosità e i sentimenti, scaldarle il cuore”.
E così si dipana il racconto della vita del giornalista nella più grande azienda culturale del Paese, dagli esordi fino all’ esperienza umana e professionale più importante e impegnativa, quella di direttore del Tg1, subito dopo la legge di riforma della Rai del 1975. Esperienza lunga, si protrasse fino al 1981; proficua, attraversò momenti importanti e terribili della storia nazionale e internazionale: dagli
anni di piombo e il sequestro e l’uccisione del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, alle vicende vaticane che nel solo 1978 videro la morte di due
pontefici e l’ elezione di Karol Wojtyla; drammatica: Emilio Rossi fu “gambizzato”
nel1977 dalle Brigate rosse e pagò con un lungo ricovero e molte sofferenze il suo
impegno di giornalista al servizio del grande pubblico ma “schierato”, nella logica
aberrante dei suoi carnefici, con la DC.
Siamo nel 1975. Nuovo direttore generale della Rai riformata è Michele Principe.
Impazza il “toto- nomine” fino in autunno, quando inaspettatamente per Emilio
Rossi, arriva la nomina alla direzione del Tg1. Andrea Barbato sarà al Tg2. Tre direttori per le testate radiofoniche: Sergio Zavoli, Gustavo Selva e Mario Pinzauti.
Si comincia a parlare di lottizzazione, a volte in modo più “soft” di zebratura. Che
pensare della riforma? Si chiede l’autore. Determinante fu “la maturazione della
società italiana, l’aspirazione al pluralismo, l’insofferenza verso l’egemonia
democristiana”. Questi gli aspetti positivi.
Ma scrive ancora Emilio Rossi: ”Nella Repubblica dei partiti, padroni della Rai divennero quasi formalmente i partiti…Un regresso? Difficile sostenerlo. Dalla
nascita, nel 1954, la televisione italiana era stata sotto l’ala del governo e del partito di maggioranza relativa…Palesemente velleitaria e/o sovvertitrice sarebbe stata però la pretesa di radere al suolo, perché oppressiva, la normale struttura aziendale con le sue funzioni, i suoi livelli gerarchici, le sue linee di responsabilità…Pos-
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itivo, anzi doveroso l’ampliamento degli orizzonti in direzione pluralistica. Illusoria la prospettiva che bastasse piantare bandierine e non occorresse piuttosto
puntare sul risultato” . L’interrogativo centrale, riguardo alla filosofia del servizio
pubblico radiotelevisivo, è proprio questo secondo Emilio Rossi: “La pluralità dei
punti di vista si esprime meglio autorizzando una pluralità di reti o testate a inalberare ciascuna il proprio vessillo o invece assicurando equilibrio e pluri- rappresentatività dovunque, all’interno di ciascuna rete o testata?”. Il dibattito è tuttora
aperto e più acceso che mai.
Certo dalla lezione di Emilio Rossi si apprende che l’autonomia e l’onesta intellettuale sono per tutti, ma soprattutto per chi lavora nel servizio pubblico, qualità
imprescindibili. E poi l’umiltà, la voglia di comprendere e approfondire le dinamiche sociali, con la consapevolezza che la maggior parte degli italiani viene informato tuttora dalla Tv generalista, persino le nuove generazioni, nonostante
l’avvento del web.
Dall’intervento di tutti i commentatori emerge un dato comune: la certezza che
questo libro sia importante per tutti gli addetti ai lavori e la nostalgia per una “età
dell’oro” della televisione, quella degli anni Sessanta e Settanta, in cui non solo
nelle trasmissioni giornalistiche, ma anche in tutti i programmi, compresi quelli
di intrattenimento, venivano impiegati i più grandi professionisti, dai giornalisti
agli autori, dai registi agli attori, dai musicisti ai grandi del varietà. Si respira una
certa aria di “Amarcord” nella grande Sala degli arazzi di viale Mazzini. La qualità
dei programmi e quindi l’eccellenza dei professionisti incaricati di realizzarli,
vinceva allora comunque su tutto.
