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S O M M A R I O EDITORIALE Un modello di business dalla parte del lettore di Paolo Scandaletti 3 STORIA, CULTURA E RICERCA Il “magistero critico” di Carlo Bo di Sergio Zavoli 5 Carlo Bo tra fede e cultura di Gianfranco Ravasi La scelta della responsabilità: “che cosa siete andati a vedere”? di Dionigi Tettamanzi Faremo (ancora) notizia? La professione è al bivio di Antonio Sciortino La nascita della terza pagina: cronaca e gossip di un insuccesso di Giorgio Tonelli Panorama della stampa cattolica scritta in Romania di Anca Martinas PROFESSIONE TESI DI LAUREA DOCUMENTI CONVEGNI E NOTIZIE LIBRI Congresso FNSI: l’alleanza tra editori e giornalisti. Urge investire in formazione di Pino Nardi Dicono di noi di Stefania Di Mico Relazioni pubbliche e occulte: files “ret put”. L’inchiesta Parmalat e le responsabilità dei comunicatori di Vanessa Russo Roma: L’attività di lobbying tra trasparenza e partecipazione (Camilla Rumi) p. 48 - Pescara: Cambiamo l’impianto della comunicazione con la Media Education (Sabrina Speranza) p. 49 - Milano: si può migliorare la qualità dell’informazione economica e politica (Veronica Todaro) p. 50 - Roma: Tv e Minori, un rapporto controverso (Camilla Rumi) p. 51 - Rapporto Ossigeno per l’informazione e i cronisti sotto scorta (Simone della Ripa, Ejo ) p.53 - Roma: “E’ tutto per stasera. Quando la politica entra nei Tg” (Rita Piccolini, Televideo Rai) p. 55 - Ricerca Università di Urbino: Internet in ascesa ma la tv regge (Andrea Lombardinilo) p. 56 - Pubblicità: i ricavi dei quotidiani Usa calano ai livelli di 25 anni fa (lsdi) p. 60 11 14 21 25 31 36 40 44 61 DESK cultura e ricerca della comunicazione rivista trimestrale UniSOB e UCSI Anno XVIII n. 1 direttori Paolo Scandaletti (responsabile) Lucio d’Alessandro direttore editoriale Massimo Milone comitato scientifico Francesco M. De Sanctis (Presidente), Giuseppe Acocella, Giuliano Adreani, Gianfranco Bettetini, Isabella Bossi Fedrigotti, Gianluca Comin, Massimo Corsale, Piero Craveri, Lucio D’Alessandro, Ornella De Sanctis, Furio Garbagnati, Enzo Iacopino, Andrea Melodia, Paolo Mieli, Massimo Milone, Mario Morcellini, Agata Piromallo Gambardella, Paolo Scandaletti, Franco Siddi redazione 00186 Roma, Via in Lucina 16/A Tel. 06 68802874 Fax 06 45449621 Rosa Maria Serrao (capo redattore) [email protected] 06 68802874 Napoli: Pier Luigi Camilli, Franco Mennitto, Andrea Pitasi proprietà ed editore UCSI www.ucsi.it giunta esecutiva Andrea Melodia (presidente), Pino Nardi (vicepresidente), Franco Maresca (segretario), Mariella Cossu (tesoriera), Maurizio Bassetti, Sara Bessi, Vania De Luca (presidente Ucsi Lazio), Massimo Milone (past president), Guido Mocellin, Mario Repetto, Gaeano Rizzo, Francesco Occhetta s.i. (consulente ecclesiastico), Paolo Scandaletti (past president), Paola Springhetti (delega statuto), Donatella Trotta (delega cultura), Gianni Virgadaula (delega cinema). stampa CSR -00158 Roma, Via di Pietralata 157 iscrizione al ROC n. 5421 arretrati redazione DESK: [email protected] finito di stampare: marzo 2011 E D I T O R I A L E UN MODELLO DI BUSINESS DALLA PARTE DEL LETTORE PAOLO SCANDALETTI Q Paolo Scandaletti, giornalista e scrittore. Insegna Storia del giornalismo al Master di giornalismo dell’Università LUMSA di Roma. Dirige questa rivista con Lucio d’Alessandro. n. 3/2010 uale modello di business va emergendo dalla discussione globale sulla morte dei giornali e la crisi della professione giornalistica, nelle scelte e nelle esperienze adottate dagli editori più avveduti? Ben poco si leva sull’orizzonte italiano: dai troppo promessi e mai realizzati stati generali di governativa proposta, come dalle assemblee della Fieg e dai congressi di Fnsi: dove prevalgono clamorose miopie e le ennesime incalzanti richieste di aiuti pubblici. Altrove si parla meno e si realizza di più. Senza badare alla solita e pur significativa America di Murdoch per soffermarci sul panorama europeo, perché non animare qui e con tempismo un bel confronto fra tutti i soggetti interessati sull’esperienza vincente dei tedeschi di Axel Springer? Si potrebbe chiamare a riferirne il presidente di quella società editrice, che presenta per noi l’ulteriore vantaggio di parlare italiano, Giuseppe Vita. A Berlino, l’amministratore delegato Mathias Dopfner è serenamente convinto che “la stampa vivrà più a lungo di quanto si pensi”, ancorando questa convinzione su solide basi di no e si. Evitando consapevolmente l’avventura televisiva (mantengono piccole partecipazioni in tv locali e in un grande canale turco), hanno preferito il vasto impegno nella radio. Ma il successo e i soldi li fanno proprio sulla carta. E quale carta? Quella del più diffuso quotidiano del Vecchio continente - 3,3 milioni di copie ogni giorno- la Bild ed il fratello più autorevole e vero giornale nazionale della Germania Die Welt. Accompagnati da 230 fra testate locali, periodiche e specializzate (femminili, sportive, tecniche, consumi, ecc.). Con un’espansione rilevante ad Est, fin dalla caduta del muro: in Ungheria oggi il primo produttore di giornali, poi significative partecipazioni in Russi, Polonia, Serbia, Slovacchia, Cechia. Spagna, Francia e Svizzera. Tutto ciò integrato da una vasta catena di siti-web e portali online: servono per vendere le informazioni, come per le redditizie compravendite immobiliari. E’ stata unificata la raccolta e la preparazione delle informazioni nazionali ed internazionali per i giornali locali. Rafforzata la vastità e la qualità dei servizi, investendo sui giornalisti. Ma la scelta chiave che identifica il posizionamento editoriale sul 3 DESK E Mauro Calabresi afferma che i giornali italiani debbono aiutare il lettore a capire, sapendo scegliere e rinunciando a spettacolarizzare ed enfatizzare. Per Enrico Mentana occorre ritrovare presto le nostre ragioni di essere giornalisti e fare informazione. D I T O R I A L E mercato e sulla quale si fonda la credibilità del grande gruppo editoriale, sta nei cinque punti politico-sociali che fanno da preambolo alle attività e traccia la linea delle sue testate. Il grande gruppo, ponendosi dalla parte del lettore - non da quella dei poteri forti della politica, dell’economia e della finanza - afferma di voler perseguire: 1. la difesa della libertà e della legge in Germania, nella prospettiva dell’unificazione europea; 2. la riconciliazione fra tedeschi ed ebrei e la difesa dello stato d’Israele; 3. il sostegno all’’Alleanza atlantica e la solidarietà con gli Stati Uniti; 4. il rifiuto dell’estremismo, 5. la promozione della libera economia sociale di mercato. Su tali basi quei giornali hanno costruito la loro identità; vengono riconosciuti dai lettori, che li premiano con il successo. Non con la sopravvivenza pelosa e gli aiuti di stato. In tema, alcune segnalazioni sulle quali poggiare una qualche nostrana speranza. Nella giornata dell’informazione al Quirinale, il Presidente ci richiama senza perifrasi alla “correttezza professionale”. A Milano, nel tradizionale dibattito fra giornalisti di livello, Mauro Calabresi afferma che i giornali italiani debbono aiutare il lettore a capire, sapendo scegliere e rinunciando a spettacolarizzare ed enfatizzare; per Enrico Mentana, prevalendo la lite e l’urlato, l’omissione dei fatti e l’interesse delle persone per bene, occorre ritrovare presto le nostre ragioni di essere giornalisti e fare informazione. L’Ordine della Lombardia, in vista della ripresa dei convegni di ottobre, promuove tra gli iscritti un sondaggio (a cura di AstraRicerche Enrico Finzi ) su: fatti separati dalle opinioni, pressioni della pubblicità, diritti della privacy, l’etica su web tv uffici stampa e quotidiani, i ruoli dei comitati di redazione, degli Ordini, dei magistrati, degli editori, dei consumatori. (Quanto a questi ultimi sarebbe stato più corretto parlare di cittadini/lettori/utenti). Bravi, così si prende il toro per le corna: una confessione pubblica e un rimettersi in gioco per il recupero della dignità e della credibilità.. Il presidente del gruppo editoriale Longanesi Stefano Mauri scrive: “So che da quando è esplosa internet, nonostante i contenuti gratuiti disponibili, si sono venduti sempre più libri. Perché sedersi a leggere o entrare in una libreria sono desideri che precedono la scelta dei libri”. Paolo Scandaletti DESK 4 n. 1/2010 S T O R I A , C U L T U R A E R I C E R C A IL “MAGISTERO CRITICO” DI CARLO BO SERGIO ZAVOLI el consegnarmi a nome del Senato Accademico urbinate il diploma di laurea in Lettere honorìs causa, Carlo Bo, abbassando appena la voce, ma non tanto da non farsi sentire, disse semplicemente: “Non mi sembri nella manica larga del potere, un giorno potrebbe servirti!”. E la cerimonia finì li. Con l’aula magna in piedi ad applaudirlo per quel piccolo sberleffo al mondo di chi dà e toglie gli scranni, nel quale più che farmi le ossa dovevo avergli dato l’idea di potermele rompere. Gli sono rimasto riconoscente anche per quella concreta testimonianza di solidarietà. Che poi non pensassi di usare il prestigioso e gratuito “pezzo di carta” è questione di ritegno; pur sapendo che, se vi fossi stato costretto, avrei potuto profittarne. Ricevevo infatti non una pergamena, ma addirittura l’accesso a una professione ancora, a malgrado di tante cose, tra le più onorevoli. L’ho sempre visto così, capace come pochi di dare alle cose, specie se paludate, quella piegatura ironica che era un tratto tra i più disarmanti della sua personalità non solo privata, ma anche N n. 3/2010 accademica e magistrale. Tralascio la politica, che egli frequentava in virtù di un forte sentire civile, non propriamente di una vocazione, “troppo al di sopra dei miei mezzi”, diceva. Mi sono fatto un’idea credo fondata delle sue ritrosie osservandolo nelle occasioni, diciamo, minori. Siamo stati per tanti anni nella giuria del Premio Estense, di cui fu lo storico presidente, cui succedetti alla sua morte, e ricordo anche i tratti più personali, per esempio, del carattere. E va da sé che quella familiarità è la sola a darmi titolo per tracciare, qui, un profilo dell’indimenticabile amico. Ricordo quando gli si chiedeva di partecipare a qualcosa - fosse un dibattito, una commissione, un verdetto, fino a concedere l’aborrita intervista – prima aveva immancabilmente la tentazione di non accettare, poi di non presentarsi, quindi di fuggire e infine, alle strette, di limitare i danni - i suoi, naturalmente - parlando poco, e senza andare troppo nei dettagli, come si conveniva a un uomo di quel prestigio, disincantato e libero. Sicché, il suo era sempre un giudizio che più estorto, e scarno, non avrebbe potuto essere. E quando le decisioni finali prendevano 5 Sergio Zavoli, Senatore, Presidente Commissione di Vigilanza RAI DESK S T O R I A , DESK C U L T U R A forma dai suoi pareri, mentre la laboriosità profusa dagli altri non di rado si risolveva in qualche ormai ininfluente pezzo di bravura, prendeva congedo: raccoglieva in fretta sigari e fiammiferi, cappello e bastone, abbandonando risolutamente la scena. Cattolico con venature di giansenismo e modernismo insieme, era antidottrinale, ma risolutamente “cattolico, apostolico romano” quando dovevano prevalere, sui giochi della Storia, le “questioni prime”. Animato da spirito preconciliare, interiormente manzoniano, privo di qualunque esteriorità, viveva con molti rischi, e altrettanta consapevolezza, l’arduo confronto fra intelligenza e coscienza. Una vita spesa con la moneta volta a volta grave e mite della parola: quella che distingue, separa, mette insieme universi di altre parole, prese dalla vita e condotte alla letteratura, o viceversa: cioè l’ordine mentale, estetico ed etico di Carlo Bo, direi l’ossessione umanistica del suo cimento dentro la grande critica del secolo appena trascorso. Si era occupato, per quasi settant’anni, di letteratura italiana, francese, spagnola. Nelle opere di critica, nelle raccolte antologiche, nelle riviste culturali, fossero o no di tendenza, nei saggi e nelle traduzioni, un suo tratto originale e costante era “il tentativo di compenetrarsi nello spirito del poeta e dello scrittore”, sono parole sue. E ciò per fare della letteratura un universo vivente, che ha per centro l’uomo, e possiede “segno” e “scopo” solo se incarna un fondamento etico. Con questo sestante Carlo Bo ha attraversato i territori della saggistica e della critica, dell’università e del giornalismo, nel quale ha esercitato soprattutto la 6 E R I C E R C A riflessione civile, etica, morale. Il Corriere della Sera da questo punto di vista è stato una delle sue palestre, e finestre, privilegiate. Poi verrà il riconoscimento della politica, che lo volle a Palazzo Madama, senatore a vita, per i valori civili sempre testimoniati, assertore e custode di scelte mai solenni, né sempre obbedienti ai canoni obbliganti delle fedi e delle convinzioni, dalla più alta alla più terrena. Fu uno dei padri, non solo spirituali, dell’ermetismo ed ebbe subito per sodali Luzi, Betocchi, Parronchi - forse riservando a Betocchi un di più d’amicizia, nata fin dall’esordio critico di Bo su Frontespizio, e dalle pagine di Letteratura come vita, due momenti in cui affrontò i principi della cultura e della critica e, con essi, la questione estetica; manifestandosi come l’autorevole indicatore di un linguaggio che si affrancasse dai legami, fin troppo convenuti, con la carducciana, austera letteratura civile, le foscoliane, romantiche modalità neoclassiche e decorative, per non dire del fastoso, corrusco decadentismo dannunziano, coi suoi raffinati estetismi, e della prorompente rivoluzione futurista, la più temuta, anche perché la più consentanea a una modernità da cui il fascismo attingerà la sua controversa identità culturale e persino ideale. L’ermetismo, per Bo, fu il segno che si poteva far poesia senza cadere nella corruttibilità di un humus culturale influenzato dall’ideologia, cioè fuori da ogni compromissione. La consuetudine di Bo con i più grandi poeti del secolo sta a dimostrarlo. L’ermetismo, riassumerà Bo in una intervista che gli feci nel ’92, “nasceva dal bisogno di allargare il campo delle esercitazioni n. 2/2010 S T O R I A , C U L T U R A letterarie concluse, da noi, con la stagione delle avanguardie. I giovani ermetici pensavano di promuovere una sorta di rinnovamento, riportando lo sguardo sulle letterature straniere, che una censura più o meno sommersa della politica fascista aveva cercato di relegare in un angolo. Può darsi che questo fervore fosse anche illusorio, può darsi che nel cercare altre strade si cadesse in un altro errore di giudizio, ma tanta animazione era il frutto di una ricerca e di un’attesa”. D’altronde, venne subito il messaggio di Montale con il suo verso temerario, “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, che fu come il manifesto di quella stagione non solo letteraria. “Quel verso di Montale”, dirà Carlo Bo, è stata la bandiera di almeno due generazioni che intendevano affrontare la storia, e quindi il futuro, con un cuore più libero, senza religioni ufficiali […]. Naturalmente, il verso è stato anche inteso, in modo erroneo e abusivo, come un atto di dimissione. Ma così va il mondo!” Carlo Bo non transigerà, in generale, sull’uso della parola. Ricordo quando mi segnalerà “un buon libro”, dirà così, ed era Il giardino delle esperidi, di Pontiggia, indicandomi questo breve passaggio: “Ci si aspetta ormai così poco dalla parola che essa finisce quasi sempre per darlo”. Sebbene possa apparire superfluo, molta letteratura incoraggiata da Bo è percorsa da una lucida nostalgia della parola. Nulla di estetizzante, o bigotto: militava per un patrimonio da cui la letteratura, diceva, avrebbe tratto la sua stessa sopravvivenza. Ma non poté sfuggire, proprio a lui, che la parola letteraria, quando esaspera la sua letterarietà, andandosene in eccessi di metafore, di n. 2/2010 E R I C E R C A allusioni o di ambiguità, senza la forza necessaria per sostenerle, può diventare la più insidiosa per l’unità concettuale di chi legge, costretto ad affrontare una perdita di centralità, e persino di identità, della parola medesima. Il concetto stesso di letteratura, intesa come scienza, conoscenza e coscienza della comunicazione rischiava di apparirgli un centro vuoto quando rivendicava un primato anziché “mettersi al servizio” così diceva “di una parola sacralmente libera nel suo arcano universo”. Era qualcosa di misticheggiante, ma corretto, lealmemte, da un laicismo che rivendicava la sua parte di diritti, a cominciare da un neutrale bisogno di purezza. “Quando gli uomini del nostro tempo parlano, ciò che si scambiano è solo un rumoroso silenzio che copre tutto quanto è interessante e vero, ma che rimane in uno sfondo irraggiungibile dalla parola”. A questa riflessione di Kafka, nella sua gelida e definitiva compostezza, Bo oppose il suo massimo calore civile e morale, dedicato insieme a mente e spirito; del resto, non si assuefece neppure alla radicale sentenza di Silone, secondo cui “parlare e mentire sono oggi diventati sinonimi”. Voglio ricordare che a Carlo Bo si deve un magistero dal quale promana anche la qualità non solo riflessa dell’Ateneo di Urbino, al cui mutamento in istituzione pubblica il Senato della Repubblica avrebbe dedicato intere giornate di lavoro. Un tempo, quello di Bo, veniva chiamato “magistero critico”, ma fu proprio lui a dire che quella cattedra non esisteva più, sopraffatta dalle omologazioni mercificanti, suggerite dalle mode, istigate dagli affari, 7 DESK S T O R I A , DESK C U L T U R A frutto delle indifferenze, delle pigrizie, delle sottomissioni. In questo, nel ribellarsi alla caduta del valore della ricerca e della scelta, del consenso e del rifiuto, Bo si è dichiarato, risolutamente, un “moralista”: forse per quel rigore che dicevo - né solo intellettuale né solo interiore - e poi per la dignità dello studioso, la militanza culturale, il magistero critico, il memorabile governo di una Università diventata, nel frattempo, tra le più illustri, in cui gli saranno successori Giovanni Bogliolo e Stefano Pivato. Fu un difensore mite e iracondo, riservato ed esplicito, di grandi principi via via declinanti. La sua non era una conclusione sconsolata e grave: aveva già fatto sentire la sua voce, non di rado sferzante, nel tentativo di conciliare l’insofferenza per l’“inaudita, inconsapevole millanteria” così la chiamava “di non pochi sperimentalismi”, pur mantenendo il più “fiducioso, solidale consenso” altre parole sue “per ciò che tenta, fatica e si fa notare lungo un cammino di autentica, a volte dolorosa, ricerca”. Restò attento, non sempre incoraggiandole, a quelle esercitazioni letterarie che subentrarono alla fine delle avanguardie; e sino alla fine tenne fede ai suoi modelli, per dir così, più alti e fecondi. Penso, un po’ in disordine, non soltanto a Leopardi, Mallarmé, Pascal, Maritain, Claudel, Mauriac, Bernanos, Lorca, ma anche a Serra, Rebora, Sbarbaro, Macrí, Bigongiari, e a Ungaretti, Montale, Cardarelli, Quasimodo, per citare chi non può non venire alla mente. Una volta, tornando a un nostro irrisolto argomento, gli domandai se era ancora compito dei maestri - non parlai di cattedre - guida- 8 E R I C E R C A re le nostre letture, e che cosa pensasse di quell’autorità ormai trasmigrata nel marketing, cioè negli spot, nelle fascette, nelle classifiche, e via così. “I maestri non ci sono più” rispose “perché non se ne sentiva più il bisogno. Le scelte, ormai, venivano da altri mondi. Avrai visto come alle librerie è stato tolto quel senso di rispetto che ci incutevano. Che cosa si è perduto? L’educazione, lo stupore, il mistero, la voglia di entrare in un libro come si entra nell’esistenza”: un altro richiamo al suo principio di totale, laico umanesimo. Nel chiamarlo “letteratura come vita” escludeva ogni pretesa sistematoria, ma anche i vezzi arbitrali, le conventicole elitarie, i verdetti ingenerosi o vessatori, le alleanze e i ripudi da salotto, i cipigli e le corrività editoriali, l’italiano e l’italianismo, l’arte della prosa e la prosa d’arte, il pantheon e la stroncatura, le tribune e i tribunali mediatici. Quando andò in crisi la “terza pagina” – bellissima, un tempo, poi sempre più manierata, fino a essere espulsa dai nuovi criteri cui i giornali, intimoriti dalla facilità televisiva, si erano convertiti - Bo fece notare come da quegli elzeviri fossero nati dei libri idonei a restare, a buon diritto, nelle biblioteche, e ciò negli anni in cui il lettore si giovava di una selettiva continuità tra le pagine del giornale e del libro; e ciò, aggiungeva, “con la mediazione del libraio assai più di quella affidata alla critica letteraria”. “Certo, diceva, occorre avvedutezza, ma anche sensibilità e senso pratico, dedizione e misura”. E tutto questo, concludeva, mentre “le armate dell’eccessivo, del clamoroso, del perentorio appaiono ormai invincibili”. “Quando n. 2/2010 S T O R I A , C U L T U R A i lettori” disse un’altra volta “finiranno per sentirsi esautorati, vittime di un’indigestione colossale, chissà che non si possa tornare a dei piccoli discorsi timidi e onesti, che qualcuno non c’insegni a potare, a dividere, a scegliere. Non era per la misura delle piccole cose di Aragon, secondo cui “solo il normale è poetico”, era l’arduo dovere di scegliere e rifiutare. E il maestro, nel quale non si riconosceva più, in queste parole si rifaceva vivo. Parlava anche per chi era alle prese con la fatica artigiana, e certo non inutile, dei cosiddetti comunicatori, chissà se pensando di più o di meno ai giornalisti, specie quando esortava a tenersi lontani dalle prove virtuose, che raramente sono garanzia di buona scrittura, invitando chi ha una quotidiana familiarità con la parola a stare al largo da bravure e malizie di giornata, dagli effetti speciali, insomma, che oggi dominano in tanta parte della comunicazione. Una fatica tanto più delicata, rischiosa e responsabile in tempi di gravi cadute dell’uomo, di vere e proprie catastrofi umane, e questo mentre la televisione prende per sé tutto quanto. Mi viene in mente un giudizio di François Revel, non so quanto ispirato dalla simpatia, che trassi dal suo famoso Pour l’Italie: “Tutto, in Italia, finisce in giornalismo”. E ciò mentre altrove, prima che arrivassero le “parabole” della Tv, si guardava alle grandi proiezioni sul mondo, ai contributi, persino epici, di André Malraux, per esempio, quando affermava: “Il XXI secolo sarà religioso o non sarà”. E Carlo Bo, con un semplice articolo di giornale, gli rispondeva: “Correggerei la sentenza di Malraux. Il mondo, è vero, esprime n. 2/2010 E R I C E R C A sempre più un bisogno di religiosità, ma è un magma di attese, di sguardi. Ho l’impressione che la voce di Dio corra ancora per il deserto, che passi sui nostri cuori e non lasci traccia. Il consenso senza sofferenza che diamo a Dio è solo un altro modo, fra tanti, di non rispondergli”. Sembrano parole di oggi, suggerite da ciò che sta sotto i nostri occhi. Il mistero, la profezia, il mondo come luogo anche dell’anima, i frammenti della nostra esistenza: tutto richiamato, addolorato, consacrato nel ciclo spirituale che muove dalla creazione, se è vero che “Dio è disseminato nella moltitudine del mondo”. Quello stesso, d’altronde, disseminato anche di violenze, ingiustizie, negazioni e perduranti barbarie. Andrebbe detto soprattutto ai giovani, insisteva Bo, che la conoscenza non genera una sbiadita, indolore coscienza, ma una pedagogia reale, sensibile, fraterna, fondata su un lascito di carne e spirito, che scorre in una provvida indissolubilità umana prima ancora che nelle pagine, via via meno laboriose, e lette, della storia. Ma la funzione dell’uomo non può fermarsi qui, dovrebbe comportare una visione il più possibile ampia e mirare, oltre la nostra persona, a tutta la famiglia umana: proprio quello che la grande politica sembra avere cancellato dal quadro delle sue scelte e dei suoi doveri”. Citando Luzi, incalzava: “Un attimo di beatitudine, oggi, corrisponde a evi di angoscia. Solo un inesplicabile impeto coraggioso può sospingerci sempre verso il dopo”. Era la misura massima di un ottimismo che Bo moderò sempre con una sof- 9 DESK S T O R I A , C U L T U R A ferta riserva lucidamente definita la “speranza ragionata”. “A noi che facciamo anche questo mestiere - rispose a un sondaggio del suo giornale, Il Corriere della Sera - è affidato il compito di saper scegliere libri che producano conoscenza, consapevolezza e, magari, coscienza”. Ne parlava senza venir meno alla sua lezione laica, e persino a una certa arguzia, dietro la quale continuo a sentire l’autorevole odore del suo inseparabile, quasi connaturato “toscano”. E sempre più spesso i suoi silenzi, risvegliati dal rumore del suo bastone. Qualcuno lo definì laconico e, rispetto all’essere eloquente, certamente lo fu. Preferirei dire che spesso “taceva in modo eloquente”, per prendere un verso da una poesia di Enzensberger. Gli abbiamo voluto bene, e ancora gliene vogliamo, per ciò che ci ha insegnato, di sicuro lasciandoci l’intoccabile libertà del dissenso, per la net- DESK 10 E R I C E R C A tezza con la quale si inoltrava nei ragionamenti, per quel senno liberale e cristiano formatosi in un universo di valori che mettono l’uomo né prima né dopo la vita, ma in questa stessa, di ogni giorno e momento, da cui non si esce mai completamente indenni “perché tutto - diceva - rientra in ciò che ci è stato dato per non essere meno di un uomo”. Lui, con la sua religiosità mai canonica, anzi, a volte persino eretica, aveva in mente una trascendenza anche verso il basso, verso quella che Teilhard de Chardin chiamava la “santa materia”: cioè noi, noi e la nostra natura, noi con le nostre debolezze e i nostri coraggi, noi, la nostra mente e il nostro spirito. Noi, insomma, e la nostra misteriosa esistenza. Sergio Zavoli n. 2/2010 S T O R I A , C U L T U R A E R I C E R C A CARLO BO TRA FEDE E CULTURA GIANFRANCO RAVASI Milano abitavamo vicino, in due piccole strade a poca distanza dal Duomo: lui in via Maria Teresa, io in via Cardinal Federico, una laterale della Biblioteca Ambrosiana. Ci incontravamo talora in quel dedalo di viuzze e ci scambiavamo poche parole. Avevo conosciuto Carlo Bo durante una cena nella casa dello scrittore Luigi Santucci, amico carissimo a entrambi: era stato l’avvio di una conoscenza rarefatta che però aveva una sua intensità, soprattutto attorno a quei temi ecclesiali che avevano sempre appassionato e un po’ anche tormentato il pensiero e la fede del famoso scrittore, studioso e uomo pubblico. L’ultimo incontro avvenne nella sua casa milanese tutta foderata di libri. Alcuni amici della scrittrice Lalla Romano, che era allora da poco scomparsa e della quale avevo celebrato i funerali, si erano ritrovati per costituire un’associazione o una fondazione che ne custodisse il lascito culturale. Bo assisteva e partecipava con quei silenzi “omerici” che erano divenuti quasi una sua sigla e che, A n. 3/2010 quindi, alonavano di rilievo le sue poche parole. Alla fine volli trattenermi e, da soli, parlammo dei temi che erano stati sollevati durante un’intervista radiofonica che avevo rilasciato quella stessa mattina. Era il giugno 2001 e poche settimane dopo, il 21 luglio, egli sarebbe morto a Genova (era anche ligure la città della sua nascita avvenuta cent’anni fa, il 25 gennaio 1911, cioè Sestri Levante). La sostanza di ciò che mi disse allora la ritrovai in un suo dialogo riferito da Sergio Zavoli nel suo Diario di un cronista (RAI-Eri/Mondadori 2002): «Ho l’impres-sione che la voce di Dio passi nei nostri cuori e non lasci traccia. Il consenso senza sofferenza che diamo a Dio è solo un modo, fra tanti, di non rispondergli». Si intravedeva in quelle parole non solo la sua fede che vibrava degli stessi battiti di quella degli amati Pascal, Bernanos, Péguy, Claudel, Maritain (senza dimenticare Mallarmé e Rivière), ma anche il suo tormento per il passaggio spesso frustrato e frustrante di Dio nelle strutture ecclesiastiche da lui considerate troppo pesanti, opache e resistenti a quella voce. 11 Gianfranco Card. Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura DESK S T O R I A , Non si inseriva né nel dissenso molto vivace nei decenni conciliari, né nel consenso, prevalente negli anni precedenti e successivi, ma semplicemente nella ricerca di senso. DESK C U L T U R A Eppure egli era rimasto sempre un cattolico tout court, perché – per usare un’espressione del suo e mio amico padre Turoldo – egli non si inseriva né nel dissenso molto vivace nei decenni conciliari, né nel consenso, prevalente negli anni precedenti e successivi, ma semplicemente nella ricerca di senso. E in questo sono emblematici i personaggi religiosi del suo ideale pantheon spirituale. Al primo posto è collocata la figura di uno straordinario parroco di campagna, la cui voce fu così intensa da essere definita da un Papa, Giovanni XXIII, «tromba dello Spirito Santo» nella terra padana: era don Primo Mazzolari, parroco di Bozzolo (Mantova), «obbedientissimo in Cristo» alla sua Chiesa, ma così libero nella sua fedeltà al Vangelo da non esitare a far vibrare la sua parola contro ogni compromesso. «Noi passeremo – scrive Bo che lo conobbe, lo ascoltò e lo lesse – col rumore dei nostri problemi, con tutti i cartoni dei ridicoli teatri spirituali che abbiamo messo insieme da letterati e don Primo resterà sulla porta della sua parrocchia con le braccia aperte, a ricevere tutti, senza mai chiedere il nome o la nostra piccola odissea». Seguono i testimoni della carità e della società come Manzoni, Semeria, Orione e Sturzo. C’è, poi, la teoria dei sacerdoti che seppero intrecciare fede e cultura, una delle sfide che resse l’intera esistenza di Bo, a partire da quella sorta di manifesto che fu il saggio Letteratura come vita, letto al congresso degli scrittori cattolici del 1938: «Rifiutiamo una letteratura come illustrazione di consuetudini e di costumi comuni, aggiogati al tempo, quando sappiamo che è una la strada più com- 12 E R I C E R C A pleta per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza… Non esiste un’opposizione fra letteratura e vita. Per noi sono tutt’e due, e in ugual misura, strumento di ricerca e quindi di verità: mezzi per raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi». Ecco, allora, don De Luca, don Cesare Angelini, Rebora, lo storico Bedeschi, il mistico Divo Barsotti, il collega all’Università di Urbino Italo Mancini con la «ragnatela delle sue meditazioni» dai molteplici fili teologici, filosofici, sociali, culturali, la cui finestra illuminata nella notte urbinate diventava un simbolo di ricerca della verità. Ma non sono mancate neanche pagine di forte suggestione dedicate ai papi della sua maturità e degli ultimi anni: dalla lezione d’amore di Giovanni XXIII all’umanesimo cristiano di Paolo VI fino alla «Chiesa di popolo» di Giovanni Paolo II . In questo «nugolo di testimoni» sacerdotali, per ricorrere a un’espressione biblica (Ebrei 12,1), raccolti in un unico coro dal volume Don Mazzolari e altri preti (La Locusta, Vicenza 1979), brilla un trittico fiammeggiante. La prima a venirci incontro è una figura segno di contraddizione, quell’Ernesto Buonaiuti che non volle mai considerarsi ex sacerdote nonostante la censura ecclesiastica abbattutasi su di lui per il suo modernismo, convinto del tradimento che talora la Chiesa storica poteva consumare, ma ancor più convinto che la salvezza avviene proprio nella stessa Chiesa storica. C’è poi l’amato don Milani, per molti versi simile a don Mazzolari, combattente per la verità naturale e soprannaturale da cristiano e da prete, nonostante «il lungo calvario» impostogli dalle auto- n. 2/2010 S T O R I A , C U L T U R A rità ecclesiastiche. E, infine, ecco padre Turoldo nel quale la passione si fa parola, la fede poesia e la verità storia. Sì, perché – sulla scia della concezione di un Teilhard de Chardin letto con entusiasmo appena pubblicato in Francia – Bo è certo che «il cristiano deve bagnarsi nel mare della storia», anche correndo il rischio di infangarsi, «rifiutando quella perniciosa opposizione tra cristianesimo e mondo degli uomini». Qui si coglie uno dei nodi fondamentali del pensiero spirituale di Carlo Bo e della sua stessa storia personale, quella del dialogo tra fede e cultura, dell’incontro tra il cristiano e l’agnostico che s’interroga, tra il tempio e la strada, nella linea della lezione di Maritain al cui “stile” di pensiero è dedicata un’altra raccolta di saggi (Lo stile di Maritain, La Locusta 1981) nella quale scriveva con amarezza: «Per anni la Chiesa è rimasta immobile e quando finalmente ha sentito il dovere di intervenire, si è accorta di non avere più gli strumenti adatti e si è limitata a ripetere altre voci o ha taciuto». I rischi in questa operazione di incrocio tra fede e altre visioni dell’essere e dell’esistere non sono mancati, soprattutto quando ci si muoveva in territori borderline, come nel caso del dramma Il Vicario di Rolf Hochhuth che ebbe una veemente e partecipe prefazione alla traduzione italiana firmata proprio da Carlo Bo. Rimaneva, però, indiscutibile la sincerità della persona e delle sue interrogazioni e soprattutto la consapevolezza della necessità del confronto tra la Chiesa e il mondo. Alle soglie della morte, in un’intervista, egli confessava che la magna quaestio del XXI secolo sarebbe n. 2/2010 E R I C E R C A stata il «ritrovare le ragioni ultime di quei valori che consentono una vita umanamente e umanisticamente motivata, che tenga conto non solo delle cose visibili ma anche e soprattutto di quelle invisibili… Bisognerà insomma costruire insieme, credenti e no, un’altra civiltà che sappia finalmente ritrovare lo spirito della carità cristiana: cioè saper perdonare e cercare di risolvere problemi epocali, inevitabili e giganteschi, secondo uno spirito di carità». Agli occhi di Carlo Bo il cristianesimo non era né stinto né estinto, ma aveva ancora in sé tutto il suo lievito di trasformazione della pasta della storia. Gianfranco Ravasi 13 DESK S T O R I A , C U L T U R A E R I C E R C A LA SCELTA DELLA RESPONSABILITA’ CHE COSA SIETE ANDATI A VEDERE? DIONIGI TETTAMANZI L Dionigi Card. Tettammanzi, Arcivescovo di Milano DESK ’informazione, la comunicazione sono attività che riguardano tutti e coinvolgono tutta la vita, sono pensiero prima che tecnica, sguardo sulla realtà prima che preoccupazione di ricavarne una cronaca. Il vostro interesse per le riflessioni sui temi della comunicazione lascia ben sperare per un futuro all’insegna di una più lucida consapevolezza e di una più forte responsabilità circa la comunicazione stessa. Ho ascoltato con interesse i giornalisti affermati, responsabili e stimati che hanno voluto condividere a voce alta la propria esperienza: mi hanno aiutato a comprendere meglio quanto sia impegnativo il vostro lavoro, quanto può influire sul bene delle persone, quanto sia possibile svolgerlo bene. Mi chiedo: può veramente avere futuro il giornalismo se non avrà come protagoniste persone animate da questo stile? Vorrei anch’io portare un contributo a questo dibattito a partire dalla mia personale esperienza di cittadino utente dei media, di cristiano e di vescovo. In particolare vorrei considerare con voi gli effetti che gli attuali stili della comunicazione hanno nella vita della gente. Vorrei inoltre riflette- 14 re su come è possibile proporre il racconto intelligente della vita reale delle persone, chiedermi cosa significhi narrarla secondo verità, e infine cercare con voi il contributo che dobbiamo offrire per sospingere il Paese fuori dalla situazione difficile e critica in cui si trova. La realtà l’avete presentata voi stessi e su questa vorrei ora esprimere alcune mie impressioni. I media, il Paese e la vita della gente La prima impressione riguarda l’immagine del Paese offerta dai mezzi di comunicazione oggi. Non mi pare azzardato affermare che questi media vecchi e nuovi presentano un Paese che sembra preda di un litigio isterico permanente. Personalizzazione, esasperazione, drammatizzazione, contrapposizione sono il “sale” con il quale si tenta di dare sapore a una realtà che, altrimenti, si ritiene destinata alla inevidenza. Se ogni pioggia è un diluvio, se tutti gli immigrati sono delinquenti, se ogni politico è corrotto, se ogni influenza è pandemia, come potrà vivere sereno chi di tv e giornali è utente abituale e non ha mezzi e capacità per esperire personalmente la realtà presentata dai media n. 2/2010 S T O R I A , C U L T U R A con questo stile fuorviante? Come potrà non provare ansia nei confronti della vita quotidiana? Per la verità non manca chi sperimenta la sensazione opposta, rimanendo quasi anestetizzato davanti a ciò che accade. Se è sempre emergenza, non sarà mai emergenza, nemmeno nelle evenienze reali: la tensione non può essere sostenuta a lungo e finisce per generare assuefazione. Molti poi provano una specie di straniamento dalla realtà, una distanza scettica da ciò che non sperimentano direttamente, riducendo così il reale solo a ciò che materialmente è sottoposto ai propri sensi. Gli stili prevalenti della comunicazione tendono inoltre a causare rassegnazione. Sono tante le persone che si stanno rassegnando alla mediocrità. Assistiamo all’eccessiva esibizione del privato in pubblico. Troppi programmi sono fondati sull’esposizione oltre misura dell’intimità delle persone. Una tendenza che, andando oltre i reality, sta contagiando ogni campo della comunicazione generando nello spettatore mimetismo, rassicurazione, rinuncia a pensare a se stesso come a qualcosa di grande. Non sempre è un privato esemplare quello mostrato: spesso è stereotipato, caricaturale se non addirittura patologico e grottesco. Anzi, se fosse normale non sarebbe interessante mostrarlo. Pare si voglia diffondere l’idea che “così fan tutti”. Confrontarsi con simili “modelli” non contribuisce al benessere personale e alla crescita collettiva, ma - riempiendo gli occhi di banalità e di mediocrità - spinge il pubblico a rassegnarsi alle proprie “debolezze”, non certo a uno scatto in avanti, a un moto di sano orgoglio. n. 2/2010 E R I C E R C A Si è spinti alla rassegnazione anche dall’enfasi eccessiva che è data a ciò che nel Paese non funziona, a ciò che non è come dovrebbe essere. I processi di comunicazione tendono a dare evidenza agli episodi negativi, procedendo poi, per analogia, ad associarne altri: ecco, ad esempio, che, scoperto un episodio di grave malasanità, ne viene immediatamente mostrato un secondo e magari un terzo. È certo importante che i media svolgano anche questa funzione di denuncia, ma occorre porgere queste notizie con responsabilità, così che non appaia che nulla funziona, che tutto è corrotto, che la situazione è irreparabile. Quanto contribuiscono i media a creare e ad alimentare il clima di rassegnazione che si respira? Alcune realtà del nostro Paese non sono rassegnate ma costruttive, positive verso il futuro. Il clima dannoso prima descritto, però, tende ad isolarle e, quel che forse è peggio, a renderle poco “notiziabili”. Siamo allora chiamati a essere vigilanti: non mancano quanti in questo clima di sfiducia e scoraggiamento trovano l’ambiente ideale per perseguire interessi legittimi ma privatistici, raggiunti senza far crescere il bene comune, o interessi ricercati a proprio vantaggio ma a danno di altri. Questo modo di agire è evidentemente inaccettabile, e lo è ancor più quando proviene da quanti del bene comune dovrebbero essere garanti e promotori. Un racconto intelligente della vita reale delle persone So bene che le notizie - di cronaca bianca o nera, di politica o economia, di cultura o sport - che hanno 15 Non mi pare azzardato affermare che questi media vecchi e nuovi presentano un Paese che sembra preda di un litigio isterico permanente. Personalizzazione, esasperazione, drammatizzazione, contrapposizione sono il “sale” con il quale si tenta di dare sapore a una realtà che, altrimenti, si ritiene destinata alla inevidenza. DESK S T O R I A , I problemi veri del nostro Paese non sono certo quanto da mesi leggiamo nelle cronache politiche. Non si tacciano gli scandali (veri o presunti) ma l’informazione politica non può, non deve esaurirsi al racconto di scandali. DESK C U L T U R A il sapore della normalità raramente troveranno posto: ma, mi domando, se viviamo in tempi in cui si possano definire “normali” alcuni stili che riscontriamo in diversi ambiti della vita sociale. In politica, ad esempio, da tempo non sono in discussione i temi che dovrebbero realizzare il bene comune adesso, in questo delicato frangente storico, dentro questa congiuntura economica segnata pesantemente dalla crisi. Dai mezzi di comunicazione emerge una classe politica che tende a mettere al centro della propria azione le vicende personali dei suoi più diversi protagonisti. Certo, nessuno chiede di tacere episodi, fatti, denunce, indagini che riguardano quanti sono chiamati ad animare e a guidare il Paese e dai quali tutti attendono esemplarità, nel pubblico e nel privato. Ma, mi domando: giornali e tv contribuiscono davvero a costruire e a promuovere la pubblica opinione quando si lasciano contagiare dal clima avvelenato e violento causato da una politica che dimentica o sottovaluta i bisogni reali e concreti delle persone? I problemi veri del nostro Paese non sono certo quanto da mesi leggiamo nelle cronache politiche. Non si tacciano gli scandali (veri o presunti) ma l’informazione politica non può, non deve esaurirsi al racconto di scandali. Guardiamo con onestà e intelligenza al Paese reale che è sempre meno raccontato, guardiamo a chi è in difficoltà ed è sempre più solo, alle forze del bene così poco testimoniate dai media, all’esemplarità positiva così raramente mostrata. Il racconto presuppone la ricerca di un senso e incoraggia la valu- 16 E R I C E R C A tazione: come scriveva Paul Ricoeur, è una vera “palestra etica”. Solo il racconto dunque, e non una valanga di “fatti” bruti, esibiti in nome del diritto di informazione senza tener conto degli effetti che produrranno sulle persone, può costituire la condizione di quello “scambio di esperienze” che è alla base della comunicazione autentica. Una simile comunicazione non è pura “trasmissione” di notizie, bensì costruzione di un bene comune attraverso la testimonianza della verità. Dire la verità: è possibile? Ed eccomi ora a un punto che ritengo centrale per questo nostro incontro: riguarda il dire la verità e il testimoniarla. Testimoniare la verità non può ridursi al fedele racconto di un fatto. Troppo poco. Cosa significa “dire la verità” per un giornalista? Cerco la risposta in un testo antico e quanto mai attuale: il testo sacro della Bibbia. Questa fin dalle prime pagine ci dice che la verità (a-letheia) giunge all’uomo mediante un processo continuo di svelamento. La verità di Dio non si offre solo all’intelligenza, e quindi non è possibile scoprirla solo con la ricerca razionale, nella forma del possesso. La verità si offre a noi nella forma di un Dio che si china sull’uomo dentro un processo d’amore, di cura, di crescita. Lo stile è quello di un popolo che si lascia condurre verso la sua liberazione (Antico Testamento), è quello di un Dio che si fa Uomo offrendo a tutti il suo amore perché tutti lo vivano e ne diano testimonianza (Nuovo Testamento). Vorrei riascoltare con voi un breve brano del Vangelo di Luca: n. 2/2010 S T O R I A , C U L T U R A Giovanni il Battista ci ha mandati da te per domandarti: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”“. In quello stesso momento Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro questa risposta: “Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia. […]”. Quando gli inviati di Giovanni furono partiti, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? […] Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, dinanzi a te mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via. Io vi dico: fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni, ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui (Luca 7,18-27). Testimoniare la verità significa inserire i fatti della realtà in un più ampio contesto, gli episodi in un orizzonte di senso. Questo il procedimento che Gesù ci spiega nel brano evangelico. La domanda di Giovanni il Battista è alta: il figlio del falegname, quell’uomo di Nazareth, è il Messia o no? Gesù non risponde affermando la verità (“sì, sono io”) bensì offre a quanti lo interrogano fatti concreti, alcuni miracoli compiuti davanti ai loro occhi quali segni messianici da riconoscere, così come la Sacra Scrittura li aveva presen- n. 2/2010 E R I C E R C A tati: indicatori della venuta del Figlio di Dio. C’è poi un’ulteriore domanda che Gesù pone a tutti i suoi ascoltatori e a noi con loro: “Che cosa siete andati a vedere?”. Egli si riferisce anzitutto all’esperienza di Giovanni impegnato a battezzare sulle rive del fiume Giordano, interrogando chi aveva vissuto quell’esperienza. Gesù con la sua domanda “che cosa siete andati a vedere?” interroga anche noi e ci propone un salto di qualità, nella vita, prima che nella professione. Qual è il senso complessivo dei fatti che quotidianamente viviamo, incontriamo, raccontiamo? In quale contesto complessivo dobbiamo inserirli? Ponendo la domanda, Gesù obbliga i suoi interlocutori a una riflessione: la verità non si esaurisce nei fatti puntuali, non è “sequestrata” da una serie frammentata di episodi. Quello di Gesù è un metodo per comunicare secondo verità. È nella realtà che si manifesta la verità, ma la realtà non può essere utilizzata come una “cava di pietre” da saccheggiare per costruire a nostro piacere un orizzonte di senso preordinato, aprioristico. Purtroppo pare proprio questo uno degli stili dominanti dell’informazione, specie in politica: usare gli episodi della realtà per dare forza a questo o a quello schieramento politico, per consolidare questa o quella costruzione artificiale della realtà. E a rimanere esclusa sono la preoccupazione e la responsabilità di contribuire al processo di scoperta della verità a beneficio degli utenti dei media: persone reali con bisogni reali. Rispetto ai fatti della cronaca c’è un “oltre” verso il quale dobbiamo aiu- 17 Testimoniare la verità significa inserire i fatti della realtà in un più ampio contesto, gli episodi in un orizzonte di senso. DESK S T O R I A , Un giornalista – sia cattolico che laico - testimonia la verità se non ostacola ma permette alle persone di accedere alla verità complessiva, più grande: di quel determinato evento, della realtà che sta vivendo, del momento storico che si sta attraversando, della propria esistenza. DESK C U L T U R A tare lettori e spettatori ad alzare lo sguardo. Di questo abbiamo bisogno, di questo ha bisogno il Paese. La politica pare che stia abdicando a questa responsabilità: non lo deve fare chi vuole essere un comunicatore veramente libero, chi vuole restare fedele al proprio mestiere, chi vuole essere – in una parola - giornalista responsabile. Un “oltre” che per gli strumenti di comunicazione ecclesiali e di ispirazione cattolica dovrà condurre al confronto con la verità ultima di Gesù Cristo; un “oltre” che per i mezzi di comunicazione laici (di qualsiasi ispirazione politica o filosofica, di proprietà di qualsiasi imprenditore) sarà la consapevolezza dell’influenza che, con il proprio lavoro, i giornalisti esercitano sulla vita delle persone, sul loro giudizio sulla realtà, sulle loro decisioni e scelte… Un giornalista – sia cattolico che laico - testimonia la verità se non ostacola ma permette alle persone di accedere alla verità complessiva, più grande: di quel determinato evento, della realtà che sta vivendo, del momento storico che si sta attraversando, della propria esistenza. Sto forse esagerando sull’istanza etica? È troppo etico questo compito per un “semplice” giornalista? Direi proprio di no! So bene però di prospettare una missione che è ritenuta pura utopia da chi pensa che il giornale sia un oggetto che il giorno dopo “è buono solo per incartare il pesce” e da chi pensa che un telegiornale debba servire solo per tenere alti gli indici di ascolto e per vendere pubblicità. Carissimi donne e uomini impegnati nel giornalismo: vi auguro di saper riconoscere ogni giorno le grandi responsabilità che esercitate 18 E R I C E R C A nella professione, di essere consapevoli del contributo che potete dare o negare alla vera realizzazione delle persone e del bene del Paese. E lo stesso augurio lo estendo a tutti gli attori dei processi di comunicazione: gli editori, i lettori, il mondo della pubblicità... Il modo prevalente di fare comunicazione – cioè la rappresentazione isterica del reale - falsa la percezione della realtà e causa disagio concreto. E si realizza così un tragico paradosso: la comunicazione, quella facoltà che consente all’uomo di diventare e di essere ciò che veramente è, si sta invece volgendo contro di lui degradandone la caratteristica fondamentale: la sua umanità. Per scacciare questi sentimenti negativi che i processi di comunicazione generano, dobbiamo ripartire proprio dalla verità, dall’innestare il racconto fedele degli episodi della realtà dentro un orizzonte alto e autentico di senso complessivo. Dalla passione personale al benessere collettivo Il clima di scoraggiamento e di depressione di cui abbiamo detto all’inizio, rischia di diventare cronico, intrappolando il Paese e i cittadini nei propri mali, bloccando o rallentando la crescita e