ORGOGLIO INDUSTRIALE

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ORGOGLIO INDUSTRIALE
Antonio Calabrò
Orgoglio
industriale
La scommessa italiana contro la crisi globale
Con la collaborazione di
Alessia Magistroni e Daniele Nepoti
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Il carattere degli italiani è frutto di storia e di
invenzioni.
giulio bollati
Per fare fronte a questa crisi ci corre l’obbligo di modificare sia gli oggetti che produciamo sia l’uso che ne
facciamo. Dovremo imparare modi diversi di costruire gli edifici e di organizzare i trasporti, dovremo inventare rituali che ci abituino al risparmio. Dovremo
diventare bravi artigiani dell’ambiente.
richard sennett
L’inferno dei viventi è quello che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono
per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non
vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno,
e farlo durare, e dargli spazio.
italo calvino
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Dove sta il futuro dell’industria italiana? Nella grande provincia del Nord, proprio nell’eredità di quello straordinario
«granaio meccanico» decantato dall’allora presidente della Fiat Vittorio Valletta,1 dove giusto cinquant’anni fa, tra il
1959 e il 1960, arrivava a maturazione il «miracolo economico». Lì, infatti, ancora oggi, si scandiscono i tempi della
ripresa, con le imprese manifatturiere di qualità. Lì si giocano le carte più importanti del nostro orgoglio industriale. E
se a questo processo, economico e sociale, si vuole dare un
volto e un nome, uno dei tanti possibili, oltre quelli delle
industrie più grandi e più note, lo si può andare a cercare
in un posto affascinante come un gioco di parole, l’H2otel.
Un albergo, sì, sul lago d’Orta, boschi, colline, antichi paesi silenziosi dove giocare il tempo con i passi lenti e il pieno dei silenzi. Ma soprattutto il simbolo di un esperimento
industriale: energeticamente autosufficiente, sfrutta l’acqua
del lago e il calore della terra grazie a un modernissimo sistema di macchine idrauliche, apparecchi termici, condutture, valvole, pannelli di distribuzione di caldo e freddo
messi a punto da un’impresa della zona, il gruppo Giacomini di San Maurizio d’Opaglio, conosciuto dai geografi dell’economia come «il paese dei rubinetti». Un gruppo
che si è trasformato radicalmente passando dalla vecchia
meccanica all’impiantistica più sofisticata.
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«Il futuro ha un cuore antico», alla Carlo Levi. Radici. Cambiamenti. Memoria di fabbrica. E innovazione. La
provincia italiana dove si lavora e si produce non è affatto
provinciale. Sente, proprio negli anni delle grandi trasformazioni dell’economia che tutti stiamo vivendo e un po’
soffrendo, il ritmo dei tempi che cambiano. E scopre d’essere in sintonia con le tensioni che animano parecchie altre
aree del mondo.
È in provincia, a Bedford Heights, nell’Ohio, nella fredda
mattina del 16 gennaio 2009, che si ferma anche il presidente degli Usa Barack Obama, in viaggio verso la Casa Bianca. E in una piccola fabbrica, la Cardinal Fastener & Specialty Company – viti, bulloni, giunti, meccanica di precisione
per le turbine a vento – ribadisce la strategia della green economy, industria e ambiente come motori dello sviluppo: «La
storia di quest’azienda dimostra che un’economia fondata
sulle energie rinnovabili non è una torta in cielo, una cosa
futurista: sta accadendo in America, offre un’alternativa al
petrolio e può creare milioni di posti di lavoro, producendo
energia pulita, costruendo turbine e pannelli solari, rendendo ecologicamente compatibili le nostre case, le nostre fabbriche, i nostri uffici».2
Gioca sulla fiducia, la Obamanomics. Robusti investimenti
pubblici, 800 miliardi di dollari, per banche e imprese in difficoltà, sostegni alle famiglie più deboli, finanziamenti per le
automobili «verdi», piccole, a basso consumo e assolutamente
ecologiche (un taglio del 30% in 7 anni per i gas serra) e soprattutto per le energie rinnovabili, la cui portata «è da raddoppiare: faremo in tre anni quello che abbiamo fatto in trenta».
Insomma, una vera e propria «era dei colletti verdi».
Ma in questa nuova visione economica c’è anche una più
generale idea del futuro: nuovi equilibri mondiali – dopo gli
sconquassi della finanza più avida e spregiudicata e della politica dello «Stato minimo», del lassez faire degli attori economici –, nuova attenzione ai valori, una strategia di sviluppo
ambientalmente sostenibile.
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Memore dell’antica ispirazione di Robert Kennedy,3 Obama sa che l’economia non si misura solo con la crescita del
Prodotto interno lordo, ma ha bisogno di essere alimentata
da aspettative positive, di progresso sociale, di qualità della vita e del lavoro. E prende atto della fine del ciclo delle
«bolle» delle speculazioni finanziarie e delle esasperazioni hi-tech per tornare con i piedi per terra, all’industria legata all’ambiente, ai servizi, alla buona finanza d’impresa.
Ricchezza concreta, scelte produttive, attitudine a fare bene
le cose, a vivere meglio senza inquinare né bruciare risorse non ricostituibili. Una nuova sintesi di valori materiali e immateriali. Un’economia fondata sulla conoscenza, la
cultura del cambiamento, la responsabilità personale e sociale. Appunto un green new deal.
È una scelta importante, questa. Che capovolge anni di
politica alla Bush, scarsamente sensibile all’ambiente. E incrocia positivamente l’esperienza europea, molto più avanti
degli Usa su ecologia e sostenibilità, ma anche sugli equilibri tra sviluppo economico e protezione e sicurezza sociale.
Fa ben sperare per il futuro. E anche se subisce alcune tentazioni che sono espressione della paura e della volontà di
difendersi nel cortile di casa, il rifugio in un malaccorto protezionismo (per l’acciaio, per esempio), apre comunque al
resto del mondo, al dialogo, al confronto. Il protezionismo,
d’altronde – mercati chiusi e tutela del cortile di casa – è visto come fumo negli occhi dai principali governi del mondo e sarebbe dannoso per gli stessi Usa, penalizzandoli sui
mercati internazionali per l’import e l’export, chiavi di sviluppo di lungo periodo.
