SPORCARE I MURI DI MILLE COLORI 5 racconti

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SPORCARE I MURI DI MILLE COLORI 5 racconti
SPORCARE I MURI DI MILLE COLORI
5 racconti selezionati e curati da Alberto Grandi
firmati da
Diego Castelli
Andrea Bompresso
Alberto Pancaldi
Jason Violenza
Daniele Gabrieli
Prefazione del curatore
Nelle intenzioni originali questa raccolta non avrebbe dovuto essere
composta da cinque racconti, ma almeno venti, perché venti, se non più,
sono i racconti postati su Penne Matte che io consiglierei di leggere a
un amico, a prescindere dal fatto che sono l'amministratore del sito.
Come mai, allora, solo cinque?
Per problemi tecnici e di tempi.
Partiamo dai problemi tecnici.
Gli autori di questi cinque racconti hanno firmato una delibera
regolarmente redatta da un avvocato dove mi autorizzavano a compiere
eventuali modifiche contenutistiche e formali ai loro lavori, laddove ne
avrebbero necessitato, e a metterli online a pagamento, senza avanzare
alcun compenso economico.
Non avevo la speranza di diventare ricco con la pubblicazione dei
suddetti racconti, ma di guadagnare quanto basta per coprire
parzialmente i costi del sito, di cui sono unico proprietario e
amministratore, sì. Dopo aver riflettuto, ho deciso di rilasciare
gratuitamente in versione pdf la raccolta su Penne Matte; per chi, invece,
desideri leggerla su supporto ereader scaricando il file da uno store
digitale, il prezzo sarà inferiore a 1 euro.
E ora i problemi di tempi.
Molti autori avevano risposto alla mia richiesta di essere pubblicati
con entusiasmo, a patto che avessero l'ultima parola sull'editing. Era una
richiesta legittima ma che avrebbe rallentato i tempi di messa online. Ad
oggi sono unico amministratore e redattore di Penne Matte. Contrattare
eventuali modifiche di contenuto e forma con ciascuno, per giunta via
email, sarebbe risultato un lavoro troppo lungo.
Ecco spiegato perché delle 453 opere postate su Penne Matte, ne
trovate solo cinque.
E ora veniamo a questi cinque racconti e al titolo della raccolta.
Tutti i racconti che leggerete, Il custode, Massimo rispetto per Don
Zauker, Il punto di vista dei giocattoli, Unione ragazze dell'Est e
Dungeon Boy, Dungeon Girl, hanno in comune una caratteristica non so
quanto pianificata, non so quanto inconscia: l'uso della narrativa per
ibridare. L'elemento costante è quello fantastico che viene poi associato
a diverse tematiche; quella del precariato (lo stagista de Il custode), la
condanna a non crescere mai, a rimanere bamboccioni calati in una
perenne adolescenza (il ragazzo allucinato e l'eroinoname di Massimo
rispetto per Don Zauker e Il punto di vista dei giocattoli) e la confusione
tra gioco e realtà (i giocatori di Dungeon Boy, Dungeon Girl). In Unione
ragazze dell'Est, l'elemento fantastico non spicca come negli altri, ma c'è
comunque un senso dell'assurdo che sfiora il bizzarro e, in un passaggio
del racconto, viene inscenato un incubo dai contorni a dir poco surreali.
L'impressione generale che si ricava leggendo questi racconti è la
stessa che si ha sfogliando distrattamente tutte le anteprime postate su
Penne Matte: gli autori (per lo più emergenti - non dico "giovani" perché
questa parola, in tempi di crisi economica, è ingannevole oltre che
mortificante) tendono a mescolare, ibridare, a usare la letteratura per
condensarvi gli infiniti livelli comunicativi di cui ci dispone la società
odierna. Se la pagina bianca è una stanza immacolata, ecco che loro la
riempiono di mille colori, tanti quanti sono gli elementi che inscenano.
Siamo lontani dalle introspezioni psicologiche de Il giovane Holden e
anche dagli scorci quotidiani e minimalisti alla Raymond Carver.
Uno scrittore contemporaneo si collega a Facebook, guarda alla tv
True Detective, clicca freneticamente su YouTube per selezionare le
scene preferite dei film, digita sms sul cellulare... quando si ritrova
davanti al foglio bianco la storia che si sente spinto a raccontare non può
riguardare il suo disagio individuale nei confronti della società, né
limitarsi a cristallizzare il vissuto quotidiano. Per forza di cose, deve
sfogare i tanti input narrativi, alti e bassi, che il mondo gli scaglia
contro. Ecco perché ho usato la parola "sporcare" e "mille colori". Ed
ecco perché leggere questi cinque racconti è divertente nel senso più
genuino del termine. È un po' come salire a bordo di una giostra e girare
circondati da prostitute in cerca di vendetta, spettri in grado di conferire
poteri speciali, nani, elfi, giocattoli che hanno segnato la nostra infanzia
e ritornano come un incubo nella vita adulta eccetera.
Una volta scesi vi sentirete un po' frastornati, ma secondo me avrete
voglia di farvi un altro giro e quindi... alla prossima raccolta!
Diego Castelli
IL CUSTODE
Era entrata, ma non sapeva come uscire. Guardare in una direzione o
nell'altra non faceva differenza. Tutto bianco, accecante. Annaspando
senza meta nella luce violenta sbatteva contro barriere trasparenti oltre le
quali c'era solo il buio. Il bagliore la confondeva, cancellando sagome e
contorni. Il pavimento scottava. Non riusciva a stare ferma in un punto
per più di pochi istanti. Ognitanto, senza preavviso, colpi vigorosi
rimbombavano nello spazio ristretto, e mentre fuggiva in preda al panico
riusciva a intravedere un'ombra gigantesca che calava sulle pareti
invisibili.
Bum. Bum.
Tic. Tic.
«Rossi! Mi dici cosa stai facendo?!»
Il ragazzo barcollò e quasi cadde. Stava in piedi sulla scrivania, la
gambe larghe ai due lati della tastiera, e picchiettava col dito sulla luce
al neon. La voce a quell'ora l'aveva colto alla sprovvista.
Abbassò le mani lungo i fianchi con aria colpevole.
«Dottor Fasci, chiedo scusa... Stavo... Ehh... Una mosca è finita nel...
stavo cercando di farla uscire.»
Seguì un silenzio imbarazzato. Fasci rimase immobile, grigio, una
specie di grossa lapide incorniciata dal cappotto scuro. I baffi neri erano
piegati in una smorfia di blanda irritazione, mentre la mano destra
stringeva impaziente la maniglia della valigetta.
«Vieni giù di lì, la roba che stai calpestando la pago io.»
Il ragazzo si affrettò a scendere, spazzolando con la mano quel poco
di polvere lasciata dalla suola delle scarpe. Si voltò di nuovo verso
Fasci, rimanendo in attesa.
«Domattina presto mi serve il rapporto Johnson & Peer.»
Il ragazzo provò a nascondere lo sconforto, ma i suoi occhi corsero al
computer ormai spento.
«Ma dottore, non si era detto domani sera? In tutta onestà stavo
per...»
Fasci sollevò la mano libera e lo interruppe.
«Ti devo ancora spiegare queste cose? L'hai avuto il contratto, no?
Quant'è ormai, due mesi?»
«Cinque...»
«Benissimo», continuò Fasci, «e allora su, non farmi lo stagista
arrivato ieri. Domattina lo devo avere subito. Oppure puoi parlare tu con
la Johnson...»
Il giovane deglutì le ultime proteste e abbassò lo sguardo. «No
dottore, certo che no.»
«Bravo ragazzo. Dario, giusto?»
«Davide...»
«Davide!» ripeté quasi istantaneamente Fasci, fingendo
spudoratamente di saperlo benissimo.
«Certo che anche tu, già fai Rossi di cognome, ti potevano dare un
nome più riconoscibile no?»
Evidentemente era una battutona, perché sorrise di gusto. Davide
annuì, stiracchiando un ghigno di circostanza.
Fasci era ormai fuori dalla porta quando si fermò e tornò indietro
rapidamente.
«Ah, una cosa. Prenotami un tavolo per due al Gambero per domani
sera alle otto. Cecilia è già andata via.»
Cecilia era la segretaria. Era del tutto incapace, però aveva le tette
molto grandi.
Rimasto solo, Davide lasciò passare qualche secondo di stanca
immobilità prima di riaccendere il computer. Pensava a Wolverine che
lo aspettava a casa affamato, ma pensava soprattutto al fatto che ormai
mancava solo un giorno.
Due ore dopo, in sella alla bici, Davide sfrecciava solitario nella luce
giallastra dei lampioni.
Inspirava l'aria fresca della sera, e a poco a poco il suo umore cambiò.
Mancava un giorno. Ventiquattro ore. Non ci poteva credere. In
fondo non sapeva cosa sarebbe effettivamente successo, ma sapeva che
sarebbe stato incredibile. E mentre ci pensava, senza quasi più il
coraggio di fare previsioni precise, calde ondate di entusiasmo
cancellavano il freddo e la fatica.
Il ricordo di quel giorno era vivo, netto, preciso. Era stato un pensiero
fisso per cinque anni.
Mamma e papà erano morti da otto giorni. Il conducente dell'altra
auto gli aveva già mandato una lettera piena di colpa, inconsolabile, ma
Davide non ce l'aveva con lui: era buio, e la pioggia scendeva a
secchiate, poteva capitare a chiunque.
All'epoca aveva ventun'anni. Era un adulto, dicevano, ma lui avrebbe
dato un braccio per avere una vecchia zia che lo prendesse con lei
preparandogli la cena e sorridendogli a colazione. In quel momento,
tutto solo in una casa troppo vuota, Davide stava cercando di studiare
per un esame di cui gli sfuggiva l'importanza.
Sotto la luce della lampada da tavolo fissava il foglio con gli appunti,
scritto in un'altra vita, e cercava di capire cosa ne sarebbe stato di lui.
In quel preciso istante era comparso l'Ambasciatore.
Pedalando con foga nelle vie semi-deserte, Davide ricordò per
l'ennesima volta il terrore di quel momento.
In un angolo vuoto della stanza, a mezz'aria, aveva cominciato ad
addensarsi una nuvola di fumo nero. Davide aveva pensato a un incendio
ed era schizzato lontano dalla scrivania, un grido d'aiuto pronto in gola.
Ma poi c'era stato lampo, un silenzioso abbaglio di luce che l'aveva
buttato a terra, sgomento.
Il fumo vibrava e si contorceva irrequieto, fluttuando verso Davide e
acquistando una forma via via più precisa. Un busto, due braccia lunghe
e nere, affusolate mani a tre dita, e infine una testa coperta da un
cappuccio. Sotto il cappuccio, nell'oscurità più nera, la sagoma appena
accennata di un volto azzurro. Lì in mezzo, da qualche parte, due
luminosi occhi viola.
Davide era ben oltre il panico, ma furono quegli occhi a impedirgli di
urlare. Grandi, ipnotici, diversi da qualunque cosa avesse mai visto.
Eppure, in qualche modo, per nulla minacciosi. Freddi e sinceri, privi di
reale espressione, fissavano il giovane a terra con sobrio interesse.
Erano passati diversi secondi, senza che succedesse niente. Davide
troppo preso a rimanere immobile, la creatura persa in qualche suo
pensiero millenario.
«Salute a te, Custode» aveva detto infine, senza che si vedesse alcuna
bocca. Il suono era profondo, rassicurante, ma anche vagamente
metallico e dall'accento impersonale.
La risposta di Davide era stata un sospiro, più che una parola.
«Eh?»
«Siamo consci del fatto che questa forma può infondere inquietudine
in voi, ma è la più simile alla vostra natura che possiamo riprodurre.»
Davide non riusciva a capire. Le parole non gli sembravano
singolarmente difficili, ma era tutto il resto a non tornare per niente.
«Che... succede?» era riuscito a bofonchiare subito dopo.
«Sono un Ambasciatore» aveva sentenziato l'apparizione. «Sono qui
per consegnarti il Potere.»
Davide scuoteva la testa, tenendo gli occhi spalancati a intercettare
qualunque movimento.
«Non capisco. Che cosa vuoi? Non ho fatto niente!»
«Non conta ciò che hai fatto» aveva ribattuto l'Ambasciatore, «ma ciò
che farai. Ora possiedi il Potere. Dovrai custodirlo per cinque dei tuoi
anni. Senza mai utilizzarlo. Passato questo tempo, il Potere sarà tuo. Ma
se lo userai anche solo una volta prima del tempo dovuto, lo perderai per
sempre.»