lo sviluppo delle comunità e delle persone. Da dove ripartire? Quale scossa potrà svegliare il Paese dal suo torpore? Sono sicuro che i giornalisti possano fare davvero tanto. Ci sono modelli alternativi di vita da raccontare. Ci sono persone e comunità che attendono di essere narrate perché hanno intuizioni, progettano, studiano, lavorano, conseguono successi. n. 2/2010 S T O R I A , C U L T U R A Mostriamo il Paese che “ce la fa”, mostriamo l’azione di quanti operano per uscire dalla crisi morale, sociale, economica, politica. Mostriamo la loro volontà, la loro passione, la forza, la generosità, la lungimiranza: atteggiamenti quotidiani ma che diventano straordinari in un momento in cui l’ordinario pare essere sempre più l’egoismo, l’avidità, le scorciatoie, la corruzione, l’immoralità… Non serve creare ingenue rubriche di buone notizie, ma recuperare passione per la vita reale della gente, aiutarla a ripartire, sostenerla nel suo darsi da fare. La situazione pare speculare a quella che l’Italia ha sperimentato alla fine della seconda guerra mondiale: distruzioni, limitazioni delle libertà, macerie, povertà, frammentazioni, depressione… Noi però oggi non ne siamo tutti consapevoli. I nostri padri erano consci della gravità della situazione perché toccavano con mano quelle macerie, la povertà li privava del cibo quotidiano, la costrizione della libertà li limitava anche fisicamente. Noi invece rischiamo di essere vittime del benessere che ci rende ciechi e sordi, tanto da non accorgerci di quante disuguaglianze ancora affliggano il mondo e di quanto le nuove povertà, morali e spirituali anzitutto, le ferite del corpo e ancor più dell’anima impoveriscano e spengano la nostra stessa umanità. Raccontare la realtà aiuta a comprendere il reale per quello che è in profondità, a dare a ogni fenomeno il nome vero. La verità è l’unica via che possa condurci alla consapevolezza del momento presente, è l’unica via che possa spingere a quel sussulto collettivo capace di toglierci dalle secche in n. 2/2010 E R I C E R C A cui siamo arenati. Titolare giornali e telegiornali con i sintomi del male o con pretestuose ricostruzioni della realtà per nascondere la gravità della situazione non è la strada per uscire dalla crisi. Per recuperare un clima complessivo più sereno, nella comunicazione e soprattutto nel Paese, oltre a denunciare con forza i sintomi del male, proviamo – con maggiore decisione - a ricercarne onestamente le cause, proviamo a dare voce a chi è credibile e ha intuito una cura per la guarigione e magari già la sta sperimentando con successo. Le promesse di libertà generate in continuità dalla cultura dell’autonomia assoluta hanno prodotto un mondo sociale e culturale povero. Altra è la strada da percorrere: si tratta di ritrovare la passione per il lavoro, la famiglia, la città, i percorsi di crescita personali. Alziamo lo sguardo al mondo, spingiamolo fino al cielo: non lasciamoci rapire e imprigionare solo da quanto sta entro il giardino di casa. Torniamo a guardare al futuro, alla possibilità di un futuro migliore. Questa tensione ideale che permetterà al Paese di ripartire non è assente affatto dalle nostre comunità: solo non è oggetto di attenzione e di narrazione e non viene adeguatamente amplificata. A voi giornalisti auguro di vivere con passione la vostra professione, di avere a cuore il vostro futuro, quello della vostra famiglia e del vostro Paese: così riconoscerete e metterete in circolo le energie positive che già sono operanti tra noi. La passione riconosce la passione: vale per il giornalista che vuole raccontare la realtà secondo verità, vale anche per l’utente dei media che davanti alla passione 19 Non serve creare ingenue rubriche di buone notizie, ma recuperare passione per la vita reale della gente, aiutarla a ripartire, sostenerla nel suo darsi da fare. DESK S T O R I A , DESK C U L T U R A rimane affascinato e ne è mosso interiormente. Lasciamoci contagiare dalla passione “sana”, sapendo che è sempre in agguato il rischio di scambiare la passione con il livore o l’accesa militanza di una parte, in contrapposizione con le altre. La vera passione – quella di Gesù ce lo insegna in modo insuperabile – non è mai contro qualcuno ma sempre a beneficio di tutti. Parlandovi con il cuore e la responsabilità di un pastore d’anime mi sento di offrirvi ancora qualche suggerimento che so corrispondere ai vostri desideri più profondi. La passione vi sia da guida nel lavoro: sarete così immunizzati dalla tentazione di perdervi nel racconto delle banalità che altri potranno usare per distrarre il Paese dalla necessaria presa di consapevolezza dei propri mali. Siamo in una situazione di crisi: assumiamoci per primi il compito di fare qualcosa per uscirne, visto che in troppi stanno abdicando a questo dovere morale caratteristico dei buoni cittadini. Aiutiamo la gente a reagire alla depressione e all’immoralità, stimoliamola a desiderare un Paese migliore, mostrando che è possibile costruirlo ed evidenziando chi già lavora per un futuro migliore. O il giornalismo diverrà protagonista di un simile racconto oppure, se cederà completamente alle logiche di potere, si degraderà fino all’irrilevanza, come è stato per altre funzioni un tempo fondamentali della società. La passione positiva di tanti giovani, la loro competenza, la loro voglia di sperimentare, di giocarsi personalmente e di costruire futuro ci siano di esempio e ringiovaniscano anche la nostra stessa passione. 20 E R I C E R C A Abbiamo bisogno di giornalisti responsabili, ne ha bisogno il Paese. Dunque, non rassegniamoci! Perché? Trovo la risposta in Dostoevskij: perché io ho visto la verità, perché io ho visto e io so che gli uomini possono essere belli e felici senza perdere la possibilità di vivere sulla terra. Io non posso e non voglio credere che il male sia la condizione normale degli uomini (Il Sogno di un uomo ridicolo). Dionigi Tettamanzi n. 2/2010 S T O R I A , C U L T U R A E R I C E R C A FAREMO (ANCORA) NOTIZIA? LA PROFESSIONE È AL BIVIO ANTONIO SCIORTINO possibile coniugare verità e informazione? Oggi, pare che questo binomio sia in sofferenza. Come giornalisti, quanto a credibilità, non siamo al massimo nell’opinione della gente. Ci considerano “poco obiettivi” e “di parte”. O a “servizio degli interessi di qualcuno”. Opinioni avvalorate da ricerche ben precise (vedi Il futuro del giornalismo, settembre 2008, commissionata dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia a Enrico Finzi, dell’agenzia AstraRicerca). Pare che non abbiamo più a cuore la ricerca della verità e il servizio ai lettori. Che, dovrebbe essere l’unico obiettivo per chi fa informazione. Oggi, siamo messi in discussione anche dall’avvento del digitale e dall’”orgia di notizie multimediali”, che ci arrivano in ogni ora del giorno. Ognuno può farsi un “palinsesto personalizzato”, passando da un mezzo all’altro, a cominciare dal telefonino. Di fronte a questa vasta offerta multimediale, che corre rapidamente sul web, qual è il ruolo del giornalista: con quale professionalità, con quale etica? La professione è a un bivio. E qualcuno si chiede se c’è ancora bisogno dei giornalisti. È n. 3/2010 Internet è una grande opportunità. Ma non è privo di rischi. Soprattutto quando trasforma il reale in virtuale. E il virtuale in reale. Paradossalmente, l’immensa mole di notizie, può renderci più ignoranti. Non è automatico che più dati abbiamo più sappiamo. Perché Internet livella tutto, notizie vere e autentiche bufale, fatti rilevanti e quelli insignificanti. Tutto trattato allo stesso modo. E con la stessa rilevanza. Sul piano dei valori, poi, contribuisce ad accrescere quella “deriva relativistica” o “relativismo morale”, denunciato in più occasioni da Benedetto XVI. Oggi, più che in passato, nel mondo multimediale che monta e smonta le verità in continuazione, c’è bisogno di una nuova figura di giornalista, capace di operare contestualmente su diverse piattaforme di comunicazione. Il futuro non è nello scontro tra un mezzo e l’altro, tra il cartaceo e l’on line, ma nell’integrazione tra on e off line. Cambiano modi, tempi e organizzazione del lavoro. Ma ai nuovi mezzi non corrispondono nuovi valori. Che per la professione sono quelli di sempre. A cominciare dall’amore e la passione per la verità. E da quell’onesta mediazione che aiuta gli utenti a non restare “impigliati nella rete” e a capire la realtà. 21 Antonio Sciortino, giornalista, Direttore Famiglia Cristiana DESK S T O R I A , Nonostante l’insoddisfazione prevale nel pubblico l’idea che il ruolo del giornalista è quanto mai utile e indispensabile. E questo grazie ai tanti esempi di giornalismo appassionato. DESK C U L T U R A Oggi, purtroppo, come operatori dell’informazione abbiamo perso credibilità. Siamo dediti alla spettacolarizzazione della notizia, che non si ferma neanche davanti al dolore e alla tragedia. Come ad Avetrana, paese trasformato in set televisivo, con una logica da “Grande Fratello”. Tutti investigatori e tutti protagonisti davanti alle telecamere. E non una parola di pietà per la povera vittima. Abbiamo trasformato la realtà in finzione. Convinti che il “cinismo” sia un ingrediente indispensabile per la professione. E che lo scoop valga più della dignità della persone. Così come rincorriamo un’informazione scandalistica, perché lo vuole il pubblico, perché fa vendere più copie, perché accresce l’audience. Un alibi, a mio parere, per il disimpegno di chi cerca scorciatoie anche nel campo dell’informazione. Nonostante l’insoddisfazione, prevale nel pubblico l’idea che il ruolo del giornalista è quanto mai utile e indispensabile. E questo grazie ai tanti esempi di giornalismo appassionato. E a giornalisti competenti e credibili, che si mettono a servizio dei lettori e della verità. Anche quando costa. Ed è a rischio della vita, come inviati nel mondo a raccontare conflitti e guerre. O quando si indaga sulla malavita organizzata di casa nostra. Alla domanda spesso insoddisfatta di buona informazione, corrisponde un campo aperto per operare. Ma da dove ripartire? Forse, cominciando a raccontare di più la realtà e la vita di tutti i giorni, quella dei cittadini e dei loro problemi reali: povertà, lavoro, disoccupazione, scuola, giovani senza futuro, integrazione degli immigrati, conviven- 22 E R I C E R C A za civile in una società che è già multietnica e multireligiosa. Giornali e Tv, oggi, più che informare sono usati come strumento di consenso per battaglie politiche o di potere. O, peggio, come “armi mediatiche” per delegittimare o distruggere qualcuno. Dal “dossier” di approfondimento siamo passati al “dossieraggio” contro la “vittima” di turno. Non importa più che i fatti siano veri, basta che siano verosimili. E’ un’informazione che prima forma le opinioni, poi cerca le evidenze! Il “metodo Boffo” ha fatto scuola. Passerà nella storia del giornalismo come “killeraggio mediatico”. La dura contrapposizione oggi in atto, non solo in politica, ma tra gli stessi mezzi di informazione è una sorta di “guerra civile verbale”, che sta avvelenando ogni rapporto, a tutti i livelli. I giornalisti dovrebbero fare i giornalisti e basta. Senza altro interesse. Assistiamo, invece, a politici che si sostituiscono ai giornalisti; giornalisti che fanno i politici, o i giudici o gli uomini di spettacolo. Difficile distinguere il confine tra informazione, militanza, spettacolo e intrattenimento. Bisogna tornare a raccontare la realtà di questo Paese. Non distrarre l’opinione pubblica con temi marginali. Come scriveva don Leonardo Zega, mio predecessore alla direzione di Famiglia Cristiana, “bisogna avere la pazienza di stare addosso alla vita, cercare di vederla, conoscerla dall’interno, se si vuole parlarne con qualche competenza. La vita odia le schematizzazioni. Prima di parlare, bisogna avere la pazienza di ascoltare e discernere. E avere anche tanta cura. Nel senso di ‘prendersi cura’ degli altri e delle loro situazioni. E poi n. 2/2010 S T O R I A , C U L T U R A trovare le parole giuste per dirlo, e per raccontare”. Su un tema come l’immigrazione, ad esempio, un’informazione che si rifà a stereotipi e luoghi comuni non aiuta il Paese a crescere. Una cattiva informazione rafforza i pregiudizi della gente e alimenta paure e insicurezze. Se non vera e propria xenofobia. Ma chi si impegna più a fare cronache oneste e obiettive su questi poveri disgraziati? Se ne dà sempre e solo un quadro in negativo. Enfatizzando qualsiasi episodio criminale che vede protagonisti gli stranieri. Diverso il trattamento quando si tratta di italiani. Difficilmente si raccontano storie di vera integrazione, che pur esistono nel Paese. E si nasconde un dato rilevante (tra i tanti), che, col loro lavoro, contribuiscono al dieci per cento della ricchezza nazionale. Perché? Forse, perché non è “politicamente” corretto. Non è funzionale a una politica ispirata a principi di indesiderabilità, più che di inclusione e accoglienza. Dei fatti di Rosario, la stampa se ne è occupata solo quando sono scoppiati casi di violenza. Nessuno prima aveva raccontato le condizioni di vera schiavitù e degrado di vita, da bestie, in cui vivevamo migliaia di immigrati nordafricani. Qual è, allora, il ruolo del giornalista? Innanzitutto, quello di sentirsi a disagio con le “verità prefabbricate”. Quali che siano i referenti. Se non c’è questa attitudine a raccontare i fatti con onestà intellettuale, meglio non fare questa professione. La libertà del giornalista è il fondamento della libertà di stampa. “La verità vi renderà liberi”, ci ricorda il Vangelo. E il giornalista deve essere libero per raccontare la verità. Difficile n. 2/2010 E R I C E R C A servire un padrone e la verità al tempo stesso. Scriveva ancora don Zega: “Mi sento profondamente vicino a chi fatica e lavora per cercare la verità. Non a chi presume o pretende di fornirla come fosse un piatto già “confezionato”. Potremmo disquisire a lungo su che cos’è la verità. Ma su alcuni criteri dovremmo essere d’accordo. A cominciare dalla completezza dell’informazione, che vuol dire fornire tutti gli elementi a disposizione perché ci si possa fare un’opinione corretta. Senza reticenze e senza nascondere nulla. Se per i credenti è un peccato grave quello d’omissione, lo stesso vale per la nostra professione, quando si omette di dire qualcosa per calcoli precisi. Quando si nascondono i fatti o si manipolano le notizie. Paradossalmente, il successo del telegiornale di Mentana, oltre alla sua bravura e credibilità professionale, è dovuto al fatto che “dà le notizie”. Come si sente dire in giro da tanta gente. E questo la dice lunga sullo stato generale dell’informazione televisiva. Ma non solo. Ricerca della verità vuol dire anche essere meno omologati e autoreferenziali. Portare, cioè, all’attenzione dell’opinione pubblica temi “scomodi” o controcorrente. Non solo gossip e pettegolezzi. Parlare, ad esempio, delle guerre dimenticate o dei tanti drammi del mondo, a cominciare dalle nazioni più vicine. Parlare dell’Egitto che “brucia”, più che della “nipotina” di Mubarak. La globalizzazione ha reso il mondo come un villaggio, nessuno può più dire che non lo riguarda quel che accade altrove. Si può fare un’informazione a “testa alta” e “schiena dritta”, nel rispetto della propria deontologia. I condiziona- 23 Qual è, allora, il ruolo del giornalista? Innanzitutto, quello di sentirsi a disagio con le “verità prefabbricate”. Quali che siano i referenti. DESK S T O R I A , Un’informazione indipendente e di qualità, che faccia ancora da “cane da guardia al potere” è ingrediente indispensabile della democrazia. E’ la sua cartina di tornasole. DESK C U L T U R A menti dall’esterno spesso sono un alibi al disimpegno. O all’assenza di etica professionale. La stampa di ispirazione cristiana non è estranea a tutto ciò. Ha stessa dignità, purché accetti la competizione e le sfide del mercato. Evitando la comodità dei sacri recinti. Senza complessi di inferiorità. Ma, al tempo stesso, senza la presunzione di voler imporre la verità. La stampa cattolica partecipa pienamente al confronto e al dibattito che è nel Paese. Su tutti i temi e in dialogo con tutti. “Non solo casa e chiesa”, come recitava una nostra campagna promozionale. Ma anche la “piazza”, luogo pubblico dove si incrociano credenti e non credenti. In redazione abbiamo uno slogan: “Nessun argomento è tabù”. Purché si abbia la competenza necessaria per affrontarlo. E lo si sappia situare dal punto di vista cristiano. Che è il nostro punto di vista, alla luce del Vangelo e della dottrina sociale della Chiesa, che mette al centro dell’attenzione la dignità della persona e l’uguaglianza di tutti gli esseri umani. Senza distinzioni. L’etichetta “cristiana” non è una limitazione. Semmai è un valore aggiunto. Un “di più” di responsabilità nella ricerca di senso e di significato nel flusso delle informazioni. O nel dimostrare più coraggio nella denuncia dei mali e nella difesa dei più deboli, che non trovano spazio sui mass media. La stampa cattolica, per svolgere bene il proprio ruolo, deve essere pienamente ortodossa sulle verità di fede, ma libera e autonoma, nonché responsabile, su tutto ciò che è oggetto di legittimo dibattito e confronto. E suscitare “sane inquietudini”, scuotere un’opinione pubblica silente e addormentata. Anche all’inter- 24 E R I C E R C A no della stessa comunità ecclesiale, dove ci vorrebbero più voci e più vivacità. Soprattutto da parte dei fedeli laici, che sono quasi scomparsi dalla scena pubblica. La diversità di opinione non è eresia, ma ricchezza. Se si ha tutti di mira il bene comune. Nessuno ha la sfera di cristallo per leggere con chiarezza una realtà complessa come quella d’oggi. Anche al tempo del digitale, resta sempre valido il bisogno di ricercare, informarsi, documentarsi. Le nuove tecnologie non ci dispensano dall’uso corretto delle fonti, dai controlli severi prima di “sparare” una notizia. E magari fare qualche “vittima”. Va poi ristabilito il “patto di lealtà” con i lettori: loro devono sapere che di noi possono e devono fidarsi, perché non li inganniamo, perché la nostra informazione è al loro servizio, e non dei potenti di turno. Un’informazione indipendente e di qualità, che faccia ancora da “cane da guardia al potere” è ingrediente indispensabile della democrazia. E’ la sua cartina di tornasole. Potremo ridare più dignità alla comunicazione, se entriamo nella logica del servizio, più che del potere. Servizio che si avvale oggi di tecnologie sempre più sofisticate e veloci, ma che va fatto ancora “coi piedi”. Oltre che con intelligenza e col cuore. Nel senso che occorre “consumare scarpe”: andare a vedere, verificare e poi scrivere. Lasciando parlare i fatti e le persone. Con fedeltà e verità. Antonio Sciortino n. 2/2010 S T O R I A , C U L T U R A E R I C E R C A 110 ANNI FA, CON LA PRIMA DELLA ‘FRANCESCA DA RIMINI’, NASCEVA LA TERZA PAGINA CRONACA E GOSSIP DI UN’ INSUCCESSO GIORGIO TONELLI N ella storia del giornalismo c’è anche Francesca da Rimini. Galeotto, in questo caso, fu D’Annunzio. Francesca è infatti la protagonista della nascita della ‘Terza pagina’, cioè la pagina culturale. E’ l’11 dicembre del 1901 (cioè 110 anni fa) quando Alberto Bergamini, da meno di un mese fondatore e direttore del quotidiano “Giornale d’Italia”, decide di far seguire da ben quattro giornalisti la prima al teatro Costanzi di Roma (ora teatro dell’Opera) della “Francesca da Rimini” di Gabriele D’Annunzio e interpretata da Eleonora Duse. L’intuizione è ottima. Quando nasce la Terza Pagina l’amore fra Gabriele D’Annunzio ed Eleonora Duse è al suo apogeo. Lei ha 43 anni ed è nel fiore della sua carriera. Lui ne ha cinque in meno, 38, portati però male. Già in gran parte calvo, ha pure i denti cariati. Ma è comunque uno straordinario affabulatore. Un anno prima, D’Annunzio aveva pubblicato il romanzo “Il fuoco”, ispirato alla sua relazione con Eleonora Duse, suscitando anche critiche vivaci da parte degli ammiratori dell’attrice. n. 2/2010 Inoltre per l’allestimento della “Francesca da Rimini”, la Duse, di tasca propria, sborsa ben 400mila lire, una cifra esorbitante per l’epoca. Che rischia però di lasciarla sul lastrico. La serata si annuncia comunque di una certa importanza culturale. D’Annunzio è molto abile nelle pubbliche relazioni e nel saper costruire l’attesa dell’evento. Ma, per la loro relazione amorosa, D’Annunzio e la Duse suscitano anche un certo interesse mondano. Il gossip del resto ha sempre funzionato come elemento di curiosità e richiamo. Alberto Bergamini è un direttore che ha dei numeri. E poi è single, non ha legami familiari, tutto casa (poca) e redazione (tanta). E’ambizioso e vuol ben figurare coi suoi sponsor, Antonio Calandra e Sidney Sonnino e soprattutto ha solo 30 anni. Nato nel bolognese, a San Giovanni in Persiceto, mescola la passione giornalistica a quella teatrale. A neanche 18 anni scrive i testi del dramma ‘Alice’. Presentato anche all’ ‘Arena’ di Bologna, lo spettacolo è giudicato mediocre, ma la compagnia e l’autore vengono applauditi. Di un altro lavoro tea- 25 Giorgio Tonelli, giornalista Rai, Bologna DESK S T O R I A , C U L T U R A trale ‘Battaglie della vita’ è conservato il testo. Giovanissimo, Bergamini collabora con ‘Il Resto del Carlino’, poi presto dirige “Il Corriere del Polesine’ per finire a fare il segretario di redazione al ‘Corriere della Sera’ di Luigi Albertini. Quindi l’avventura romana per fare un quotidiano critico nei confronti di Giolitti, refrattario ai trasformismi del tempo, di orientamento liberal-nazionale, rivolto soprattutto al Centro-Sud, anche per evitare di entrare in concorrenza con l’amico Albertini del ‘Corriere della Sera’. La ‘Terza pagina’ diventa lo spazio riservato alla cultura, alle recensioni, ai racconti agli elzeviri (da ‘elzevir’ nome di un particolare carattere particolarmente leggibile ed elegante inventato da una famiglia di stampatori olandesi, gli Elzevire). DESK Alberto Bergamini: un servizio da fare colpo E’ in questo humus che nasce la ‘Terza pagina’. Bergamini decide dunque di mandare quattro giornalisti. Uno per la recensione, un altro per la partitura musicale, un terzo per le scenografie e il quarto per la cronaca della serata. Ma dove mettere tanto materiale? In ordine sparso? Meglio in una sola pagina monografica. E, non essendo utilizzabile la prima (specchio di tutto il giornale), meglio la Terza, quella che capita sotto l’occhio del lettore appena girato il primo foglio. In questo modo la ‘Terza pagina’ favorisce l’immedesimazione e l’impressione di partecipazione a un grande evento cultural-mondano. Dunque, il ‘Giornale d’Italia’ dell’11 novembre 1901 esce con sei pagine, contro le tradizionali quattro dei giorni feriali. In prima pagina è pubblicato un pezzo su un’intera colonna per richiamare l’attenzione del lettore e incuriosirlo sull’argomento mentre tutta la terza è dedicata all’evento. Da allora, la ‘Terza pagina’ diventa lo spazio riservato alla cultura, alle recen- 26 E R I C E R C A sioni, ai racconti agli elzeviri (da ‘elzevir’ nome di un particolare carattere particolarmente leggibile ed elegante inventato da una famiglia di stampatori olandesi, gli Elzevire). Ricordando il giorno in cui nasce la Terza Pagina Bergamini scrive, quando già ha 88 anni: “ Dissi (alla redazione) che la tragedia dannunziana, fragorosamente annunciata, aveva non minore importanza di un discorso dell’on. Giolitti ai suoi elettori di Dronero o di una crisi ministeriale o di un concitato congresso socialista. Dunque volevo per la Francesca da Rimini che veniva alla ribalta del teatro Costanzi un servizio da fare colpo”. Diego Angeli: una mirabile ricostruzione estetica L’ampia relazione dell’agitata prima nazionale a Roma ha un titolo in realtà non molto originale “La Francesca da Rimini di Gabriele D’Annunzio al teatro Costanzi”. Dunque, nessun riferimento al sostanziale insuccesso della serata, di cui è ben cosciente solo Eugenio Checchi, anche se fra le righe dei testi, soprattutto di Nicola D’Atri e Domenico Oliva, si coglie un certo disagio per dover assecondare il Vate proteso nella costruzione del suo mito. Il primo articolo è di Diego Angeli. Elenca i vip presenti a teatro, gli esponenti del governo, del parlamento, della stampa straniera, marchesi e contesse. “Per Roma è stato quello di ieri sera il primo e più grande avvenimento mondano della stagione….” Quindi Angeli descrive le scene con la corte romagnola allo scorcio del XIII secolo con ampie sale e volte affrescate, stemmi ed armi. La dimora dei Polentoni non meno fastosa di quella dei Mala- n. 2/2010 S T O R I A , C U L T U R A testa con vesti, stoffe, broccati e ricami. Scrive, quasi estasiato Diego Angeli, evidentemente gran fan del Vate: “Questa straordinaria rievocazione di un secolo è dovuta all’intelletto colto e geniale di un grande artista. Gia nei versetti dell’‘Isotteo’ Gabriele D’Annunzio aveva dimostrato di avere nello spirito la visione del mondo medievale italiano. Questa volta il fantasma è divenuto realtà ed egli ha potuto presentare al pubblico l’immagine viva di una Corte sontuosa di un signore romagnolo verso la seconda metà del XIII secolo. Bisogna essergli grati del tentativo e bisogna anche rivolgere un pensiero di ammirazione e riconoscenza alla grande artista che contribuì a dar vita a questo bel sogno d’arte. Eleonora Duse, senza rivolgersi a nessuno, senza implorare nessun aiuto, convinta del suo ideale, ha voluto che questa rappresentazione della ‘Francesca’ fosse veramente degna del suo nome e del teatro italiano…. con la semplicità e la grandezza della sua anima eletta ha offerto al pubblico italiano la più mirabile ricostruzione estetica che un poeta abbia mai potuto desiderare”. Nicola d’Atri: pubblico troppo nervoso Segue una breve nota del giornalista Nicola D’Atri sulla musica del maestro Antonio Scontrino. Scrive D’Atri “Le angosce d’amore di Francesca, la spigliatezza dei cavalieri che vanno alla guerra, il bacio degli amanti, una melodia dolce davvero, la denuncia del feroce Malatestino, la vendetta del tradito Gianciotto e la morte dei due cognati sono peripezie descritte con evidenza di espressione e di colorito”. n. 2/2010 E R I C E R C A Poi arrivano le note dolenti “Il lavoro però è solo ricco di buone e nobili intenzioni che onorano chi lo compose. Sventuratamente - sottolinea il critico musicale- il pubblico nervosissimo e non abituato al duplice spettacolo poetico e musicale, all’infuori dell’antifona che fu ascoltata con intensa attenzione e vivamente applaudita fra i richiami insistenti al maestro non fece caso della musica, rumoreggiando d’impazienza come in molti punti della tragedia”. Insomma, bravo il maestro Falchi ed ottima l’esecuzione dell’orchestra, ma pubblico inadatto alla grandezza dell’evento. Domenico Oliva: non dirò degli altri e dell’insieme Denuncia quasi il complotto il critico Domenico Oliva: “Color che iersera s’accaloravano non intendevano disputare se l’opera drammatica debba essere scritta in versi o in prosa. Questione difficile, intricata nella quale i più fra i convenuti erano e si sentivano incompetenti. Credo piuttosto che vi fosse quello che si dice una montatura pro o contro il poeta: amici ed ammiratori fervidissimi da una parte: dall’altra gente che aveva in uggia l’avvenimento, preparato con troppo fasto e con troppa iattanza, l’afferma-zione dell’esistenza del capolavoro lanciata sicuramente prima che le cortine del sipario riaprissero per mostrare al pubblico tutto quel bel medioevo di tela e cartone. Da queste passioni diametralmente opposte ma singolarmente fittizie, è sorto il dramma che si è svolto nella platea, nei palchi, nelle gallerie del Costanzi, mentre sulla scena si rappresentava quello di Francesca. 