Nell’universo globale, questo è un cammino che riguarda direttamente anche noi. L’Italia, nell’ipotesi di un nuovo
ordine del mondo, ha infatti buoni numeri per farcela.
E un numero, dunque, proviamo a dirlo subito: 4600.
Quello delle imprese industriali medie e medio-grandi che
costituiscono il cuore del nostro sistema produttivo, fanno
da motore di un tessuto produttivo diffuso di centinaia di
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migliaia di piccole imprese (l’economia dei distretti, delle
filiere), incrociano i ritmi internazionali delle migliori grandi aziende, scandiscono il tempo della competitività. Nel
ciclone della crisi in corso sono il cardine della ripresa, la
nostra carta migliore contro l’impoverimento, la perdita di
ruolo economico e civile, i timori del declino.
Questo libro, dunque, è soprattutto un viaggio di scoperta, non in luoghi nuovi ma, alla Marcel Proust, con occhi
nuovi per vedere. Un viaggio attraverso il «quarto capitalismo» italiano, quello delle società che, ben salde in territori densi di competenze manifatturiere, sono state capaci di specializzare i loro prodotti, conquistare posizioni di
leadership sui mercati internazionali, soprattutto nelle nicchie che gli economisti definiscono «a maggior valore aggiunto», quelle cioè più ricche e profittevoli.
Imprese molto innovative, naturalmente. Imprese di marca. Con una consapevolezza: l’innovazione non è prerogativa di un settore, secondo uno schema che contrappone artificiosamente la old economy industriale alla new economy
dell’information technology e dei più arzigogolati strumenti
finanziari, ma è una cultura, un modo di fare, una tendenza costante al cambiamento. Un cambiamento, insomma,
dei prodotti, dei processi produttivi, dei materiali, del design, ma anche della cultura d’impresa, della governance e
cioè della gestione aziendale, della promozione del «capitale umano», della valorizzazione della creatività, del pensiero più originale che diventa nuova forma e nuova funzione di un prodotto che dunque può sfidare il tempo.
Il diario di viaggio, nelle pagine che seguono, racconterà quanta innovazione, quanta tecnologia d’avanguardia e
quanta competitività ci sono in un’auto e in una delle tante sue componenti (un freno, un pneumatico, un filtro, una
scatola del cambio, un ammortizzatore elettronico, un impianto del motore), in una vernice o in un cemento speciale per l’edilizia che «mangia l’inquinamento», in un tessuto, e ancora in un oggetto d’arredamento, una macchina
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utensile, un farmaco, un robot industriale, un carrello per
il controllo automatizzato delle linee ferroviarie, una lampada a basso consumo, una turbina, un impianto fotovoltaico. In tutti quegli oggetti, cioè, che abitano in un modo
o nell’altro l’universo complesso della vita quotidiana e in
cui l’industria italiana, nonostante tutto, ha mostrato capacità d’eccellenza.
È un viaggio di ritorno, in fabbrica, un luogo fisico e sociale trascurato, negli anni più recenti, dalle scelte politiche
e dalle rappresentazioni dei media, persino messo nell’angolo dell’immaginario nazionale (come conferma un sondaggio realizzato da Ipsos proprio per questo volume, le
giovani generazioni, tranne poche eccezioni, non apprezzano le fabbriche, al massimo accettano gli uffici dell’industria e comunque dichiarano di preferire il lavoro in un call
center a quello in un’azienda industriale).
Ed è un viaggio nel futuro: la fabbrica è cambiata, somiglia sempre più a un’officina-laboratorio-centro di ricercaufficio di marketing e logistica, parla italiano, spesso con
inflessione dialettale bresciana o trevigiana, piemontese o
marchigiana, ma anche correntemente inglese, si specchia
in un atlante e vede la propria sede nella diffusa metropoli lombarda e le sue articolazioni in Romania e negli Usa,
in India, in Cina e in Vietnam. Fabbrica-mondo, insomma.
Che indossa con disinvoltura la casacca dell’economia glocal, acronimo tra globale e locale, già creato, anni fa, da un
pioniere del valore delle economie del territorio, come Piero Bassetti e adesso assurto a nuova gloria. Insomma, la storia artigiana e lo sguardo multinazionale.
Per anni, è vero, il dibattito politico ed economico italiano
è stato ossessionato dalla preoccupazione del «declino». E
più di una ricerca ha documentato la caduta e poi il drammatico crollo dell’industria italiana,4 dando per conclusa, anche se con rammarico e con severe note di critica per politici e imprenditori, una lunga stagione di esperienze che, dai
primi anni Cinquanta agli anni Ottanta, avevano collocato
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l’Italia nell’Olimpo delle grandi potenze economiche internazionali. Addio industria informatica e chimica (quella che
aveva garantito grande competitività alle plastiche made in
Italy e portato al premio Nobel di Giulio Natta, per il polipropilene), addio industria aeronautica, addio elettronica di
consumo. Ad aggravare il quadro, ecco anche il probabile
addio all’industria dell’auto, per la gravissima crisi che aveva colpito la Fiat all’alba degli anni Duemila: «Si è disfatta
la grande industria senza crearne di nuova».
La tesi, supportata dalle cronache di veri e propri disastri imprenditoriali e politici e da una lunga serie di dati,
contiene naturalmente elementi di verità. In Italia le grandi
imprese, quelle con fatturati superiori ai 3 miliardi, secondo la classifica di Mediobanca sulle principali società italiane, sono meno di 50, comprese le aziende pubbliche e private dell’energia e le principali società di servizi (Telecom,
Fininvest, Rai, Alitalia, le Poste, le banche e le assicurazioni). Per l’industria, l’elenco è ancora più scarno: Fiat, Finmeccanica, Riva, Pirelli, Barilla, Italcementi e poche altre
ancora, peraltro ben solide, produttive, inserite sulla scena internazionale.
Ma da qui, dalla constatazione del limitato numero di
grandi imprese, al severo giudizio sulla scomparsa dell’Italia industriale, ce ne corre.