Non erano moltissime informazioni, come Davide riuscì a realizzare
in seguito, ma in quel momento sembrava di dover memorizzare
un'intera enciclopedia.
Aveva scosso di nuovo la testa, confuso. Le gambe appesantite dalla
paura, il sudore gelato sulla fronte.
«Il... Potere? Non voglio niente.»
L'Ambasciatore non si era scomposto. «Non puoi rifiutare ciò che già
possiedi. Ma puoi abbandonarlo. Crediamo tu sia uno dei Giusti. Ma
nemmeno il nostro giudizio è infallibile. Usa il Potere prima del termine
stabilito, e lo perderai.»
Davide ricordava chiaramente che, se avesse saputo cosa fare per
mettere subito fine a tutto, l'avrebbe fatto. Ma in quel momento sentiva
di non avere alcun controllo sulla situazione.
Potere. Il Potere. Una specie di alieno mi consegna un Potere.
Nemmeno la paura che in quei minuti impantanava la sua mente poteva
ostacolare i pensieri da appassionato di fumetti.
«Ho dei poteri? Dei superpoteri? È questo che stai dicendo?»
Nessuna emozione traspariva della figura sospesa dell'Ambasciatore.
Si limitava a fluttuare, appeso alla sua stessa volontà.
«Il Potere sarà tuo, e tu sarai del Potere» era stata la sua criptica
risposta.
«Ma...» la voce di Davide era un sussurro, «ho... ho una missione?
Devo fare qualcosa?»
«Custodisci il Potere per cinque dei tuoi anni, senza usarlo. Poi sarà
tuo. E solo tuo.»
«Cosa sarò in grado di fare?»
«Ognuno è diverso.»
L'Ambasciatore credeva che lui fosse "uno dei Giusti". C'era dietro
qualcosa di enorme. Davide si era sforzato di pensare.
«Potrò avere un mantello?»
Arrivato a casa, Davide parcheggiò la bici nella rastrelliera arrugginita
del condominio, poi salì con l'ascensore cigolante fino al quarto piano e
armeggiò con la serratura difettosa finché gli fu finalmente concesso di
entrare in casa sua.
Prima ancora che avesse appeso la giacca, una paffuta pallotta di pelo
trottò verso di lui, sfidando le articolazioni doloranti col solo obiettivo
delle coccole.
Davide si chinò, fece scivolare le dita sotto la morbida ciccia e si
portò il gatto al petto.
«Mamma mia Wolverine, la dobbiamo fare sul serio, la dieta.»
Poco dopo, mentre Wolverine mangiava piano i suoi croccantini, nel
lento ruminare dei suoi diciassette anni, Davide rimase a fissarlo,
sorridendo, mentre gli grattava il retro delle orecchie.
Tornò con la mente a cinque anni prima. L'Ambasciatore non aveva
aggiunto altro. Era svanito nel nulla da cui era venuto, perdendo i propri
contorni, sfumando nell'aria. La stanza era tornata com'era prima,
silenziosa e immobile. Wolverine non l'aveva visto, era rimasto tutto il
tempo a russare sulla sedia in cucina.
A Davide erano serviti molti minuti per alzarsi in piedi, e molte ore
per addormentarsi, mentre pensava alle principali cause cliniche di
allucinazioni.
La mattina dopo aveva creduto di aver sognato tutto. Ma quel
pomeriggio, in università, aveva già cambiato idea.
C'era qualcosa, dentro di lui. Un calore, un'energia. Una
consapevolezza che partiva dal cuore e si irradiava nel resto del corpo a
ogni battito, come se il suo sangue fosse stato sostituito con della
benzina, i ventricoli con dei pistoni. Intorno, tutto sembrava uguale. Ma
lui era diverso.
Un nuovo se stesso gli covava dentro, già pronto a
mostrarsi.
Le prime settimane furono le più dure. Percepiva il bisogno quasi
isterico di far esplodere il Potere, qualunque fosse la sua forma. Ma
l'Ambasciatore era stato chiaro: aspetta cinque anni o lo perderai.
E Davide aveva atteso. Teneva a bada il desiderio con la fantasia e le
domande.
Perché avevano scelto lui?
Forse perché era orfano e solo, meno ricattabile, come un Batman
solitario.
Quali sarebbero state le sue abilità?
Qualcosa di distruttivo, magari, una forza di cui avere paura e che
avrebbe dovuto usare saggiamente. Forse sarebbe stato in grado di
volare o sollevare interi camion, o ancora muoversi a velocità
supersonica.
Sarebbe diventato un eroe? Un acerrimo nemico del crimine?
In quel caso avrebbe dovuto capire dove andare per essere più utile.
In vita sua non era mai incappato in un rapinatore nascosto in un vicolo,
né in un edificio in fiamme pieno di innocenti. Come faceva l'Uomo
Ragno a essere sempre al posto giusto al momento giusto?
Oppure, anche se l'Ambasciatore non glielo aveva confessato, c'era
una qualche minaccia spaziale in attesa, orde di mostri succhia-anime
appostati appena oltre Plutone e pronti a conquistare la Terra, a meno
che qualcuno non fosse stato abbastanza forte e coraggioso da fermarli.
E poi perché cinque anni? Dovevano testare la sua pazienza, la sua forza
d'animo, la sua disciplina? Be', quale che fosse il motivo, si sarebbe fatto
trovare pronto.
Quando Wolverine finì la sua cena, alzando gli occhi umidi per
chiederne un altro po', Davide si accorse di essere troppo stanco - e
insieme eccitato - anche solo per prepararsi un pasto al volo.
Mangiò una mela e andò a letto, aiutando il vecchio micio a salire
insieme a lui e a sistemarsi in un angolo tra il muro e le coperte. Rimase
così a lungo, la mano delicatamente appoggiata al muso fresco, mentre
fuori dalla finestra una falce di luna sbirciava tra le nuvole.
Non aveva mai mollato, dopo le notizie portate dall'Ambasciatore.
Non se n'era andato su una spiaggia caraibica a fare l'animatore in attesa
di diventare una specie di Superman. Aveva finito l'università, come
mamma e papà avrebbero voluto. E si era trovato un lavoro, anzi
parecchi lavori, uno meno pagato dell'altro. Per essere come tutti gli
altri, per non abbandonarsi alla pigrizia, per non cedere al lato oscuro. E
per pagare la luce e internet, man mano che i soldi rimasti in banca dopo
l'incidente diventavano sempre meno. Obi Wan Kenobi sarebbe stato
orgoglioso di lui, anche se il suo Obi Wan sembrava un pacato demone
uscito dall'inferno.
L'Ambasciatore non si era più fatto vedere, ma Davide continuava a
sentire il Potere gorgogliare dentro di sé. Un bisogno primitivo di
liberazione, tenuto a bada da una volontà simile a quella di un alcolista
in riabilitazione.
Dopo aver fatto il cameriere e il commesso, il cuoco e il ragazzo delle
consegne, aveva iniziato uno stage alla Megaself, la ditta di consulenza
del dottor Fasci. Neanche due settimane dopo si era accorto che i conti
erano truccati, che Fasci sovrafatturava, che era tutto un magheggio per
portare soldi in Svizzera.
Quando infine Fasci gli aveva offerto uno striminzito contratto di un
anno, con l'espressione scocciata di chi ti sta facendo un favore
controvoglia, Davide aveva pensato che in parte lo facesse perché aveva
capito che sapeva. Per tenerlo buono, in qualche modo.
Non gli importava. A quel punto mancavano pochi mesi, poche
bollette, poche liste della spesa. Poi il Potere si sarebbe rivelato, e la sua
vita sarebbe cambiata. Aveva anche pensato di smascherare Fasci, il cui
arresto per frode sarebbe stato il primo passo nella sua carriera di
difensore dei deboli.
La moglie e le tre figlie del dottore non sarebbero state contente, e
nemmeno Cecilia, che non sarebbe più andata a fare quei lunghi week
end di "aggiornamento professionale" nei migliori alberghi sulla costa.
Ma sarebbe stata la cosa giusta da fare. Lui sarebbe stato uno dei Giusti.
Non aveva identità da nascondere, affetti da proteggere. Avrebbe
fatto tutto alla luce del sole.
Niente maschere, magari solo il mantello. Sarebbe stato
un'ispirazione, un esempio. Avrebbe inondato di luce e sorrisi la sua vita
fatta di solitudine e oscurità. Quello che c'era da fare, l'avrebbe fatto.
Quali che fossero i suoi poteri, quali che fossero le sue nuove
responsabilità. Era pronto.
Quando si svegliò, la mattina del Giorno, un freddo sole d'autunno
filtrava tra la polvere dei vetri.
Wolverine non era più sul letto, forse era andato a bere, o a caccia di
ragni.
Davide si alzò e si vestì, in preda all'aspettativa, cercando invano di
rallentare il battito del cuore.
Quanto mancava? Dodici, tredici ore? Mezza giornata, prima di
un'intera vita.
Trovò Wolverine in cucina. Non stava bevendo, e nemmeno cercando
ragni. Era sdraiato su un fianco, in mezzo alla stanza, a metà strada tra
l'ingresso e la sua ciotola d'acqua.
«Wolverine?» sussurrò Davide, sbattendo le palpebre. Ma Wolverine
non rispose, non si mosse, non respirò.
Ammutolito, immobile a piedi nudi sulle piastrelle della cucina,
Davide pensò subito al Potere. Ma non aveva idea di quali fossero le sue
capacità. E comunque, qualunque risultato avesse prodotto in quel
momento, poi sarebbe sparito per sempre.
Improvvisamente, il giorno rovinò in una mattina banale, triste e
grigia.
Arrivò al lavoro con due ore di ritardo. Aveva chiamato il veterinario,
che era venuto a prendere Wolverine trattandolo con gentilezza e
rispetto.
Quando entrò in ufficio, Cecilia pigolò spaventata, alzandosi dalla
scrivania e avvicinandosi malferma sui tacchi troppo alti.
«Ha detto di farti andare subito da lui.» Davide riusciva quasi a
sentire l'aria smossa dalle lunghissime ciglia. «Non è contento.»
Una decina di ore, pensò Davide, niente di più. Bussò, ottenne un
grugnito ed entrò, trovando Fasci impegnato a scrollare pagine di excel.
«Dove cazzo eri?»
«Il mio...» non era tenuto a dirglielo, «ho avuto un problema a casa.»
Fasci artigliò una risma di fogli stampati alla sua sinistra.
«Mi dici cosa cazzo è questo?»
Davide allungò leggermente il collo. «Il... rapporto?»
«Magari lo fosse», ribatté Fasci. «Doveva essere il rapporto. E invece
è un pila di fogli senza senso. Dove sono i grafici con le stime
trimestrali? Dov'è il riassunto dei conti del cantiere? E la formattazione?
Cristo Santo, sembra disegnato con le tempere da mia figlia di quattro
anni!»
Fasci era rosso in viso, gli occhi stralunati, e aveva un piccolo filo di
bava che gli spuntava all'angolo della bocca.
«Dottor Fasci, mi dispiace» sbiancò Davide. «Non avendo avuto la
giornata di oggi non ho potuto rifinirlo, speravo che anche quelli della
Johnson avrebbero capito che...»
Fasci sbatté un pugno sulla scrivania, con violenza. «Ma allora non
hai capito proprio un cazzo di cosa vuol dire stare nel mondo del lavoro!
Questo non è un esamino della tua università da quattro soldi, questi
sono squali della finanza che stamattina mi hanno chiamato perché
volevano il loro rapporto e io non ho potuto darglielo. Certo, avrei
potuto fartelo correggere appena arrivato, ma tu eri solo Dio sa dove!»
Davide rimaneva in piedi, stringendosi le mani, battendosi con
l'istinto di abbassare la testa e guardarsi le scarpe. Una decina di ore.
Sembrava il traguardo tremolante di qualcuno che ha già corso centinaia
di chilometri.
«Dottor Fasci, mi scuso ancora, è che... be' questa mattina il mio gatto
è... sì ecco è morto e ho dovuto chiamare qualcuno. Non ho avvisato, ma
in quel momento...»
Davide si interruppe. Fasci aveva staccato le mani dalla scrivania e
aveva allargato le braccia, stagliandosi contro la luce fredda della
finestra dell'ufficio. L'espressione sul suo viso era sgomenta, ma la
bocca e gli occhi erano tirati in un abbozzo di sorriso folle.