27 DESK S T O R I A , DESK C U L T U R A Analizzando il secondo atto con la battaglia a Rimini nelle case fortificate dei Malatesta, il critico scrive: “ Il dramma familiare e la battaglia si nuocciono: la battaglia è estremamente lunga e confusa…Qui D’Annunzio non ha avuto né il concetto dell’unità drammatica, né la misura. L’effetto legittimo che egli aveva predisposto con cura sapiente e grande è mancato”. Nel terzo atto, Domenico Oliva rileva una eccessiva lentezza: “Molti particolari, disegni di ambiente, ricostruzione archeologiche, graziose inutilità, le quali fanno parere più lungo che mai il tempo”. Poi descrive Paolo mentre cerca di far leggere a Francesca il libro di Lancillotto: “Francesca tenta e non riesce che ha la vista confusa e si prova a distrarre il giovane amante e a distrarre se stessa andando al verone, lodando la bellezza del mare (ecco un’idea che Dante non ha avuto) invano, la lettura prosegue e si giunge al punto che li vince. Scena questa di cui ho già dubitato. Né l’averla veduta ha fugato i miei dubbi che il ritornare sui dieci versi che siano più belli al mondo mi è sembrato una temerarietà non felice”. Inoltre, ad esclusione della Duse, Oliva esprime il proprio disagio sulla recitazione: ”Eleonora Duse ha recitato il primo atto deliziosamente, colla sua voce divina piena di carezze, con quel suo accento spirituale che illumina e benefica gli ascoltatori. Poi trascinata nelle contraddizioni del dramma, preoccupata della tempesta che si scatenava nella sala di tratto in tratto, parve non potesse lottare contro le difficoltà le quali si facevano giganti”. Difende dalle contestazioni del pubblico Gustavo Salvini (Paolo Malatesta) ed Emilia Varini (Malatestino) ma con- 28 E R I C E R C A clude quasi sconsolato: “Non dirò degli altri e dell’insieme. Ed è silenzio che vale un giudizio”. Eugenio Checchi: molto fumo, poco arrosto Chiude la pagina la cronaca mondana arguta di Eugenio Checchi che firma il pezzo con lo pseudonimo Tom. Raccogliendo voci ‘in platea e fuori’ così si esprime Checchi: “Sfido io (diceva uno spettatore ancora tremante di commozione estetica) tira più un bacio peccaminoso di donna che le cento balestre saettanti dalla torre di Rimini”. E sugli scarsi entusiasmi del secondo atto con la battaglia aggiunge: “Anche dà noia tutto quel fumo greco che invade come fastidioso polverio il palcoscenico e la platea. Le gole sollecitate e vellicate tossono, i rumori delle gallerie aumentano, il contrasto delle disapprovazioni e degli applausi si fa più vivo. Tirata la tenda su quel secondo atto, pare che il partito contrario prevalga: ma allora con giovanile slancio (una cinquantina circa) scoppia come un uomo solo in una dimostrazione solenne di grida e applausi e l’autore si presenta tre volte ai tre inchini di prammatica…Dopo quel secondo atto della battaglia a base di pece greca, colgo nel corridoio dei palchi questo giudizio di un’Eccellenza “Molto fumo…e poco arrosto”. Siamo al quarto atto e le conversazioni negli ambulatori e nei corridoi aumentano d’intensità di nervosità. Se ne sentono di tutti i colori. Un discepolo imberbe, superuomo lattante grida gesticolando che questo è il vero testo tragico, libero da tutte le pastoie convenzionali, tantoché da ora in poi si potrà dare un calcio anche a Shakespeare. Un vicino n. 2/2010 S T O R I A , C U L T U R A vede che il tocco è dopo la mezzanotte e ci sono ancora da sentire due atti e commenta: “Viva la faccia di Silvio Pellico! Con lui almeno si andava a teatro alle otto, alle undici tutto era finito…” Finirà alle due di notte, dopo quasi sei ore . Checchi raccoglie alcune frasi del dramma “Parlando di Francesca che sorride fra le lacrime, dice una delle ancelle ‘tutte le sue lacrime ridon come la brina’. E un balestriere della torre parlando di lei afferma che ‘non v’è spada che sia diritta come lo sguardo dei suoi occhi’. Poi soggiunge ch’ella cammina più leggera di una lonza . Con dolcissima voce Francesca scandisce al terzo atto questo verso ‘è dolce cosa vivere obliando’. E molti altri potrei citarne, gemme di quella bella corona lirica,che posta in capo a Gabriele D’Annunzio per unanime consentimento di pubblici, lo può compensare ad usura della completa calvizie. Ma sono vicine le due dopo la mezzanotte. Il pubblico si rovescia in dipartiti torrenti verso le uscite. Colgo a frullo un breve dialogo fra due speculatori di borsa “Povera Francesca io lo dicevo che non poteva finire bene. Hai sentito quel balestriere quando ha gridato ‘Madonna Francesca è allo scoperto?’ ‘Ho sentito e che vuol dire?’ Vuol dire che la disgraziata giocava in Borsa al ribasso!’. Inorridii - conclude l’ironico Checchi - e caddi come corpo morto cade”. Gli altri giornali: un grande flop La cronaca del quotidiano di Bergamini risulta comunque ben più benevola di altri giornali che, in maniera ben più evidente, sottolineano l’eccessiva durata del dramma, il crollo delle scene, il fumo in sala per il fuoco dei n. 2/2010 E R I C E R C A combattimenti, gli spegnimenti di luci, i fischi e i pochi applausi. Nella stessa pagina del ‘Giornale d’Italia’ vengono riportate le sintesi dei giudizi di altri quotidiani sotto il titolo “La stampa lombarda”. Per ‘La Perseveranza’ la figura di Francesca non viene rispettata nella tragedia dannunziana “messa nel grande quadro dei conflitti medievali, Francesca quasi scompare”. Sul quotidiano ‘L’Alba’ si sostiene che “la parafrasi tragica nulla toglierà al V canto della Commedia né lo farà impallidire”. Per Giovanni Pozza del ‘Corriere della Sera’. “ La ‘Francesca’ non ebbe buon successo, ma non credo che il giudizio del pubblico romano possa essere definitivo…La Duse stessa recitò affannosamente, con grande monotonia d’intonazione, agitata da evidente sovreccitazione nervosa”. Simoni sul ‘Tempo’ nota come “troppo spesso il poeta tragico si lascia sopraffare dal poeta lirico”. Poco teneri anche Carducci, Pirandello: “Un testo senza vita” o Fusero “Prolisso, verboso, noioso, povero di pensiero e bolso d’enfasi”. Anche la stampa d’oltreoceano va giù pesante. Per il ‘New York Times del 15 dicembre 1901 si è trattato di una commedia “lenta e noiosa, fischiata a ragione dalla galleria”. E i fischi continuano anche nei teatri delle maggiori città italiane ove viene rappresentata nell’inverno 1901-1902 mentre migliore è l’accoglienza in Austria e Germania. Nel frattempo D’Annunzio accetta di alleggerire il testo di oltre mille versi ed mette maggiore linearità alla vicenda. Portata negli Stati Uniti da Eleonora Duse, la ‘Francesca da Rimini’ dopo l’iniziale insuccesso a Boston (dovuto anche 29 DESK S T O R I A , C U L T U R A all’ostilità americana nei confronti di D’Annunzio) riesce a conquistare New York e le tutte le altre città dove fa tappa. Merito comunque più della Duse e del suo mito che del testo dannunziano. DESK Da Saluzzo cinque nuovi abbonati La storia narra che, dopo qualche giorno dalla nascita della ‘Terza pagina’, anche dal piccolo comune di Saluzzo, roccaforte piemontese del liberalismo, arrivano all’amministrazione del ‘Giornale d’Italia’ cinque abbonamenti sottoscritti dal medico condotto, dal farmacista, da due maestre ed uno studente. Per gli intellettuali della provincia italiana e per i lettori colti è nata una specie di oasi fra la politica e la cronaca nera. Inoltre, a differenza di altri Paesi come Francia ed Inghilterra, in Italia la distinzione fra giornalismo e letteratura è sempre stata poco rigorosa. Bergamini avuta l’idea, la sviluppa nel corso degli anni, chiamando a collaborare gli scrittori più in voga del tempo e invitando “storici, filosofi e scienziati a uscire dalle università e dalle accademie per partecipare alla vita squillante di un giornale moderno”. Collaborano attivamente alla ‘Terza pagina’ i giornalisti Luigi Federzoni, Mario Missiroli e Goffredo Bellonci. Fra le firme più illustri del ‘Giornale d’Italia’ Benedetto Croce, Giustino Fortunato, Gaetano Mosca, Maffeo Pantaloni, Alfredo Oriani ma scrivono anche Antonio Fogazzaro, Luigi Capuana, Giovanni Pascoli, Luigi Pirandello, Alfredo Panzini, Giovanni Papini,Vilfredo Pareto, Marino Moretti. La formula viene presto copiata anche dagli altri quotidiani. La ‘Terza pagina’ diventa per tutti il ‘salotto 30 E R I C E R C A buono’. Bergamini nel 1920 viene nominato senatore da Giolitti che pure aveva combattuto tenacemente. Tornato per la terza volta alla presidenza del consiglio, Giolitti fa infatti ottenere la nomina di Bergamini a senatore nonostante appartenesse all’opposizione perché – spiega: “ Io apprezzo i giornalisti coerenti”. Da sempre liberal-conservatore, ma mai fascista, Alberto Bergamini lascia il ‘Giornale d’Italia’ dopo 22 anni, nel 1923 quando capisce che sul suo quotidiano si stanno allungando le mani del nascente regime. Muore a Roma nel 1962, all’età di 91 anni. Giorgio Tonelli n. 2/2010 S T O R I A , C U L T U R A E R I C E R C A PANORAMA DELLA STAMPA CATTOLICA SCRITTA IN ROMANIA RINATA CON NUOVO VIGORE DALLE CENERI DEL REGIME ANCA MARTINAS S Sono passati ventidue anni dalla caduta del regime dittatoriale comunista in Romania e si può parlare di importanti progressi per quanto riguarda i mass media, non solo per la modernizzazione dei mezzi ma anche per un’ampia possibilità di scelta per il pubblico. Non dimentichiamo che, negli anni del totalitario, quei mezzi erano pochi e totalmente controllati dal regime, essendo un monopolio del potere e, più che rappresentare fonti di informazione, erano veri strumenti di disinformazione e propaganda. Oggi c’è una grande possibilità di scelta tra la rete televisiva e radiofonica pubblica, con più canali, e le reti private, che funzionano tutte in un quadro competitivo secondo leggi di mercato. Anche i giornali hanno conosciuto un’importante crescita, con un’ampia varietà di generi, con l’aumento delle tirature e delle cifre d’affari, con lo sviluppo dei canali di distribuzione, con la modernizzazione tecnologica e il passaggio al digitale e alle rotative a grande velocità. Tuttavia, n. 3/2010 nonostante la qualità tecnica in costante miglioramento, i contenuti tendono a svolgere soprattutto una funzione di divertimento e di informazione che punta più al sensazionale e allo scandalistico che all’approfondimento. In questo quadro generale, la stampa cattolica scritta è molto, come dire, locale. In Romania ci sono undici diocesi: sei romano-cattoliche (quattro delle quali di lingua ungherese) e cinque greco-cattoliche. E’ certamente una situazione di varietà che, sfruttata al meglio, potrebbe anche portare a ottimi risultati. Si utilizza il termine “locale”, o si potrebbe usare quello di “individuale”, per definire la stampa cattolica perché ogni diocesi ha le proprie pubblicazioni, spesso più di una, in quanto, oltre la rivista diocesana che può essere settimanale o mensile, ci sono quelle dei vari seminari o istituti di teologia, o anche di movimenti, come quella, per esempio, dei Focolari. Ma esse rimangono tutte limitate entro i confini della diocesi, anche perché la diffusione di quelle pubblicazioni si fa a livello locale, nelle parrocchie. Una rivista 31 Anca Martinas, giornalista, Radio Vaticana DESK S T O R I A , Durante mezzo secolo di regime comunista non era stato più permesso che uscissero pubblicazioni cattoliche: niente giornali, riviste o libri dei cosiddetti “reazionari cattolici al servizio di una potenza straniera”, come si era definiti dal potere politico dell’epoca. DESK C U L T U R A diocesana non si trova in edicola, anche perché ha basse tirature e i costi di diffusione sono altissimi, o, forse, anche per la permanenza di una limitazione psicologica da parte dei cattolici stessi che, essendo in Romania in minoranza (all’incirca il sei per cento), preferiscono restare un po’ nell’ombra e non avere troppa visibilità. Ricordiamo che per quasi cinquant’anni la Chiesa greco-cattolica è stata fuori legge mentre quella romano-cattolica era solo tollerata. Parliamo di condizioni in cui era impensabile proporre una visione cattolica e forse si portano ancora i segni della paura di esprimere il proprio punto di vista; come minoranza, infatti, si ha l’impressione di contare poco nella società. C’è anche un altro aspetto sfavorevole, e che sta soltanto ai cattolici risolvere. Non si ha una pubblicazione comune, di tutti fedeli romano-cattolici della Romania, con la quale provare a presentarsi a livello nazionale e ottenere una maggiore diffusione. La Chiesa ortodossa, al contrario, ha una pubblicazione del genere, che si può trovare in edicola, con un’edizione centrale e quattro locali. Dobbiamo certamente prendere in considerazione il potenziale economico della Chiesa ortodossa in Romania: il giornale di cui si è parlato viene finanziato con il contributo di tutte le parrocchie, tante in un Paese in cui il novanta per cento della popolazione è di religione cristiano-ortodossa. E’ vero che i cattolici hanno un sito vicino alla Conferenza episcopale: www.catholica.ro copre tutte le realtà cattoliche. Ma ci vorrebbe un giornale o una rivista cattolica nazionale che 32 E R I C E R C A trasmettesse la visione della Chiesa latina, reperibile in edicola. E, entro questi limiti, si può parlare di una vera esplosione mediatica cattolica in Romania, avvenuta progressivamente dopo la caduta del regime totalitario. All’inizio, chiaramente in maniera timida e con mezzi rudimentali, poi sempre più accurata nei contenuti e nella presentazione grafica. Durante mezzo secolo di regime comunista non era stato più permesso che uscissero pubblicazioni cattoliche: niente giornali, riviste o libri dei cosiddetti “reazionari cattolici al servizio di una potenza straniera”, come si era definiti dal potere politico dell’epoca. I pochi testi che circolavano erano tradotti e dattiloscritti in più copie e in gran segreto da qualche prete che rischiava per questo la libertà. Essi erano distribuiti tra la gente di nascosto e venivano considerati più preziosi dell’oro. Quando ora si vedono i Messali stampati su carta pregiate e rilegati in pelle non si può non pensare con commozione ai Messali che venivano usati nelle parrocchie durante il comunismo, copiati a macchina da un originale che era diffuso di nascosto nelle diocesi. Chi scrive conserva alcuni cimeli che hanno non soltanto un valore sentimentale, ma soprattutto un forte valore morale. Per esempio un piccolo quaderno che contiene preghiere scritte a mano; il libriccino di orazioni di una madre, scritto attorno agli anni 50. Siccome i libri di preghiere non esistevano, la gente le scriveva a mano sui quaderni. C’è un altro cimelio: una rivista per bambini del 1947. E’ stata trovata da una bambina in casa della n. 2/2010 S T O R I A , C U L T U R A nonna, che viveva in un paesetto della Moldavia romena, Barticesti. Non era sua la rivista, ma di un suo compaesano che, prima che i comunisti arrivassero al potere, era un fedele lettore della stampa cattolica, alle cui pubblicazioni era abbonato e delle quali non si disfaceva mai, così che ne aveva riempito la soffitta di casa. Quando ne fu vietata la pubblicazione e diffusione, l’uomo, di nome Petru Fechet, fece circolare le sue riviste tra la gente del paese, in modo di mantenere vivo lo spirito di fede. Quella copia è stata regalata a chi scrive, che la conserva religiosamente non solo come ricordo, ma soprattutto come simbolo della resistenza cattolica, vissuta da gente semplice ma di grande fede in Dio, durante la dittatura comunista. Si è passati lentamente da una penuria assoluta di mezzi di comunicazione cattolici a una loro rinascita ed espansione quantitativa e qualitativa. Il sito www.catholica.ro, già citato, fa anche da agenzia. L’unica radio cattolica è Radio Maria, con una redazione in lingua romena e un’altra in ungherese, con una copertura di trasmissione in FM soltanto per quattro città della Transilvania: Oradea, Zalau, Blaj e Baia Mare. Non è stato possibile ottenere una licenza di trasmissione anche a Bucarest, nonostante tutti i tentativi. A Iasi, nella Moldavia romena, dove i romano-cattolici sono numerosi, si è molto desiderato disporre di una radio cattolica e si è realizzato un progetto che ha ottenuto i complimenti della commissione, ma la licenza è stata poi concessa a una emittente ortodossa che trasmette anche a Bucarest, dove Radio Mario non è riuscita a ottenere, n. 2/2010 E R I C E R C A come si è detto, la licenza di trasmissione. Anche a non voler avanzare supposizioni, si percepisce un certo tentativo da parte della Chiesa ortodossa di monopolizzare i mass-media, soprattutto quelli che riescono a raggiungere un gran numero di persone. Comunque i cattolici della Romania continuano a utilizzare molto la stampa scritta: c’è una lunga lista di pubblicazioni importanti, almeno 23, di cui 16 in lingua romena, tra riviste settimanali, quindicinali, mensili e trimestrali, e 7 in lingua ungherese. Ci sono i mensili diocesani, come “Actualitatea crestina” (“L’Attualità cristiana”) dell’arcidiocesi di Bucarest, “Lumina crestinului” (“La luce del cristiano”) della diocesi di Iasi, e in ungherese “Vasàrnap” (“La domenica”), settimanale, e “Kerestèny Szò” (“Parola cristiana”), mensile, ambedue della diocesi di Alba Iulia. E le pubblicazioni delle diocesi greco-cattoliche, come – per citarne solo alcune – i mensili “Unirea” (“L’unione”) di Blaj e “Vestitorul Unirii” (“L’Annunciatore dell’unione”) di Oradea, e il bimensile “Viata crestinà” (“La vita cristiana”) di Cluj. Ci sono inoltre riviste per bambini, come il trimestrale “Isus, prietenul copiilor” (“Gesù, l’amico dei bambini”) della diocesi di Iasi, il mensile “Suflet tànàr” (“Anima giovane”) per i fanciulli di quella di Bucarest, “Tinerimea crestinà” (“La gioventù cristiana”) di Baia Mare, “Kistetsvér” (“Il fratellino”), bimensile in lingua ungherese per i giovani. L’elenco delle pubblicazioni alle quali si fa riferimento è frutto dell’impegno e di una attenta ricerca di Mons. Anton Lucaci, responsabile della sezione romena della Radio Vaticana, al quale vanno i ringrazia- 33 Si è passati lentamente da una penuria assoluta di mezzi di comunicazione cattolici a una loro rinascita ed espansione quantitativa e qualitativa. DESK S T O R I A , La galassia Gutenberg ha i suoi piccoli e grandi astri di stampa cattolica; alcuni nascenti, altri ricchi di un passato e di una tradizione, come “Lumina crestinului”, fondato nel 1903, ridotto al silenzio nel 1948, e riapparso nella nuova serie a partire dal 1989. DESK C U L T U R A menti di chi scrive. Ogni diocesi, oltretutto, ha un suo sito internet dove si pubblicano le notizie riguardanti la vita e le rispettive attività; e, in più, ogni scuola cattolica, ogni seminario o istituto, e quasi ogni parrocchia ha la propria pagina web, una vetrina su internet, dove si presentano le informazioni sulle proprie iniziative. Da sottolineare, infine, l’importanza della Radio Vaticana in lingua romena, che viene usata dai giornalisti – e non soltanto da quelli cattolici – come agenzia di stampa, come fonte di informazione attendibile per quanto riguarda il Santo Padre e la Santa Sede. La galassia Gutenberg ha i suoi piccoli e grandi astri di stampa cattolica; alcuni nascenti, altri ricchi di un passato e di una tradizione, come “Lumina crestinului”, fondato nel 1903, ridotto al silenzio nel 1948, e riapparso nella nuova serie a partire dal 1989. Tra le pubblicazioni cattoliche vorrei citare “Vita cattolica Banatus”, che appare nella diocesi di Timisoara, di lingua ungherese; ma la rivista è bilingue, in romeno e in magiaro, ed è un bell’esempio di comunicazione e comunione tra i giornalisti delle due etnie, e anche tra i fedeli che possono essere separati dalla lingua ma sono uniti dalla stessa fede. Il ruolo che svolgono le pubblicazioni diocesane è principalmente di educazione alla fede, lungo itinerari che accompagnano i credenti nel cammino cristiano; si tratta di voci di una Chiesa che è sul territorio, ma anche universali perché, accanto agli insegnamenti del pastore locale appaiono anche le notizie sul Santo Padre, sulla sua attività pontificale, sul magistero 34 E R I C E R C A della Chiesa. Il ruolo è ovviamente anche di comunicazione, per le informazioni sulle attività delle parrocchie e di solito si riesce a coprire la sfera sociale, non soltanto quella religiosa. Tra gli strumenti di comunicazione delle varie diocesi esiste certamente un po’ di concorrenza, che tuttavia, entro determinati limiti, è anche positiva perché mette in moto meccanismi che danno vivacità al lavoro. Ma non si tratta, fra i giornalisti cattolici, di concorrenza dannosa: si può parlare qualche volta di collaborazione non esemplare, non di conflitti. Anzi gli operatori cattolici della comunicazione si incontrano regolarmente una volta l’anno e hanno un forum web che permette di scambiare opinioni e informazioni: se nascono discussioni, magari un po’ frizzanti e condite di ironia, si finisce con il restare amici come prima. Per quanto riguarda la preparazione dei giornalisti cattolici, essi di solito seguono corsi di teologia e di lettere negli Istituti universitari cattolici in Romania, e in molti casi continuano a studiare comunicazioni sociali, per lo più all’estero, nelle Università pontificie. Non pochi di essi lavorano per i mezzi di informazione laici e il loro ruolo diventa prezioso perché possono diventare voci cristiane in ambienti più secolarizzati o punti di riferimento per i loro colleghi e soprattutto aiutare a dare una chiave di lettura cristiana agli eventi di cui si occupano nei vari mass-media nei quali lavorano. E’ una categoria molto importante e il vescovo di Bucarest, come responsabile della Commissione episcopale delle n. 2/2010 S T O R I A , C U L T U R A comunicazioni sociali, ha voluto incontrarli, cosa che