Basta smettere di considerare «industria» solo la «grande industria». Ed ecco apparire allo sguardo dell’osservatore disincantato un panorama affollatissimo di soggetti industriali che reggono il mercato e crescono.
La riprova sta nei numeri. Da alcuni anni Mediobanca
e Unioncamere censiscono un robusto gruppo di 4000 medie imprese industriali, che hanno fatturati dai 13 ai 290
milioni di euro e contano in libro paga da 50 a 499 dipendenti. Altre 600 circa sono medio-grandi, con fatturati sino
a 3 miliardi. Sotto, c’è una platea di più di 500 mila società manifatturiere piccole e piccolissime, metà delle imprese industriali nel loro complesso (la parte del leone la fa
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l’edilizia), che danno lavoro a più di 4 milioni e mezzo di
dipendenti. E anche tra le piccole – documentano gli accurati studi di Confindustria, Banca d’Italia, Censis e Istituto
Tagliacarne di Unioncamere, che leggeremo nelle pagine
seguenti – ci sono eccellenti «campioni del made in Italy»
sui mercati internazionali.
I dati dicono ancora che proprio grazie a queste imprese l’export italiano è cresciuto negli anni, sino all’aumento
del 3% nel difficile 2008, alla pari con la Germania campione tradizionale del commercio europeo. E questa crescita è
leggibile non tanto in quantità quanto soprattutto in valore,
segno di una modifica delle nostre produzioni verso «l’alto
di gamma», la qualità, i segmenti di prezzo più elevati.
Tutto il sistema Italia ne ha avuto grandi benefici, in termini di ricchezza, di contributo al Prodotto interno lordo,
di tenuta dell’occupazione, di aumento del benessere diffuso. Non solo export, naturalmente. Ma anche industrializzazione attiva, con l’apertura di stabilimenti all’estero e con
l’acquisto di società un po’ dovunque nel mondo e la costituzione di joint ventures, nei Paesi già forti e industrializzati,
dalla Germania agli Stati Uniti, ma anche e soprattutto nella
Nuova Europa, in Turchia e nelle aree della sponda araba del
Mediterraneo e nei cosiddetti «Bric», Brasile, Russia, India
e Cina, le regioni di recente e più intenso sviluppo. Ci sono
state delocalizzazioni, inseguendo i vantaggi del basso costo
del lavoro (da parte dell’industria del Nord Est nella romena Timi'oara, per citare l’esempio più noto), ma soprattutto
scelte di insediamento strategico, stabile e di lungo periodo
per servire direttamente mercati in rapida crescita, in Cina e
in India appunto e, per i più lungimiranti, in un Brasile miracolo di sviluppo e di equilibrio dei conti pubblici.
In altri termini, le imprese industriali italiane hanno superato la stagione dell’imprenditore intraprendente che, digiuno di ogni lingua straniera o al massimo con un inglese approssimativo, partiva per l’estero per collocare i suoi
prodotti, sfacciato commesso viaggiatore di se stesso. E si
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muovono come attori contemporanei consapevoli della complessità dei mercati e delle opportunità di affari nel medio
termine. I padroncini di un tempo stanno via via diventando
imprenditori di serie A, classe dirigente, anche quando non
ne sono del tutto consapevoli. Capiscono che adesso devono
fare di più, non solo a livello locale. E contribuire attivamente alla ripresa. Non ci sono più i pochi «capitani coraggiosi».
Ma una platea di attori sociali in grado di essere protagonisti di un nuovo corso del Paese. «Ottimisti, malgrado tutto»
scrive in copertina il «Magazine» del «Corriere della Sera»,5
censendo le aspettative di 25 imprenditori italiani.
Anche il Censis6 fa alcuni conti interessanti: «Negli anni
della ristrutturazione produttiva, tra il 2000 e il 2006, sono
emerse circa 30 mila imprese manifatturiere non di microdimensioni ma comunque di taglia piccola e media, cresciute
piuttosto velocemente grazie a una triplice azione fondata
sul posizionamento in mercati di nicchia, su una innovazione finalizzata a rispondere a esigenze esplicite dei clienti e
sul rafforzamento e l’efficientamento di alcuni aspetti della gestione interna, in particolare della gestione finanziaria, del controllo dei costi e della rete di fornitura». Migliori prodotti, qualificati anche da politiche per valorizzare la
marca, migliore governo aziendale, migliori rapporti con
i mercati. Un buon passo avanti per la competitività. Questi imprenditori, infatti, hanno imparato a comprare materie prime, componentistica, trasporti là dove, momento
per momento, costano meno – oggi in Cina domani in Sud
America –, calcolano in modo sofisticato prezzi ed effetti
dell’oscillazione dei cambi delle monete, giostrandosi tra
dollaro, euro, yuan e real brasiliano. Inaugurano una filiale commerciale o tirano su un capannone dove si sta aprendo un mercato, cambiano caratteristiche e metodi di produzione adattandoli ai nuovi mercati, imparano e insegnano
ai fornitori locali. Si industriano. Insomma, intraprendono,
agili e veloci. È la flessibilità, sui mercati globali. Un’attitudine che, proprio agli italiani, è quanto mai familiare.
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C’è una definizione che, da tempo, illustra bene questa
tendenza: le imprese italiane sono delle «multinazionali tascabili». Si muovono, cioè, sui mercati globali, restando piccole ma soprattutto snelle, flessibili, adattabili, abili
a fare «industria su misura» del cliente, per usare la definizione dell’economista Innocenzo Cipolletta, presidente
delle Ferrovie dello Stato ed ex direttore generale di Confindustria, senza mai perdere la misura di sé, senza cedere
cioè alle tentazioni della crescita per la crescita, al «gigantismo inefficiente».