“Che non sia solo nostalgia –esorta in conclusione Roberto Natale, presidente
della Federazione Nazionale della Stampa- ma programma di lavoro per una
grande azienda in cui conti più il “chi sei” che il “con chi stai”. Certi valori non
invecchiano dice Natale, e il nesso tra la una Tv generalista di qualità e la
democrazia è un valore per il quale battersi.
Il presidente Garimberti, emozionato per essere seduto tra due grandi della televisione, Bernabei e Agnes, ricorda le qualità di quell’epoca televisiva e quelle personali di Emilio Rossi, tra cui la semplicità e l’immediatezza che si evince anche nella scelta del titolo del libro: “E’ tutto per stasera”. Dice Garimberti: ricorda
Cronkite, il grande giornalista televisivo americano che concludeva le trasmissioni
giornalistiche, anche le più drammatiche, con un “così è andato il mondo oggi”.
(Rita Piccolini, Televideo Rai)
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Ricerca Università di Urbino: Internet in ascesa ma la tv regge
e la tv conserva il monopolio dell’informazione e i giornali mantengono il
proprio appeal sugli utenti, internet stenta ad affermarsi. Questi, in estrema
sintesi, i risultati della ricerca condotta dal LaRiCA (Laboratorio di Ricerca
di Comunicazione Avanzata) dell’Università di Urbino Carlo Bo. L’indagine “Le
news e gli italiani: dalla carta stampata, alla rete, al mobile. L’informa-zione: da rito
a puzzle”, è stata illustrata nel corso di una conferenza stampa tenuta a Roma nella
sede dell’Istituto Luigi Sturzo, dal direttore del LaRiCA e responsabile del progetto, Lella Mazzoli, e dal coordinatore della ricerca, Fabio Bigietto. A commentare i risultati sono intervenuti il conduttore di Ballarò, Giovanni Floris, e il diret-
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tore di Rai Radio 3, Marino Sinibaldi.
Obiettivo della ricerca è fornire un quadro significativo delle principali fonti di
informazione degli italiani, concentrando l’attenzione sull’incidenza che internet
e la rete hanno nei processi di formazione dell’opinione pubblica. La ricerca ha
interessato un campione di 1.209 individui adulti: 1009 interpellati tramite rete
telefonica fissa (metodologia Cati), che hanno risposto ad un questionario di 50
domande; 200 interpellati su telefonia mobile. La tipologia delle domande è la
stessa dei quesiti formulati dall’analoga ricerca svolta nel 2010 da Pew Research
Center’s Internet & American Life Project. Così facendo i ricercatori di Urbino
hanno potuto confrontare i dati elaborati con i risultati dell’indagine statunitense1.
Gli italiani e l’informazione: dati di contesto
Molti gli spunti di interesse emersi dall’indagine. Innanzi tutto si scopre che sono
sempre i media tradizionali ad essere i più seguiti dagli italiani, nonostante l’ascesa costante della rete: ad un’analisi approfondita si rileva che è di gran lunga la
televisione l’organo di informazione più gettonato (90,8%), ma soprattutto il
mezzo ritenuto più autorevole e influente nella determinazione delle opinioni
(62,1%).
Proprio in relazione all’influenza percepita, internet figura all’ultimo posto fra i
mezzi di comunicazione presi in considerazione dalla ricerca; invece negli Stati
Uniti, proprio di recente, la rete ha superato per gradimento e consumo radio e
giornali. Ciò non significa che gli italiani si limitano all’utilizzo di una sola fonte
informativa (4%). Oltre la metà del campione (50,5%) utilizza contemporaneamente fonti online e offline, mentre poco meno della metà (48,7%) dichiara di
utilizzare cinque o più mezzi di comunicazione: in particolare radio, tv locali e
nazionali, emittenti allnews, stampa locale e nazionale, internet.
Come sottolineato da Lella Mazzoli, “l’avvento dei nuovi media sembra procedere dunque più per espansione che per sostituzione. Non si può prescindere da
questa logica di sistema per comprendere come è cambiato e come cambierà il
consumo di news”.
Ma c’è di più. La ricerca mette in evidenza che adulti e anziani si informano con
maggiore frequenza e assiduità rispetto ai giovani. “L’impressione è che questa differenza evidenzi un nuovo modo di fruire l’informazione, che nel caso dei giovani è meno sistematico e più opportunistico: a puzzle”, puntualizza Mazzoli.