i giornalisti hanno molto gradito e che ci si è ripromesso di ripetere. Anca Martinas E R I C E R C A dell’Arcidiocesi di Bucarest Vasàrnap (La domenica), settimanale in ungherese della diocesi di Alba Iulia Verbum, rivista annuale di teologia dell’Arcidiocesi di Bucarest Vita Cattolica Banatus, in ungherese, della diocesi di Timisoara PUBBLICAZIONI CATTOLICHE PUBBLICAZIONI GRECO CATTOLICHE Actualitatea crestina (Attualità cristiana), quindicinale dell’arcidiocesi di Bucarest Almanahul presa bunà (Almanacco la buona stampa), annuale Buzamag (Il chicco di grano), mensile in ungherese per i giovani Drumuri deschise (Vie aperte), rivista del seminario diocesano di Iasi Glasul nostru (La nostra voce), rivista dei laici della diocesi di Iasi Gyertyalang (La fiamma della candela), settimanale in ungherese per i bambini, diocesi di Satu Mare Isus, prietenul copiilor (Gesù, l’amico dei bambini), trimestrale della diocesi di Iasi Kerestèny Szò (Parola cristiana), mensile in ungherese della diocesi di Alba Iulia Kistetsvér (Il fratellino), bimensile in ungherese per i giovani Lumina crestinului (La luce del cristiano, mensile della diocesi di Iasi (fondato nel 1903, nuova serie dal 1989) Mesagerul Sfantului Anton (Messaggero di Sant’Antonio) mensile Oras Nou, mensile dei Focolari, Timisoara Providenta Divina (Provvidenza divina), bimestrale dell’Amministrazione apostolica di Moldova SIS, rivista mensile in ungherese del seminario diocesano di Alba Iulia Suflet tànàr (Anima giovane), mensile Unirea (L’Unione), mensile dell’Arcidiocesi di Faragas –Alba Iulia Cultura crestinà (Cultura cristiana), mensile dell’Arcidiocesi di Faragas-Alba Iulia Tinerimea crestinà (Gioventù cristiana), mensile della diocesi di Baia Mare Vestitorul Unirii (L’annunciatore dell’unione), mensile della diocesi di Oradea Viata crestinà (Vita cristiana), bimensile della diocesi di Cluj n. 2/2010 35 DESK P R O F E S S I O N E 26° CONGRESSO NAZIONALE DELLA STAMPA ITALIANA L’ALLEANZA TRA EDITORI E GIORNALISTI URGE INVESTIRE IN FORMAZIONE PINO NARDI U Pino Nardi, giornalista “Il Segno” Milano, Vicepresidente UCSI DESK n’alleanza tra editori e giornalisti per gestire il cambiamento epocale in atto nel modo dell’informazione italiana. È questo il messaggio emerso dal 26° congresso della Federazione nazionale della stampa italiana, che si è svolto a Bergamo dall’11 al 14 gennaio scorsi. Non a caso il tema congressuale era «Il giornalismo e le sfide del cambiamento». Il dibattito tra i delegati è stato di buon livello e l’esito ha visto confermati i vertici, Franco Siddi alla segreteria e Roberto Natale alla presidenza, consolidando ulteriormente la larga maggioranza che governa il sindacato. Ma la vera novità del congresso bergamasco è stata l’apertura dei lavori con la tavola rotonda alla quale hanno partecipato gli editori più importanti del Paese. Un segnale del cambiamento di clima nei rapporti tra giornalisti ed editori. Da parte imprenditoriale infatti è arrivato un riconoscimento - che si auspica non formale - della centralità del giornalista nell’informazione. Intanto lo scenario è sempre più drammatico come emerge dalla relazione della Giunta esecutiva della Fnsi: nell’ultimo triennio 580 giornate di vertenze sindacali per stati di crisi, cessazione di attività, trasferimenti di azien- 36 de e contenziosi di lavoro; 243 accordi sindacali e verbali di riunioni con le controparti e/o al ministero del Lavoro (con un incremento del 400% rispetto al triennio precedente) e 47 quotidiani, 44 periodici e 6 agenzie di stampa che hanno presentato piani di riorganizzazione. Uno scenario che rischia di acuirsi nei prosssimi mesi. Quale allora la via d’uscita? Dicono in coro editori e sindacato: investire sulla qualità, innanzitutto del giornalista e quindi dell’informazione. «Devo dare atto che a Mediaset, siamo riusciti a fare grandi cose con la collaborazione dei rappresentanti sindacali che hanno capito la rivoluzione tecnologica in atto - ha sottolineato Fedele Confalonieri, presidente Mediaset -. Oggi i giornalisti devono diventare multimediali e digitali. I nostri programmi del mattino e del pomeriggio, ad esempio, hanno giornalisti di valore che lavorano a stretto contatto con le star della Tv, inventando cose nuove. Secondo me questo arricchisce la nostra Tv. Abbiamo poi creato un’agenzia, News Mediaset, con la quale abbiamo in progetto un canale All News. Razionalizzazione e tagli non possono arrivare all’osso perché i bravi n. 2/2010 P R O F E S S I O N E tagliatori di teste ti lasciano il corpo esangue, ma stiamo attenti a non fare i “celoduristi” stile anni Ottanta. I giornalisti, oltre che multimediali, devono essere flessibili». Qualità, ma anche flessibilità; innovazione contro conservazione. Lo ha detto Carlo De Benedetti, presidente del Gruppo L’Espresso. Ha stroncato come «sciocchezze colossali» le previsioni che danno per morti i giornali a scapito di Internet. «E sono considerazioni oscene anche quelle che davano per scontato che i giornali si potessero fare senza i giornalisti. Credo che i giornali non moriranno mai, ma certo non stanno bene - ha affermato De Benedetti -. Oggi infatti siamo a una diffusione inferiore ai 5 milioni di copie, cioè agli stessi livelli del 1939, gli investimenti pubblicitari sono calati del 16% e i fatturati sono diminuiti del 40% dal 2000 al 2009. Entro tre anni, noi vogliamo raggiungere il 20% d’introiti pubblicitari dal web». Dalla tribuna De Benedetti ha lanciato il suo triplice motto: «Innovare, innovare, innovare». Per garantire il futuro del giornalismo ha proposto un’alleanza fra editori e giornalisti, spiegando che la qualità è essenziale per l’informazione e la qualità dell’informazione è necessaria per la democrazia. «Prima i cambiamenti avvenivano ogni 50 anni, oggi i modelli di business impongono rinnovamenti radicali ogni due anni - ha proseguito De Benedetti -. Sia tra editori, sia tra giornalisti ci sono gli innovatori e i conservatori. Si vince la crisi solo lavorando insieme, nell’innovazione». Internet non uccide il ruolo del giornalista. Anzi. De Benedertti lo ha rilanciato: «I giornalisti devono accet- n. 2/2010 tare l’aumento della produttività del lavoro che oggi si può ottenere proprio con le nuove tecnologie. Il nostro gruppo punta a un quotidiano di qualità su iPad senza incorrere in quella marmellata d’informazioni non verificate che circola sul web. Per fare questo c’è bisogno di buoni giornalisti che facciano da filtro, verifichino le fonti e organizzino le notizie permettendo ai lettori di essere opinione pubblica. Editori e giornalisti sono le piccole sentinelle della democrazia». Sulla multimedialità ha insistito anche Piergaetano Marchetti, presidente di Rcs MediaGroup, che ha messo in guardia anche dall’invadenza della pubblicità nell’informazione: «Il mercato dell’editoria ha bisogno di regole e pluralismo. Mi domando se valga ancora l’attuale disciplina che regolamenta le concentrazioni. Per i giornalisti invece c’è necessità non solo di aggiornamenti, ma anche di acquisire nuove competenze. C’è bisogno di giornalisti non più generalisti, ma multimediali e specializzati». «Mi ha colpito la notevole convergenza di opinioni sulla crisi che stiamo attraversando e sulla necessità di cambiamento e di innovazione. Non è in discussione la centralità e la necessità che gli editori hanno di investire, dopo una prima fase di ristrutturazione. È in atto una trasformazione del modo di lavorare del giornalista: sono cambiati gli strumenti, le piattaforme, il linguaggio e i fruitori dell’informazione». Sono le parole di Alberto Donati, responsabile relazioni sindacali Fieg e vice presidente Inpgi, in genere ruvido nei rapporti con i giornalisti. Anche questo un segnale di cambiamento rilevante, soprattutto quando ha sotto- 37 Per i giornalisti invece c’è necessità non solo di aggiornamenti, ma anche di acquisire nuove competenze multimediali e specializzate. DESK P R O F E S S I O N E «Bisogna far chiarezza nel sistema e mettere un freno alle illusioni di chi si deve accontentare di 2 euro e 50 ad articolo. Le sfide le possiamo vincere, ma le condizioni di lavoro devono essere dignitose». DESK lineato la necessità di investire nella formazione. «Il bene fondamentale di qualsiasi impresa editoriale sono i giornalisti - ha detto Donati -. Per questo è essenziale un processo di formazione permanente, gestita con programmi di alto livello e finanziata con risorse adeguate. Credo che gli editori siano a disposizione nel mettere mano al portafoglio per questo scopo. Che finora è stato affrontato con superficialità da parte degli editori che hanno scambiato l’aggiornamento professionale o la formazione come incentivi elargiti al posto di quelli retributivi. La formazione serve a chi già opera nelle redazioni e a tutti coloro che per varie ragioni sono stati espulsi dalle redazioni e hanno necessità di riqualificarsi. È utile anche quella di base per incentivare l’ingresso di giovani professionisti, visto che università e scuole di giornalismo probabilmente non sono sufficienti per affrontare la vita lavorativa. Non è continuando a tagliare che si risolvono i problemi: è giunto il momento di investire e la formazione è uno degli investimenti più importanti». Dunque, la sfida agli editori è stata lanciata da Franco Siddi, segretario generale Fnsi, che ha fortemente voluto questo dibattito. «Bisogna far chiarezza nel sistema e mettere un freno alle illusioni di chi si deve accontentare di 2 euro e 50 ad articolo. Le sfide le possiamo vincere, ma le condizioni di lavoro devono essere dignitose. Le ristrutturazioni aziendali sono state un passaggio doloroso che abbiamo affrontato con grande fatica. Oggi il nostro obiettivo è tenere insieme un sano mix tra l’esperienza degli anziani 38 e l’entusiasmo dei giovani. La soluzione potrebbe essere pagare un articolo quanto un’ora di lavoro intellettuale. I margini di profitto infatti non sono uguali a quelli degli altri settori: sono pochi i giornalisti ben pagati. L’idea di giornalisti a 1200 euro non ci piace e non dovrebbe piacere neanche agli editori, perché avremmo solo giornalisti ideologizzati e urlatori di parte. No allo sfruttamento, sì al coinvolgimento e alla partecipazione». Una risposta immediata è giunta da Alessandro Brignone, direttore generale Fieg (nel frattempo ha lasciato l’incarico per l’insegnamento universitario, con il ritorno a quella carica di Fabrizio Carotti): «Quando Siddi affronta il difficile tema della “buona” occupazione, anche noi non possiamo non stigmatizzare il fenomeno delle collaborazioni sottopagate. È anche vero, però, che se oggi il giornalista è più flessibile, questo consente all’editore di veicolare meglio le news – ha spiegato Brignone -. È uno scambio che ci interessa perché di buonsenso. Penso anche che se vogliamo mettere mano a un grande patto per avere relazioni sindacali più moderne, imprese e sindacato devono lavorare insieme su piattaforme condivise». Un impegno per i diritti, contro la precarietà e per l’affermazione della libertà di informazione come pilastro di una democrazia sana, al centro del lavoro che la Fnsi porterà avanti nei prossimi anni. Così lo ha delineato il segretario, lanciando la proposta di costituire un fondo per la libertà di stampa al quale partecipino, in primo luogo, le fondazioni bancarie attingendo a una quota dei loro proventi da gestire con criteri di assoluta indipen- n. 2/2010 P R O F E S S I O N E denza finalizzati alla promozione del bene informazione: «Vogliamo un sindacato delle idee, della libertà, delle diverse opinioni, ma unite dalla volontà di stare insieme. Diciamo no ai bavagli. No alla precarietà. Occuparsi di questo non significa mettere a rischio le proprie sicurezze. Il sindacato vuole aumentare le garanzie, non aumentarle a chi già ce le ha. Cambiamo le relazioni interne. Cambiamo il modo di fare impresa, perché cambia il mondo e cambiano i bisogni. Ecco perché dobbiamo stare insieme. E vinceremo solo se riusciremo a tenere insieme le differenze. Dico questo, non nel tentativo di omogeneizzare, ma per migliorare le condizioni della libertà. Vorrei ricordarlo: il giornalismo ha una grande responsabilità democratica, è un mestiere che mantiene la propria identità se riesce a fondarla nella responsabilità, nell’etica e nelle competenze. Il giornalismo non solo è necessario, ma contiene in sé anche quelle condizioni che rendono dignitosa la vita di chi lo pratica. Ecco perché mi inquieta la precarietà. Ho lanciato una sfida: quella di un piano strategico per far emergere la precarietà e il lavoro dei freelance. E la priorità di questo congresso». Pino Nardi Per conoscere la storia a cura di Vittoria Fiorelli contributi di Giuseppe Galasso, Giuseppe Laterza, Massimo Mastrogregori, Edoardo Tortarolo pag. 70, euro 9,00 n. 2/2010 39 DESK P I C C O L A A N T O L O G I A DICONO DI NOI STEFANIA DI MICO a quando era un piccolo D editore, i suoi sogni si sono avverati in pieno. E negli Stati Uniti la Stefania Di Mico, Ufficio Marketing Unilever, Roma DESK sua influenza sulla politica repubblicana è straripante. NEW YORK - "Information does not want to be free". E' il Verbo di Rupert Murdoch, che oggi compie 80 anni. Quella frase pronunciata pochi giorni fa per lanciare la sua nuova creatura, The Daily, cattura l'ambivalenza del più potente magnate mondiale dei mass media. L'informazione non vuole essere "free", nel senso di gratuita? O "libera"? A un età in cui la maggioranza si gode la pensione, Murdoch non è solo all'apice della sua espansione (con il controllo totale di Sky) e appassionato di nuovi progetti come il "giornale fatto solo per l'iPad". E' anche capace più che mai di eccitare passioni bipolari: odio estremo, ammirazione sconfinata. L'America si scopre ossessionata da quest'uomo, gli rimprovera un potere politico perverso; e gli riconosce una fede tenace nel futuro dell'informazione. Per chi ha a cuore la libertà di stampa, è uno spettacolo deprimente. Eppure Murdoch è anche un'altra cosa. Da mesi è tornato a fare il "redattore capo", tutti i giorni al lavoro nei locali della sua nuova creatura: The Daily, il primo giornale soltanto per l'iPad. Solo in formato digitale, quindi, ma un vero giornale. Con 100 reporter assunti apposta, contenuti originali, l'ambizione di parlare, "a una generazione istruita e sofisticata che non legge più la carta né guarda la vec- 40 chia tv". Un giornale bipartisan, anzi apartisan, molto diverso dalla Fox e dal Wall Street Journal (non uno dei reporter è stato preso dalle altre testate del gruppo). Un prodotto a pagamento, con cui Murdoch alleato a Steve Jobs porta l'affondo nell'offensiva contro la gratuità di Internet, l'altra sua battaglia del momento. A 80 anni è così indaffarato - a scegliere il prossimo presidente Usa, a decidere il futuro dell'informazione - che gli sfugge solo un piccolo problema: la successione. Con i tre figli del secondo matrimonio James, Lachlan, Elisabeth - si alternano liti e riappacificazioni. La terza moglie, l'ambiziosa cinese Wendi Deng, gli legge le e-mail "perché lui non sa usare il computer". E forse anche per altre ragioni. La questione del dopo-Murdoch non è risolta. E' rinviata al 90esimo compleanno? Federico Rampini La Repubblica, 11 marzo 2011 upert Murdoch ha fatto incetta di grandi firme per il R suo The Daily, dichiarando pubblicamen- te di voler rilanciare «il giornalismo che si fa consumando le suole delle scarpe». Non è il solo a puntare sulla qualità. L’ex azienda numero uno del web a stelle e strisce, AOL, ha appena comprato (strapagato?) per 315 milioni di dollari l’Huffington Post, il più seguito sito d’informazione politica negli Stati Uniti. Arianna Huffington, fondatrice sei anni fa del sito, sarà nominata presidente e guiderà l’Huffing- n. 2/2010 P I C C O L A A N T ton Post Media Group. Lo scorso novembre, invece, il sito Daily Beast di Tina Brown, la più nota giornalista d’America (anche se inglese), aveva di fatto inglobato Newsweek, glorioso settimanale già del gruppo del Washington Post. Ma anche senza andare a studiare i trend americani, le già citate esperienze italiane di Nóva e R7 confermano che solo l’integrazione tra innovazione e buon giornalismo è garanzia di successo. Bisogna investire su entrambi, perché l’una senza l’altro, o viceversa, non funzionano più. Carlo De Benedetti Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2011 rriva la prima edizione del A Daily: a lanciare il quotidiano per iPad è stato Rupert Murdoch, numero uno del gruppo News Corp. Avrà più di cento pagine ogni giorno, fotografie immersive, grafici interattivi. E ancora: una pagina dedicata alle condizioni meteorologiche locali aggiornata in tempo reale e un approfondimento sullo sport con notizie in diretta dai social network. Gli articoli si potranno salvare per leggerli in un secondo momento. Ecco le immagini della presentazione. Il Daily punta sulla partecipazione del pubblico: i lettori possono condividere gli articoli con Facebook e Twitter. Inoltre, consente di prendere note di testo e vocali. “Le notizie non esistono nel vuoto: sono condivise, e la capacità di seguire i link è decisiva” ha detto Jonathan Miller, direttore dell’area digitale di News Corp, durante la conferenza a New York. Lo staff di giornalisti al quotidiano per iPad è di cento persone: finora l’intero progetto ha richiesto un investimento di 30 milioni di dollari. Secondo Rupert Murdoch i costi operativi arriveranno a 500mila dollari a settimana. Luca Dello Iacovo Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2011 recentoquindici milioni di dollari per il blog di culto T della sinistra liberal americana: il provider n. 2/2010 O L O G I A internet Aol acquista The Huffington Post, uno dei siti più seguiti e popolari in rete, con 25 milioni di visitatori al mese. Un’operazione che darà vita alla fusione fra due veri giganti dell’online. Per Aol si tratta della acquisizione più importante da quando si è separata nel 2009 da Time Warner e in prospettiva darà nuova linfa al colosso nel settore dell’informazione e della produzione di contenuti originali, aree vitali secondo l’ad Tim Armstrong per contrastare il declino degli ultimi anni. Arianna Huffington, la giornalista che ha inventato il seguitissimo e autorevole blog, sarà presidente e redattore capo del nuovo gruppo (The Huffington Post Media Group) che integrerà i contenuti delle due aziende. L’accordo consentirà anche al sito icona della sinistra Usa di raggiungere un enorme nuovo pubblico, sino ad arrivare ad almeno 100 milioni di visitatori potenziali al mese nei soli Stati Uniti. Uno dei punti di maggiore forza dell’Huffington Post è la comunità online di decine di milioni di lettori che il sito è riuscito a creare, grazie anche alla possibilità di lasciare commenti agli articoli pubblicati sul blog e di condividerli sui social network come Facebook o Twitter: un sistema di richiami incrociati che aumenta esponenzialmente i lettori. Ed è una potenzialità che fa gola ad Aol soprattutto per quei servizi come Seed, al servizio del citizen journalism o giornalismo “dal basso”, in cui ogni lettore può trasformarsi in potenziale reporter, o Patch, per le notizie locali. Alessia Manfredi Il Sole 24 Ore, 7 febbraio 2011 l Corriere della Sera ne ha I dato notizia l’1 febbraio, annunciando l’uscita di un reportage di Jonathan Littell – autore del romanzo La benevole – sul Congo. Eppure la cosa non ha fatto molto rumore, anche se potrebbe essere un altro piccolo segno della rivoluzione che ci attende. Sì perché The Invisible Enemy di Littell fa parte di 41 DESK P I C C O L A A N T una singolare collana dal nome “Kindle Single” che, come dice il nome, propone storie brevi da leggere sul reader di Amazon. Non fiction, però, bensì inchieste o (appunto) reportage giornalistici più lunghi di un articolo di giornale (cartaceo) e più brevi di un libro. Prezzo: da 1,14 a 4,59 dollari (da 84 centesimi a 3,27 euro). Insomma, come vendere in edicola un proprio articolo di giornale. Ogni libro ha una breve presentazione da parte di Amazon, con le ormai classiche recensioni dei lettori ma anche una scelta curiosa: due di queste, di segno opposto, vengono scelte e giustapposte, divise dal classico “vs” (contro), quasi si trattasse di una schermaglia dialettica fra lettori. Tommaso Pellizzari Ehi Book, Corriere della Sera, 8 marzo 2011 volte ritornano. Parliamo dei A quotidiani della sera, una razza che sembrava in via d’estinzione – DESK legata com’è agli albori del giornalismo – e che dal 28 febbraio conta invece su un nuovo esemplare che si aggiunge ai due già esistenti di Bari e Taranto. L’esemplare in questione è La Sera di Parma. Il giornale – venti pagine che spaziano dalla cronaca alla politica, dalla nera alla giudiziaria, dalla provincia allo sport e agli spettacoli – si trova nel centro storico di Parma, conta su una redazione di sette giornalisti ed è diretto da Massimo Cappuccini. E’ venduto – oltre che nelle edicole – anche tramite un gruppo di 15 strilloni che batte tutti i giorni la città a partire dalle 17. Cappuccini, ci vuole un bel coraggio a lanciare un giornale della sera in questo periodo di forte crisi. A cosa è dovuta questa scelta? Essenzialmente a due motivi: a una necessità di demarcazione del mercato (al mattino sono presenti in edicola già tre quotidiani) e al fatto che uscendo nel pomeriggio abbiamo la possibilità di dare notizie più “fresche” rispetto ai quotidiani del mattino che sono in parte superati da internet. Cosa vi fa ritenere che ci sia spazio per questa 42 O L O G I A nuova avventura? La certezza che a Parma c’è gente che ha voglia di leggere cose che gli altri non vogliono scrivere. Perché, voi cosa volete scrivere? Vogliamo scrivere i fatti, parlare delle inchieste giudiziarie, delle aziende in crisi, di sindacato. Insomma, vogliamo scrivere semplicemente cosa succede in città. Stefano Natoli Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2011 l confine fra le pressioni del I mercato pubblicitario e l’indipendenza editoriale sta diventando sem- pre più esile? Con la crisi che molte testate stanno affrontando, essere in grado di attirare più investimenti pubblicitari può essere un fattore chiave per la sopravvivenza. E i contenuti ‘’brandizzati’’, o gli advertorial (“redazionali” e materiali aziendal-editoriali) diventano sempre più diffusi. Ed è vitale, quando vengono usati, mantenere una integrità e indipendenza editoriale. Come racconta Journalism.co.uk, l’Association of Online Publishers ha realizzato una importante iniziativa dedicata al modo con cui le testate possono usare questi contenuti senza perdere la fiducia dei lettori e organizzato nei giorni scorsi a Londra un convegno dal titolo “Maintaining editorial integrity and making partnerships pay”. Per anni i pubblicitari hanno tentato di integrarsi sempre più intensamente con le testate editoriali online e ora stanno emergendo modelli diversi dalla semplice partnership, soprattutto ora che la pubblicità digitale diventa più ricca e più complessa. Come si potrà continuare a contrassegnare chiaramente i contenuti pubblicitari da quelli giornalistici? Gli utenti si dovranno preoccupare? Ci dobbiamo convincere che la pubblicità possa diventare un contenuto editoriale? E gli editori come potranno goderne i benefici senza compromettere i loro rapporti con i lettori? Erano questi gli interrogativi al centro del convegno di AOP. Se questa ibridazione di pubblicità e informazione (’admixture’) n. 2/2010 P I C C O L A A N T è il rischio principale, la trasparenza può essere una risposta: conservare una separazione fra notizie e pubblicità utilizzando dei contrassegni specifici è cruciale. Il fatto che le testate giornalistiche mantengano la loro credibilità come affidabili fornitori di informazione indipendente è importante anche per gli inserzionisti perché i loro contenuti pubblicitari possono beneficiare di quella credibilità. Federica Cherubini www.lsdi.it, 27 febbraio 2011 a tenuta del sistema giornaliL stico italiano è oggi il primo valore, un valore che deve superare ogni visione di parte. La crisi economica, la perdita di posti di lavoro, la tenuta previdenziale ed assistenziale, l’importanza del contratto di lavoro e della sua rinnovazione, l’impianto del welfare non possono essere considerati fattori indipendenti, necessitano oggi più di ieri di una visione sistemica. I problemi si pongono sul lungo periodo, la responsabilità di chi fa previdenza è guardare alla tenuta a cinquant’anni, mettendo in campo una serie di misure che influiscano sulla crisi attuale. Andrea Camporese, Presidente Inpgi Inpgi Comunicazione, luglio/dicembre 2010 o stato spende poco meno di L tre miliardi per l’industria culturale e delle telecomunicazioni, ma manca