La sapienza è antica, ricordata da uno dei migliori storici
italiani dell’economia, Carlo Maria Cipolla: offrire ancora
una volta «cose nuove che piacciono al mondo».7 La lezione è attuale: «La ricchezza degli italiani non è mai acquisita in via definitiva ... E oggi la via obbligata per le imprese
e per coloro che vi lavorano è la ricerca incessante, da ultimo fondata sulla cultura, una cultura del fare, nelle “scuole” e nelle “botteghe”; una ricerca di qualità imprenditoriale e professionale, di aggiunta di valori agli input importati,
di capacità di esportare», sostiene Pierluigi Ciocca, per anni
direttore dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia.8
Nell’epoca della «grande paura», dopo i crack finanziari che hanno terremotato gli Usa dalla fine del 2007 e coinvolto rapidamente tutto il resto del mondo, il Censis9 individua cinque «primati», come principali punti di tenuta
dell’Italia: «Il modello di sviluppo si basa: a) sul primato
dell’economia reale, invece che sulle ambizioni e sull’ambiguità dell’economia finanziaria; b) sul primato dell’industria manifatturiera e della sua modernità in termini
di innovazione di prodotto e di processo (“siamo secondi solo alla Germania”); c) sul primato della piccola impresa, oramai così ramificata e diffusa nelle varie nicchie
del mercato mondiale da essere diventata imprescindibile fattore dei quotidiani processi di globalizzazione; d) sul
primato del familismo economico e dei processi con cui si
impegna nell’aggiustamento di consumi, risparmi e inve-
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stimenti; e) sul primato del localismo, dove la qualità comunitaria permette un valore aggiunto del territorio come
fattore competitivo e come soggetto dello sviluppo anche
internazionale».
Pilastri importanti, che reggono l’Italia economica e sociale anche in presenza di timori diffusi, disgregazioni del
tessuto sociale in una sorta di «mucillagine»,10 fratture dei
comportamenti politici, incertezze di prospettiva dell’intero sistema Paese.
C’è da esserne soddisfatti, naturalmente. Bisogna però
evitare i tipici meccanismi italiani dell’auto-consolazione,
della rimozione dei problemi o del rinvio comodo della loro
soluzione, della abituale tendenza a confidare nelle virtù
salvifiche dello «stellone d’Italia». Altrimenti si rischia di
ritrovarsi a dover fare i conti con «l’implosione in una bolla
tutta nostra, magari soffice e calda, ma altrettanto pericolosa delle bolle che hanno scatenato la crisi generale».11
La crisi in corso, infatti, va affrontata nella piena consapevolezza delle sue dimensioni. E delle sue particolari caratteristiche in Italia.
È la più grave recessione mondiale dal dopoguerra, tanto che sui giornali la si comincia a descrivere con lettere
maiuscole, la Grande Recessione. Banche e società finanziarie fallite o salvate da massicci interventi pubblici, Borse
in caduta, immobili in drammatica diminuzione di valore,
ricchezza distrutta, aziende chiuse, consumi e investimenti drasticamente ridotti, posti di lavoro persi a milioni, disoccupazione in aumento, indici di fiducia delle famiglie e
delle imprese in netta discesa. Tutte le previsioni dei principali osservatori economici internazionali sono negative per
il 2009, mentre l’orizzonte della ripresa si allontana a un timido 2010. Da Bruxelles, i responsabili della Commissione Ue ammoniscono: «Una recessione grave e prolungata.
Attualmente la fiducia dei consumatori e delle imprese si
trova al livello più basso da decenni e la situazione rischia
di deteriorarsi ulteriormente».
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Qualcuno teme che la recessione si aggravi con una diffusa deflazione, discesa costante dei prezzi, diminuzione
della domanda, ulteriore caduta dei prezzi e così via, in
una spirale negativa che finirebbe per bloccare a lungo la
crescita. Una melmosa palude dell’economia. Qualcun altro agita lo spettro della depressione, una lunga, drammatica crescita negativa, con effetti economici e sociali devastanti («ma comunque non siamo nel ’29», ripetono come
un mantra rassicurante politici ed economisti, per marcare
la differenza con il maggior disastro di Wall Street che allungò la sua ombra negativa un po’ su tutto il mondo nella prima parte degli anni Trenta).
Non si tratta, naturalmente, di un dibattito semantico.
La maggior parte degli attori economici insiste sulla Recessione provocata dagli squilibri di una crescita distorta
e illusoria («economia di carta» sopravvalutata, a dispetto
della portata dell’economia reale) ma anche da una globalizzazione malamente governata e da un gigantesco spostamento delle accumulazioni di ricchezza dai Paesi tradizionalmente forti (gli Usa, l’Europa, il Giappone) ai Paesi
produttori di petrolio e ai continenti del nuovo sviluppo,
in Asia e Sud America.
Negli anni Duemila il mondo ci è cambiato sotto gli occhi,
abbiamo guardato ma non abbiamo visto né quindi capito. E così in tanti abbiamo continuato a produrre, consumare, bruciare energia, accumulare debiti e coltivare illusioni
sullo «sviluppo infinito», senza alcun senso del limite, ambientale e sociale. Adesso ci siamo svegliati. Chiedendoci
con allarme che fare. Investimenti pubblici di sostegno alla
domanda dei consumatori e alla tenuta delle imprese, tagli delle tasse e drastica riduzione del costo del denaro, assistenza e supporti allo sviluppo. Diversamente dal 1929,
nelle stanze dei governi in quasi tutti i principali Paesi del
mondo e in una serie di vertici che si susseguono, settimana dopo settimana, si studiano strategie di intervento, cercando un coordinamento degli aiuti, degli stimoli e dei con-
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trolli, nuove regole per i mercati finanziari, per bloccare la
«turbofinanza» delle speculazioni più azzardate e gli intrighi nei paradisi fiscali. Anche se – ecco un punto reale di
incertezza, che allunga ombre inquietanti sul recupero rapido di fiducia, il bene primario della ripresa – nessuno sa
esattamente quanta «carta straccia finanziaria» ci sia ancora in giro, quanto profonde siano le alterazioni dei debiti
che nessuno sarà in grado di onorare.
Negli uffici del ministero italiano dell’Economia, in via
XX Settembre, a Roma, il ministro Giulio Tremonti, uno dei
primi politici a lanciare l’allarme sulla crisi,12 fa i conti: «Il
male da contrastare non sta nell’economia, ma nella finanza. E ha un nome oscuro: derivati. Non per caso nessuno
osa parlarne. La massa è in continua crescita, l’importo nozionale dei derivati è oramai pari a dodici volte e mezzo
il Prodotto interno lordo del pianeta, l’impatto netto oscilla tra i 20 e i 40 trilioni di dollari, mentre il piano Obama
per fronteggiare la crisi è inferiore a un trilione. Ma importo lordo o netto che sia, nei derivati è insito il cosiddetto
rischio incalcolabile, non sai a vantaggio di chi o a carico
di chi finirà questa enorme massa di scommesse finanziarie fini a se stesse».13 Una vera e propria minaccia alla stabilità dell’economia mondiale, una sorta di bomba atomica che può sconvolgere il mondo. Fonte di incertezza. E di
sfiducia nel futuro.