«Un gatto?» domandò, retorico. «Mi stai dicendo che sto rischiando
qualcosa come trecentomila euro perché il tuo cazzo di gatto è morto?
Ma dico, stiamo scherzando? Ma si può sapere chi ti credi di essere?»
Davide rimase impietrito, trattenendo il fiato. Fasci si portò una mano
alla fronte e scosse la testa, sconfortato.
«Un gatto, sant'Iddio... Tu sei fuori di testa, Rossi... fuori di testa. E
dire che mi ero pure informato prima di prenderti. Sembravi uno capace
di lavorare, di impegnarsi, diverso dagli altri della tua età.Single, senza
genitori, sembravi preciso. E poi riesci comunque a rovinare il lavoro di
mesi per colpa di una merda di gatto.»
Ormai ridacchiava, isterico.
«Stasera te ne vai, lo sai, sì? Anzi, te ne vai adesso. Prendi il tuo
ciarpame e ti levi dai coglioni. Dio mio, che spreco di tempo. Siete una
generazione persa, vi hanno allevati a Nutella e abbracci, e sietevenuti su
senza spina dorsale. Un gatto, ma è possibile... Cosa fai con quella
mano, che vuol dire?»
Davide aveva alzato la mano destra. Il palmo puntava verso Fasci.
«Cos'è, un gesto di sfida, una roba da hip hop?»
E poi lo liberò. Il Potere si manifestò come un fascio di luce bianca,
limpida e netta, che raggiunse Fasci in pieno petto.
Nel giro di un secondo l'intero corpo bruciò interamente. Quando
Davide chiuse il pugno, soffocando la luce, la sagoma annerita di Fasci
era ancora in piedi, le mani sui fianchi. Rimaneva intatto solo l'orecchio
destro, un lembo di carne rosata debolmente attaccato a un ammasso di
cenere. Pochi istanti e l'ex dottor Fasci crollò su se stesso, accumulando
un mucchietto di polvere sulla moquette. L'orecchio, come un impiccato
a cui taglino la corda, cadde roteando nell'aria e atterrò in cima alla
montagnola grigia, ciliegina di carne su una macabra torta.
Davide rimase a guardare per un minuto, forse due. Poi, nell'angolo a
sinistra della stanza, una nuvola di fumo si addensò dal nulla.
L'Ambasciatore non degnò di uno sguardo il mucchietto di cenere e si
avvicinò a Davide. Non si vedevano da cinque anni. Anzi, quattro anni,
undici mesi, trenta giorni e quattordici ore circa.
«Hai fallito, Custode. Il Potere non ti appartiene più.»
Davide non rispose. Rimase immobile, privo di espressione, a fissare
la polvere per terra.
L'Ambasciatore attese a lungo.
«Perché?» chiese infine. Per la prima volta, forse, nella sua voce c'era
curiosità. «Potevi essere uno dei Giusti.»
Davide alzò lo sguardo, fissò gli occhi viola e sorrise appena,
mestamente.
«Lo sono.»
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Andrea Bompresso
MASSIMO RISPETTO PER DON ZAUKER
Luca si accese una sigaretta e fissò il tipo seduto sul divano. Era un
ciccione enorme. Sembrava una mongolfiera sul punto di scoppiare.
Aveva una voce trillante che gorgheggiava cazzate ininterrottamente,
senza nemmeno turare il fiato. In quel preciso istante parlava di una
barca che aveva appena comprato e teneva ormeggiata al porto di Sestri
Levante. L'ormeggio gli costava una cifra.
«Ma prendere il largo è una sensazione che non ha prezzo. Sciogli le
cime, vai di bolina e molli tutto, ti lasci la terra alle spalle con i suoi
problemi.»
Luca avrebbe voluto chiedere al ciccione come faceva a comandare
una barca a vela senza rischiare di affondarla, ma lasciò perdere, non
erano fatti suoi. E poi un po' invidiava il ciccione. Era ricco e aveva una
barca a vela di cui poteva discorrere polarizzando l'attenzione di chi gli
stava intorno. Luca, invece, non aveva niente.
Una volta, però, ci era stato in barca a vela. Era successo un'estate.
Era salpato con degli amici e dopo nemmeno dieci minuti di navigazione
aveva cominciato a provare nausea e a vomitare. Era stato imbarazzante,
anche perché a bordo c'era una ragazza che gli piaceva. Una tipa carina,
con i capelli rossi e un sacco di lentiggini in faccia. Luca non ci aveva
fatto una bella figura a vomitare davanti a lei, no di certo.
Tornando alla festa: Luca stava bevendo da quando era arrivato. Bere
era l'unico modo per sentirsi protetto. L'alcol era per lui ciò che il
mantello invisibile è per Harry Potter, gli permetteva di passare
inosservato in un mondo che percepiva ostile quanto una selva di lupi
affanati.
Sì, il mondo era un luogo nemico, un territorio estraneo dove
aggirarsi con la massima cautela e mantenendo un profilo basso. Luca
aveva avuto questa sensazione fin da piccolo, sensazione confermata da
quella festa bazzicata da tipi col sorriso da squalo e tipe dallo sguardo
perfido e altezzoso.
«Cristo», pensò, ad un certo punto «mi sento male, ho bevuto troppo»
ed esplorò nervosamente l'appartamento alla ricerca di un bagno. Lo
trovò, si chiuse dentro a chiave e vomitò nella tazza come aveva fatto in
mare, quella volta.
Svuotato di tutto l'alcol, rimase qualche secondo intontito,
abbracciato alla tazza del cesso, finché non udì una voce alle sue spalle.
«Ehi, Lucabello.»
Si voltò e allora vide, in piedi, davanti a lui, un enorme pupazzo di
peluche bianco. Sopra le gambe tozze e a tubo portava una maglietta a
righe gialle e rosse e. oltre il collo della maglietta, sbucava una grande
faccia da gatto.
Il pupazzo piegò il capo di lato e disse: «Come stai Lucabello?»
«Tu... co... cosa sei?» balbettò Luca.
«Come cosa sono? Gattomatto, il tuo pupazzo preferito. Non ti
ricordi di me? Eravamo amici per la pelle. Lucabello e Gattomatto. Dai,
cazzo, non puoi esserti dimenticato tutto!»
«Sto avendo un'allucinazione!»
Gattomatto ridacchiò. «Può darsi, Lucabello. Sei sempre stato uno un
po' fuori di testa. Per questo mi piacevi. Per questo eravamo amici.
Abbiamo fatto un sacco di giochi assieme.»
«Tu... tu... non puoi esistere...»
«Esisto eccome. Sei tu che mi hai inventato. Tuo padre e tua madre
mi comprarono e mi regalarono a te per il tuo quinto compleanno,
ricordi? Tu mi scartasti dal pacco in cui ero avvolto e guardandomi negli
occhi, pensasti: "Io e te diventeremo grandi amici, Gattomatto". E così è
stato. La nostra amicizia è durata anni. Anni di giochi stupendi, di
profonde conversazioni telepatiche, anni incredibili, poi ad un certo
punto le cose cambiarono tra di noi, una sera decidesti di violentarmi.»
«Io cosa?»
Gattomatto ripeté: «Decidesti di violentarmi. Avevi già una certa età,
dodici anni, se non ricordo male. Avevi passato il pomeriggio con quel
tuo amico con l'apparecchio ai denti e la faccia massacrata dall'acne,
Enrico mi sembra che si chiamava. Enrico ti aveva fatto vedere un
fumetto porno. Il fumetto mostrava come uomini e donne fanno sesso. I
disegni di quelle cosce spalancate, di quei seni disponibili, di quelle
fessure umide e pronte a essere penetrare ti avevano eccitato. Così a casa
avevi deciso di provare cosa si sente quando si penetra una donna e per
farlo avevi usato me. Mi avevi fatto un foro tra le gambe, ricordi?
Scucendo il tessuto con delle forbici, mi avevi tagliato per creare
qualcosa il più possibile simile alla figa, guarda -, il pupazzo aveva
indicato il mezzo delle sue gambe, segnato da un piccolo sbrego della
fodera di peluche attraverso il quale s'indovinava la presenza della
gommapiuma interna. - Poi mi avevi portato in bagno e avevi chiavato
me, Gattomatto, il tuo migliore amico, come fossi una donnaccia
qualunque disponibile alle tue voglie. Avevi sborrato dentro di me e,
nello sfilare il cazzo, avevi imbrattato un po' anche il peluche fuori,
ricordi?»
Luca ricordava, sì. Era vero: Gattomatto era stato il suo gioco
preferito per diversi anni, poi lo aveva abbandonato, chissà dove, forse
in soffitta.
«Comunque non me la prendo, tranquillo» riprese Gattomatto «Non
me la prendo se mi hai imbrattato col tuo seme. Se mi hai usato un paio
d'altre volte per masturbarti, fino a quando, grazie a dio, non hai capito
che usando la mano destra sarebbe stato tutto più semplice e piacevole.
Non me la prendo se dopo avermi scucito e schizzato mi hai
abbandonato. La vita è fatta così. Il mondo gira, le stagioni passano e i
bambini crescono. I peli spuntano sulle palle, prima piccoli e diritti poi
lunghi e ricciuti. E' nell'ordine delle cose che un bambino si disfi dei
suoi vecchi giochi, però, come dice il titolo di quel film, a volte
ritornano, i giochi voglio dire, e io sono ritornato e dunque eccomi qua.»
Luca si prese la testa tra le mani.
«Io... io... sto diventando pazzo... mi sento male...»
Gattomatto ridacchiò.
«Tranquillo, stai bene, invece. Cioè, non sei al massimo della forma,
ma ti sei solo sbronzato, tutto qua. E dato che non reggi l'alcol hai
vomitato. Niente di eccezionale. Sul fatto che tu stia diventando pazzo,
beh, sei sulla buona strada. Lo sai qual è il tuo problema, Lucabello?»
Luca sedette sulla tazza del cesso fissando quel gigantesco pupazzo
bianco che gli parlava senza muovere le labbra, ma gli parlava, non
c'erano dubbi.
«No, qual è?» disse.
«Il tuo problema è che non sei mai cresciuto» rispose Gattomatto. «È
un probelma comune a quelli della tua generazione. Bamboccioni nati
tra gli anni Settanta e Ottanta. Ragazzi e ragazze cresciuti a pane, nutella
e cartoni animati. Avete avuto tutto dalla vita, tranne quel senso di
privazione, quell'appetito sociale che è alla base di ogni ambizione e
impresa. Vi siete rincoglioniti di programmi tv e giochi in scatola. Avete
galleggiato come stronzi al liceo e all'università facendovi bocciare e
laureandovi fuoricorso e al momento di trovare un vostro posto nel
mondo, non ci siete riusciti. Continuate a vedere puntate di vecchi
cartoni e telefilm su YouTube e organizzate raduni tra amici per giocare
a Monopoli, Risiko o altre stronzate. Siete patetici.»
Luca chinò lo sguardo. Quello che stava dicendo Gattomatto era vero.
«Però, devo rivelarti una cosa importante» disse il pupazzo.
«Che cosa?» domandò Luca.
«Riguardo a questa festa... non hai tutti i torti a sentirti a disagio, a
bere pur di non avere a che fare con gli altri.»
«Ah, no?»
«No perché devi sapere che tutti quelli che vedi a questa festa, tutti i
ragazzi e le ragazze che bazzicano in salone e nelle altre stanze, quei
ragazzi vestiti eleganti e sicuri di sé e quelle ragazze ultrafighe, non sono
quello che sembrano.»
«Cioè? Non capisco.»
Prima di continuare nelle proprie spiegazioni, Gattomatto si accese
una sigaretta. Parrà impossibile che un pupazzo di peluche si mettesse a
fumare, ma così andarono le cose. Gattomatto s'infilò una Marlboro in
quella linea nera che aveva al posto della bocca, se l'accese e cominciò
ad aspirare e a soffiare fumo.
«Ora ti spiego, Lucabello. In verità è tutto molto semplice. Tutte le
persone che vedi, incluso quel ciccione che se la tira perché ha la barca a
vela, non sono esseri umani.»
«Ah, no?»
«No, che non lo sono. Sono meganoidi.»
«Mega-che?»
«Cazzo, meganoidi! Lucabello, non dirmi che in tutti questi anni ti sei
così rincoglionito che ti sei scordato dei meganoidi!