Impressione suffragata dai numeri. Il 60,9% di coloro che attingono online news
(51,1% della popolazione, ma ben il 93,8% nella fascia tra 18 e 29 anni) si informa tramite portali internet in grado di convogliare le notizie, come Google news,
Msn, Libero notizie: nel 62,5% dei casi vengono utilizzati fra i 2 e i 5 siti web per
avere informazioni, nel 23% dei casi si attingono notizie da conoscenti o gruppi
partecipativi presenti su facebook (compresi parenti e amici personali), nell’84,5%
dei casi ci si dichiara interessati ad informarsi su argomenti od eventi cui in precedenza non si è prestata attenzione (contro un 73,5% del resto del campione).
Emerge anche che i cosiddetti online news consumer risultano più critici nei confronti del sistema dei media: soltanto la metà di loro accorda piena fiducia alla
televisione, contro il 63,2% dei consumatori offline. Infatti l’82,9% ritiene che la
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gran parte degli organi di informazione siano schierati; il 75,7% reputa inoltre che
esistano reali fenomeni di censura o di omissione volontaria di notizie importanti.
Non solo.
Anche in Italia l’informa-zione inizia a divenire mobile (il 14,4% del campione –
meno della metà del campione americano e il 27% dei navigatori della rete – si
informa anche tramite cellulare), personalizzata (il 19,9% personalizza le pagine
personali dei social network per filtrare fonti informative, tematiche di discussione, contatti) e partecipativa (il 36,4% ha contribuito a creare o a divulgare notizie,
tramite i portali di posta elettronica e i siti di Facebook e Twitter).
Si tratta di un dato, quest’ultimo, in linea con quanto emerso in America: il che
spinge Mazzoli a concludere che “le pratiche di comportamento degli online news
consumer e dei participatory news consumer mostrano affinità più che differenze”.
L’informazione in Italia: dati di dettaglio
Alcuni dati di dettaglio consentono di comprendere più a fondo la portata ricognitiva dell’indagine. Assodato che la televisione rimane il mezzo di informazione
più utilizzato, si registra la tendenza a sfruttare a un’offerta sempre più diversificata: in primis la stampa nazionale (63%), seguita da quella locale (59%), dalla tv
locale (62,8%), dalla tv allnews (53,2%), dalla radio (56,6%) e da internet (51,1%).
Un dato, questo, non in linea con la tendenza americana (61%). Come rilevato
ancora da Lella Mazzoli, “si può quindi osservare un orientamento verso un’informa-zione fatta di tante tessere, come un puzzle, che sembra abbandonare il modello rituale della lettura del giornale e della visione dei tg. Ciò nonostante, internet
risulta ancora ultimo nella classifica dei mezzi utilizzati e determinanti nella formazione dell’opinione pubblica, diversamente da quanto accade negli Usa”.
Ma come si declina l’utilizzo della rete da parte degli italiani in tema di informazione? L’abitudine più diffusa è di inviare e-mail (91,90%), alla stessa stregua degli
americani (92%). Vi è poi un 59,30% che accede ai social network (negli Usa il
57%), in particolare su Twitter e blog minori (il 16,10% degli italiani e il 19% degli
americani). Non mancano i dati relativi all’ipotetico identikit del consumatore di
notizie in rete: generalmente ha un titolo di studio superiore o equipollente alla
laurea e ha compiuto trent’anni (il 43,90% si inserisce nella fascia tra i 30 e i 49
anni); il 21,80% oscilla tra i 50 e i 64; il 27,60% si posiziona tra i 18 e i 29; soltanto il rimanente 6,70% ha superato la soglia dei 65. Il 60,9% degli online news
consumer si informa mediante Msn e Google news, il 53% su quotidiani online.