C’è chi sostiene che quei «derivati» (certificati che sono
stati costruiti su una lunghissima leva finanziaria e su azzardate previsioni sull’andamento futuro di cambi, materie prime, commerci, debiti e crediti di fantasia) andrebbero «sterilizzati», messi in una bad bank e fatti pagare non al
pubblico dei risparmiatori ma, peggio per loro, agli operatori finanziari che, soprattutto negli Usa e in Gran Bretagna, li hanno creati e messi in circolo, alchimisti spericolati di un irresponsabile gioco d’azzardo. E chi spera che sia
la ripresa dell’economia, unita a un accorto sistema di controlli, ad assorbire lentamente l’infezione. Di sicuro, rima-
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ne la paura. E tutte le previsioni sulla ripresa sono dunque
precarie: «Un’incertezza profonda e imponderabile, per
un’economia che si avvita in un’interazione negativa tra
condizioni finanziarie ed economia reale».14
Commenta Domenico Siniscalco, un economista abituato non solo a studiare ma anche a gestire direttamente problemi economici (è stato direttore generale del Tesoro nel
2001, ministro dell’Economia e della Finanza dal 2004 al
2005 e attualmente è vicepresidente di Morgan Stanley International): «Contro la crisi non abbiamo la silver bullet, la
pallottola d’argento, quella che nella tradizione nord europea serviva a uccidere i lupi e i vampiri. Non c’è, cioè, la
cura miracolosa e istantanea. Ma si sta lavorando per strategie mondiali che finanziano il sistema e ricostruiscono la
fiducia. Niente protezionismo, ma mercati aperti. Stimoli
per le imprese che innovano e ristrutturano. Spesa pubblica per la ricerca e l’innovazione. Scelte empiriche ma coordinate e lungimiranti a livello internazionale. Per ricostruire un capitalismo sostenibile».
Già, la sostenibilità dello sviluppo. Approfittando appunto della recessione. Al di là della bomba-derivati e volendo giocare le carte del prudente, ragionevole ottimismo,
c’è anche chi sostiene (lo vedremo nelle prossime pagine)
che una recessione, per quanto grave, in fin dei conti faccia bene. Segnala l’allarme sugli squilibri, stimola a rimettere ordine nelle politiche, nelle regole, nei mercati, seleziona e premia le imprese migliori e mette fuori gioco le
altre, liberando risorse. Come un temporale che pulisce
l’aria. A patto, naturalmente, di evitare che gli «aiuti di
Stato» salvino le imprese mal gestite, a danno del mercato, e dunque di fare sì che i salvataggi, pur se socialmente necessari e politicamente convenienti, cambino comunque gestione delle imprese e affidamenti di responsabilità.
Nulla, insomma, può restare come prima. Bisogna, in altre parole, approfittare della crisi per capirne fino in fondo le motivazioni, alleviarne gli effetti sociali (tutti coloro
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che perdono lavoro, casa, parte del reddito non sono freddi numeri delle statistiche, ma persone che vivono veri e
propri drammi, subiscono dolorose difficoltà). E, alla fine,
deciderne bene i rimedi.
E l’Italia? Il sistema Paese viene da una lunga stagione di
«crescita zero» o comunque molto ridotta rispetto agli altri
Paesi dell’Eurozona. Nel biennio 2006-2007 ha conosciuto
una certa ripresa, grazie soprattutto al lavoro delle imprese
che, come abbiamo visto, hanno cambiato modello di produzione e prodotti, si sono internazionalizzate, hanno guadagnato e investito. E oggi però si ritrova bloccata, come
tutto il resto del mondo. Con alcuni problemi in più: l’altissimo debito pubblico (il 105% del Pil) che non consente
investimenti pubblici massicci per sostenere innovazione
e sviluppo, le gravi carenze delle sue infrastrutture fisiche
e immateriali (dai trasporti che funzionano poco o male a
una scuola in coda alle classifiche per qualità della formazione offerta ai suoi ragazzi, per effetto soprattutto delle condizioni negative nelle aree del Centro-Sud), le tante riforme annunciate e rinviate (la macchina burocratica costosa
e inefficiente; la giustizia lenta e distorta, vera palla al piede anche per un sistema economico che avrebbe bisogno di
velocità dei giudizi e certezza del diritto; il mercato del lavoro alterato da rigidità eccessive e precarietà inaccettabili;
il sistema previdenziale squilibrato, che non tutela affatto
le nuove generazioni; l’illegalità criminale diffusa in larga
parte delle regioni del Mezzogiorno, freno allo sviluppo,
fonte di gravissimi problemi politici e sociali etc.).
Lo stesso sistema economico è attraversato da pesanti
contraddizioni. Le aziende più dinamiche, quelle grandi,
ma anche quelle medie di cui stiamo parlando in questo
nostro viaggio, si sono mosse, hanno costruito ricchezza.
Ma parecchi economisti temono la costante caduta della
produttività delle imprese. E comunque sull’intero tessuto
dell’economia continuano a pesare corporativismi, familismi amorali, forti evasioni fiscali (100 miliardi all’anno di
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imposte evase secondo una recente ricerca di Roberto Ippolito,15 un po’ meno secondo la Guardia di Finanza, un po’
di più secondo la Banca d’Italia, comunque un’enormità),
una diffusa tendenza all’economia «sommersa» e a un «capitalismo opaco» di aziende senza alcuna responsabilità sociale. Poco mercato efficiente e ben regolato. Molta consociazione. Altrettanto assistenzialismo. Vecchi mali noti. Ma
che proprio in tempi di crisi rivelano tutta la loro negatività, il peso condizionante come freno per il rilancio.
