Sentenza della Corte costituzionale n. 193/2016

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Sentenza della Corte costituzionale n. 193/2016
Sentenza della Corte costituzionale n. 193/2016
Materia: vincoli derivanti dall’ordinamento europeo e dagli obblighi internazionali, principi
di uguaglianza e di ragionevolezza.
Parametri invocati: articoli 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in
relazione agli articoli 6 e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950,
ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
Giudizio: legittimità costituzionale in via incidentale.
Rimettente: Tribunale ordinario di Como.
Oggetto: articolo 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).
Esito: non fondatezza.
Il Tribunale ordinario di Como ha sollevato questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale). La
disposizione in esame, intitolata “Principio di legalità”, prevede che “Nessuno può essere
assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in
vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni
amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati”. Essa viene
censurata nella parte in cui non prevede l’applicazione della legge successiva più favorevole
agli autori degli illeciti amministrativi. Viene denunciata, in particolare, la violazione degli
articoli 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 6 e
7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con
legge 4 agosto 1955, n. 848.
Innaizutto, la Corte ritiene non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 1 della l. 689/1981, sollevata in riferimento all’articolo 117, primo comma,
della Costituzione. Ad avviso del giudice a quo, la violazione risiederebbe nel contrasto
della disposizione censurata con il principio di retroattività della norma più favorevole,
principio applicabile anche alle sanzioni amministrative. Sono richiamate, in particolare, le
sentenze della Corte di Strasburgo del 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, e del 24
gennaio 2012, Mihai Toma contro Romania. Nella prima di tali pronunce la Grande Camera,
mutando il proprio precedente e consolidato orientamento, ha ammesso che “l’art. 7 § 1
della Convenzione non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più
severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno
severa”, traducendosi “nella norma secondo cui, se la legge penale in vigore al momento
della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di
una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono
più favorevoli all’imputato”. Il nuovo orientamento è stato ribadito nella successiva
decisione del 27 aprile 2010, Morabito contro Italia, in cui la Corte europea ha affermato
che “le disposizioni che definiscono le infrazioni e le pene” sottostanno a “delle regole
particolari in materia di retroattività, che includono anche il principio di retroattività della
legge penale più favorevole” all’imputato. In questa occasione è stato, peraltro,
sottolineato che l’articolo 7 riguarda solamente le norme penali sostanziali, e in particolare
le disposizioni che influiscono sull’entità della pena da infliggere. Infine, nella decisione del
24 gennaio 2012, Mihai Toma contro Romania, la Corte ha ritenuto che l’articolo 7 della
CEDU imponga la necessità che l’illecito sia chiaramente descritto dalla legge, che la legge
sia “predictable and foreseeable” e che sancisca sia l’irretroattività di disposizioni penali
sfavorevoli, sia la retroattività di norme penali più miti. Tali principi, costituenti
l’interpretazione della Convenzione fornita dalla Corte di Strasburgo, non possono essere
disattesi: ed invero “le norme della CEDU […] devono essere applicate nel significato loro
attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo” (sentenze n. 236, n. 113 e n. 1 del 2011,
n. 93 del 2010, n. 311 e n. 239 del 2009, n. 39 del 2008, n. 349 e n. 348 del 2007).
Spetta, peraltro, alla Corte costituzionale “valutare come ed in qual misura il prodotto
dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale
italiano. La norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell’art. 117
Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in
termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui questa Corte
è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza” (sentenza n. 317 del 2009). “A questa Corte
compete, insomma, di apprezzare la giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma
conferente, in modo da rispettarne la sostanza, ma con un margine di apprezzamento e di
adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in
cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi (sentenza n. 311 del 2009)” (sentenza n.
236 del 2011).
L’estensione del principio, di matrice convenzionale, della retroattività della legge
successiva favorevole ha già formato oggetto di valutazione da parte della Corte
costituzionale, laddove è stato ritenuto che: “Ancorché tenda ad assumere un valore
generale e di principio, la sentenza pronunciata dalla Corte di Strasburgo nel caso Scoppola
resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l’ha originata: la circostanza
che il giudizio della Corte europea abbia ad oggetto un caso concreto e, soprattutto, la
peculiarità della singola vicenda su cui è intervenuta la pronuncia devono, infatti, essere
adeguatamente valutate e prese in considerazione da questa Corte, nel momento in cui è
chiamata a trasporre il principio affermato dalla Corte di Strasburgo nel diritto interno e a
esaminare la legittimità costituzionale di una norma per presunta violazione di quello
stesso principio” (sentenza n. 236 del 2011). Con riferimento al caso in esame, la Corte
rileva che – nell’affermare il principio della retroattività del trattamento sanzionatorio più
mite – la giurisprudenza della Corte europea non ha mai avuto ad oggetto il sistema delle
sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì singole e specifiche
discipline sanzionatorie, ed in particolare quelle che, pur qualificandosi come
amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche
“punitive” alla luce dell’ordinamento convenzionale. L’intervento additivo invocato dal
rimettente risulta, quindi, travalicare l’obbligo convenzionale: esso è volto ad estendere la
portata del principio della retroattività della lex mitior al complessivo sistema sanzionatorio
amministrativo, finendo così per disattendere la necessità della preventiva valutazione
della singola sanzione (qualificata “amministrativa” dal diritto interno) come
“convenzionalmente penale”, alla luce dei cosiddetti criteri Engel (così denominati a partire
dalla sentenza della Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi
Bassi e costantemente ripresi dalle successive sentenze in argomento); criteri, peraltro, la
cui applicazione, al di là di quello della qualificazione giuridica, sarebbe facilitata da
ulteriori precisazioni da parte della Corte europea o dei singoli ordinamenti nazionali
nell’ambito del margine di apprezzamento e di adeguamento che è loro rimesso. In
definitiva, la Corte non rinviene nel quadro delle garanzie apprestato dalla CEDU, come
interpretate dalla Corte di Strasburgo, l’affermazione di un vincolo di matrice
convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei
singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da
trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative. Da ciò discende la non fondatezza della
denunciata violazione degli obblighi internazionali, di cui all’articolo 117, primo comma,
Cost.