Luca pensò che la parola "meganoidi" suonasse decisamente
familiare, ma non riusciva a ricordare quando l'aveva sentita. Ci pensò
Gattonatto a rinfrescargli la memoria.»
«I meganoidi sono i nemici di Daitarn III!»
«È vero!» disse Luca, battendo le mani.
Gattomatto sorrise soddisfatto.
«Daitarn III era il tuo cartone animato preferito, ricordi? Il padre del
giovane Haran Banjo, su Marte, aveva creato i meganoidi, degli ibridi
tra uomo e macchina, che volevano conquistare la Terra e Banjo li
combatteva con il Daitarn III, un robottone che funzionava a energia
solare. A capo dei meganoidi c'era Don Zauker, una specie di Dart
Vader col cervello chiuso in un'ampolla e gli occhi da mosca che quando
parlava faceva dei versi tipo catena del cesso tirata. Un vero capo, Don
Zauker. Massimo rispetto per lui. Il suo braccio destro era la perfida
Koros, il Comandante Supremo dei Meganoidi, ti ricordi Koros? Ti
ricordi quant'era figa con quella pelle bianca e perfetta come porcellana
e quei capelli rosso sangue raccolti a treccia?»
Sì, ora Luca ricordava. Ricordava tutto. I pomeriggi, dopo pranzo, a
guardare l'ennesima puntata di Daitarn III alla tele, seduto sul divano
con accanto Gattomatto; i meganoidi comandati da Don Zauker, quel
pauroso frankestein meccanico avvolto in un mantello rosso e col
cervello chiuso in una boccia trasparente, e Koros, l'amica di Don
Zauker, pallida e perfida, una vera mistress sadomaso su cui lui si era
anche masturbato, ricordava ogni cosa!
«I meganoidi sono tornati sulla Terra,» riprese Gattomatto con tono
improvvisamente serio, «vogliono concquistarla. Don Zauker è morto.
Haran Banjo lo ha fatto fuori, ma Koros è risorta.»
«Com'è possibile?» chiese Luca, «nell'ultima puntata, veniva fatta
fuori anche lei dal Daitarn III.»
«Tu dici il giusto, Lucabello, ma i meganoidi rimasti, prelevando
campioni di dna dal suo cadavere, l'hanno ricreata in laboratorio. E ora
Koros è qui, sulla Terra, per organizzare la grande invasione. Si trova a
questa festa!»
«Si trova alla festa?»
Gattomatto annuì.
«È la padrona di casa, la festeggiata. Silvia Marelli in realtà è Koros.»
«Mi stai prendendo per il culo?»
Gatto matto si mise una mano sul petto e alzò l'altra.
«No, bello, te lo giuro. Magari ti stessi prendendo per il culo. La
Marelli è Koros al cubo. Se la guardi lo capisci anche te. Stesso sguardo
da stronza algida, stessi capelli rosso sangue, stesse labbra piccole e
morbide. Non si scappa. Questa festa è un ritrovo di meganoidi. Prima
che tu arrivassi stavano brindando tutti alla memoria di Don Zauker.»
«Dici sul serio?»
«Mai stato più serio in vita mia, fratellino. Se esci da questo bagno e
ti guardi intorno, lo capirai anche tu. Ti accorgerai al volo che tutti quelli
che ti circondano non sono umani, ma dei meganoidi. Anzi, perché non
lo fai? Esci, fai un giro per l'appartamento. Osserva gli invitati, ma senza
farti notare, mantenendo quell'aria da sfigato che ti porti appresso da
quando sei nato, poi torna qui.»
«Ok, farò come dici tu, uscirò.»
«Ti aspetto, non mi muovo. Appuntamento in questo stesso cesso tra
5 minuti.»
Dunque, Luca aprì la porta e uscì in perlustrazione.
Percorse il lungo corridoio dopodiché sbucò in salone.
Il ciccione era sempre seduto sul divano che pontificava, circondato
da quattro o cinque individui.
A un angolo stavano sei ragazze che chiacchieravano a voce bassa
come se stessero tramando qualcosa. Due ragazzi, al tavolo del buffet, si
versavano da bere e parlavano di calcio.
Luca li osservò e capì che era tutto vero: erano meganoidi. Meganoidi
che fingevano di essere uomini e donne normali e in realtà meditavano
di invadere la Terra. I loro sorrisi erano così... metallici... sembravano
tagliole... e i loro occhi, dei congegni infilati nelle orbite per vedere,
registrare, monitorare, scannerizzare...
Luca provò un senso di soffocamento. Il cuore prese a battergli
all'impazzata. Un meganoide, guardandolo in faccia, gli chiese con voce
fintamente preoccupata: «Ti senti bene? Hai bisogni d'aiuto?»
Luca balbettò: «Sto bene, sto bene, grazie» rapidamente attraversò il
salone e raggiunse il balcone.
Fuori, all'aria fresca, riprese a respirare.
Si deterse il sudore della fronte col dorso della mano e si appoggiò a
un vaso da cui spuntavano fiori bianchi. Sollevò lo sguardo e osservò la
luna e le stelle. Per la prima volta considerò la notte non come una
prerogativa dei terrestri, un grazioso involucro che avvolgeva la Terra
come la carta stagnola un cioccolatino, ma per quello che era, una parte
dello spazio. Un frammento di infinito, lo stesso infinito dalle cui amene
profondità erano giunti i meganoidi.
D'un tratto una voce domandò: «Hai da accendere?»
Luca si voltò e vide una ragazza minuta, alle sue spalle, il corpo esile,
il viso perfetto e bianco come un ovale entro cui erano iscritte labbra
morbide e rosee, gli occhi neri e di una fissità quasi catatonica. Era la
padrona di casa, Silvia Marelli. O meglio, Koros. Sì, non c'erano dubbi,
quella donna pallida ed esangue come una bambina spettrale era il
comandante dei meganoidi.
«Sì, ecco...» Luca estrasse l'accendino.
Koros chinò il capo sulla fiamma, poi, sollevandolo, fissò Luca negli
occhi.
«Chi sei?» domandò, soffiandogli il fumo in faccia.
«Luca» rispose lui, tossendo.
«Luca chi?»
«Luca Carrisi.»
Koros scrollò le spalle. «Non ti conosco. Chi ti ha invitato alla mia
festa?»
«Martina.»
«Martina Lorelli?»
Luca annuì. In realtà non era stato invitato. Si era imbucato da solo a
quella festa dove non conosceva nessuno se non una ragazza brutta e
antipatica che si chiamava Martina Lorelli.
Per diversi secondi lui e Koros non dissero altro.
Terminata la sigaretta, il capo dei meganoidi la spense in un
posacenere di cristallo. «Ci vediamo» e rientrò in salone.
Dopo alcuni secondi, Luca la seguì e, dal salone, imboccando il
corridoio, tornò in bagno.
Gattomatto era lì ad aspettarlo, seduto sulla tavoletta del cesso con le
gambe a tubo accavallate.
«Allora?» domandò.
«Avevi ragione, questa casa è piena di meganoidi» disse Luca. «E c'è
anche Koros, l'ho appena vista in balcone.»
Gattomatto rimase alcuni secondi in silenzio.
«Bisogna agire» disse poi, in tono risoluto.
«E cioè?«
«Devi ucciderli tutti.»
«Tutti chi?»
Gattomatto allargò le braccia. «Ma come chi, i meganoidi! Li devi
fare fuori. Anche Koros.»
Luca era disorientato. «Ma come farò ad ammazzarli tutti? Loro sono
in tanti e io uno solo. E poi non so se ho il coraggio di fare una cosa
simile, mi stai chiedendo di commettere omicidio.»
«Lucabello, io non ti sto chiedendo di commettere omicidio, ma di
salvare la specie umana. Non scordare cosa sono realmente i meganoidi:
un esperimento di laboratorio del dottor Haran Sozo, più robot che
uomini.»
«Anche ammesso che trovi il coraggio di uccidere, come ci riuscirò?
Non sono armato...»
Gattomatto si alzò dalla tavoletta del cesso e cominciò a camminare
in cerchio. Stava riflettendo.
«In effetti questo è un probloema non da poco, che va considerato...
Secondo me, però una qualche arma dovresti trovarla...»
«Tipo?»
«Un coltello da cucina dalla lama grossa, di quelli che si usano per
tagliare la carne, o un bastone di legno particolarmente robusto che il
padre o la madre della Marelli si è portato dall'ultima camminata in
montagna... in una casa, qualcosa che si possa usare come arma, la si
trova sempre... esci, perlustra le camere, trova ciò che fa al caso tuo e
poi agisci.»
«E tu... tu... che farai?»
Gattomatto sorrise. «Io sarò al tuo fianco, Lucabello. Non ti
abbandonerò come tu hai fatto con me. Sarò la tua ombra. Siamo amici
noi due, ricordi? Due fratelli che nessuno potrà mai separare.»
«Gesù!» sospirò Luca, portandosi le mani al volto.
Gattomatto gli si avvicinò. «Fratello, tranquillizzati, noi siamo dalla
parte dei buoni, capito?»
Luca scostò le mani, fissò il suo pupazzo negli occhi e annuì.
«Ora vai» disse il pupazzo. «E come direbbe il vecchio Banjo, che la
forza del sole sia con te! Attacco solare! ENERGIA!»
Luca uscì dal bagno. Si ritrovò nel corridoio di prima, lungo, buio,
spianato da un tappeto di velluto rosso.
"Devor trovare un'arma", pensò, e cominciò ad aprire porte e a
perlustrare stanze alla ricerca di qualcosa che facesse al caso suo. Non ci
mise molto a scovarla.
Entrò in una stanza dal soffitto a cassettoni, occupata da una scrivania
in mogano e da un'enorme libreria piena di testi antichi. Era lo studio di
Gualtiero Marelli, padre di Koros, stimato avvocato dalla élite milanese.
A un angolo, tra due muri, era appesa una bacheca di vetro e dentro la
bacheca si trovava un fucile col caricatore a tamburo.
Usando un pesante portacenere di cristallo, Luca spaccò il vetro e
prelevò il fucile. Aveva il calcio in legno, la canna in carbonio ossidato
ed era carico.
Luca uscì dalla stanza e, lungo il corridoio, incrociò un tipo, il
ciccione che diceva di possedere una barca a vela.
I due si osservarono alcuni secondi, poi il ciccione abbozzò un sorriso
e disse: «Che ci fai con quel fucile?»
D'istinto, Luca sollevò la canna e premette il grilletto.
La detonazione fu secca e potente.
Il ciccione si guardò la pancia: un alone rosso si stava allargando al
centro della camicia.
«Cazzo... mi hai sparato!»
Lo sparo aveva attirato l'attenzione degli altri invitati.
«Ma che cos'è successo?»
«Chi è stato a sparare?»
«Da dove proveniva?»
«Mi hai sparato!» ripeté urlando, il ciccione «mi hai sparato! Questo
stronzo mi ha sparato! Tu mi hai...»
Prima che potesse pronunciare per l'ennesima volta la parola
"sparato", Luca premette il grilletto, centrandolo in fronte. Il ciccione
stramazzò a terra per non rialzarsi più.
Una ragazza che aveva assistito alla scena si mise a urlare. Luca
sparò anche a lei, strappandole via una guancia. Altre teste sporsero dal
fondo del corridoio per vedere cosa stava succedendo.
Luca, sentendosi come Terminator, scavalcò la montagna di lardo e
puntò il fucile verso gli altri. Premette il grilletto diverse volte, senza
concentrarsi troppo sui singoli bersagli. Un paio di meganoidi li
ammazzò al primo colpo, altri li ferì più o meno gravemente. I più svegli
si chiusero a chiave nella prima stanza che incontrarono.
Quando arrivò in salone, Luca sparò i colpi che gli rimanevano sui
pochi rimasti.
Finite le munizioni, gettò il fucile a terra, andò in cucina e prese da un
ceppo di legno un lunghissimo coltello. Tornò in salone e, affondando la
lama nelle loro carni, terminò gli invitati che aveva solo ferito e si
trascinavano disperatamente sul pavimento.
«Aspetta, non mi uccidere, ti prego!» implorò una ragazza bionda,
piuttosto carina, che era stata messa ko da un proiettile alla clavicola.
Luca le sollevò il capo per i capelli raccolti a treccia e passò la lama
sulla gola. La bionda non implorò più.