E ancora. Risultano molto gettonate le notizie impreviste o inaspettate: così per
l’84,70% dei consumatori online e per il 73,50% della popolazione sul campione
analizzato. Ed è molto elevata la percentuale di chi considera i media schierati
(83,30%) e li ritiene colpevoli di omettere notizie di rilievo (77%). Come sottolinea Fabio Bigietto, “ritiene che i media coprano bene i temi di proprio interesse
il 65,70%: in particolare lo sport sale al primo posto. Seguono le notizie sulla
comunità locale e sugli spettacoli. Cultura e scoperte scientifiche, secondo gli online news consumer, non sono adeguatamente seguite dai media”. Alla tv attribuiscono il 60% del grado di influenza, a stampa e giornali il 65,30%, alla radio il
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45,90%, a internet il 70,70%, contro il 47,30% della popolazione.
Altrettanto significativi i dati relativi alle motivazioni che spingono gli italiani ad
informarsi: l’84,90% obbedisce a una sorta di dovere sociale (il 69% degli americani), il 77,30% si informa per discutere o confrontarsi con gli altri (72% in America). In Italia sono soprattutto i giovani tra i 18 e i 29 anni ad informarsi per
poterne poi discutere con amici o conoscenti. Ma avverte Lella Mazzoli: “Ci si
informa anche per migliorare la propria vita (63,90% sono italiani e il 61% sono
americani). Infine gli italiani che cercano informazioni a fini occupazionali o sul
lavoro in genere ammontano al 31,30% (solo il 19% degli americani). Se si confrontano i dati della nostra ricerca con quella americana, si nota che il consumo
partecipativo di notizie è il 36,40% del campione sentito al telefono e il 37% del
70% del campione americano”.
Un ulteriore approfondimento ha riguardato 200 utenti di telefonia mobile interpellati sulle modalità di fruizione di notizie tramite cellulare. E’ emerso che oltre
la metà possiede un telefonino collegabile con la rete (51%). Il 35% di questi utenti dichiara di informarsi tramite cellulare: le news più ricercate riguardano lo sport
(18%), il traffico (15%), il meteo (14%), la politica nazionale (12%), l’economia e
la finanza (11%). Minima, infine, la percentuale di coloro che scarica software per
avere notizie su meteo e sport o informazioni di altro tipo (13% dei 200 utenti
intervistati).
Il parere degli esperti
Nel corso della conferenza stampa svolta a Roma nella sede dell’Istituto Sturzo
Lella Mazzoli così ha riassunto i risultati della ricerca: “Rispetto al mondo americano noi siamo ancora sufficientemente arretrati nell’uso della rete. Ma coloro
che la usano si comportano in modo molto simile ai cittadini statunitensi. Questo è certamente un aspetto significativo. All’interno della rete gli italiani, analogamente agli americani, vanno alla ricerca di informazioni in maniera più casuale
che non causale, nel senso che ricevono informazioni che incontrano per caso”. E
sulle prospettive di scenario ha aggiunto: “Se è vero dunque che non si registra
una scelta ben precisa o una ricerca scientifica dell’informazione, è altrettanto vero
che si utilizzano più piattaforme per informarsi. Ciò significa che non è sufficiente una sola fonte di informazione, ma c’è bisogno di più fonti, anche se questo
avviene non in modo scientifico, ma piuttosto casuale”.
Dal canto suo Giovanni Floris ha sottolineato che “la ricerca dimostra che internet non cambia lo scenario, cioè non sostituisce, ma si aggiunge ai media. Non
può essere questo l’evento in grado di cambiare l’informazione in Italia. E dimostra che ci devono essere tante fonti, non solo le isole del web, con interessi certificabili. Ma attenzione: se su internet si frequentano sempre gli stessi blog di chi
dice la verità, la rete invece di aprire la testa agli italiani rischia di chiuderla”.
E così ha concluso Marino Sinibaldi: “la tv è il problema italiano, come conferma
anche la ricerca, perché continua ancora ad influenzare l’opinione pubblica. L’unica salvezza è il politeismo vs il monoteismo imperfetto della tv. In effetti la tv è
ancora centrale in Italia, ma questo studio dimostra come si sgretolerà questo predominio: con la mobilità, la personalizzazione e la partecipazione”. (Andrea Lombardinilo)
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Pubblicità: i ricavi dei quotidiani Usa calano ai livelli di 25 anni fa
Gli ultimi dati della Newspaper Association of America – Se si considerasse l’andamento
dell’inflazione, gli investimenti pubblicitari sui giornali sarebbero pari a quelli registrati 50
anni fa, nel 1962. La pubblicità online rappresenta ora il 14% dei ricavi globali rispetto al
4% che era nel 2005.