Proviamo però a cambiare punto di osservazione. E a
guardare altri punti di forza italiani, accanto alla dinamicità di parte del sistema economico. Non per dimenticare gli
aspetti negativi, né per ottimismo ideologico, ma per rispetto della realtà, molto più complessa dello schema dell’inevitabile «declino».
Cominciamo, allora, a muoverci meglio «dentro» i dati
delle principali economie dell’area Ocse, i Paesi più industrializzati. Noi italiani, è vero, siamo la «pecora nera» per
il debito pubblico, il 105% del Pil. Ma se si considera il cosiddetto «debito aggregato», cioè la somma del debito pubblico e di quello delle famiglie, le cose cambiano molto.
Marco Fortis, responsabile dell’Ufficio Studi Economici
della Edison (della cui Fondazione è vicepresidente) e professore di Economia industriale all’università Cattolica di
Milano, ha fatto bene i conti. E spiega: a fine 2007 il debito aggregato Usa era il 165% del Pil (65% il debito pubblico, 100% quello delle famiglie). In Gran Bretagna, il 144%
(44% quello pubblico, 100% quello delle famiglie). In Italia,
ci fermiamo al 134% (104% pubblico, 30% familiare). Dopo,
vengono Germania, Spagna e Francia, con bassi debiti pubblici, ma debiti familiari ben maggiori dei nostri (rispettivamente il 58,7%, l’80,3% e il 46,3%). Gli ultimi dati ufficiali disponibili si fermano al 2007, dunque alla vigilia della
grande crisi. E non possono che peggiorare, per il 2008 e il
2009, soprattutto negli Usa e in Gran Bretagna, per effetto degli enormi fondi pubblici stanziati in quei Paesi per il
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soccorso di banche e imprese in difficoltà, mentre rallenta
il debito delle famiglie che non sono state in grado di rimborsare le rate di mutui e carte di credito e dunque eviteranno di indebitarsi ancora.
Come interpretare questi dati? La sintesi è chiara: siamo un Paese carico di debiti dello Stato, delle varie amministrazioni pubbliche e degli enti locali, ma con famiglie
che si comportano ancora, nonostante tutto, come formiche previdenti e risparmiose, anche se sono più in difficoltà
che nell’immediato passato. C’è insomma un basso livello
di debito generale e una quota consistente di ricchezza familiare diffusa. Con un vantaggio conseguente. Le nostre
imprese sono, com’è noto, in gran parte imprese familiari.
E per reggere la crisi, anche in tempi di recessione e di credit crunch (la restrizione del credito da parte delle banche,
purtroppo in corso), possono fare affidamento sulle risorse proprie, familiari appunto. Non è un buon panorama,
certo. Ma meno fosco che altrove.
Guardando al tessuto imprenditoriale, Fortis fa una seconda considerazione: «L’Italia è più forte anche per quel che
riguarda l’economia reale. È poco “finanziarizzata”, ma più
salda. E ha una buona tenuta nell’agricoltura, nell’industria
manifatturiera e nel turismo». Guardiamo ancora ai dati: per
«valore aggiunto» siamo secondi in Europa, dopo la Germania nel manifatturiero, dopo la Francia nell’agricoltura, dopo
la Spagna nel turismo. Insomma, un buon equilibrio.
Concorda Claudio Gagliardi, direttore dell’Ufficio Studi di Unioncamere, attento osservatore della complessità dell’economia italiana: «Un sistema è solido e capace di
crescita, nonostante tutte le difficoltà, quando le sue varie
componenti sono in equilibrio. E noi, Paese industriale con
forti correlazioni con agricoltura e servizi, possiamo sperare in una buona tenuta complessiva. Per capirlo, basta per
esempio pensare alle correlazioni virtuose tra imprese agricole moderne, industria agro-alimentare, industria meccanica delle macchine agricole, industria dell’inscatolamento
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e dell’imbottigliamento (ne siamo leader mondiali), imprese hi-tech nelle biotecnologie etc. Senza contare tutti i rapporti tra turismo, ambiente, competitività dei prodotti del
made in Italy».
È un equilibrio che, appunto, altri non hanno. Chiarisce
Fortis: la Gran Bretagna, rinunciando all’industria manifatturiera, ha fondato la sua competitività internazionale sulla
finanza e oggi paga uno dei prezzi più alti della crisi. Il suo
settore dell’intermediazione finanziaria è il più importante d’Europa, per valore aggiunto, una volta e mezzo quello
tedesco, quasi due volte quello francese e più di due volte
quello italiano. Ma il valore dell’industria italiana in senso
stretto, quella manifatturiera, pari a 284 miliardi di euro, è
il doppio di quello generato dalle banche inglesi.
Quasi 300 miliardi di euro sono una ricchezza enorme.
Del cui peso e ruolo, in questi anni, non siamo stati sufficientemente consapevoli. E su cui vale la pena insistere.
«Un’industria tra declino e trasformazione», sintetizzava già qualche anno fa Giuseppe Berta, storico dell’economia, professore all’università Bocconi di Milano.16 Spiegando così i fenomeni in corso: «Chi guardi oltre la superficie e
osservi quanto avviene nella trama del tessuto economico,
nei gangli della società “molecolare”,17 non può non scorgere un reticolo di interazioni e di scambi, segnacolo di una
indubitabile vivacità. La cifra monocorde del declino impedisce di cogliere proprio questo, che in genere non si tratta
né di perdita secca né di scomparsa, ma di un processo incessante mediante il quale le attività economiche cambiano configurazione, si scompongono e si riaggregano al di
là dei vecchi confini settoriali, incuranti di una distinzione
oramai solo nominalistica tra industria e servizi».
L’analisi è d’attualità ancora oggi, nel cuore della Grande
Recessione, quando si vogliono individuare le forze adatte
a tracciare la via d’uscita dalla crisi. Berta sfoglia il suo libro e conferma: «C’è una nuova, forte architettura economica, contrassegnata dalla condizione progressivamente
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centrale delle medie imprese, tra le quali emerge un grappolo nutrito di soggetti imprenditoriali più dinamici, costituito da “multinazionali tascabili”, cioè da imprese molto
internazionalizzate, ma portate ad agire dentro mercati di
nicchia, capaci sia di attingere alle specifiche dotazioni italiane, dalle competenze territoriali alla cura per la qualità,
sia di trarre vantaggio dalle possibilità di coordinamento
offerto dalle nuove tecnologie, dalla velocità dei trasporti e dei collegamenti, da una nuova cultura della logistica,
dalle aperture culturali, da Internet».