Luca si alzò e si guardò intorno: il salone era un mattatoio. Il sangue
macchiava le pareti. I corpi giacevano un po' ovunque.
"Bene", pensò, "li ho ammazzati tutti, rimane solo Koros". E
cominciò a urlare: «Koros, dove sei? Vieni fuori, lurida cagna! Mostrati!
Cos'è, ora che Don Zauker non ti protegge più, te la fai sotto? Avanti,
perdio! Fatti vedere, affrontami a viso aperto! Koros! Maledetta!»
Per cinque minuti, vagò per la casa urlando come un folle il nome
della sua nemica, poi udì una voce, da dietro una porta, una voce resa
rauca dal pianto, ma comunque decifrabile.
«Vattene, ho chiamato la polizia, stanno arrivando! Vai via!»
Era lei, Silvia Marelli, cioè Koros.
Luca cominciò a tempestare di calci e pugni la porta.
«Apri, maledetta! Apri questa porta! Puttana! Ti ammazzo! Ti trancio
come un pollo! Ti arrostisco con l'energia solare! Uso la fimma
ossidrica!»
Sotto l'ennesimo colpo, la porta cedette. Con un ultimo calcio, Luca
la spalancò.
Era completamente stravolto, la maglietta sporca di sangue, i capelli
scomposti e il coltello della cucina stretto nella mano destra.
«Squartala» sentì la voce di Gattomatto sussurrare alle sue spalle.
«Squarta quella puttana e salva l'umanità!»
Luca varcò la soglia. Si ritrovò in una grande stanza con un enorme
letto matrimoniale a ridosso di una parete. Schiacciata a un angolo,
ripiegata in se stessa, c'era Koros. Il comandante dei meganoidi.
Tremava e delirava.
Diceva: «Ti prego... ti prego... non mi uccidere... ti prego... che t'ho
fatto io? Ti scongiuro, vattene via...»
A Luca, quasi fece pena, ma poi si ricordò di quant'era perfida quella
donna e allora sollevò la lama su di lei.
Stava per calarla quando udì una voce: «Fermo là!»
Luca si voltò in direzione della porta e allora vide un meganoide
travestito da poliziotto che gli puntava contro una pistola.
Calò la lama rapidamente, ma non abbastanza. Prima che potesse
affondare nella testa di Koros, il poliziotto premette il grilletto. Il
proiettile, viaggiando alla velocità di 1400 metri al secondo, attraversò il
cranio del bersaglio da tempia a tempia, trascinandosi, in uscita, un
fiotto di sangue misto a materia cerebrale.
Luca cadde a terra con la testa spappolata.
Koros cominciò a urlare.
Un'ora dopo, la scientifica caricava il corpo dell'assassino, chiuso in un
telo, nel retro di un furgone.
«Ma che è successo?» domandò l'agente al volante.
«Una strage» rispose un altro, salendo a bordo. «Un tizio, a una festa,
così, senza un motivo apparente, si è messo a sparare con un fucile.»
«Un fucile?»
«Già. Una vecchia arma da caccia che il padre della festeggiata
teneva nel suo studio. Terminati i proiettili, lo psicopatico ha usato un
coltello da cucina per sgozzare chi era rimasto a terra ferito.»
«Pazzesco!»
«Eccome! Ne parleranno i giornali di questo stronzo, puoi
scommetterci, e anche la tv. Faranno fior di programmi con lo psicologo
di turno che spiega come mai i trentenni di oggi sono allo sbando.
Prepariamoci. Dai, ingrana la prima che sono stanco.»
Il mezzo si mise in moto.
Gattomatto, appoggiato a un muro, lo vide sparire, svoltato un
angolo.
«Così impari a sporcarmi il pelo di sborra, stronzo» disse.
Poi, buttò la sigaretta per terra e se ne andò nella notte che già
impallidiva.
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Jason Violenza
IL PUNTO DI VISTA DEI GIOCATTOLI
Mi chiamo Mazinga e sono un piccolo robot giocattolo. Andavo di moda
negli anni Ottanta, quando alla tele trasmettevano un cartone animato su
di me. Il mercato dei giocattoli, per approfittare del momento di
popolarità, mi lanciò. Per diverse settimane le cose andarono bene. I
negozianti non facevano in tempo a mettermi su uno scaffale che subito
qualcuno mi prelevava per comprarmi.
Io venni comprato da un bambino di 11 anni. Questo bambino si
chiamava Giacomo. Dopo avermi comprato, giocò con me per circa un
annetto. Poi, si stufò. Mi posò su un ripiano della libreria. Lì rimasi per
circa dieci anni, poi un giorno la mamma di Giacomo prese un sacco e
mi ci ficcò dentro insieme ad altri giochi, tipo il Big Jim, il robottino di
Goldrake (altro cartone che andava alla grande negli anni Ottanta), un
esercito di soldatini di gomma, qualche Master of the Universe eccetera.
La mamma di Giacomo ci portò tutti in soffitta e lì siamo rimasti fino ad
oggi.
Sapete, non è male essere un giocattolo. Voglio dire, vieni a sapere
un sacco di cose, di segreti. Ad esempio, io fui il primo, credo, a sapere
che Giacomo si faceva le pere. Lo venni a sapere quando lui mi aveva
già mollato da un pezzo, dimenticandomi sul ripiano della libreria.
Un giorno che i suoi se n'erano andati per il weekend, che fa? Tutto
trafelato entra in camera, si toglie la giacca e, da una tasca, tira fuori
delle cose. Tira fuori un cucchiaio, un limone, una pallina di stagnola
con dentro della polverina, un accendino e una siringa chiusa in busta.
Scarta la pallina, mette la polverina sul cucchiaio, l'allunga con un po'
d'acqua e la scioglie col limone, poi riscalda, mettendo la fiamma
dell'accendino sotto il cucchiaio. Quando la polverina è diventata una
pappetta, la risucchia con la siringa, tirando indietro lo stantuffo, e poi se
la spara tutta in vena.
Poi, che fa?
Si rilassa tutto. Si allenta come un biscotto Plasmon pucciato nel
caffelatte. Si sdraia sul letto e con due occhi da cernia sul tavolo del
buffet parte per il suo viaggio nel magico villaggio dei Puffi.
Sì, fui il primo a sapere che Giacomo era un drogato. Un eroinomane.
Che quel ragazzino così vivace che mi faceva volare sopra il tappeto del
salone per lanciarmi in picchiata contro i robot nemici, si bucava. Poi, lo
vennero a sapere anche i genitori, ma era già troppo tardi. Era già
guasto, Giacomo, quando suo padre si accorse che si faceva. Difatti è
durato poco. Lo hanno mandato in comunità. Poi, lui è tornato a casa per
qualche giorno, ma non stava bene, anche se dicevano che si era ripulito.
Difatti dormiva male. Io, che vedevo tutto dal ripiano della libreria,
accanto al letto, lo capivo. Lo vedevo che dormiva un sonno breve e
distratto e poi si svegliava. Si svegliava, Giacomo, con un'angoscia che
gli stringeva lo stomaco e allora si rannicchiava tutto sul letto, si
raccoglieva come se volesse entrare nel ventre materno e scordare di
essere nato, risalire all'origine delle cose fino a scomparire.
Ve la farò breve. Un giorno scappò di casa. Rimasi lì, solo nella
stanza, per una settimana, senza sapere nulla. Finché una mattina non ci
entrò sua madre, nella stanza, e si mise a guardare gli abiti nell'armadio,
i libri, i giocattoli, me compreso. E poi scoppiò a piangere.
Allora capii che Giacomo era morto. Morto di eroina, ci scommetto il
mio pugno atomico rotante.
Pochi giorni dopo, la mamma di Giacomo ci raccolse tutti, ci ficcò in
un sacco e ci portò in soffitta.
Sapete, non si sta poi male, in soffitta. Ogni tanto io e gli altri giochi
usciamo dal sacco, ci disponiamo in cerchio sul parquet e ce la
raccontiamo. Parliamo molto di Giacomo. Di che bravo ragazzo fosse e
della brutta piega che presero gli eventi. Sul perché sia finito così male,
abbiamo pareri diversi.
Secondo Big Jim, la colpa è del padre.
«Il padre era un tipo severo,» ha detto, l'altra sera, «lo caricava di
responsabilità. Lo schiacciava con la sua autorità. Giacomo ci stava
male. Per questo si è bucato. Non ha retto il confronto con la figura
paterna.»
Secondo Barbie un po' di colpa ce l'aveva anche la madre.
«Non faceva altro che viziarlo.» ha spiegato mentre sedevamo in
cerchio sotto una finestra; attraverso i vetri filtravano i raggi della luna e
i capelli di Barbie sembravano bianchi «Gli diceva sempre di sì. Lo
coccolava. Lo viziava. Per lei, suo figlio non aveva mai colpe. E poi era
troppo seduttiva. Una madre non può essere così seduttiva.»
«Cosa intendi per seduttiva?» ha domandato una bambola di pezza.
«Intendo che si vestiva sexy, con gonne corte e scollature. Insomma,
sembrava più una ragazzina che una mamma. E una mamma, passata
una certa età, quando ha un figlio per cui essere un esempio, deve
abbandonare certe pose. Non si può giocare alle bambole per tutta la
vita, no?»
A questo punto è intervenuto Skeletor, l'acerrimo nemico dei Masters
of the Universe. «Secondo me, il padre e la madre non c'entrano più di
tanto. È lui, Giacomo, che alla fin fine era una mezza sega.»
«Non ti sembra di essere un po' drastico nel giudicare?» ho
domandato.
«No, per niente» ha risposto lui. «Giacomo era umo smidollato,
diciamocelo. Non aveva nerbo. Non era fatto per sopravvivere. Non
funzionava a livello strutturale. I suoi genitori non hanno colpa.»
«Era un tipo sensibile, più sensibile degli altri, ecco qual era il
guaio,» ha detto un micronauta della Gig di colore nero e con i razzi
arancioni dietro la schiena, «sentiva tutto in maniera troppo esagerata.
Era un poeta.»
«Oh, per cortesia, lasciamo stare la poesia ora!» ha ribattuto Skeletor.
«I poeti non si fanno necessariamente di eroina, non tutti. E poi, dei
bambini difficili e degli adolescenti problematici, si dice sempre che
sono sensibili, che sono dei poeti. La sensibilità è il grande alibi dei
fancazzisti. No, no, quale poeta, Giacomo era uno che non aveva voglia
di impegnarsi, eccolo il vero problema!»
«Però un po' è vero che sua mamma era seduttiva» ha detto una voce,
ad un certo punto.
A chi apparteneva?
«Chi ha parlato?» ho chiesto.
«Io ho parlato.»
Una scatola, su una mensola, ha preso a scuotersi, il coperchio si è
ribaltato e dall'interno è saltato fuori un oggetto stranissimo. Un
giocattolo che non avevo mai visto. Sembrava una zucchina o una
banana, solo che era di plastica e di colore rosa. Alla base aveva una
specie di impugnatura con una rotellina tipo quella che regola il volume
negli stereo; sulla cima, invece, quella specie di zucchina, si allargava
leggermente, come un fungo.
L'oggetto si è seduto accanto a noi. Lo abbiamo guardato perplessi.
«E tu che roba sei?» ha chiesto Big Jim.
«Sono un vibratore» ha detto l'oggetto.
«Vibratore? Non ho mai sentito di un gioco che si chiami così» ha
detto Skeletor.
«Non sono un gioco, o meglio, sono un gioco per adulti» ha spiegato
Vibratore.
«Che tipo di gioco?» ho chiesto.
«Un gioco che si usa per provare piacere. O, almeno, la mamma di
Giacomo mi usava per questo.»
«E cioè, come funzioni? spiega» ha domandato He-Men.
«È molto semplice,» ha risposto vibratore, «si sposta questa rotellina
che ho in basso e si decide l'intensità di vibrazione».
Vibratore ha spostato la rotellina su "1" cominciando a vibrare, poi su
"5" e ha preso a vibrare ancora più forte.
«Tutto qui?» ha chiesto Barbie. «Non sei molto divertente.»
«Eh, non è mica finita, 'spetta» ha detto Vibratore. «Poi, mentre vibro
vengo ubicato nel condotto sessuale femminile, la vagina, cioè. Le
vibrazioni prodotte, facendo ruotare la mia massa eccentrica di forma
fallica, stimolano e procurano piacere sessuale.»
«La mamma di Giacomo ti usava così? Cioè, lei t'infilava nella sua
e... ti faceva vibrare?»