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a pubblicità sui quotidiani americani è sprofondata allo stesso livello di 25
anni fa, mentre il mercato ha seguito la migrazione dei lettori verso internet,
dove i costi delle inserzioni sono molto più bassi di quelli imposti dagli editori sulla carta.
Gli inserzionisti – spiega l’ Associated Press citando i dati diffusi dalla Newspaper
Association of America – hanno speso infatti, nel 2010, 25,8 miliardi di dollari
nei quotidiani, la cifra più bassa dal 1985, quando gli investimenti complessivi nei
giornali erano stati pari a 25,2 miliardi di dollari.
Se si considera l’ andamento dell’ inflazione, la pubblicità sui quotidiani si aggira
più o meno allo stesso livello di 50 anni fa. Nel 1962 i giornali registrarono complessivamente 3,7 miliardi, che tradotti ai giorni nostra valgono circa 26 miliardi
di dollari.
La pubblicità sulla carta – aggiunge l’ AP – è calata in maniera costante negli ultimi 5 anni, riducendo drasticamente la principale fonte di ricavi degli editori.
Anche se l’economia ha mostrato segni di ripresa a partire dal 2009, i giornali continuano a registrare la diminuzione delle entrate a visto che gli inserzionisti si rivolgono a soluzioni molto meno care o gratuite offerte da internet che, tra l’ altro,
consente di diffondere i messaggi proprio alle persone più interessate ai loro prodotti. Questo spostamento ha accelerato negli ultimi anni a mano a mano che i
lettori abbandonavano la carta per il web.
I giornali stanno quindi cercando di ricavare redditi sempre maggiori dalle edizioni digitali. L’ anno scorso l’online ha generato 3 miliardi di dollari, con un
incremento dell’ 11% rispetto all’ anno precedente. Al contrario, la carta ha perso
l’8%, scendendo a 22,8 miliardi. Prima della crisi del 2006, la pubblicità sulla
carta generava per i quotidiani ricavi annui per 47 miliardi di dollari.
Gli editori comunque si accontentano anche di più piccoli segnali di inversione
di tendenza. Ad esempio – aggiunge AP – negli ultimi tre mesi del 2010 i ricavi
sono stati pari a 7,3 miliardi, con un calo del 5% rispetto allo stesso periodo dell’
anno scorso, ma la tendenza in fase di attenuazione visto che nel periodo lugliosettembre 2009 il calo era stato del 29% rispetto allo stesso periodo dell’ anno precedente.
La pubblicità online comunque ora rappresenta il 14% dei ricavi pubblicitari globali dei quotidiani, con una crescita notevole rispetto al 4% del 2005. (lsdi)
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LIBRI
RECENSIONI
Massimo Nava
Il garibaldino che
fece il Corriere
della sera.Vita e
avventure di
Eugenio Torelli
Violler ed. Rizzoli 2011 pp
288, euro 19,50
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Nsera giustamente s’associa la figura di Eugenio Torelli Violler, suo fondatore. Si
elle italiche storie del giornalismo, alla nascita ( 5 marzo 1876) del Corriere della
aggiunge che era napoletano, di famiglia borghese e “borbonica”, seguace di Garibaldi; da giovane tuttofare ne L’indipendente guidato da Alexandre Dumas, vi aveva
scoperto la vocazione al giornalismo e appreso a maneggiare bene i primi ferri del
mestiere.
Quel foglio era nato l’11 ottobre 1960, nel segno della neonata Italia. Garibaldi,
padrone di Napoli, l’aveva affidato al già celebre e spericolato (nei costumi) romanziere francese. La città “era una scuola di giornalismo all’aria aperta”, scrive l’autore.
Avendo alle spalle il mondo della stampa francese, il direttore inseriva novità editoriali che suscitavano curiosità e aumentavano la tiratura: ogni giorno il feuilleton
in fondo alla prima pagina, corrispondenze esclusive, sconti e omaggi per gli abbonati, la pubblicità. La terza pagina era tutta per la cronaca locale, spesso impegnata nelle campagne di igiene pubblica: “E’ più di un anno che i piemontesi gestiscono il
servizio di pulizia e ancora non sono riusciti a organizzare un corpo di spazzini”.