Anche in riferimento all’articolo 3 Cost., la Corte dichiara la non fondatezza della questione
di legittimità costituzionale dell’articolo 1 della l. 689/1981. Ad avviso del giudice a quo, la
disposizione in esame si porrebbe in contrasto con i principi di uguaglianza e di
ragionevolezza, poiché − a differenza di altre fattispecie previste in leggi speciali ed in
mancanza di motivi di interesse generale tali da giustificare il diverso trattamento –
verrebbe derogato il principio generale di retroattività della norma successiva più
favorevole. Il rimettente prospetta, dunque, la necessità di un intervento additivo volto ad
estendere a tutto il sistema sanzionatorio amministrativo, in via generalizzata ed
indifferenziata, il principio della retroattività della legge successiva favorevole. In
riferimento all’articolo 3 Cost., la costante giurisprudenza della Corte costituzionale,
richiamata dallo stesso rimettente, ha affermato che in materia di sanzioni amministrative
non è dato rinvenire un vincolo costituzionale nel senso dell’applicazione in ogni caso della
legge successiva più favorevole, rientrando nella discrezionalità del legislatore ‒ nel
rispetto del limite della ragionevolezza ‒ modulare le proprie determinazioni secondo
criteri di maggiore o minore rigore in base alle materie oggetto di disciplina (ordinanze n.
245 del 2003, n. 501 e n. 140 del 2002). Quanto, inoltre, al differente e più favorevole
trattamento riservato dal legislatore ad alcune sanzioni, ad esempio a quelle tributarie e
valutarie, esso trova fondamento nelle peculiarità che caratterizzano le rispettive materie e
non si presta, conseguentemente, a trasformarsi da eccezione a regola (ordinanze n. 245
del 2003, n. 501 e n. 140 del 2002). Tale impostazione risulta coerente non solo con il
principio generale dell’irretroattività della legge (articolo 11 delle preleggi), ma anche con il
divieto di applicazione analogica di norme di carattere eccezionale (articolo 14 delle
preleggi). Nel caso in esame, la specialità della disciplina sanzionatoria di cui all’articolo 3,
comma 3, del d.l. 12/2002 è accentuata dall’applicabilità della disposizione di cui al
secondo comma dell’articolo 8 della l. 689/1981, intitolato “Più violazioni di disposizioni che
prevedono sanzioni amministrative”. Essa prevede che – per le sole violazioni in materia di
previdenza ed assistenza obbligatorie ed in via derogatoria rispetto alla regola generale del
cumulo materiale – si applichi il trattamento di maggior favore del cumulo giuridico
(sanzione per la violazione più grave, aumentata fino al triplo) anche per le ipotesi di
concorso materiale eterogeneo. Peraltro, al di fuori di tale particolare categoria di illeciti
amministrativi, il concorso materiale di violazioni continua ad essere regolato dal criterio
generale del cumulo materiale delle sanzioni. Siffatto trattamento favorevole –
specificamente applicabile in via derogatoria alle sole sanzioni in esame – sottolinea la
peculiarità degli interessi tutelati e la natura eccezionale di tale disciplina, la quale non si
presta ad una generalizzata trasposizione di principi maturati nell’ambito di settori diversi
dell’ordinamento. Invero, secondo la Corte, la scelta legislativa dell’applicabilità della lex
mitior limitatamente ad alcuni settori dell’ordinamento non può ritenersi in sé
irragionevole. A questo riguardo, va rilevato che la qualificazione degli illeciti, in particolare
di quelli sanzionati in via amministrativa, in quanto espressione della discrezionalità
legislativa si riflette sulla natura “contingente” e storicamente connotata dei relativi
precetti. Essa giustifica, quindi, sul piano sistematico, la pretesa di potenziare l’effetto
preventivo della comminatoria, eliminando per il trasgressore ogni aspettativa di evitare la
sanzione grazie a possibili mutamenti legislativi. Il limitato riconoscimento della
retroattività in mitius, circoscritto ad alcuni settori dell’ordinamento, risponde, quindi, a
scelte di politica legislativa in ordine all’efficacia dissuasiva della sanzione, modulate in
funzione della natura degli interessi tutelati. Tali scelte costituiscono espressione della
discrezionalità del legislatore nel configurare il trattamento sanzionatorio per gli illeciti
amministrativi e risultano quindi sindacabili dalla Corte costituzionale solo laddove esse
trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene a fronte di
sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole
giustificazione.