Vibratore ha annuito ronzando.
«Che baldracca!» ha sussurrato con aria estatica Big Jim.
«Eh, in effetti non era esattamente una santerellina, la signora. C'è da
dire che anche il marito era piuttosto malizioso» ha detto Vibratore.
«Perché, anche lui ti s'infilava nel suo buco?» ho chiesto.
Il vibratore ha smesso di vibrare. «Cristo, no! E meno male! Non
avrei sopportato di essere infilato nel sedere floscio e peloso di
quell'uomo! No, non mi ha mai usato su di sé, il papà di Giacomo. Però
gli piaceva vedermi infilato dalla signora nel proprio lato b. "Ficcalo
fino in fondo!", le diceva. "Metti la vibrazione 10, dai! Guarda, guarda
come vibri! Sembri un budino!", così diceva il signore, mentre io
vibravo come un dannato nel sedere della signora.»
«E la signora apprezzava?» ho domandato.
«Un po' sì» ha risposto Vibratore. «Un po' le piaceva questo
giochetto, alla signora. Insomma, io penso che a ogni donna non
dispiaccia sentirsi un po' zoccola, ogni tanto. E forse io, in quanto corpo
estraneo e artificiale, totalmente alieno al concetto di riproduzione e
dedicato unciamente a quello di piacere, facevo sentire la mamma di
Giacomo particolarmente zoccola.»
«E perché adesso ti ha messo in soffitta e non ti usa più?» ha
domandato Barbie.
«Beh, ad un certo punto si è stancata, sia di me, sia del marito. A me
mi ha messo in soffitta, al marito, invece, ha chiesto il divorzio. Poi se
ne è andata di casa.»
«La mamma di Giacomo non abita più qui?» ho chiesto, questa sì che
era una notizia!
«Esatto e nemmeno il padre,» ha detto Vibratore, «dopo la morte del
figlio, sia lui che lei non ne hanno più voluto sapere di abitare in questa
casa e l'hanno venduta.»
«E chi ci abita adesso?» ha chiesto Skeleton.
«Una coppia gay» ha risposto Vibratore.
«Una coppia gay?»
«Già. Spero che non mi trovino. Non ho nulla contro i gay, ma non
mi piacciono i culi degli uomini. Mi piacciono quelli delle donne,
morbidi, rotondi, fragranti come delle ciambelle.»
Per un po' nessuno ha detto nulla. Tutti noi giocattoli avevamo gli
occhi puntati su quello strano oggetto che si chiamava Vibratore.
«Comunque, avevo ragione,» ha detto Barbie, ad un certo punto, «la
mamma di Giacomo era troppo seduttiva. Troppo audace. Lui si è
drogato anche per questo. Perché si vergognava.»
«Uhmmm» ha ronzato Vibratore.
«Che c'è, la pensi diversamente?» sono intervenuto io. «Se hai
qualcosa da dire, dilla. Si sta dialogando liberamente qui.»
«Ok, vi dirò come la penso io;» ha detto Vibratore, «io che ho passato
anni nascosto in un cassetto della camera da letto e ho sentito quei due
parlare e quindi li conosco bene, la mamma e il papà di Giacomo,
intendo. Secondo me, quei due erano adulti per finta, ecco perché
Giacomo ha cominciato a bucarsi.»
«Che significa che erano adulti per finta?»
«Significa che fisicamente erano cresciuti, ma mentalmente no, erano
ancora bambini, o al massimo adolescenti. Invece che con me avrebbero
dovuti giocare con voi altri robot e bambolotti e andare a scuola e
studiare e imparare a vivere. Erano totalmente irresponsabili e incapaci
di gestire una cosa come un figlio. Erano due egocentrici che pensavano
solo al proprio piacere e non riuscivano a concepire l'idea di sacrificarsi.
Erano, passatemi il termine, due cazzoni. Non avrebbero mai dovuto
essere genitori.»
«Già, perché un figlio non è un gioco» ho detto io.
«Bravo,» ha detto Vibratore, «giusto. Un figlio non è un gioco.
Oppure, se vogliamo considerarlo tale, allora si tratta di un gioco
maledettamente complicato, sofisticatissimo, che va trattato con cura,
preparandosi, leggendo bene il manuale delle istruzioni, altrimenti si
rompe e fa dei danni. Non puoi far nascere un bambino e lasciare che
cresca da sé, non esiste.»
«Verissimo.»
«Hai ragione.»
«Povero Giacomo.»
Eravamo tutti d'accordo con Vibratore.
«Secondo voi dove sarà, adesso, Giacomo?» ha domandato Skeletor.
«In Paradiso,» ha risposto Barbie, in tono ispirato, «nel Paradiso delle
anime innocenti, dei figli vittime di genitori immaturi. È la che corre tra
le nuvole, quel frugoletto, in mezzo a tanti giocattoli-angeli che lo
riempiono di letizia!»
«Io non penso che sia in paradiso» è intervenuto Vibratore. «Per me è
in una tomba, quella dove l'hanno seppellito, ridotto un mucchio di
cenere, dopo che i vermi se lo sono mangiati a sbafo!»
Tutti abbiamo taciuto. Ogni tanto io guardavo la luna, le stelle, per
capire se c'è un paradiso oppure no, lassù, oltre lo spazio e i pianeti.
Oltre ogni cosa. Poi, improvvisamente, abbiamo sentito dei rumori
provenire dal basso.
«Chi si muove? Chi è?» ha domandato la bambola di pezza.
«I due padroni di casa! Stanno salendo!» ha sussurrato Vibratore.
«Presto, ognuno torni dov'era!»
Così abbiamo fatto. Io e gli altri giochi siamo ritornati nel sacco e
Vibratore nella sua confezione.
Io sono rimasto con la testa fuori per vedere i due che stavano
salendo, che faccia avevano. E così li ho visti, i nuovi padroni della casa
che un tempo era stata di Giacomo e dei suoi genitori. Erano uomini di
età compresa tra i 40 e i 45 anni. Uno era basso e pelato, l'altro biondo e
più aitante.
«Da quant'è che non saliamo in soffitta?» ha chiesto il biondo.
«Eh, da sempre mi sa. Da quando abbiamo comprato questa casa, io
personalmente penso di non esserci mai venuto» ha risposto il nano
stempiato, muovendo una torcia.
I due si sono guardati intorno con l'aria di valutare.
«Potremmo ridipingere il soffitto di bianco. Mettere qua un bel
divano a fiori. Dare un tocco provenzale a questa soffitta, tu che dici?
Verrebbe fuori una bella stanza...»
«Sì, perché no? L'unica cosa è la luce, ce n'è poca.»
«Magari possiamo ampliare il vano della finestra e appendere qualche
tendina...»
«Gesù, che discorsi da froci!» ha sussurrato Big Jim, alle mie spalle.
«Arredamento e taglio di capelli, non sanno parlare d'altro questi
ricchioni.«
«Ssst! Potrebbero sentirci!»
«Ehi, guarda qua!» ha detto il nano stempiato.
«Che c'è?» il biondo si è avvicinato al compagno.
«Che cos'è questa scatola rosa? C'è scritto Sexy Shop... Proviamo ad
aprirla.»
«Uh, ho quasi paura!»
Cautamente il pelato ha aperto la confezione.
«Un vibratore! Non ci posso credere! Un vibratore! Un vibratore!
Quei due balordi tenevano un vibratore in casa!»
«Fammi vedere!»
Il biondo ha strappato l'oggetto dalle mani dell'amico, lo ha osservato
divertito, poi lo ha fatto vibrare. Lui e il suo amico hanno urlato dalla
sorpresa!
«Ahhhh!»
«Dobbiamo assalutamente usarlo!» ha detto il pelato.
«Sì, ma non prima di averlo disinfettato. Non voglio infilarmi
quest'affare nel culo con tutti i germi che gli hanno trasmesso il signore
e la signora che l’hanno comprato!»
«Beh, non penso che i germi siano sopravvissuti per tutto questo
tempo.»
«È lo stesso. Prima lo disinfettiamo, poi lo collaudiamo.»
«Ok, dai, scendiamo, useremo dell'alcol!»
Tutti eccitati i due gay hanno sceso le scale. Nella soffitta è tornato il
silenzio. Poi, He-Man ha detto: «Poveraccio. E' successo proprio quello
che non voleva.»
Si riferiva a Vibratore, ovviamente. Quella specie di zucchina aveva
sperato di rimanere lontano dai buchi degli uomini e invece, quella
stessa notte, avrebbe iniziato una nuova avventura nel fantastico
universo anale degli omosessuali.
E' proprio ingiusta la vita, ho pensato, fissando la luna, le cose non
vanno mai come vorresti.
Io avrei voluto continuare a planare sopra tappetti e pavimenti e ad
abbattermi contro mostri e nemici robot, He Man avrebbe desiderato
continuare a combattere per il bene dell'universo contro Skeletor, la
Barbie avrebbe desiderato una bella storia d'amore con Big Jim e
Vibratore avrebbe desiderato continuare a ronzare nell'ano di una
signora, e invece com'era andata a finire?
Tutti chiusi in un sacco, in soffitta, e vibratore a letto con due
ricchioni.
Il povero Giacomo, invece, nella tomba.
Ho sospirato e guardato la luna. Per un attimo ho provato l'irrazionale
desiderio di saper volare veramente, di avere autentici motori propulsori
dietro le spalle che mi proiettassero nello spazio, oltre le stelle. Poi ho
smesso di desiderare cose ridicole. Mi sono tranquillizzato e non ho più
pensato a nulla.
Così dovrebbe fare un bravo giocattolo.
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Alberto Pancaldi
UNIONE RAGAZZE DELL'EST
Ascoltate.
Io donna rumena. Io donna bellissima perché rumena. Tutte noi
rumene bellissime. Italiane sfigate. Italiane grasse, culo flaccido e tette
molli, ma donne rumene fantastiche. Donne rumene eternamente
giovani. Ecco perché uomini italiani pazzi di donne rumene.
Io arrivata in Italia mattina di maggio 2009. Era primavera. Sole
giallo e rotondo come limone. Io pensavo di essere arrivata in paese dei
balocchi. In paradiso terrestre. In terra di pizza, canzoni d’amore, mare e
uomini gentili che sapevano amare. Io pensavo tutto questo di Italia, poi
scoperto che Italia è paese di merda che non vale un sasso di Romania. E
scoperto un’altra cosa: uomo italiano peggiore del mondo. Uomo
italiano falso, perverso, maiale, impotente, ipocrita e ricattatore. Uomo
italiano pappone nato.
Primo uomo italiano in cui mi imbatto è signore alla stazione dei
treni.
Io arrivata a stazione centrale di Milano alle sette di sera. Io stanca
dopo viaggio che sembra non finire più. Mio culetto bellissimo e
rotondo e duro come granito, tutto dolore.
Ho fame.
Ho sete.
Ho sonno.
Se io non trovo immediatamente posto dove dormire io crollo, lo
sento. Dunque scendo da treno. Mio viso bellissimo esprime mia
situazione dentro di momento: sono disperata. Non ho nessuno. Non so
cosa fare, dove andare, a chi chiedere aiuto. Io ho con me valigia con
tutta mia roba, ma no soldi.
Uomo distinto in giacca e cravatta si avvicina me. Vede mio bello
culo di granito e poi mia faccia stanca e fare due più due uguale quattro.
Questa ragazza giovane, rumena disperata, pensa uomo distinto in
giacca e cravatta, questa avere bisogno di aiuto, di casa, non avere
nessuno, forse io posso approfittare.
Così uomo distinto in giacca e cravatta avvicinarsi a me. «Signorina,
cosa c'è, lei bisogno di qualcosa? Io posso aiutare?»
Io diffidente. A me in Romania hanno detto che uomo italiano è uomo
maiale. Ma io disperata come ho detto prima. E poi signore distinto in
giacca e cravatta sembra persona gentile. Ha viso lungo e magro. Ha
capelli neri tirati indietro con gel e un po' bianchi ai lati. A me ricordare
Riccardo Fogli cantante di canzone anni Ottanta Che ne sai.
Io alla fine decido di fidare di lui. «Io mi chiamo Marina. Io vengo da
Romania. Io non so dove dormire. Non avere amici qui. Appena arrivata
a Milano.»
Signore distinto in giacca e cravatta sorride. Mi dice che no
problema. Capisce situazione molto bene. Io ricordo sua figlia che ora
studia a New York. E per questo fatto, che ricordo figlia sua, lui vuole
aiutare me.