Nava racconta bene e per esteso la crescita del giornale, innovativo per il panorama italiano; e la maturazione al suo interno di Torelli, compresi i rudimenti dell’arte di dirigerlo. Poi Dumas rientrò a Parigi e il giovanotto lo seguì, collaborando
per testate italiane e conoscendo da vicino importanti giornalisti ed editori di quella capitale. E’ qui la vera svolta formativa per il futuro fondatore del Corriere, che
l’A. ha il merito di raccontare ed analizzare nel dettaglio (resta la curiosità per qualche datazione aggiuntiva). Probabilmente facilitato dal suo lavoro di corrispondente da Parigi per il giornale milanese, sicuramente integrando così le nostre storie del
giornalismo.
La Francia aveva già fatto tesoro della positiva esperienza d’oltremanica nell’editare giornali; soprattutto della svolta del Times, che dal vendere notizie e silenzi ai
potenti era passato al servizio del lettori e premiato da loro, nei primi anni del
1800, con un grande successo. Con Le Petit Journal Moise Polydore Millaud scopriva il potere dell’informazione e come fosse indispensabile raccontare fatti che
appassionassero i lettori. Torelli conobbe Emile de Girardin, proprietario-editore
de della Press, che tra i 200 quotidiani in circolazione conquistava a sua volta un
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successo clamoroso, facendo leva sull’ autonomia dai poteri forti, la pubblicità e la
riduzione a metà del prezzo di vendita. “…gli aveva spiegato che i giornali potevano essere al tempo stesso ricchi e liberi se dipendevano dai lettori, prima che dagli interessi dei finanziatori. Gli instillò il fascino del direttore d’orchestra, la misteriosa e seducente capacità di
accordare le voci più diverse al servizio di un’armonia e di una squadra”
Il giovane Torelli scoprì anche l’utilità del telegrafo per trasmettere rapidamente le
notizie, il lavoro delle nascenti agenzie Reuters e Havas; cominciò a scrivere per
testate francesi. Il giornalismo si separava dalla letteratura per diventare cronaca
della vita vissuta ed impresa editoriale. Poi fu l’editore Sonzogno, avendolo conosciuto bene e provato come corrispondente, a proporgli il trasferimento a Milano:
“C’è bisogno di gente come lei!” . Il seguito è noto.
Cesare De
Michelis Tra le
carte di un editore
ed. Marsilio
2010 pp 140,
euro 12
Indro Montanelli Per Venezia
(a cura di Nevio
Casadio ) ed.
Marsilio 2010
pp. 80 con dvd,
euro 19,90
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Iricordato dall’attuale presidente e guida cultural-imprenditoriale Cesare De
l mezzo secolo di vita della Marsilio, editore veneziano di libri e riviste, viene
Michelis con un diario/manuale tanto piccolo quanto sincero e prezioso. Nata a
Padova nel 1961, alla sua guida c’erano giovani intellettuali di vaglia come Giulio
Felisari direttore della Tipografia Poligrafica Moderna, suo fratello Gianni attivo
nella rappresentanza universitaria, Paolo Ceccarelli urbanista e in seguito rettore a
Venezia, Toni Negri ex dirigente degli studenti cattolici poi socialista e a sinistra
della sinistra. Era far politica, (guardando all’Einaudi e al suo rapporto col Pci)
ricorda il prof. Cesare, coi libri volevamo cambiare il mondo.
Fors’anche per l’onda lunga della Serenissima, che era stata con Aldo Manuzio la
patria primigenia dell’editoria libraria a larga diffusione lungo il 1500, il giovane
De Michelis, accanto alla sua cattedra di letteratura italiana a Padova, nel ’69 prende le redini della casa editrice. L’obiettivo non è più far politica, sapendo che “come
in democrazia c’è la stupida regola che comanda chi ha più voti, così in editoria comanda
chi vende più libri”. Di qui le collane e la scoperta delle potenzialità degli autori, di
Susanna Tamaro e Margaret Mazzantini, fino al travolgente successo delle traduzioni dei romanzi dello svedese Stieg Larsson e l’accordo con la Rizzoli.