un progetto complessivo e molto poco viene speso per l’innovazione.un progetto complessivo e molto poco viene speso per l’innovazione. Sono questi i principali risultati del primo studio analitico condotto in Italia sugli investimenti pubblici nei settori dell’industria culturale – televisione e radio, cinema e spettacolo, editoria – e delle telecomunicazioni da un gruppo di ricerca della Fondazione Rosselli coordinato da Flavia Barca, responsabile dell’Istituto di economia dei media. Nel campo dell’editoria, secondo la ricerca, i contributi pubblici sono pari al 6% del fatturato di settore. Questo per quanto riguarda i numeri. Ma come vengono n. 2/2010 O L O G I A spesi questi soldi? “In Italia non c’è una vera politica industriale per lo sviluppo dell’industria culturale – afferma Barca – che però è strategica per le economie avanzate basate sulla conoscenza. Soprattutto per l’Italia, un paese che viene considerato un faro di cultura a livello internazionale”. Enrico Grazzini Corriere Economia, 24 gennaio 2011 l New York Times vara l'accesso I a pagamento: sono gratuiti fino a venti articoli da leggere sul sito web, poi sarà necessario abbonarsi a partire da una spesa di 15 dollari (circa undici euro). È una scelta già annunciata la scorsa estate. I canadesi saranno i primi a sperimentare il cambiamento: negli Stati Uniti, invece, la transizione avverrà tra meno di due settimane, lunedi 28 marzo. Ogni mese i lettori online hanno venti accessi "free" al sito Nytimes.com: nel conteggio sono inclusi articoli, immagini, video, blog e altri progetti multimediali. Le pagine, dunque, saranno visibili attraverso il browser dagli schermi di computer, cellulari e tablet, digitando l'indirizzo web del quotidiano. Superata la soglia, gli utenti devono pagare. Ma possono ancora guardare senza spese la home page del Nytimes.com, le aperture di alcune sezioni tematiche (ad esempio, "politica") e le prime pagine dei blog, oltre agli annunci economici (classified). Inoltre, se scaricano l'applicazione per smartphone e tablet, hanno sempre la possibilità di entrare all'interno dell'area "top news". Nell'annuncio ufficiale il direttore Bill Keller sottolinea che saranno abilitati alla lettura online anche coloro che «arrivano attraverso link dai motori di ricerca, blog, social media come Facebook e twitter (…) anche se hanno raggiunto il loro limite mensile. Per alcuni motori di ricerca, gli utenti avranno una soglia giornaliera di link gratuiti». Luca Dello Iacovo Il Sole 24 Ore, 18 marzo 2011 43 DESK T E S I D I L A U R E A Vanessa Russo Relazioni pubbliche e occulte: files “ret put”. L’inchiesta Parmalat e le responsabilità dei comunicatori Tesi di laurea specialistica in Organizzazione e relazioni sociali Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara Relatore: Prof.ssa Sabrina Speranza Tesi ispirata dal Seminario di aggiornamento su Le criticità del sistema dei media svolto nell’a.a. 2009/2010 dal Prof. Paolo Scandaletti G DESK li americani inviarono in Sicilia, al seguito delle proprie truppe, i primi operatori di comunicazione e relazione con le amministrazioni locali perché non finissero in mano ai comunisti. La nostra pubblicistica e alcuni storici parlano di mafiosi italoamericani [T. MUZI FALCONI, Governare le relazioni, 2004]. La tesi anticomunista non è del tutto inverosimile, così come non si può escludere che qualche operatore lo fosse davvero. Nel corto circuito del sistema dei finanziamenti illeciti degli anni Novanta (Tangentopoli), alcuni responsabili-comunicatori delle Relazioni Esterne si rivelano anche intermediatori di tangenti. E la stampa non risparmiò i nomi. Pietro Pelosi – Responsabile Relazioni Esterne Consorzio Intermetro (ditta che aveva costruito uno dei tronconi della metropolitana di Roma). Condannato a tre anni e otto mesi di carcere, il teorema accusatorio riguarda il pagamento di tangenti in cambio di appalti. [LA REPUBBLICA 19.02.1993, In manette luogo tenente di Sbardella da giornalaio a portavoce inerme; CORRIERE DELLA SERA 15.03.1998, Intermetro: pioggia di assoluzioni] Francesco Fusco – ex responsabile delle Relazioni Esterne dell’Agusta, alla quale fu versata una tangente di due miliardi e cinquecento milioni di lire per l’appalto della fornitura di elicotteri per la polizia e la protezione civile, le accuse per Fusco vanno dalla corruzione alle false comunicazioni sociali. [LA REPUBBLICA 8.12.1993, Caso BNA Agusta, D’Angeli rivela: tangenti per ungere i politici; CORRIERE DELLA SERA, 28.12.1995, Le tangenti Agusta: chiesto il processo per Giallombardo] Sergio Roncucci – ex manager della Fininvest e direttore delle Relazioni Pubbliche dell’Edilnord, accusato di aver versato tangenti per circa un miliardo tra l’88 e il ‘90, per sbloccare un piano di lottizzazione presentato dalla società Europea Golf del gruppo Edilnord al fine di convincere gli amministratori e i tecnici comunali di Pieve Emanuele a dare via libera al progetto di ristrutturazione del castello medievale di Tolcinasco, con cascinali e impianti sportivi tra cui un “green” con 36 buche. [CORRIERE DELLA SERA, 6.03.1994, Roncucci pagò per avere i permessi] Lorenzo Cesa – direttore delle Relazioni Esterne alla Efimpianti Spa, di consigliere di amministrazione di importanti società e banche, fra cui l’ANAS, e di direttore commerciale marketing di una società di comunicazione. Indagato per concussioni per avere truccato le gare d’appalto dell’ANAS in cambio di tangenti. [CORRIERE DELLA SERA, 4.04.1993, Anas: Prandini e 25 miliardi di tangenti] Il sistema di Relazioni Pubbliche è coinvolto anche in quello che viene ricordato come il principale troncone di tutta l’inchiesta mani pulite: la maxitangente Eni- 44 n. 3/2010 T E S I D I L A U R E A mont (i centocinquanta miliardi di lire da Raul Gardini per uscire dall’affare Enimont, e finiti per finanziare in maniera illecita i partiti). Il postino della transazione occulta tra Montedison e il sistema politico è proprio un relatore pubblico: Luigi Bisgnani, giornalista, scrittore, ex piduista, democristiano e dal 1992 direttore delle Relazioni Esterne del gruppo Montedison. Bisgnani era inoltre incaricato di gestire i rapporti con lo Ior (banca vaticana) diventato il “lavatoio” dei soldi sporchi. Le tangenti in Cct partivano dalla Montedison dirette allo Ior da li venivano “ripulite” e indirizzate direttamente nelle tasche di chi di dovere. Bisgnani viene condannato in primo grado a tre anni e quattro mesi di carcere, diventati tre anni e sei mesi in secondo grado, dietro patteggiamento.[CORRIERE DELLA SERA 5.11.1993, I Cct ENIMONT cambiati dallo Ior] Un mondo, quello degli affari e delle imprese, abituato storicamente a muoversi nell’ombra e al riparo delle tutele normative, si trova ora sempre più esposto alla luce del sole: nell’ultimo decennio, il 30 per cento dell’informazione economico-finanziaria ha riguardato gli scandali verificatisi nel settore. Vi sono senza dubbio dei trend delicati: l’opacità delle fonti e il linguaggio autoreferenziale di molti articoli, la sostituzione dei pezzi dei giornalisti interni con quelli di analisti esterni, non di rado tendenziosi se non al limite dell’insider trading, la dipendenza dai persuasori più attivi delle agenzie di relazioni pubbliche (spesso assai competenti), la scomparsa quasi totale di inchieste e ricerche in proprio e indipendenti. L’informazione economico-finanziaria giunge cioè al destinatario dopo un lungo percorso: parte da società, enti o istituzioni economiche, passa agli intermediari e poi agli analisti, per tornare agli intermediari incaricati della vendita dei prodotti finanziari; senza contare i ruoli che vi giocano le associazioni di categoria, spesso a protezione dei propri iscritti [P. SCANDALETTI, Etica e deontologie dei comunicatori, 2008]. Vi sarebbe in questo caso di specie da chiedersi perché a colmare la lacuna informativa non provvedano gli intermediari sottostanti, e dunque la stampa che ospita e rilancia quelle comunicazioni ufficiali. Ma qui si tornerebbe a rigirare il dito nelle piaghe dell’approssimazione e delle insufficienze di un giornalismo, che troppo spesso ha rinunziato a formare e si è persuaso che di molte notizie basti assicurare l’inoltro [V. POGGIALI, L’inquinamento delle fonti primarie dell’informazione, 2010]. Nel 2003, il crac Parmalat rivela come quell’inoltro di notizie abbia finito per trascurare l’attento lavoro di falsificazione dei bilanci, di occultamento dei fondi neri e di una comunicazione d’impresa tendenziosa con cui Calisto Tanzi e collaboratori riescono per anni a frodare banche e risparmatori. Le accuse sono state bancarotta fraudolenta (art. 216 RD 267/1942) e aggiotaggio (art. 501 Codice penale). Tra gli imputati Andrea Petrucci ex direttore generale della Parfin, e responsabile della redazione dei comunicati stampa, condannato a quattro mesi di reclusione dietro patteggiamento con l’accusa di: aggiotaggio dei titoli Parmalat; ostacolo alla vigilanza della Consob; falso nelle relazioni e comunicazioni ai revisori della Deloitte & Touche e della Grant Thornton S.p.a. Per gli stessi reati è stato imputato Domenico Barili ex direttore del marketing Parmalat dal 1961. Malagutti lo descrive un comunicatore nato: riesce a parlarti con entusiasmo perfino del mercato della besciamella [V. MALAGUTTI, Buconero Spa: dentro il crac di Parmalat, 2004]. I comunicatori sono stati, questa volta, esecutori corrotti. Preparavano i formu- n. 3/2010 45 DESK T E S I D I L A U R E A DESK lari, al contenuto pensavano i vertici di Collecchio. In una mail del 27.11.2002, Fausto Tonna scriveva a Petrucci: sul file allegato dei bonds, il dettaglio non è da pubblicare; il 6.07.2003 Petrucci consigliava invece al nuovo direttore finanziario Ferraris le informazioni da inserire in un comunicato stampa: Per quanto riguarda la prima operazione non ho, ovviamente, indicato l’utilizzo di parte dei fondi per l’acquisto dei bond emessi da un’altra società. Ho inoltre il dubbio se scrivere qualcosa per giustificare la recente operazione di private placement collocata ad un tasso significativamente più oneroso rispetto a questa operazione. Il 13.11.2003, la Parmalat emette il comunicato stampa in cui annuncia che sta per liquidare il Fondo Epicurum, la notizia fa guadagnare al titolo 7.78% e Petrucci riceve una mail di complimenti da Ferraris [SOLE 24 ORE 20.04.2005]. Ma un analista di Bank of America nel Report del 12.11.2003 dice a proposito del Fondo: the details sound like a bad mafia movie. Mentre tutto il management era impegnato in una complessa operazione “tritacarta” Tonna trovava il tempo di redigere anche il bilancio ambientale Parmalat, un resoconto di ventiquattro pagine in cui l’azienda descrive a fondo i suoi principi etici ed ambientali, dunque uno strumento di comunicazione di distintiva qualità. Il documento è descritto a fondo da Mario Gervini: Parmalat nel Rapporto è rappresentata nella sua effettiva e riconosciuta forza industriale, tecnologica, innovativa. Ma i sorrisi amari si sprecano a leggere alcuni passaggi del «Messaggio del Presidente»: Sono lieto di presentare il secondo Rapporto Ambientale del gruppo Parmalat per due ragioni: la prima riguarda la conferma del nostro impegno, avviato lo scorso anno, nel raccogliere, valutare, diffondere i dati relativi alle prestazioni ambientali e di sicurezza; la seconda è relativa ad una sempre Maggiore consapevolezza del gruppo in merito all’ importanza del concetto di sostenibilità delle nostre operazioni dal punto di vista economico, ambientale e sociale». Per la «sostenibilità» delle operazioni dal punto di vista economico sono in carcere il presidente e diversi suoi dirigenti. Non parliamo poi di un’altra «missione» citata tra gli obiettivi del Rapporto, ovvero «rispettare sempre la legislazione applicabile nei diversi Paesi dove operiamo con successo da anni». Per il gruppo, è scritto, «considerata terminata la fase di rapida espansione», adesso è l’ora del consolidamento e «dell’ ottenimento del massimo valore dato dall’ espansione stessa». Sembra una presa in giro. Ma il «meglio» di questo Rapporto arriva quando si dice che «il management si sente impegnato a creare valore per gli azionisti».[CORRIERE DELLA SERA 26.01.2004] Tre sono stati i segmenti di storia maggiormente oggetto di trattazione da parte dei giornali: la lunga serie di indagini della procura; il dibattito politico sviluppatosi intorno alla necessità di una legislazione che imponga controlli più severi, in altre parole una delle tante leggi “mai più” che costellano la storia del Paese; la tragedia di chi è stato toccato dallo scandalo Parmalat, i risparmiatori. Non c’è dubbio, è stato sottolineato, sul fatto che tutti e tre gli argomenti andassero affrontati per dare una copertura informativa completa del caso Parmalat. Tuttavia, essi sono stati trattati per lo più in un modo che ha evidenziato soprattutto o la loro carica sensazionale o i loro aspetti superflui, oppure, quando la spettacolarizzazione e la sovrinformazione si sono presentate insieme la carica sensazionale degli aspetti superflui. […] questi pezzi hanno ottenuto, messi insieme, l’effetto non sappiamo quanto involontario di trasformare Tanzi da oscuro truffatore in personaggio a suo modo ricco di fascino: trasformazione senz’altro utile ad aumentare nel lettore l’interesse per la copertura informativa della vicenda, a sua volta parallelamente trasformata nel racconto di una storia, ma assai meno a 46 n. 3/2010 T E S I D I L A U R E A favorire le ragioni del crac truffa [M. NIRO, Verità e informazione, critica del giornalismo contemporaneo, 2005]. E non c’era modo di andare in profondità, neanche per chi seguiva da anni le strategie, i progetti e gli affari del gruppo. Lo racconta Vittorio Malagutti: Fin del 1990 ho segnalato sul settimanale “il Mondo” i legami del cavalier Callisto con Florio Fiorini, il lavandaio della finanza nazionale. In alcuni articoli mi sono interrogato sulle complicate acrobazie contabili che in quello stesso anno salvarono l’azienda di Collecchio dal crac. E ancora, nel 1996 ho dato conto sul Corriere della Sera delle difficoltà di Tanzi, un capitalista senza capitali, costretto a chiedere continuamente soldi in prestito per soddisfare le sue smisurate ambizioni di crescita. I miei strumenti di indagine allora erano limitati. E i miei poteri di controllo nulli. Ai tempi d’oro (per loro) ho cercato più volte di intervistare i manager di Collecchio, ottenendo rifiuti o risposte evasive. Chissà forse non si fidavano. E allora, come provo a fare sempre nelle mie inchieste, sono andato alla fonte. Per anni ho frequentato depositi di tribunali e stanze di Camere di Commercio alla ricerca di dati. Ho cercato di ragionare sui numeri che però erano falsi. Tanzi ha ingannato tutti, compreso me. Forse però sono riuscito a salvarmi dall’errore più grave: l’esaltazione acritica di un modello di crescita che non ero mai riuscito a spiegarmi fino a fondo [V. MALAGUTTI, op. cit., 2004]. La “macchina” di registrazione e comunicazione dei falsi faceva nel frattempo anche salti di qualità, per confondere i revisori. Nei documenti relativi alla perizia della Procura di Milano si legge: Il salto di qualità nella registrazione dei falsi si verifica attraverso la produzione di supporti cartacei delle singole operazioni, apparentemente accettabili, ma in realtà tutti rigorosamente falsi: Bonlat (società “discarica” delle perdite, ed altro, del gruppo) diventa una vera e propria “stamperia” da cui viene prodotta la falsa documentazione di supporto delle singole operazioni. Pertanto, se nel periodo di revisione Grand Thorton ci si limitava, tutt’al più, a produrre un supporto contrattuale fittizio senza alcun riguardo alla formalizzazione del momento esecutivo di tali contratti, nel periodo di revisione Deloitte & Thouche tali supporti vengono invece creati, fornendo così una base documentale e formale sia alla concezione sia alla realizzazione delle singole operazioni che, tuttavia, nella sostanza, erano tutte, come si vedrà, inverosimili ed incongruenti, oltre che false. Un muro di omissioni ha contribuito a mantenere in piedi, per dieci anni, un’azienda che aveva un debito di quattordici miliardi e quattrocentomila euro nascosti da un quantitativo impressionante di documenti falsi, e da una gestione manageriale accentrata sul gruppo di “falsari” a cui nessun altro poteva accedere. E si poteva immaginare che tutte le carte della “stamperia” fossero raccolte nei 700 files “ret put” di un CD Rom? Nel corso di un interrogatorio, la dott.ssa Chiaruttini, il consulente tecnico che ha svolto la perizia tecnica sui profili di falsità di bilanci, ha raccontato di aver aperto il CD consegnato da Gianfranco Bocchi, contabile falsario di Parmalat, per mera curiosità e di aver scoperto come fosse invece corposo; le colonne dei falsi recavano spesso la dicitura “ret put” e alla domanda rivolta a Bocchi, sul significato di tale singolare acronimo, questi le aveva risposto: Ma rettifiche puttanate, Dottoressa, non ha ancora capito? [Procura di Milano, ud. 7.03.06] n. 3/2010 47 DESK N O T I ZI E , D O C U M E N T I E C O N G R E S S I Roma: L’attività di lobbying tra trasparenza e partecipazione “ L’attività di lobbying rappresenta uno dei nodi più importanti delle società contemporanee perché affronta il rapporto tra interessi generali e interessi particolari, distinguendo un sistema liberale da uno corporativo”. Con questa affermazione di Giovanni Tria, presidente della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione (SSPA), si è aperto il Convegno “L’attività di lobbying tra trasparenza e partecipazione”, tenutosi lo scorso 17 febbraio presso la Sala polifunzionale della Presidenza del Consiglio dei Ministri. La scelta della sede dell’incontro da parte dei soggetti promotori (SSPA in collaborazione con il Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione e il Master in Processi decisionali e lobbying in Italia e in Europa dell’Università Tor Vergata) testimonia la consistente crescita di attenzione e considerazione verso l’attività lobbistica. Se un tempo le lobbies erano viste unicamente come gruppo di potere occulto, volto ad influenzare le decisioni politiche tramite la pressione economica, oggi costituiscono una delle principali questioni su cui si trovano a dibattere le moderne democrazie liberali. Giovanni Guzzetta, direttore del Master avviato dall’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, ha ricordato come la crisi dei soggetti e degli strumenti operativi coinvolti nel processo decisionale abbia profondamente trasformato “la fase del conoscere per deliberare”. Alla pluralità dei saperi è infatti corrisposta una frammentazione degli interessi che, secondo Pier Luigi Petrillo, docente di Diritto pubblico comparato presso l’Università “La Sapienza”, non può che concorrere in maniera significativa all’individuazione dell’interesse generale. Dello stesso parere anche Carlo Deodato, capo di gabinetto del Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, che ha definito l’attività delle lobbies “espressione immediata del pluralismo delle società contemporanee”, dove l’interesse generale è sintesi e mediazione degli interessi particolari. La sessione pomeridiana, seguita all’intervento del ministro Renato Brunetta, diretto a sottolineare l’intima connessione tra la qualità della pubblica amministrazione e quella dell’attività di lobbying, considerate come “due facce della stessa medaglia”, ha visto politici, esperti e professionisti del settore confrontarsi sul tema della regolamentazione e sul futuro delle lobbies. “A partiti moderni e partecipativi – ha affermato Giulio Santagata, autore dell’ultima proposta di legge in materia – si devono affiancare soggetti intermedi portatori di interessi legittimi”, che, come evidenziato da Antonio Catricalà, presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, “devono essere oggetto di una regolamentazione basata su principi orientati alla trasparenza”. Una reale crescita dell’attività lobbistica è possibile, secondo Claudio Velardi, fondatore di Reti, società di lobbying e public affairs, anche attraverso la creazione di nuovi luoghi di rappresentanza, che possano garantire una partecipazione crescente dei cittadini ai processi decisionali. Le conclusioni dell’incontro sono spettate a Gianfranco Pasquino, docente di Scienza politica presso l’Università di Bologna, il quale ha sottolineato come sia fondamentale instaurare un processo decisionale “prevedibile”, in cui risulti chiaro all’intera società chi prende le decisioni e sulla base di quali pressioni: solo così DESK 48 n. 3/2010 N O T I ZI E , D O C U M E N T I E C O N G R E S S I infatti si potrà realizzare una vera etica pubblica nel nostro Paese. (Camilla Rumi) Pescara: Cambiamo l’impianto della comunicazione con la Media Education M edia Education e scuola: idee ed esperienze in Abruzzo è il titolo del convegno che si è svolto il 5 Marzo a Pescara, nell’Aula “F. Caffè” dell’Università degli Studi “G. d’Annunzio”. La media education, arrivata in Italia agli inizi degli anni Novanta, si è data nel 1996 una struttura di appoggio come associazione culturale – il MED-Media Education – per volontà di un gruppo di docenti universitari, di professionisti dei media, di educatori (soprattutto della scuola) per costituire un luogo ideale di collegamento e di servizio nel dialogo tra esperti e professionisti della comunicazione, insegnanti ed educatori. Scopo della ME è offrire alle nuove generazioni non solo le chiavi di comprensione dei media ma anche suscitare nuovi artigiani per una migliore qualità di essi e per un apporto costruttivo della loro cultura alla civiltà degli uomini. Il convegno è stato coordinato dal Prof. Ezio Sciarra (Università “G. d’Annunzio”) e dalla Prof.ssa Giselda Antonelli (Università “G. d’Annunzio” – referente MED Abruzzo), introdotto dal Prof. Paolo Dell’Aquila. Le relazioni: Perché la media education, perché il MED? - Roberto Giannatelli (Prof. Emerito, Facoltà Scienze della comunicazione sociale, Università Pontificia Salesiana, Roma); La comunicazione, un virus o una risorsa per la scuola? - Mario Morcellini (Preside della Facoltà di Scienze della comunicazione, Università Sapienza, Roma); Media education e apprendimento – Carlo Petracca (già Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale per l’Abruzzo, Università “G. d’Annunzio”); Esperienze di media education in Abruzzo: 2003-2011 – Giselda Antonelli; ed infine La media education a Pescara e Chieti: parola agli insegnanti che si spendono nella e per la media education, ai loro progetti e alle loro esperienze nella Scuola Primaria. Le riflessioni: (Dell’Aquila) L’insegnante è un edu-comunicatore. (Giannatelli) Crisi delle istituzioni, emergenze: che l’Italia si desti! Io vorrei aiutarla a destarsi. La scuola non può assentarsi. I media sono macchine e tecnologia: viene prima la cultura dell’umanità. I loro contenuti vanno studiati individuando i collegamenti dei mezzi con l’ideologia, la pubblicità. Così educare significa capire e aiutare a capire, attraverso un’indagine non censoria, non curriculare ma interdisciplinare. E la scuola è il punto guida per fare comunità, e da cui partire per continuarlo a fare con le associazioni, i gruppi di amici. (Morcellini) La società non è più educante: non ci siamo accorti delle conseguenze penose della comunicazione. Non ce l’abbiamo fatta a civilizzare la comunicazione. Essa va bruscamente interpellata. Interferisce nella formazione e la scuola è in emergenza. Non ha saputo capire la comunicazione ed ha subito anzi due sconfitte: dal pluralismo formativo (vincono quasi sempre i media) e dall’esaurimento della forza progettuale dei valori. Ma i docenti hanno un compito con i giovani, devono acchiappare le loro culture, recuperare la desiderabilità del passato attraverso la trasmissione n. 3/2010 49 DESK N O T I ZI E , D O C U M E N T I E C O N G R E S S I della tradizione. Le condizioni per il cambiamento ci sono. Dai dati Istat emerge che la tv perde potere, eccezionalmente anche la radio, perdono i quotidiani, perché non colgono le culture giovanili. Giornali e tv sono seguiti soprattutto dagli adulti. Ma tutti i consumi culturali innovativi (teatro, musei, cinema) riprendono grazie ai giovani: si va di più a teatro, nei musei, mentre i media costruiscono la recessione culturale. Questo significa che i soggetti sono meglio della comunicazione che ricevono. Sono i segni del bene comune sui quali la scuola può tornare a lavorare. (Petracca) La scuola non deve temere infatti la disintermediazione. Gli strumenti - lingua, costumi, tecniche, valori - sono proprio ciò che inventa per trasmettere e permettere di elaborare cultura. La