«Conosco posto dove tu puoi dormire notte» dice.
«Io però no soldi» dico.
«No bisogno soldi. Tu dormire gratis notte» dice.
Io lo guardo con sospetto. Poi dico me che lui persona gentile. Si
vede. Somiglia troppo a Riccardo Fogli e così lo seguo.
Lui mi conduce fuori da stazione dei treni. Entriamo in sua auto che è
auto bella ed elegante. Bmw nera con dentro sedili di pelle verissima.
Lui molto galante. Aprire portiera me e fa accomodare me, poi ci
allontaniamo da stazione. Mentre guida dice che lui imprenditore. Lui a
stazione treni perché appuntamento con amico, ma appuntamento
saltato. Io chiedo lui, se moglie sua no gelosa di sapere ragazza rumena
in macchina con lui. Lui dice che sua moglie non è problema.
«Tu divorziato?» chiedo.
«No. Mia moglie morta. Io vedovo. Tu capire morta e vedovo?»
Certo che capire. E mi dico dispiaciuta per lui.
«Anch'io avere morto in famiglia. Mio padre morto» dico.
«Ah, sì?» dice lui, e si mostra dispiaciuto di cosa. Allora io racconto
di mio padre. Che è morto per disgrazia. Per incidente stradale. Evito di
dire che mio padre morto mentre guidava sua auto ubriaco ed è passato
rosso e ha preso pieno altra auto uccidendo a tutta velocità lui stesso, i
suoi tre amici in auto con lui e tutti passeggeri di altra auto che passava
verde. Evito di dire che mio padre pezzo di merda. Che picchiava
sangue mia madre e le mie due sorelle e mio fratello. E che poi non ha
più picchiato mio fratello a sangue perché mio fratello ucciso se stesso,
buttato giù da scarpata. Evito di dire che ho ringraziato Dio con lacrime
di felicità che scendevano giù su mio viso quando saputo di morte sua
perché cosa bella lui morto. Evito.
Signore distinto e in completo si mostra molto colpito per mia
situazione. Mi chiede cosa ho intenzione fare io qui in Italia, ora.
Io dico: «Trovare lavoro. Italia paese bello. Paese di sole e gente
simpatica. Italia piena di amore. Gente qui sorride e muove mani mentre
parla perché felice. Io, qui meglio che Romania.»
Così dico.
Io scema. Io non capire proprio niente.
Signore distinto e in completo dice che lui forse per me trova lavoro,
ma ora importante è che io dormo perché ho faccia molto, ma molto
stanca.
Così signore distinto e in completo mi porta in un appartamento di
palazzo, poco fuori Milano.
Appartamento dice essere suo, ma non devo preoccupare affitto. Lui
tanti appartamenti. Uno più uno meno con ragazza rumena dentro non
può fare differenza.
Entriamo. Appartamento essere non tanto grande ma per una persona
bene. Tipo, 35 metri quadri, non più. C'è letto rotondo al centro di
stanza, piccolo frigo bar e un tv. Le finestre sono abbassate. Uomo
distinto si allenta nodo cravatta e si toglie giacca. Mi dice di mettermi
comoda e rilax. Fare come se fossi casa mia e io faccio. Poi mi dice che
mette un po' musica e inserisce CD di Laura Pausini in lettore. Note di
La solitudine subito riempiono appartamento.
Uomo distinto siede su bordo letto e facendo pat-pat su materasso
invita a fare lo stesso me, così io siedo accanto a lui.
Sono stanca. Mi sembra di essere risorta da tomba quando io
preferivo stare morta in tomba tanto sono stanca. Vorrei che uomo
distinto ora non più in giacca e cravatta, ma in camicia e cravatta da
nodo allentato, se ne va via. Vorrei così non perché io ingrata. Vorrei
così perché io stanca, tanto stanca. Io sul punto di crollare a letto e
dormire sonno profondo come abisso di Mare Nero. Ma uomo in
camicia e cravatta allentata non vuole che io dormo. Vuole che io gli
parla ancora un po' di me e mi offre da bere. Da piccolo frigo bar tira
fuori bottiglia spumante e due bicchieri. Riempie uno bicchiere e lo da a
me e uno bicchiere e lo tiene per lui.
«Brindiamo a tuo arrivo in Italia» dice.
Io per non fare cafona, brindo e bevo. Poi lui riempie bicchiere di
nuovo e io - che devo fare? - bevo di nuovo. Poi lui chiede me di
continuare a raccontare mia vita in Romania.
Allora parlo di mia vita.
«Che vuoi tu sapere di mia vita? Non c'è molto da sapere di mia vita.
Io nata in un piccolo paese vicino a Bucarest. Mio padre contadino. Mia
madre tenere la casa. Noi fare fame per tutta vita. Io mangiare tanta
polenta e tanto riso. Ogni tanto mio padre pescare e portare a casa pesce.
Allora mangiare pesce. Poi bere acqua e qualche volta vino. E guardare
tv.»
«E cosa di bello guardare tv?» domanda signore in camicia e cravatta
da nodo allentato. E mentre fare questa domanda prende a carezzare
miei capelli lunghi e biondi. Cosa un po' strana che uomo appena
conosciuto a stazione treni, nemmeno una ora prima, prende così a
carezzare mia testa. Ma io penso a frase che lui aveva detto prima in
BMW e cioè che io somigliare a sua figlia ora a New York. Così mi dico
che forse lui carezzare mia testa biondissima come Barbie come papà
che accarezza figlia e non come uomo che vuole mettere cazzo in figa.
Così io lascio lui carezzare me. Ma ad un certo punto, mentre beviamo e
io mi sento tanto stanca e lui continua a carezzare me, succede cosa
brutta e cioè che lui abbassa capo di me con forza. Abbassa verso mezzo
sue gambe e allora io scopro che mezzo a sue gambe cerniera è aperta e
da cerniera sbuca cazzo.
«Cosa fare, cosa tu fare? Tu detto che io come tua figlia di New
York!» dico e cerco di alzare mia testa, ma sua mano più forte di mia
testa.
«Non rompere le palle, rumena del cazzo» dice lui, ora con voce
cattiva, non più come carezza di Riccardo Fogli. «Vuoi dormire qui o in
mezzo a strada? Se tu non vuoi dormire in mezzo a strada devi pagare
affitto. E affitto si paga in pompini. Capito? Avanti. Tu pompa se non
vuoi dormire in strada sotto portico dove tossico o negro
extracomunitario ti stupra!»
A quel punto io che potere fare?
Cosa fare voi al posto mio?
Fuori è buio e freddo. Fuori da appartamento città che non conosco.
Uomo che tiene sua mano su mio capo per abbassarmi ha mano molto
forte. Io paura di lui. Io paura di notte fuori. Io paura di tutto! Io povera
ragazza rumena sola, da culetto bello e sodo come granito e cuore
disperato. Così io alla fine lasciare che lui abbassi mia testa e mentre
lacrime scorrono giù da mie guance, lasciare che suo cazzo entri in mia
bocca.
«Brava, brava!» dice uomo in camicia, cravatta allentata e cerniera
abbassata «Pompa, pompa! E manda giù tutto con ingoio! Non ti
azzardare a staccare labbra prima che io vengo, capito?»
Suge. Che in mia lingua significa succhio.
Suge, come ho fatto con mio cugino più grande quando avere dodici
anni e noi due soli in fienile e lui costringere me a succhiare lui.
Suge, come ho fatto con mio primo findanzato che pensavo anche lui
dolce e gentilomo come Riccardo Fogli e invece era maiale.
Suge, come ho fatto una volta con mio padre che ubriaco aveva preso
me a cinghiare e poi vedendo me rannicchiata e in lacrime in angolo
stanza si era eccitato e aveva costretto me a prendere suo cazzo in mia
bocca.
Suge e prendo tutto in bocca.
Tutta sborra. E quando signore italiano che ho succhiato finalmente
lascia mio capo, io rannicchiata sul letto che continuo a piangere.
«Ora io vado via» dice signore che ho succhiato, rimettendosi giacca
e salendo cerniera. «Io domani torno. Tu ora stare con me. Tu lavorare
per me. Domani io ti spiego. Non fare cazzate e dormi, zoccola
rumena.»
Signore che ho succhiato se ne va. Io sento porta chiusa a chiave da
fuori. Io quindi chiusa dentro e non potere uscire. Ma a me non importa
uscire.
Non importa più nulla.
Ascoltate, uomini italiani tutti maiali e donne italiane così cesse che si
fanno scopare uomini italiani ricchi e maiali da donne rumene belle e
povere.
Ascoltate.
Io, la notte, sprofondare in sonno pieno di cose brutte. Fare incubo
terribile.
Prima di raccontarvi mio brutto sogno, voi dovete sapere che io in
Romania, su mia televisione, cresciuta con vostri programmi Rai. Tipo
telenovela Un posto al sole, Gigi Proietti in Commissario Rocca, Pippo
Baudo a Festival della Canzone Italiana Sanremo e poi Raffaella Carrà.
Io adoravo Pippo Paudo. Io sognavo in Italia di trovare principe azzurro
come Pippo Baudo ovviamente più giovane e più capelli. Io amavo
Raffaella Carrà. Io sognavo in Italia farmi amiche italiane simpatiche e
sorridenti come Raffaella Carrà. Ma dicevo di mio sogno.
Io dormo e sogno di essere concorrente in programma tv di Rai tipo
Affari Vostri o Pacchi. Programma tipo così. Presentatore di programma
è mostro e ora io vi spiego perché mostro: è alto e grosso come uomo,
ma lui no uomo visto che ha tette. Ma nemmeno donna visto che sotto
giacca e camicia lui non ha pantaloni, ma calze a rete tirate su su gambe
pelose e uccello di fuori. Ma cosa più mostruosa di lui è che su spalle
due teste, non una, e una testa è testa di Raffaella Carrà e l’altra testa è
testa di Pippo Baudo. Mostro mezzo Carrà e mezzo Baudo avvicinarsi
me. Mi presenta a pubblico. Dice che sono concorrente di serata. Dice di
fare applauso a me. E il pubblico applaude me e allora io mi guardo
intorno spaventata e vedo che pubblico è fatto di vecchi che cadono a
pezzi, è fatto di zombie. Uomini e donne italiani con pelle tutta aperta e
pus che cola da orbite. Uomini e donne che mentre applaudiscono me gli
si staccano dita. Io terrorizzata. Io volere fuggire, ma su poltrona su cui
io siedo succede che spuntano specie di manette che si chiudono su mie
gambe e mie mani e immobilizzano me, così io non potere fuggire.
Io imprigionata mentre presentatore mostro dice che ora si farà gioco.
Uno gioco a cui devono partecipare tutti italiani e gioco si chiama
Facciamoci la rumena.
Cari spettatori, caro pubblico da casa, dice testa di Pippo Baudo
venite qui in studio, fatevi questa bellissima ragazza rumena. Toccate
culo e tette. Chiavate lei in tutte posizioni. Venite addosso lei. Fatevi
rumena. Avanti, voi amici in sala, cominciamo!
Mentre dice questo, testa di Raffaellà Carrà ride. Io sempre più paura.
Vedo pubblico di zombie alzarsi e venire verso me, centro di studio, e
toccarmi e sporcarmi con loro corpi pieni di pus e di sperma.
Mi sveglio di colpo col cuore che batte veloce come treno che mi ha
portato qui da Romania. Vorrei urlare, ma nessuno mi sentono. Vorrei
tornare in mia casa, in mio paese, ma non possibile. Io non ho soldi
nemmeno per biglietto ritorno. Allora guardo fuori da finestra.
Appartamento di signore uguale a Riccardo Fogli è ultimo piano di
palazzo. Se io scavalcare da finestra faccio volo, mi spiaccico su
cemento e finisce tutta questa sofferenza.
Io tentata di buttarmi, ma alla fine non lo faccio. Alla fine istinto
sopravvivenza ha meglio su me. Crollo di nuovo su letto per
addormentarmi. Questa volta senza sognare.
Mattino dopo porta si apre. Signore uguale a Riccardo Fogli ma più
cattivo entra in appartamento accompagnato da due uomini. Questi due
uomini molto grandi. Sembrano armadi di mia casa in Romania.
Riccardo Fogli fare le presentazioni.