Il volume raccoglie testi con le riflessioni maturate strada facendo, le scelte compiute all’insegna di: “l’identità di un editore non è più ideologica o estetica, ma piuttosto
un’identità progettuale e culturale”. Nel rapporto con gli autori non vale tanto “l’editing con la matita in mano”, quanto dialogare con loro, facendo maturare gli spunti
interessanti ed i loro testi.
Eimporre il tema della sua urgente, improcrastinabile salvezza. Era il novembre
Marsilio ripubblica ora quanto fece Montanelli per Venezia, una battaglia per
del 1968 quando uscirono i quattro articoli di denuncia sul Corriere della sera. Un
anno dopo il film inchiesta per la Rai, girato con la regia di Giorgio Ponti. Immagini che inchiodano, grande giornalismo scritto e televisivo, un testo da riascoltare
per l’esemplarità della sintesi e dello stile, e da proporre alle scuole di giornalismo.
ltro testo che ambisce ad un pubblico vasto, ma principalmente destinato agli
operatori professionali, è la grande inchiesta sulla medicina e la sanità (più il
fashion) condotta da Gisotti e Savini. E’ la ricostruzione della presenza di questi
A
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Roberta Gisotti, Mariavittoria
Savini TV buona
dottoressa? La
medicina nella
televisione italiana dal 1954 ad
oggi ed. Rai Eri
2010 pp. 294,
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temi fin dalle origini della tv, nella Rai del 1954 con le “conversazioni scientifiche”,
e del loro seguito pure in Mediaset e Telemontecarlo. Incidono tanto, questi programmi, nel bene e nel male, se oggi 40 si 100 italiani scelgono sulla base di quanto sentito in tv. Ma la metà di tali ascoltatori sono insoddisfatti di quest’informazione medica ritenendola insufficiente e non sempre credibile. Di qui gli ampi e
ben approfonditi capitoli sulle deontologie professionali, dei medici divulgatori e
dei giornalisti scientifici. Corredati dalle testimonianze di giornalisti esperti in
materia così come di medici pratici di tv o di scienziati autorevoli. (Paolo Scandaletti)
Isa nel mondo di oggi, una chiesa “fotografata attraverso gli occhi di chi la rac-
l libro presenta al lettore diversi spaccati del modo di essere e di porsi della chie-
Rodolfo Lorenzoni, Ferdinando Tarsitani, La
chiesa di carta, i
vaticanisti raccontano, ed
Paoline, pagg
166, euro 14
conta per mestiere”, come dichiarano gli autori, entrambi in stanza a Rai Vaticano,
che danno voce, con le loro domande, a 32 dei giornalisti accreditati in sala stampa vaticana,, scelti tra quelli delle agenzie, della carta stampata, della televisione e
della radio, ma anche dei siti e dei blog. I vaticanisti rispondono disegnando un
dietro le quinte del loro lavoro, palando degli ingredienti del mestiere, del rapporto con le fonti, della complessità di un’informazione religiosa che per non correre il rischio della ghettizzazione deve avere agganci con tanti altri settori, dalla geopolitica, agli esteri, all’economia, alla società, alla cultura. Brevi interviste, dunque,
che rivelano talora aneddoti o vicende frutto della personale esperienza dei vaticanisti, ma anche forniscono chiavi di lettura di quel soggetto complesso che è la chiesa, sempre più chiamata a “fare notizia” nel fluire della vita, della società e del
mondo attuali. Punti di vista diversi, dunque, che danno vita a pagine da leggere
con interesse”professionale e umano”, suggerisce Joaquìn Navarro Valls nella presentazione, anche perché il ritorno della religione sulla scena pubblica è stato possibile anche attraverso la “complicità” dei giornalisti che seguono il papa. E che raccontano, descrivono, sollevano dubbi e domande, offrono interpretazioni, ciascuno con il suo bagaglio di esperienze, sensibilità, cultura, modo di essere e di pensare. Molti i riferimenti al passaggio dal papato di Giovanni Paolo II a quello di
Benedetto XVI, con le sottolineature tanto delle specificità e delle differenze, tanto
della continuità. (Vania De Luca)
Lnovembre del 2008, ha rappresentato una rivoluzione non solo dal punto di
’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti d’America, nel
Gianpiero
Gamaleri (a
cura di)Le mail
di Ob@ma. I
nuovi linguaggi
per finanziare
una campagna
elettorale e vincere le elezioni,
Armando, Roma
2010
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vista politico, sociale, culturale, ma anche sul versante della comunicazione, perché,
per la prima volta, a farla da padrone nella campagna elettorale non sono stati i
media mainstream, bensì la Rete. Proprio grazie a uno sfruttamento capillare delle
potenzialità del web 2.0, il candidato Obama è infatti riuscito a trasformare taluni
suoi “limiti” in opportunità di dialogo con gli elettori.