Proprio su questi attori sociali ed economici fanno affidamento i fondatori di Symbola, un’associazione che riunisce
imprenditori, economisti, politici, uomini di cultura, amministratori degli enti locali, per la promozione del miglior
made in Italy. «C’è una intelligenza territoriale diffusa, che
si fa impresa e sa lavorare con sintesi originali di creatività,
capacità industriale, spirito di servizio, innovazione», sostiene Ermete Realacci, parlamentare, fondatore di Legambiente, presidente di Symbola e animatore della «Campionaria della qualità italiana», in maggio, alla Fiera di Milano.
Un’Italia sostenuta non tanto dall’ideologia del «piccolo è
bello» ma dalla dinamicità di imprese diffuse sul territorio,
non dal gusto folkloristico del «tipico» all’ombra dei campanili, ma dalle caratteristiche espansive del «saper fare, e fare
bene». «Dai talenti e dai territori si costruisce l’Italia del futuro», conferma Fabio Renzi, segretario generale di Symbola:
«Piuttosto che cedere ai messaggi depressivi di una lettura
solo negativa della globalizzazione e dell’eccessiva pressione competitiva, spesso sleale, sulle piccole e medie imprese
italiane, è meglio conoscere, prendere atto e sostenere quelle aziende, tante, che hanno accolto la sfida della crescita,
dei nuovi mercati, del cambiamento».
Renzi non lesina esempi, dalla farmaceutica Aboca in val
Tiberina, che esporta prodotti al ginseng in Cina («È come
vendere frigoriferi agli esquimesi») alla Alta di Ospitaletto, in provincia di Pisa, impianti di propulsione al plasma
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e tecnologie spaziali; dalla Digitart, domotica d’avanguardia, alla toscana El.En, sistemi laser per i restauri artistici;
dalla Faam di Monterubbiano, sulle colline delle Marche,
veicoli elettrici, fornitore ufficiale delle Olimpiadi di Pechino 2008, alla componentistica dei Fumagalli in Lombardia.
«Un elenco di eccellenze assolutamente indicativo», chiarisce Renzi. E comunque rappresentativo del percorso di
sviluppo che moltissime imprese italiane hanno intrapreso, stimolate proprio dalla concorrenza internazionale, dalla possibilità di affermarsi su nuovi mercati.
«L’Italia ha un tessuto industriale forte, molto radicato
e distribuito sul territorio, che garantisce all’industria e al
sistema Paese grandi capacità di recupero», sentenzia Luca
di Montezemolo,18 ex presidente di Confindustria, presidente della Fiat e della Ferrari e figura leader, con Diego
Della Valle, del fondo «Charme», che investe appunto in
imprese del made in Italy di qualità (un esempio? la Poltrona Frau).
È una cultura che si è affermata da alcuni anni. Ma che
viene comunque da lontano, dall’Italia industriale degli
anni Sessanta e Settanta e che ancora ha peso e influenza.
Lo testimonia, in modo esemplare, Luigi Lucchini, imprenditore bresciano del ferro, ex presidente di Confindustria,
nella lucida consapevolezza dei novant’anni: «Senza manifatturiero, cioè senza sudore e coraggio, non si va lontano.
Qualcuno pensava di avere trovato scorciatoie, senza capire
le controindicazioni e i rischi che sono deflagrati, mettendo
in difficoltà anche l’economia reale. Ma qui la matrice industriale avrà sempre la meglio sulla finanza pura».19
«Il territorio si fa fabbrica diffusa», spiega con un’immagine d’effetto Aldo Bonomi, sociologo, profondo conoscitore
degli animal spirits italiani, distretti, reti produttive, consorzi, sistemi di relazione che compensano le dimensioni delle
imprese piccole e medie, e fanno da sistema connettivo di
competenze e intraprendenze, ammortizzatori sociali diffusi, motori di distribuzione delle tecnologie e dei saperi.
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Esiste, insomma, da tempo in Italia un protagonista collettivo di sviluppo, che sarebbe sbagliato sottovalutare solo
perché nessuno di questi imprenditori ha nome e forza di
comunicazione per imporsi sul palcoscenico dei media o
forza contrattuale singola per fare da interlocutore di governi e sindacati. Il «viaggio con occhi nuovi» di questo libro guarda, invece, proprio nella loro direzione. E ne racconta le capacità di affermarsi. Nonostante tutto.
L’idea dello sviluppo non riguarda solo l’economia, ma
anche il sistema sociale e civile, nel suo complesso. Per capire meglio, basta incrociare alcuni dati, cercando di tracciare quattro mappe originali.
Prendiamo innanzitutto la concentrazione dei distretti industriali e delle filiere produttive: in una ideale carta geografica d’Italia, la zona che si colora con maggior intensità
è quella che parte dal Nord Ovest novarese, si allarga attraverso la pianura lombarda e veneta, segnala una particolare densità in Emilia-Romagna e si allunga giù sino alle
Marche. Grande rilevanza industriale, dunque.
Adesso tracciamo un’altra mappa, quella del Pil, il Prodotto interno lordo, su base regionale: «Nelle regioni dove
funziona bene il modello di sviluppo italiano basato sull’economia reale, si generano i più alti redditi pro-capite d’Europa: nel Nord-Centro Italia, quasi 28 mila euro, come in
Svezia, più che in Inghilterra».20 All’industrializzazione diffusa corrisponde una ricchezza al top europeo.