capacità di inventare strumenti permette il possesso della cultura scientifica e tecnologica e quello pieno della democrazia: come fa altrimenti un cittadino a dare una risposta ai grandi problemi, a livello etico, a livello ambientale. Media education significa che il medium insegnante va integrato con tutti gli altri mezzi per la costruzione della conoscenza nel soggetto attivo, che assimila, esplora con atteggiamento critico e ridimensiona il mito della macchina (che è come tutti gli strumenti che abbiamo inventato) e ne determina l’uso. Dunque una critica benevola al MED: perché faccia passi più veloci (Morcellini). Scuola e comunicazione insieme sanno e possono fare la stessa cosa: occuparsi degli altri. (Sabrina Speranza) Milano: Si può migliorare la qualità dell’informazione economica e politica S i può migliorare la qualità dell’informazione economica e politica in Italia? È quello su cui si è discusso mercoledì 16 marzo allo Iulm a Milano. Un dibattito pubblico promosso da Rena, Rete per l’eccellenza nazionale, in collaborazione con Linkiesta, giornale online di inchieste ed approfondimenti su temi economici, politici e sociali. A «Dati, bugie, politiche», questo il titolo della tavola rotonda, hanno preso parte Alessandro Fusacchia, presidente di Rena; Jacopo Tondelli, direttore de Linkiesta; gli “arenauti” Giuseppe Ragusa, docente di Econometria alla Luiss; Serenella Mattera, giornalista di Ansa e Sky.it; Eva Giovannini, inviata di Annozero (Raidue), co-autori de «Il dato è tratto». Al dibattito hanno inoltre preso parte Alessandra Galloni, direttore Sud Europa del Wall Street Journal; Enrico Giovannini, presidente dell’Istat e Alessandro Profumo, moderati dal caporedattore news Radio24, Sebastiano Barisoni. Ad aprire i lavori Alessandro Fusacchia: «Questo incontro deve servire a far passare un messaggio chiaro: numeri, dati, cifre e statistiche sono fondamentali per capire il mondo in cui viviamo e per compiere scelte strategiche e lungimiranti. Vanno rispettati. Dobbiamo pretendere di più dalla stampa. Tutti, ma soprattutto le nuove generazioni di giornalisti, devono fare uno sforzo ulteriore per produrre informazione accurata. Perché una buona informazione è la base di una buona politica. A forza di ripeterci che le opinioni contano, ci siamo infatti dimenticati che contano altrettanto gli argomenti usati per farle valere, e quindi i dati e i fatti che le sorreggono. Se continuiamo a usare i dati senza nessun controllo, o peggio ancora con dolo, non abbiamo nessuna speranza di migliorare la qualità della nostra democrazia». «Il lavoro che dobbiamo fare è moltiplicare il numero delle eccezio- DESK 50 n. 3/2010 N O T I ZI E , D O C U M E N T I E C O N G R E S S I ni in questa Italia che così com’è non sempre ci piace - ha proseguito il presidente di Rena - per fare in modo che tutte queste eccezioni diventino insieme una nuova norma. Basta con i giornalisti che prendono un lancio di agenzia, lo copiano, non controllano mai un dato, contribuendo a diffondere notizie inesatte, infondate, ancora una volta senza essere chiamato a risponderne. Dobbiamo cominciare a fare le cose diversamente, e pretendere di cambiare le regole. Dobbiamo cominciare non ad essere eccezionali, ma ad essere eccezioni». Il dibattito poi è entrato nel merito di «Il dato è tratto», lo studio che mette in luce come la stampa italiana troppo spesso diffonda dati senza opportune verifiche e soprattutto senza preoccuparsi dell’attendibilità della fonte. Gli autori hanno parlato delle azioni da intraprendere per sostenere e incoraggiare l’uso di informazione statistica valida e attendibile. Tra queste la creazione di verifatti.it, un sito web in via di costruzione che ha lo scopo di verificare le dichiarazioni ai media di politici e decision maker quando sono accompagnate dalla diffusione di cifre, dati e statistiche di carattere economico-sociale e raccogliere e sottoporre a peer review gli studi e le ricerche di varia natura prodotti da associazioni non governative ufficiali.L’imprescindibilità dei “dati”, sia nelle culture di governo sia nelle culture, in generale, della democrazia, dell’economia e dell’informazione è stata al centro dell’intervento di Enrico Giovannini, che ha sottolineato come il ceto politico, gli apparati istituzionali, l’impresa e il suo sistema associativo, i media e il sistema educativo devono avere strumenti, magari minimi ma metodologicamente corretti, per valutare, interpretare e discutere la statistica. Tre sostanzialmente i profili di assoluta centralità della statistica nel campo dei nuovi equilibri tra istituzioni e società: la qualità delle rilevazioni (metodologia, ampiezza, profondità); la trasparenza e l’indipendenza del trattamento degli esiti statistici; l’innovazione e l’efficacia di “racconto” di tali esiti. (Veronica Todaro) Roma: Media e Minori, aumentano i programmi e ancor più le infrazioni “ La tutela dei minori nella programmazione televisiva non è una battaglia persa: ciascuno deve contribuire per la propria parte. L’introduzione dei ragazzi alla realtà, la loro conoscenza e educazione devono rappresentare, al contrario, una battaglia prioritaria”. Questa considerazione di Franco Mugerli, Presidente del Comitato Media e Minori, ha aperto la giornata di presentazione del consuntivo 2010 dell’attività svolta dal Comitato, tenutasi lo scorso 15 marzo a Roma presso Palazzo Ferrajoli. Dal gennaio 2003, anno in cui è stato insediato presso il Ministero delle Comunicazioni, il Comitato Media e Minori (oggi operante all’interno del Ministero per lo Sviluppo Economico) ha preso in esame ben 2693 casi di possibile violazione del Codice di autoregolamentazione, instaurando 835 procedimenti in contraddittorio con le emittenti ed accertando 346 casi di violazione, di cui ben 72 nell’anno appena trascorso. Nel 2010 si è infatti registrato un incremento delle violazioni accertate: quasi il 60% in più rispetto a quelle del 2009 e del 150% in più rispetto a quelle del 2008. Un segnale allarmante che può essere soltanto parzial- n. 3/2010 51 DESK N O T I ZI E , D O C U M E N T I E C O N G R E S S I mente ricondotto alla crescente offerta televisiva (e quindi al conseguente aumento di programmi inadatti ad un pubblico di minori), dato il significativo incremento di violazioni nella programmazione delle reti Rai e Mediaset (nel caso di quest’ultima si sono addirittura triplicate rispetto al 2009). Secondo Alessandra Mussolini, Presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, i punti critici dell’attuale offerta televisiva riguardano soprattutto la pubblicità e le fiction, attraverso le quali vengono diffusi modelli valoriali e stili di vita potenzialmente molto dannosi per la crescita dei minori. L’introduzione di banner negli spot pubblicitari per trasmettere messaggi positivi sulla qualità della vita (come ha recentemente fatto la Francia) e di telegiornali a carattere familiare, contraddistinti da meno cronaca nera, potrebbero rappresentare un grande passo in avanti. A tali disposizioni sarebbe opportuno accostare una seria regolamentazione anche per Internet, ma soprattutto incrementare la sensibilizzazione verso queste problematiche ed avviare programmi di educazione ai media nell’intero corpo sociale. La necessità di una risposta corale all’annosa questione che lega la tv ai soggetti in età evolutiva è stata messa in luce anche da Roberto Napoli, Commissario dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, che ha evidenziato come “sia necessario supportare con le regole i minori e le famiglie, ma soprattutto dare il buon esempio e trasmettere valori positivi”. Nella convinzione che l’attenzione al problema dei minori che guardano la tv debba tradursi, prima e più che in divieti, nell’offerta di programmi caratterizzati da un buono standard qualitativo, il Comitato ha cercato di sensibilizzare soprattutto le reti Rai e Mediaset circa l’importanza di una programmazione aderente alle esigenze dei piccoli telespettatori. Alla luce dei principi stabiliti dal Codice, il Comitato ha così fornito alle emittenti una serie di orientamenti, emanato documenti di indirizzo e sperimentato forme di tempestiva collaborazione per evitare che comportamenti potenzialmente negativi potessero originare nuove violazioni. I tre documenti di indirizzo adottati nel corso del 2010, come sottolineato dal Presidente Mugerli, hanno riguardato: l’apposizione di segnaletica in caso di servizi televisivi con immagini storiche di contenuto problematico, le trasmissioni riguardanti minori vittime di violenze e assassinii e l’interpretazione della definizione di “programmi adatti ad una fruizione familiare congiunta”. Stefano Selli, Capo Segreteria del Ministero per lo Sviluppo Economico, ha infatti evidenziato il lavoro esemplare compiuto dal Comitato fin dalla sua costituzione, caratterizzato da “un entusiasmo disinteressato che ha portato a risultati importanti, non soltanto sul piano sanzionatorio, ma soprattutto su quello della sensibilizzazione generale”. Giuseppe De Rita, Presidente del Censis, ha invece menzionato la necessità di interrompere la fusione, ormai in atto, tra mondo dell’informazione e minori, affinché questi ultimi possano riconquistare la propria libertà e ricominciare a desiderare. “A fronte dell’invasione della comunicazione nel mondo dell’infanzia come un vero e proprio tsunami – ha affermato De Rita – non possiamo soltanto difenderci, dobbiamo reagire: c’è un problema culturale da affrontare non solo in termini legislativi”. L’aumento delle infrazioni al Codice sarebbe infatti da considerare, secondo il Presidente del Censis, un chiaro esempio di una più generale situazione di malessere, in cui il minore è prigioniero di una programmazione televisiva che dimostra mancanza di responsabilità tanto nei DESK 52 n. 3/2010 N O T I ZI E , D O C U M E N T I E C O N G R E S S I contenuti quanto nel modo di presentarli. Il dibattito si è concluso con l’intervento di Maria Eleonora Lucchin, Vicepresidente del Comitato Media e Minori, che ha evidenziato, in accordo con Franco Mugerli, come siano stati compiuti importanti passi in avanti in termini di responsabilità e sensibilizzazione, sicuramente da incrementare nel prossimo futuro. Le emittenti, così come tutti gli altri attori coinvolti, “dovranno quindi rendersi disponibili ad instaurare una dialettica costruttiva, aperta a tutte le istanze, per il bene di un solo soggetto: il minore”. (Camilla Rumi) Rapporto di Ossigeno per l’informazione: aumentano i cronisti sotto scorta S crivere, fare domande, elaborare inchieste, è diventato pericoloso anche a latitudini prima impensabili. Questo è il risultato dell’indagine condotta dall’Osservatorio Ossigeno 2010*, un rapporto completo ed esaustivo che fotografa quanto anche in Italia, fatte le dovute proporzioni, la professione del giornalista sia oggetto di pericolosi attacchi. E non ci riferiamo alle leggi all’esame dell’Esecutivo italiano che tanto fanno discutere, niente “legge bavaglio”, qui si parla della possibilità di morire per aver compiuto il proprio mestiere. Il rapporto, presentato recentemente al Circolo della Stampa di Milano, si focalizza su centinaia di giornalisti che, negli ultimi due anni, ha ricevuto pesanti minacce, pressioni, intimidazioni di ogni genere, fino alle più gravi che, tutt’oggi, costringono molti colleghi a vivere sotto scorta. Le dimensioni del fenomeno in Italia parlano da sole: almeno 12 giornalisti sotto scorta, 78 casi di minaccia censiti, 23 di questi investono intere redazioni, coinvolgendo oltre 400 giornalisti. Chiaro, i numeri registrano solo chi ha denunciato il fenomeno ma il timore è che questo “tumore” sia molto più vasto. A farne le spese maggiori, per giunta, sembrano essere quei cronisti free-lance, precari, isolati pure dal resto della redazione. Il rapporto Ossigeno segnala che 52 colleghi tra quelli che hanno sporto denuncia hanno un lavoro stabile, 18 precario e ben 8 sono liberi professionisti o free-lance. Le aggressioni fisiche sono state 13 con 15 danneggiamenti alle cose. I casi di minacce ed intimidazione, verbali e fisiche, sono state 34 con 16 denunce legali. Per molti di questi si va dalle auto bruciate ai proiettili recapitati nelle redazioni quando non teste di animali, insomma tutto ciò che occorre per imprimere una sentenza di morte. Dalle carte emergono lettere di minacce inquietanti, come quelle rivolte al giornalista Sandro Ruotolo e per le quali la Digos di Roma sta indagando. Ruotolo non ha un servizio di scorta e dai suoi racconti traspare una certa preoccupazione, che comunque non gli impedisce di continuare a fare il proprio mestiere e di raccontare l’Italia a modo suo. Atri colleghi hanno la scorta ma il potere di penetrazione di messaggi fin troppo chiari sembra inarrestabile. Sempre il rapporto cita l’esempio di Rosaria Capacchione, la giornalista de Il Mattino di Napoli sotto scorta da tempo per le numerose minacce subite dai Casalesi. Lo scorso 11 febbraio – attesta il rapporto 2010 – durante la presentazione di un libro alla libreria Feltrinelli di Napoli, è n. 3/2010 53 DESK N O T I ZI E , D O C U M E N T I E C O N G R E S S I stata avvicinata dal cugino del superlatitante Antonio Iovene che le ha contestato alcuni articoli scritti un anno prima su un altro congiunto «eccellente», Riccardo Iovene, arrestato assieme all’autore della strage di Castelvolturno, il boss Giuseppe Setola, nel gennaio del 2009. Oltre alla scorta – conclude il racconto – in libreria erano presenti decine di persone, carabinieri graduati e il magistrato italiano Raffaele Cantone. Lirio Abbate non gode di più fortuna, autore di numerose pubblicazioni di grande diffusione in Italia sui legami mafia-politica, soprattutto di un volume intitolato “I Complici. Tutti gli uomini di Bernardo Provenzano da Corleone al Parlmamento”. La sua capacità di fare inchieste e di “scovare” elementi oscuri gli è valsa una bomba sotto la sua auto a Palermo nel settembre 2007. Da quel tentativo si è passati a minacce sventate e riportate su lettere anonime giunte nelle redazioni presso le quali Abbate lavora. Questi sono solo tre esempi eclatanti in uno scenario molto più ampio che ha il denominatore comune in bravi colleghi impegnati giornalmente a raccontare i fatti. Sicilia, Calabria e Campania sono spesso balzate agli onori delle cronache per il controllo che alcuni gruppi criminali operano su una parte del territorio ma dalle associazioni dei giornalisti arriva forte il segnale che anche all’ombra della Madonnina le cose non vanno bene. Anche nel Nord Italia si insinua lentamente un comportamento inaccettabile nei confronti della categoria, soprattutto, evidenziano i giornalisti, a danno di coloro facilmente individuabili, cronisti magari in testate minori, corrispondenti in piccole porzioni di territorio, conosciuti dalla gente. Non sempre, come detto, si viene raggiunti da buste di minacce. Ci sono altri deterrenti come le preventive richieste di risarcimento, la gogna politica nel caso l’oggetto delle inchieste siano gli amministratori politici sul territorio. Taluni denunciano addirittura l’impossibilità di intervistare questo o quel rappresentante delle istituzioni, irritato con loro per alcuni articoli apparsi sui media. Poco lusinghieri nei confronti loro, poco inclini ad assecondare linee o programmi amministrativi. Ben vengano dunque rapporti come quelli stilati da “Ossigeno per l’informazione“, l’Osservatorio della Federazione nazionale stampa italiana e dell’Ordine dei giornalisti. E’ un modo per rendere noto e amplificare quanto sta accadendo a molti colleghi senza risparmiare pure una proposta al legislatore: l’ipotesi di reato per ostacolo all’informazione, dal momento che quest’ultima è sancita dalla Costituzione italiana. Censure e minacce – secondo l’osservatorio – dovrebbero entrare con urgenza nell’agenda della politica italiana. (Simone della Ripa, Ejo) Roma: “E’ tutto per stasera. Quando la politica entra nei Tg” DESK 54 n. 3/2010 L N O T I ZI E , D O C U M E N T I E C O N G R E S S I a lezione di Emilio Rossi nel libro autobiografico, uscito due anni dopo la morte, e raccontato a Viale Mazzini alla presenza di coloro che fecero grande la Rai : “E’ tutto per stasera. Quando la politica entra nei Tg”. Edito da UCSI,RAI ERI, CDG. Il primo direttore del Tg1 dopo la riforma del 1975 è stato ricordato da Biagio Agnes, Ettore Bernabei, Fabrizio Del Noce, Paolo Garimberti, Jas Gawronski, Arrigo Levi, padre Federico Lombardi, Andrea Melodia, Emmanuele Milano, Roberto Natale. Emilio Rossi narra la sua vita professionale dalla Rai di Genova, alla Segreteria programmi di Bernabei, alla direzione del Tg1. Il volume è il testamento di un’intensa esperienza dominata sempre da un’idea forte di servizio pubblico che, nonostante fosse bersagliato da mille tentazioni di parte, osservasse una sola regola: esercitare le proprie funzioni al meglio nell’interesse di tutti, nel pieno rispetto della politica, ma senza sottomettersi ad essa. “Facciamo vedere che siamo giornalisti, non burocrati”. E’ l’esortazione di Enzo Biagi quando nel 1961, assunto da Bernabei, approdò alla direzione del telegiornale. L’autore comunica emozione ed entusiasmo nel descrivere quel periodo. “Furono mesi di emergenza quotidiana, ma anche di scuola professionale veramente straordinaria. Ogni mattina per tutti riunione alle 9. Obbligatorio essere puntuali. Quasi altrettanto aver già letto i giornali e arrivare con proposte fresche, attraenti…venire incontro alla gente, coinvolgerla, soddisfarne le curiosità e i sentimenti, scaldarle il cuore”. E così si dipana il racconto della vita del giornalista nella più grande azienda culturale del Paese, dagli esordi fino all’ esperienza umana e professionale più importante e impegnativa, quella di direttore del Tg1, subito dopo la legge di riforma della Rai del 1975. Esperienza lunga, si protrasse fino al 1981; proficua, attraversò momenti importanti e terribili della storia nazionale e internazionale: dagli anni di piombo e il sequestro e l’uccisione del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, alle vicende vaticane che nel solo 1978 videro la morte di due pontefici e l’ elezione di Karol Wojtyla; drammatica: Emilio Rossi fu “gambizzato” nel1977 dalle Brigate rosse e pagò con un lungo ricovero e molte sofferenze il suo impegno di giornalista al servizio del grande pubblico ma “schierato”, nella logica aberrante dei suoi carnefici, con la DC. Siamo nel 1975. Nuovo direttore generale della Rai riformata è Michele Principe. Impazza il “toto- nomine” fino in autunno, quando inaspettatamente per Emilio Rossi, arriva la nomina alla direzione del Tg1. Andrea Barbato sarà al Tg2. Tre direttori per le testate radiofoniche: Sergio Zavoli, Gustavo Selva e Mario Pinzauti. Si comincia a parlare di lottizzazione, a volte in modo più “soft” di zebratura. Che pensare della riforma? Si chiede l’autore. Determinante fu “la maturazione della società italiana, l’aspirazione al pluralismo, l’insofferenza verso l’egemonia democristiana”. Questi gli aspetti positivi. Ma scrive ancora Emilio Rossi: ”Nella Repubblica dei partiti, padroni della Rai divennero quasi formalmente i partiti…Un regresso? Difficile sostenerlo. Dalla nascita, nel 1954, la televisione italiana era stata sotto l’ala del governo e del partito di maggioranza relativa…Palesemente velleitaria e/o sovvertitrice sarebbe stata però la pretesa di radere al suolo, perché oppressiva, la normale struttura aziendale con le sue funzioni, i suoi livelli gerarchici, le sue linee di responsabilità…Pos- n. 3/2010 55 DESK N O T I ZI E , D O C U M E N T I E C O N G R E S S I itivo, anzi doveroso l’ampliamento degli orizzonti in direzione pluralistica. Illusoria la prospettiva che bastasse piantare bandierine e non occorresse piuttosto puntare sul risultato” . L’interrogativo centrale, riguardo alla filosofia del servizio pubblico radiotelevisivo, è proprio questo secondo Emilio Rossi: “La pluralità dei punti di vista si esprime meglio autorizzando una pluralità di reti o testate a inalberare ciascuna il proprio vessillo o invece assicurando equilibrio e pluri- rappresentatività dovunque, all’interno di ciascuna rete o testata?”. Il dibattito è tuttora aperto e più acceso che mai. Certo dalla lezione di Emilio Rossi si apprende che l’autonomia e l’onesta intellettuale sono per tutti, ma soprattutto per chi lavora nel servizio pubblico, qualità imprescindibili. E poi l’umiltà, la voglia di comprendere e approfondire le dinamiche sociali, con la consapevolezza che la maggior parte degli italiani viene informato tuttora dalla Tv generalista, persino le nuove generazioni, nonostante l’avvento del web. Dall’intervento di tutti i commentatori emerge un dato comune: la certezza che questo libro sia importante per tutti gli addetti ai lavori e la nostalgia per una “età dell’oro” della televisione, quella degli anni Sessanta e Settanta, in cui non solo nelle trasmissioni giornalistiche, ma anche in tutti i programmi, compresi quelli di intrattenimento, venivano impiegati i più grandi professionisti, dai giornalisti agli autori, dai registi agli attori, dai musicisti ai grandi del varietà. Si respira una certa aria di “Amarcord” nella grande Sala degli arazzi di viale Mazzini. La qualità dei programmi e quindi l’eccellenza dei professionisti incaricati di realizzarli, vinceva allora comunque su tutto. “Che non sia solo nostalgia –esorta in conclusione Roberto Natale, presidente della Federazione Nazionale della Stampa- ma programma di lavoro per una grande azienda in cui conti più il “chi sei” che il “con chi stai”. Certi valori non invecchiano dice Natale, e il nesso tra la una Tv generalista di qualità e la democrazia è un valore per il quale battersi. Il presidente Garimberti, emozionato per essere seduto tra due grandi della televisione, Bernabei e Agnes, ricorda le qualità di quell’epoca televisiva e quelle personali di Emilio Rossi, tra cui la semplicità e l’immediatezza che si evince anche nella scelta del titolo del libro: “E’ tutto per stasera”. Dice Garimberti: ricorda Cronkite, il grande giornalista televisivo americano che concludeva le trasmissioni giornalistiche, anche le più drammatiche, con un “così è andato il mondo oggi”. (Rita Piccolini, Televideo Rai) S Ricerca Università di Urbino: Internet in ascesa ma la tv regge e la tv conserva il monopolio dell’informazione e i giornali mantengono il proprio appeal sugli utenti, internet stenta ad affermarsi. Questi, in estrema sintesi, i risultati della ricerca condotta dal LaRiCA (Laboratorio di Ricerca di Comunicazione Avanzata) dell’Università di Urbino Carlo Bo. L’indagine “Le news e gli italiani: dalla carta stampata, alla rete, al mobile. L’informa-zione: da rito a puzzle”, è stata illustrata nel corso di una conferenza stampa tenuta a Roma nella sede dell’Istituto Luigi Sturzo, dal direttore del LaRiCA e responsabile del progetto, Lella Mazzoli, e dal coordinatore della ricerca, Fabio Bigietto. A commentare i risultati sono intervenuti il conduttore di Ballarò, Giovanni Floris, e il diret- DESK 56 n. 3/2010 N O T I ZI E , D O C U M E N T I E C O N G R E S S I tore di Rai Radio 3, Marino Sinibaldi. Obiettivo della ricerca è fornire un quadro significativo delle principali fonti di informazione degli italiani, concentrando l’attenzione sull’incidenza che internet e la rete hanno nei processi di formazione dell’opinione pubblica. La ricerca ha interessato un campione di 1.209 individui adulti: 1009 interpellati tramite rete telefonica fissa (metodologia Cati), che hanno risposto ad un questionario di 50 domande; 200 interpellati su telefonia mobile. La tipologia delle domande è la stessa dei quesiti formulati dall’analoga ricerca svolta nel 2010 da Pew Research Center’s Internet & American Life Project. Così facendo i ricercatori di Urbino hanno potuto confrontare i dati elaborati con i risultati dell’indagine statunitense1. Gli italiani e l’informazione: dati di contesto Molti gli spunti di interesse emersi dall’indagine. Innanzi tutto si scopre che sono sempre i media tradizionali ad essere i più seguiti dagli italiani, nonostante l’ascesa costante della rete: ad un’analisi approfondita si rileva che è di gran lunga la televisione l’organo di informazione più gettonato (90,8%), ma soprattutto il mezzo ritenuto più autorevole e influente nella determinazione delle opinioni (62,1%). Proprio in relazione all’influenza percepita, internet figura all’ultimo posto fra i mezzi di comunicazione presi in considerazione dalla ricerca; invece negli Stati Uniti, proprio di recente, la rete ha superato per gradimento e consumo radio e giornali. Ciò non significa che gli italiani si limitano all’utilizzo di una sola fonte informativa (4%). Oltre la metà del campione (50,5%) utilizza contemporaneamente fonti online e offline, mentre poco meno della metà (48,7%) dichiara di utilizzare cinque o più mezzi di comunicazione: in particolare radio, tv locali e nazionali, emittenti allnews, stampa locale e nazionale, internet. Come sottolineato da Lella Mazzoli, “l’avvento dei nuovi media sembra procedere dunque più per espansione che per sostituzione. Non si può prescindere da questa logica di sistema per comprendere come è cambiato e come cambierà il consumo di news”. Ma c’è di più. La ricerca mette in evidenza che adulti e anziani si informano con maggiore frequenza e assiduità rispetto ai giovani. “L’impressione è che questa differenza evidenzi un nuovo modo di fruire l’informazione, che nel caso dei giovani è meno sistematico e più opportunistico: a puzzle”, puntualizza Mazzoli. Impressione suffragata dai numeri. Il 60,9% di coloro che attingono online news (51,1% della popolazione, ma ben il 93,8% nella fascia tra 18 e 29 anni) si informa tramite portali internet in grado di convogliare le notizie, come Google news, Msn, Libero notizie: nel 62,5% dei casi vengono utilizzati fra i 2 e i 5 siti web per avere informazioni, nel 23% dei casi si attingono notizie da conoscenti o gruppi partecipativi presenti su facebook (compresi parenti e amici personali), nell’84,5% dei casi ci si dichiara interessati ad informarsi su argomenti od eventi cui in precedenza non si è prestata attenzione (contro un 73,5% del resto del campione). Emerge anche che i cosiddetti online news consumer risultano più critici nei confronti del sistema dei media: soltanto la metà di loro accorda piena fiducia alla televisione, contro il 63,2% dei consumatori offline. Infatti l’82,9% ritiene che la n. 3/2010 57 DESK N O T I ZI E , D O C U M E N T I E C O N G R E S S I gran parte degli organi di informazione siano schierati; il 75,7% reputa inoltre che esistano reali fenomeni di censura o di omissione volontaria di notizie importanti. Non solo. Anche in Italia l’informa-zione inizia a divenire mobile (il 14,4% del campione – meno della metà del campione americano e il 27% dei navigatori della rete – si informa anche tramite cellulare), personalizzata (il 19,9% personalizza le pagine personali dei social network per filtrare fonti informative, tematiche di discussione, contatti) e partecipativa (il 36,4% ha contribuito a creare o a divulgare notizie, tramite i portali di posta elettronica e i siti di Facebook e Twitter). Si tratta di un dato, quest’ultimo, in linea con quanto emerso in America: il che spinge Mazzoli a concludere che “le pratiche di comportamento degli online news consumer e dei participatory news consumer mostrano affinità più che differenze”. L’informazione in Italia: dati di dettaglio Alcuni dati di dettaglio consentono di comprendere più a fondo la portata ricognitiva dell’indagine. Assodato che la televisione rimane il mezzo di informazione più utilizzato, si registra la tendenza a sfruttare a un’offerta sempre più diversificata: in primis la stampa nazionale (63%), seguita da quella locale (59%), dalla tv locale (62,8%), dalla tv allnews (53,2%), dalla radio (56,6%) e da internet (51,1%). Un dato, questo, non in linea con la tendenza americana (61%). Come rilevato ancora da Lella Mazzoli, “si può quindi osservare un orientamento verso un’informa-zione fatta di tante tessere, come un puzzle, che sembra abbandonare il modello rituale della lettura del giornale e della visione dei tg. Ciò nonostante, internet risulta ancora ultimo nella classifica dei mezzi utilizzati e determinanti nella formazione dell’opinione pubblica, diversamente da quanto accade negli Usa”. Ma come si declina l’utilizzo della rete da parte degli italiani in tema di informazione? L’abitudine più diffusa è di inviare e-mail (91,90%), alla stessa stregua degli americani (92%). Vi è poi un 59,30% che accede ai social network (negli Usa il 57%), in particolare su Twitter e blog minori (il 16,10% degli italiani e il 19% degli americani). Non mancano i dati relativi all’ipotetico identikit del consumatore di notizie in rete: generalmente ha un titolo di studio superiore o equipollente alla laurea e ha compiuto trent’anni (il 43,90% si inserisce nella fascia tra i 30 e i 49 anni); il 21,80% oscilla tra i 50 e i 64; il 27,60% si posiziona tra i 18 e i 29; soltanto il rimanente 6,70% ha superato la soglia dei 65. Il 60,9% degli online news consumer si informa mediante Msn e Google news, il 53% su quotidiani online. E ancora. Risultano molto gettonate le notizie impreviste o inaspettate: così per l’84,70% dei consumatori online e per il 73,50% della popolazione sul campione analizzato. Ed è molto elevata la percentuale di chi considera i media schierati (83,30%) e li ritiene colpevoli di omettere notizie di rilievo (77%). Come sottolinea Fabio Bigietto, “ritiene che i media coprano bene i temi di proprio interesse il 65,70%: in particolare lo sport sale al primo posto. Seguono le notizie sulla comunità locale e sugli spettacoli. Cultura e scoperte scientifiche, secondo gli online news consumer, non sono adeguatamente seguite dai media”. Alla tv attribuiscono il 60% del grado di influenza, a stampa e giornali il 65,30%, alla radio il DESK 58 n. 3/2010 N O T I ZI E , D O C U M E N T I E C O N G R E S S I 45,90%, a internet il 70,70%, contro il 47,30% della popolazione. Altrettanto significativi i dati relativi alle motivazioni che spingono gli italiani ad informarsi: l’84,90% obbedisce a una sorta di dovere sociale (il 69% degli americani), il 77,30% si informa per discutere o confrontarsi con gli altri (72% in America). In Italia sono soprattutto i giovani tra i 18 e i 29 anni ad informarsi per poterne poi discutere con amici o conoscenti. Ma avverte Lella Mazzoli: “Ci si informa anche per migliorare la propria vita (63,90% sono italiani e il 61% sono americani). Infine gli italiani che cercano informazioni a fini occupazionali o sul lavoro in genere ammontano al 31,30% (solo il 19% degli americani). Se si confrontano i dati della nostra ricerca con quella americana, si nota che il consumo partecipativo di notizie è il 36,40% del campione sentito al telefono e il 37% del 70% del campione americano”. Un ulteriore approfondimento ha riguardato 200 utenti di telefonia mobile interpellati sulle modalità di fruizione di notizie tramite cellulare. E’ emerso che oltre la metà possiede un telefonino collegabile con la rete (51%). Il 35% di questi utenti dichiara di informarsi tramite cellulare: le news più ricercate riguardano lo sport (18%), il traffico (15%), il meteo (14%), la politica nazionale (12%), l’economia e la finanza (11%). Minima, infine, la percentuale di coloro che scarica software per avere notizie su meteo e sport o informazioni di altro tipo (13% dei 200 utenti intervistati). Il parere degli esperti Nel corso della conferenza stampa svolta a Roma nella sede dell’Istituto Sturzo Lella Mazzoli così ha riassunto i risultati della ricerca: “Rispetto al mondo americano noi siamo ancora sufficientemente arretrati nell’uso della rete. Ma coloro che la usano si comportano in modo molto simile ai cittadini statunitensi. Questo è certamente un aspetto significativo. All’interno della rete gli italiani, analogamente agli americani, vanno alla ricerca di informazioni in maniera più casuale che non causale, nel senso che ricevono informazioni che incontrano per caso”. E sulle prospettive di scenario ha aggiunto: “Se è vero dunque che non si registra una scelta ben precisa o una ricerca scientifica dell’informazione, è altrettanto vero che si utilizzano più piattaforme per informarsi. Ciò significa che non è sufficiente una sola fonte di informazione, ma c’è bisogno di più fonti, anche se questo avviene non in modo scientifico, ma piuttosto casuale”. Dal canto suo Giovanni Floris ha sottolineato che “la ricerca dimostra che internet non cambia lo scenario, cioè non sostituisce, ma si aggiunge ai media. Non può essere questo l’evento in grado di cambiare l’informazione in Italia. E dimostra che ci devono essere tante fonti, non solo le isole del web, con interessi certificabili. Ma attenzione: se su internet si frequentano sempre gli stessi blog di chi dice la verità, la rete invece di aprire la testa agli italiani rischia di chiuderla”. E così ha concluso Marino Sinibaldi: “la tv è il problema italiano, come conferma anche la ricerca, perché continua ancora ad influenzare l’opinione pubblica. L’unica salvezza è il politeismo vs il monoteismo imperfetto della tv. In effetti la tv è ancora centrale in Italia, ma questo studio dimostra come si sgretolerà questo predominio: con la mobilità, la personalizzazione e la partecipazione”. (Andrea Lombardinilo) n. 3/2010 59 DESK N O T I ZI E , D O C U M E N T I E C O N G R E S S I Pubblicità: i ricavi dei quotidiani Usa calano ai livelli di 25 anni fa Gli ultimi dati della Newspaper Association of America – Se si considerasse l’andamento dell’inflazione, gli investimenti pubblicitari sui giornali sarebbero pari a quelli registrati 50 anni fa, nel 1962. La pubblicità online rappresenta ora il 14% dei ricavi globali rispetto al 4% che era nel 2005. ——— a pubblicità sui quotidiani americani è sprofondata allo stesso livello di 25 anni fa, mentre il mercato ha seguito la migrazione dei lettori verso internet, dove i costi delle inserzioni sono molto più bassi di quelli imposti dagli editori sulla carta. Gli inserzionisti – spiega l’ Associated Press citando i dati diffusi dalla Newspaper Association of America – hanno speso infatti, nel 2010, 25,8 miliardi di dollari nei quotidiani, la cifra più bassa dal 1985, quando gli investimenti complessivi nei giornali erano stati pari a 25,2 miliardi di dollari. Se si considera l’ andamento dell’ inflazione, la pubblicità sui quotidiani si aggira più o meno allo stesso livello di 50 anni fa. Nel 1962 i giornali registrarono complessivamente 3,7 miliardi, che tradotti ai giorni nostra valgono circa 26 miliardi di dollari. La pubblicità sulla carta – aggiunge l’ AP – è calata in maniera costante negli ultimi 5 anni, riducendo drasticamente la principale fonte di ricavi degli editori. Anche se l’economia ha mostrato segni di ripresa a partire dal 2009, i giornali continuano a registrare la diminuzione delle entrate a visto che gli inserzionisti si rivolgono a soluzioni molto meno care o gratuite offerte da internet che, tra l’ altro, consente di diffondere i messaggi proprio alle persone più interessate ai loro prodotti. Questo spostamento ha accelerato negli ultimi anni a mano a mano che i lettori abbandonavano la carta per il web. I giornali stanno quindi cercando di ricavare redditi sempre maggiori dalle edizioni digitali. L’ anno scorso l’online ha generato 3 miliardi di dollari, con un incremento dell’ 11% rispetto all’ anno precedente. Al contrario, la carta ha perso l’8%, scendendo a 22,8 miliardi. Prima della crisi del 2006, la pubblicità sulla carta generava per i quotidiani ricavi annui per 47 miliardi di dollari. Gli editori comunque si accontentano anche di più piccoli segnali di inversione di tendenza. Ad esempio – aggiunge AP – negli ultimi tre mesi del 2010 i ricavi sono stati pari a 7,3 miliardi, con un calo del 5% rispetto allo stesso periodo dell’ anno scorso, ma la tendenza in fase di attenuazione visto che nel periodo lugliosettembre 2009 il calo era stato del 29% rispetto allo stesso periodo dell’ anno precedente. La pubblicità online comunque ora rappresenta il 14% dei ricavi pubblicitari globali dei quotidiani, con una crescita notevole rispetto al 4% del 2005. (lsdi) L DESK 60 n. 3/2010 L I B R I LIBRI RECENSIONI Massimo Nava Il garibaldino che fece il Corriere della sera.Vita e avventure di Eugenio Torelli Violler ed. Rizzoli 2011 pp 288, euro 19,50 n. 3/2010 Nsera giustamente s’associa la figura di Eugenio Torelli Violler, suo fondatore. Si elle italiche storie del giornalismo, alla nascita ( 5 marzo 1876) del Corriere della aggiunge che era napoletano, di famiglia borghese e “borbonica”, seguace di Garibaldi; da giovane tuttofare ne L’indipendente guidato da Alexandre Dumas, vi aveva scoperto la vocazione al giornalismo e appreso a maneggiare bene i primi ferri del mestiere. Quel foglio era nato l’11 ottobre 1960, nel segno della neonata Italia. Garibaldi, padrone di Napoli, l’aveva affidato al già celebre e spericolato (nei costumi) romanziere francese. La città “era una scuola di giornalismo all’aria aperta”, scrive l’autore. Avendo alle spalle il mondo della stampa francese, il direttore inseriva novità editoriali che suscitavano curiosità e aumentavano la tiratura: ogni giorno il feuilleton in fondo alla prima pagina, corrispondenze esclusive, sconti e omaggi per gli abbonati, la pubblicità. La terza pagina era tutta per la cronaca locale, spesso impegnata nelle campagne di igiene pubblica: “E’ più di un anno che i piemontesi gestiscono il servizio di pulizia e ancora non sono riusciti a organizzare un corpo di spazzini”. Nava racconta bene e per esteso la crescita del giornale, innovativo per il panorama italiano; e la maturazione al suo interno di Torelli, compresi i rudimenti dell’arte di dirigerlo. Poi Dumas rientrò a Parigi e il giovanotto lo seguì, collaborando per testate italiane e conoscendo da vicino importanti giornalisti ed editori di quella capitale. E’ qui la vera svolta formativa per il futuro fondatore del Corriere, che l’A. ha il merito di raccontare ed analizzare nel dettaglio (resta la curiosità per qualche datazione aggiuntiva). Probabilmente facilitato dal suo lavoro di corrispondente da Parigi per il giornale milanese, sicuramente integrando così le nostre storie del giornalismo. La Francia aveva già fatto tesoro della positiva esperienza d’oltremanica nell’editare giornali; soprattutto della svolta del Times, che dal vendere notizie e silenzi ai potenti era passato al servizio del lettori e premiato da loro, nei primi anni del 1800, con un grande successo. Con Le Petit Journal Moise Polydore Millaud scopriva il potere dell’informazione e come fosse indispensabile raccontare fatti che appassionassero i lettori. Torelli conobbe Emile de Girardin, proprietario-editore de della Press, che tra i 200 quotidiani in circolazione conquistava a sua volta un 61 DESK L I B R I successo clamoroso, facendo leva sull’ autonomia dai poteri forti, la pubblicità e la riduzione a metà del prezzo di vendita. “…gli aveva spiegato che i giornali potevano essere al tempo stesso ricchi e liberi se dipendevano dai lettori, prima che dagli interessi dei finanziatori. Gli instillò il fascino del direttore d’orchestra, la misteriosa e seducente capacità di accordare le voci più diverse al servizio di un’armonia e di una squadra” Il giovane Torelli scoprì anche l’utilità del telegrafo per trasmettere rapidamente le notizie, il lavoro delle nascenti agenzie Reuters e Havas; cominciò a scrivere per testate francesi. Il giornalismo si separava dalla letteratura per diventare cronaca della vita vissuta ed impresa editoriale. Poi fu l’editore Sonzogno, avendolo conosciuto bene e provato come corrispondente, a proporgli il trasferimento a Milano: “C’è bisogno di gente come lei!” . Il seguito è noto. Cesare De Michelis Tra le carte di un editore ed. Marsilio 2010 pp 140, euro 12 Indro Montanelli Per Venezia (a cura di Nevio Casadio ) ed. Marsilio 2010 pp. 80 con dvd, euro 19,90 DESK Iricordato dall’attuale presidente e guida cultural-imprenditoriale Cesare De l mezzo secolo di vita della Marsilio, editore veneziano di libri e riviste, viene Michelis con un diario/manuale tanto piccolo quanto sincero e prezioso. Nata a Padova nel 1961, alla sua guida c’erano giovani intellettuali di vaglia come Giulio Felisari direttore della Tipografia Poligrafica Moderna, suo fratello Gianni attivo nella rappresentanza universitaria, Paolo Ceccarelli urbanista e in seguito rettore a Venezia, Toni Negri ex dirigente degli studenti cattolici poi socialista e a sinistra della sinistra. Era far politica, (guardando all’Einaudi e al suo rapporto col Pci) ricorda il prof. Cesare, coi libri volevamo cambiare il mondo. Fors’anche per l’onda lunga della Serenissima, che era stata con Aldo Manuzio la patria primigenia dell’editoria libraria a larga diffusione lungo il 1500, il giovane De Michelis, accanto alla sua cattedra di letteratura italiana a Padova, nel ’69 prende le redini della casa editrice. L’obiettivo non è più far politica, sapendo che “come in democrazia c’è la stupida regola che comanda chi ha più voti, così in editoria comanda chi vende più libri”. Di qui le collane e la scoperta delle potenzialità degli autori, di Susanna Tamaro e Margaret Mazzantini, fino al travolgente successo delle traduzioni dei romanzi dello svedese Stieg Larsson e l’accordo con la Rizzoli. Il volume raccoglie testi con le riflessioni maturate strada facendo, le scelte compiute all’insegna di: “l’identità di un editore non è più ideologica o estetica, ma piuttosto un’identità progettuale e culturale”. Nel rapporto con gli autori non vale tanto “l’editing con la matita in mano”, quanto dialogare con loro, facendo maturare gli spunti interessanti ed i loro testi. Eimporre il tema della sua urgente, improcrastinabile salvezza. Era il novembre Marsilio ripubblica ora quanto fece Montanelli per Venezia, una battaglia per del 1968 quando uscirono i quattro articoli di denuncia sul Corriere della sera. Un anno dopo il film inchiesta per la Rai, girato con la regia di Giorgio Ponti. Immagini che inchiodano, grande giornalismo scritto e televisivo, un testo da riascoltare per l’esemplarità della sintesi e dello stile, e da proporre alle scuole di giornalismo. ltro testo che ambisce ad un pubblico vasto, ma principalmente destinato agli operatori professionali, è la grande inchiesta sulla medicina e la sanità (più il fashion) condotta da Gisotti e Savini. E’ la ricostruzione della presenza di questi A 62 n. 3/2010 L Roberta Gisotti, Mariavittoria Savini TV buona dottoressa? La medicina nella televisione italiana dal 1954 ad oggi ed. Rai Eri 2010 pp. 294, sip I B R I temi fin dalle origini della tv, nella Rai del 1954 con le “conversazioni scientifiche”, e del loro seguito pure in Mediaset e Telemontecarlo. Incidono tanto, questi programmi, nel bene e nel male, se oggi 40 si 100 italiani scelgono sulla base di quanto sentito in tv. Ma la metà di tali ascoltatori sono insoddisfatti di quest’informazione medica ritenendola insufficiente e non sempre credibile. Di qui gli ampi e ben approfonditi capitoli sulle deontologie professionali, dei medici divulgatori e dei giornalisti scientifici. Corredati dalle testimonianze di giornalisti esperti in materia così come di medici pratici di tv o di scienziati autorevoli. (Paolo Scandaletti) Isa nel mondo di oggi, una chiesa “fotografata attraverso gli occhi di chi la rac- l libro presenta al lettore diversi spaccati del modo di essere e di porsi della chie- Rodolfo Lorenzoni, Ferdinando Tarsitani, La chiesa di carta, i vaticanisti raccontano, ed Paoline, pagg 166, euro 14 conta per mestiere”, come dichiarano gli autori, entrambi in stanza a Rai Vaticano, che danno voce, con le loro domande, a 32 dei giornalisti accreditati in sala stampa vaticana,, scelti tra quelli delle agenzie, della carta stampata, della televisione e della radio, ma anche dei siti e dei blog. I vaticanisti rispondono disegnando un dietro le quinte del loro lavoro, palando degli ingredienti del mestiere, del rapporto con le fonti, della complessità di un’informazione religiosa che per non correre il rischio della ghettizzazione deve avere agganci con tanti altri settori, dalla geopolitica, agli esteri, all’economia, alla società, alla cultura. Brevi interviste, dunque, che rivelano talora aneddoti o vicende frutto della personale esperienza dei vaticanisti, ma anche forniscono chiavi di lettura di quel soggetto complesso che è la chiesa, sempre più chiamata a “fare notizia” nel fluire della vita, della società e del mondo attuali. Punti di vista diversi, dunque, che danno vita a pagine da leggere con interesse”professionale e umano”, suggerisce Joaquìn Navarro Valls nella presentazione, anche perché il ritorno della religione sulla scena pubblica è stato possibile anche attraverso la “complicità” dei giornalisti che seguono il papa. E che raccontano, descrivono, sollevano dubbi e domande, offrono interpretazioni, ciascuno con il suo bagaglio di esperienze, sensibilità, cultura, modo di essere e di pensare. Molti i riferimenti al passaggio dal papato di Giovanni Paolo II a quello di Benedetto XVI, con le sottolineature tanto delle specificità e delle differenze, tanto della continuità. (Vania De Luca) Lnovembre del 2008, ha rappresentato una rivoluzione non solo dal punto di ’elezione di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti d’America, nel Gianpiero Gamaleri (a cura di)Le mail di Ob@ma. I nuovi linguaggi per finanziare una campagna elettorale e vincere le elezioni, Armando, Roma 2010 n. 3/2010 vista politico, sociale, culturale, ma anche sul versante della comunicazione, perché, per la prima volta, a farla da padrone nella campagna elettorale non sono stati i media mainstream, bensì la Rete. Proprio grazie a uno sfruttamento capillare delle potenzialità del web 2.0, il candidato Obama è infatti riuscito a trasformare taluni suoi “limiti” in opportunità di dialogo con gli elettori. È da questa considerazione che muove il libro di Gianpiero Gamaleri. Attraverso una lettura critica di uno dei principali strumenti cui Obama e il suo staff hanno fatto ricorso nella campagna elettorale (le mail, appunto), Gamaleri si chiede se e come tale strategia possa pagare nel passaggio dalla campagna elettorale alla conferma del consenso che, nel sistema politico americano, passa per il momento cruciale delle elezioni di mid-term. 63 DESK L I B R I L’immagine di Obama che emerge dalle mail, e che Gamaleri ben rimarca nella sua presentazione, è infatti essenzialmente quella di un uomo solo, equamente distante tanto dalle logiche del partito quanto da quelle dei circuiti massmediali su cui tradizionalmente viaggia la comunicazione politica. Un uomo che, proprio per questi motivi, è “costretto” ad avvalersi di strategie che potremmo definire “unconventional” per stabilire un contatto con il proprio bacino di elettori. «Riprendendo la folgorante intuizione espressa da Teilhard de Chardin negli anni Cinquanta», scrive l’autore, «potremmo pensare che accanto a un “Obama della biosfera” – il comune mortale con i piedi piantati sulla superficie terrestre della vita quotidiana, con le sue battaglie e le sue sconfitte registrate dai media tradizionali – si sia andato costruendo e sviluppando un “Obama della noosfera”, cioè nella nuova sfera della conoscenza digitale, che conduce la sua azione nella galassia della Rete, creando forme di solidarietà e di partecipazione dagli esiti imprevedibili e non misurabili con i parametri tradizionali». Ma, si chiede Gamaleri nella seconda parte del suo ragionamento, quel coinvolgimento degli elettori che si è rivelato vincente nella fase dell’avvicinamento alla Casa Bianca, non corre forse il rischio di ritorcersi contro Obama, nel momento in cui egli è costretto a confrontarsi con una serie di problemi (dal disastro ambientale causato dalla British Petroleum alla gestione della faccenda wiki leaks, dalle difficoltà interne legate ai temi della difesa dei diritti umani agli attacchi alla first lady Michelle, novella “Maria Antonietta”) sui quali gli elettori si aspettano delle risposte in linea con le promesse fatte durante la campagna elettorale? È proprio in questa prospettiva che emerge quella che, ad avviso di Gamaleri, è la caratteristica cruciale e irrinunciabile del “modello Obama”: la tensione etica, che fa «percepire ai lettori [delle mail] di essere una componente potenziale del cambiamento in atto. Un cambiamento […] che può essere sintetizzato in due parole: responsabilità e protagonismo». La risposta che Gamaleri offre è del tutto condivisibile: in una politica che si interroga sulla possibilità di sostituire la “logica dell’avere” con la “valorizzazione dell’essere”, e che mette al centro la propria dimensione etica, è infatti necessario che – nel momento in cui si chiede all’elettore un impegno che non sia solo di carattere elettorale, bensì finalizzato al bene comune – la politica sia disponibile ad assumersi tanto la responsabilità dei propri fallimenti quanto il rischio di scelte anche impopolari. Solo in questa prospettiva i media, e in particolare quel “Sesto Potere” rappresentato oggi dalla Rete, smettono di essere esclusivamente strumento da «cavalcare al solo scopo di mantenere il proprio potere», bensì diventano reale opportunità di democrazia. (Marica Spalletta) DESK 64 n. 3/2010