È da questa considerazione che muove il libro di Gianpiero Gamaleri. Attraverso
una lettura critica di uno dei principali strumenti cui Obama e il suo staff hanno
fatto ricorso nella campagna elettorale (le mail, appunto), Gamaleri si chiede se e
come tale strategia possa pagare nel passaggio dalla campagna elettorale alla conferma del consenso che, nel sistema politico americano, passa per il momento cruciale delle elezioni di mid-term.
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L’immagine di Obama che emerge dalle mail, e che Gamaleri ben rimarca nella sua
presentazione, è infatti essenzialmente quella di un uomo solo, equamente distante tanto dalle logiche del partito quanto da quelle dei circuiti massmediali su cui
tradizionalmente viaggia la comunicazione politica. Un uomo che, proprio per questi motivi, è “costretto” ad avvalersi di strategie che potremmo definire “unconventional” per stabilire un contatto con il proprio bacino di elettori. «Riprendendo la
folgorante intuizione espressa da Teilhard de Chardin negli anni Cinquanta», scrive l’autore, «potremmo pensare che accanto a un “Obama della biosfera” – il comune mortale con i piedi piantati sulla superficie terrestre della vita quotidiana, con
le sue battaglie e le sue sconfitte registrate dai media tradizionali – si sia andato
costruendo e sviluppando un “Obama della noosfera”, cioè nella nuova sfera della
conoscenza digitale, che conduce la sua azione nella galassia della Rete, creando
forme di solidarietà e di partecipazione dagli esiti imprevedibili e non misurabili
con i parametri tradizionali».
Ma, si chiede Gamaleri nella seconda parte del suo ragionamento, quel coinvolgimento degli elettori che si è rivelato vincente nella fase dell’avvicinamento alla Casa
Bianca, non corre forse il rischio di ritorcersi contro Obama, nel momento in cui
egli è costretto a confrontarsi con una serie di problemi (dal disastro ambientale
causato dalla British Petroleum alla gestione della faccenda wiki leaks, dalle difficoltà interne legate ai temi della difesa dei diritti umani agli attacchi alla first lady
Michelle, novella “Maria Antonietta”) sui quali gli elettori si aspettano delle risposte in linea con le promesse fatte durante la campagna elettorale?
È proprio in questa prospettiva che emerge quella che, ad avviso di Gamaleri, è la
caratteristica cruciale e irrinunciabile del “modello Obama”: la tensione etica, che
fa «percepire ai lettori [delle mail] di essere una componente potenziale del cambiamento in atto. Un cambiamento […] che può essere sintetizzato in due parole:
responsabilità e protagonismo». La risposta che Gamaleri offre è del tutto condivisibile: in una politica che si interroga sulla possibilità di sostituire la “logica dell’avere” con la “valorizzazione dell’essere”, e che mette al centro la propria dimensione etica, è infatti necessario che – nel momento in cui si chiede all’elettore un impegno che non sia solo di carattere elettorale, bensì finalizzato al bene comune – la
politica sia disponibile ad assumersi tanto la responsabilità dei propri fallimenti
quanto il rischio di scelte anche impopolari. Solo in questa prospettiva i media, e
in particolare quel “Sesto Potere” rappresentato oggi dalla Rete, smettono di essere
esclusivamente strumento da «cavalcare al solo scopo di mantenere il proprio potere», bensì diventano reale opportunità di democrazia. (Marica Spalletta)
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