Tanti soldi? Non solo. Tracciamo una terza mappa, quella delle città e delle province in cui si vive meglio, secondo
le statistiche dell’indagine annuale de «Il Sole-24 Ore»21 costruita su una serie di 36 parametri che considerano il tenore di vita, gli affari e il lavoro, i servizi, l’ambiente e la salute, l’ordine pubblico, l’impiego del tempo libero. Ebbene,
tra le prime venti città prevalgono proprio quelle dell’economia dell’industria diffusa e dell’«economia del territorio», le province emiliane soprattutto. Un giudizio costante,
in un decennio, dal 1999 al 2008. E le città del Sud? Scarsi-
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tà d’industria, economia assistita, ampia pervasività della
presenza pubblica, politica assistenziale le collocano in fondo alla lista (così come sono in fondo alla lista del Pil procapite, naturalmente senza considerare l’«economia sommersa», quella irregolare e illegale).
Proviamo adesso a guardare una quarta e ultima mappa, quella del «capitale sociale», l’insieme delle «relazioni
libere e disinteressate che legano tra loro i cittadini di una
comunità», dei rapporti sociali e politici, della partecipazione attiva alla vita collettiva, della solidarietà, le cosiddette «virtù civiche» che sono parte essenziale della moralità pubblica, di una buona e vivace democrazia. «Mappe
del tesoro», le chiama Roberto Cartocci, politologo dell’università di Bologna.22 E le ha disegnate considerando quattro grandi parametri: «la partecipazione attiva e visibile
agli affari pubblici» (chi va regolarmente a votare alle elezioni); l’acquisto regolare di un quotidiano, indice di una
consapevole volontà di informarsi e avere un’opinione personale sugli avvenimenti della comunità locale e del mondo; la partecipazione alle iniziative del «terzo settore e del
volontariato», a un sistema di relazioni fondate sul dono
(come la donazione abituale di sangue) e non sull’interesse di mercato; l’impegno concreto degli sportivi attivi, che
fanno parte cioè non dell’affollata tribuna degli spettatori del calcio o della Formula 1, ma del mondo di chi intende lo sport come partecipazione personale, lavoro di squadra, comunità. Ebbene, incrociando quei dati, emerge un
atlante del «capitale sociale» che più o meno coincide con
le altre mappe di cui abbiamo parlato finora: le «virtù civiche» sono particolarmente concentrate tra Emilia, Toscana, bassa pianura padana e aree del Veneto, del Trentino e
dell’Alto Adige, del Friuli, ma si affievoliscono a mano a
mano che si va verso Sud.
Che giudizio ricavarne? Molto in sintesi, eccolo: alla dinamicità del tessuto economico delle imprese manifatturiere corrisponde un alto livello dei redditi e della qualità
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della vita, ma anche un’importante consapevolezza delle responsabilità dell’essere un protagonista sociale attivo, un cittadino.
Mercato. Protagonismo. Responsabilità. Democrazia. Una
sorta di «circolo virtuoso» che, pur tra mille limiti e contraddizioni, tra fratture economiche e sociali che percorrono gli
stessi territori del Nord (le carenze di infrastrutture, i particolarismi dei governi locali, una preoccupante tendenza
all’esclusione sociale soprattutto nei confronti dell’immigrazione dalle aree più povere del mondo, anche quando
quest’immigrazione, ben integrata, è motore di impresa e
fonte di ricchezza), può comunque fare ben sperare nel futuro del sistema Paese.
Azzardando un’altra sintesi, si può dire che una «economia del territorio», qual è quella delle piccole e medie imprese, è motore di uno spirito di sviluppo che ha ricadute
importanti sulla comunità. Un meccanismo in evoluzione,
da trattare con attenzione e rispetto.
Consapevole di questa realtà, della sua storia e delle sue
prospettive, proprio un economista come Berta può insistere sull’idea di «metamorfosi»: passaggio, trasformazione, una nuova, migliore condizione di presenza sui mercati, nella società. E non è certo un caso se allo stesso termine,
«metamorfosi», fa riferimento uno dei più grandi sociologi
contemporanei, Edgar Morin,23 nel notare «le straordinarie opportunità di cambiamento offerte dal crack dell’economia finanziaria», nell’apprezzare «il crollo del pensiero
unico», quello di un liberismo senza regole né controlli, disinteressato agli equilibri sociali, e nell’augurarsi «il ritorno alla complessità» e dunque a un’economia più equilibrata, sostenibile, attenta alla qualità.
In pieno mood dei tempi nuovi, anche il Censis24 parla di
«una nuova metamorfosi» per l’economia italiana, fondata sulla tenuta delle imprese più dinamiche e innovative,
aperte al mercato, legate al territorio ma non prigioniere
del localismo. Con una bella immagine di sintesi, il Centro
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Studi Confindustria guidato dall’economista Luca Paolazzi, pur consapevole della pesantezza della crisi e preoccupato per le sue conseguenze, liquida gli eccessi di pessimismo e la retorica del declino, affidandosi alla sapienza di
Lao Tse: «Quello che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla».
Coglie bene la sostanza del fenomeno lo stesso presidente
della Repubblica Giorgio Napolitano, quando, nei suoi interventi pubblici (dalla visita a Napoli nel novembre 2008
al Centro Ricerche Fiat e all’Alenia Aeronautica di Pomigliano d’Arco, alla consegna del «Premio Leonardo» per il
made in Italy di qualità), insiste sul rapporto tra tenuta del
sistema delle imprese e sviluppo dell’Italia fuori dalla crisi.
Lavoro e crescita economica come «fattori di coesione sociale», preoccupazione sincera per gli effetti della recessione
e stimolo ai politici e al Paese per le riforme necessarie per
affrontarla, «coraggio e volontà» per le imprese, per giocare bene la loro parte: «Il made in Italy e l’eccellenza italiana», particolarmente apprezzati anche all’estero, sono «una
grande sorgente di fiducia nel futuro». Insomma, «la volontà di creare e di intraprendere» va sostenuta. Perché «le
energie imprenditoriali, i talenti e gli ingegni sono la grande carta che noi dobbiamo saper valorizzare e giocare nel
prossimo futuro così denso di incognite».
La sintesi, sta nel messaggio di fine d’anno del capo dello
Stato, il 31 dicembre 2008: «Facciamo della crisi un’occasione perché l’Italia cresca come società basata sulla conoscenza, sulla piena valorizzazione del nostro patrimonio culturale e del capitale umano». Motori di sviluppo economico.
E di equilibrio sociale e civile. Una bella impresa.
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