«Allora, troia rumena succhia cazzi, voglio che tu conosci i miei
cuginetti» dice lui. «Si chiamano Thomasz e Ugo.»
Tomasz è polacco. Sembra maiale palestrato. Ha capelli biondi e
cortissimi e collo largo e gonfio di vene.
Ugo è italiano. È alto, bruno, scuro con faccia piena di buchi.
«Ugo e Tomasz fanno tutto quello che io dico loro di fare» dice
Riccardo Fogli cattivo. «Se dico di sputarti in faccia, loro sputano te in
faccia. Ugo: sputa in faccia a troia rumena!»
Vedo Ugo fare un passo avanti. Poi le sue guance gonfiarsi
raccogliendo tutto muco e saliva in sua gola. Poi labbra aprirsi e sparare
in faccia me sputo.
«Vedi? Lui fa esattamente come io dico. Anche Tomasz. Tomasz:
brucia sigaretta che hai in mano su faccia di rumena succhiacazzi.»
Tomasz si avvicina. Sorride alzando sigaretta tra dita. Scatto fuori dal
letto spaventatissima. Tomasz mi afferra per polso. Io grido pietà, di non
fare, pietà per me! Lui sta per usare mia faccia belissima come
posacenere, quando Riccardo Fogli Cattivo dice: «Ora basta, Tomasz.
Troia rumena servirci bellina com'è, altrimenti non valere una sega.»
Tomasz mi guarda e sorride. Poi, torna a suo posto.
«Capito? Questi due fanno tutto quello che voglio io. Loro mio
braccio destro e mio braccio sinistro. Loro miei. Anche tu mia, rumena
succhia cazzi. Tu mia proprietà. Tu non hai speranza di sopravvivere
fuori di qui. Tu ora farai tutto come io ti dico. Unica tua speranza è
saltare fuori da finestra, capito?»
Dato che io tardo un po' a dire che ho capito, Riccardo Fogli cattivo
ordina a Tomasz di tirarmi sganassone in faccia, cosa che lui fa
lasciando me come morta.
Quando io riprendermi, Riccardo Fogli cattivo torna a spiegare.
«Ora, voi rumeni siete popolo di merda. Non valete un cazzo. Non
sapete cucinare. Non sapete vestire. Tutto quello che si conosce di vostra
cultura è conte Dracula. Di voi non si sa niente a parte che avete
Transilvania regione dove nato questo stronzo di vampiro. Però voi
donne rumene una dote avete, io devo ammettere. Voi donne rumene
brave e fare puttane. Avete bocca buona a pompare e figa giusta per
sborrarci dentro. Tu da oggi essere mia puttana, capito?»
Io sto per dire che col cavolo faccio puttana per lui quando vedo
Tomasz sorridere, pronto a spegnere sigaretta in mia faccia e allora dico:
«Capito.»
«Bene» dice Riccardo fogli cattivo. «Brava. Se tu ubbidisci vedrai
che tu più felice.»
Poi mi spiega.
Mi spiega quale sarà mia vita da ora in avanti.
«Vivrai qui dentro» dice. «Non uscirai mai, a meno che non decidere
io. Prenderò io appuntamento per te. Farai tutto quello che miei clienti ti
chiedono. Ti farai scopare avanti e dietro, farai pompini, farai orge. Non
dirai mai no. Ti farai pagare. Se uno di loro non pagare, tu chiamerai
Tomasz o Ugo e loro fare culo a chi non pagare. È tutto chiaro?»
Dico di sì, che è tutto chiaro, che altro posso dire?
«Bene, in questa valigia trovi mutandine e giarrettiere, roba porca per
presentare te in modo porco davanti a miei clienti quando bussano a
porta. Il primo cliente bussa oggi pomeriggio. E' commendatore. Uomo
importante. Se dopo che uscito di qui lui dice me che è felice e ha
goduto, tu brava e io verserò te piccola percentuale di guadagno. Se lui
dire per niente contento, Tomasz ti brucerà capezzolo. Capito?»
Ascoltate italiani, popolo di merda, senza cervello e con solo voglia di
scopare figa.
Io dunque nemmeno 48 ore che arrivata a Milano e già mi trovo a
fare puttana. Primo cliente è commendatore. Uomo grasso e orribile di
circa 60 anni.
Commendatore dice che io sono bellina come letterina.
Commendatore ha mani piccole e grassocce che muove su tutto mio
corpo. Io vorrei scappare da lui, ma poi penso a cosa capaci Tomasz e
Ugo se io scappare da lui e così io ci sto.
Commendatore chiavare me a pecorina.
Per chiavata, commendatore sborsa 200 euro.
Se ti chiedono anche culo, fai tariffa extra di 50 euro, quindi 250
euro, mi aveva detto Riccardo Fogli cattivo, ma meno male
commendatore no anale.
Dopo commendatore arrivano altri due clienti, poi per quel giorno
finito.
Entra Ugo e mi dice che porta me fuori cena perché anche se io troia
rumena succhia cazzi che prendo tanto sperma in bocca io comunque
mangiare per non crepare.
Prima di portarmi fuori a cena, Ugo però violenta me.
«Mio capo ha detto che io posso» dice.
Dopo mi porta fuori a cena.
Mangio pizza e birra. Poi torno a casa. Igor violenta di nuovo, poi
dice buonanotte.
Mia vita va avanti così per un mese buono. Io tutto il giorno faccio
puttana poi a pranzo e cena vengo portata a mangiare in pizzeria o
portano a me spesa per farmi da mangiare in casa. Non è possibile che io
fuggo perché Ugo o Tomasz fuori da palazzo che fanno guardia.
Mia unica consolazione è tv.
Guardo tanta tv tra scopata e altra scopata. Ma ora guardo tv con
anima diversa di prima. Prima amavo Raffaella Carrà, Pippo Baudo,
Gerrri Scotti eccetera, ora li odio tutti. Li odio tutti perché dato che sono
italiani loro tutti porci e ipocriti.
Continua tutto così e forse io stava prendendo seriamente idea di
uccidere me quando una sera conosco ragazza albanese. Anche lei
puttana. Lei chiamarsi Adania. Io conosco lei una sera che io e lei
dobbiamo lavorare insieme perché venditore di auto vuole fare cosa tre.
«Tu e Adania dovete fare lavoro bello con questo signore. Questo
signore non solo mio cliente, anche mio amico, capito, troia rumena
pigliainculo?» spiega Riccardo Fogli cattivo.
Dico che ho capito.
«Mi raccomando. Fate anche cose lesbo.»
Spiego che io no lesbo.
Riccardo Fogli cattivo spiega che lui no frega un cazzo se io lesbo o
no lesbo. Indifferente. Lui deciso che io fare lesbica e io fare lesbica,
inteso?
Dico che ho inteso.
Così sera stessa vengo caricata su auto guidata da Tomasz. Su auto
già ragazza albanese. E' prima volta che vedo lei. Deve avere mia età,
non più. E' bionda, ha viso rotondo, duro, labbra spesse e occhi piccoli e
neri come bottoni. Veste minigonna, sandali e camicia di seta traverso
cui si vede capezzoli duri e puntuti come chiodi.
Tomasz fa presentazioni.
«Troia rumena Marina ti presento troia albanese Adania.
Adania no guarda me. No dice piacere. È muta.
Veniamo portate in appartamento di venditore auto. Venditore auto è
forse uomo più brutto che ho mai visto in vita mia. È piccolo con pelle
tutta unta. Ha orecchie piene di peli. Ha capelli in testa che sembrano
quelli di suo scroto. Ha voce roca come rana. Porta me e Adania in
camera sua dove c'è letto enorme. Si spoglia, poi dice di spogliare noi e
di fare cose sporche tra noi per poi farle con lui. Così io e Adania
cominciamo a fare le lesbiche. Ad Adania la cosa piace, a me così così.
Forse Adania lesbica veramente.
Quando finito con venditore d'auto, mentre siamo in auto guidata da
Tomasz in viaggio di ritorno, Adania mi mette sua mano in mia e ci
lascia foglietto tutto piegato. Poi, con sguardo mi fa intendere di non
dire niente e aprire foglietto quando io in mio appartamento.
Così quando io in mio appartamento leggo foglietto.
Ormai conosco memoria parole scritte.
Ecco, ve le riporto qui:
"Ciao, io mi chiamo Adania. Io ragazza albanese di 19 anni. Io non so
come te chiama, ma so una cosa: tu puttana dell'est come me. Forse
rumena, forse ungherese, forse albanese, ma donna dell'est venuta in
Italia pensando di fare soldi e diventata puttana. Come si dice in questo
paese di merda: siamo tutte due in stessa barca.
"Barca in cui siamo chiamarsi Marco Fumagalli. Questo nome di
uomo schifoso bastardo italiano che ha fermato me a stazione dei treni e
convinto a salire in macchina con lui. Scommetto che ha fatto stessa
cosa con te, vero?
"Fumagalli è uomo peggiore che io incontrato in mia vita. Non ha
cuore. Lui spreme noi ragazze, poi quando spremute ci butta in strada e
noi morire di fame. Io conosco ragazza che è capitato questo prima che
tu arrivi. Io no voglio fare questa fine. Io voglio vivere. Io voglio vivere
per solo piacere di vendicare e metterlo in culo a tutti questi italiani di
merda, a cominciare da Fumagalli. Scommetto che anche tu volere
mettere in culo a italiani di merda. Bene, ora sai che non sei sola.
"Ci sono io e poi ci sono altre due ragazze albanesi e una altra
rumena che sono schiave di Fumagalli ma che vogliono ribellione. Io e
queste ragazze abbiamo fondato società clandestina per rivoluzione.
Società segreta si chiama URDEMDUIDM che è sigla che sta per
Unione Ragazze Dell'Est Motivate Di Uccidere Uomini Italiani Di
Merda.
"Se anche tu volere essere parte di società segreta tu ora spegni la
luce poi riaccendi poi spegni e poi riaccendi di nuovo. Io prigioniera in
palazzo accanto a tuo. Io vedere da mia finestra segnale che significa
che tu hai accettato.
"Se non volere essere parte di società segreta tu veramente, come
dicono italiani, povera succhiacazzi senza speranza.
"Ciao e buona notte".
Io finito di leggere foglietto copita fino a lacrime. No credevo cose stare
così. No credevo che ci fossero più ragazze slave sotto Riccardo Fogli
che ora so chiamare Fumagalli. E no credevo che queste ragazze fondato
società chiamare URDEMDUIDM.
Io, dopo essere ripresa da choc, faccio come chiesto Adania: spengo
luce, poi riaccendo, poi spengo di nuovo e poi riaccendo. Noto che una
finestra del palazzo davanti fa stessa cosa. Io piango per felicità.
Due settimane dopo io e Adania trovarci di nuovo per nuova cosa
lesbo da signore che vende auto. Durante viaggio di ritorno Adania passa
me foglietto che leggo a casa.
Foglietto dice cose grosse. Sentite qua.
"Ciao Marina. Io contentissima quando tu ha spento e acceso e spento e
poi riacceso luce come avevo chiesto di fare te. Ora tu delle nostre.
Domenica notte decisiva. Domenica Fumagalli porta noi a orgia.
Gruppo di politici e dirigenti italiani vogliono noi ragazze est in villa
con piscina per fare grande orgia insieme loro. Uomini in questa villa
tutti potenti. Noi uccideremo loro. Ascolta bene. Io so che due notti fa
Tomasz cambiato te materasso perché sfondato da troppe scopate. In
cerniera di materasso io nascosto piccola pistola carica.
"Domencia porterai tua piccola pistola carica. Io porterò mia pistola
e altre ragazze la loro. Piano è questo: non appena entriamo in villa e
vecchi di merda potenti italiani immersi in piscina noi sparare loro. Noi
fare fuori come tanti tonni. Acqua piscina sarà rossa del loro sangue. Mi
raccomando. Tieni pistola nascosta fino allora.
"Domenica ha inizio grande vendetta di URDEMDUIDM".
Con mia mano che trema apro cerniera di federa materasso e dentro,
messa molto nascosta io trovo pistola di argento. Io carezzo pistola e
sfioro canna con labbra.
Poi rimetto pistola in suo posto e penso che è solo inizio.
Questo è solo inizio, capito uomini di merda italiani, porci, falsi,
papponi che non meritate di vivere. Domenica primo massacro, poi
seguiranno altri massacri. Noi donne rumene bellissime infinitamente
più belle di vostre donne cesse. Noi donne rumene e donne est in
generale belle, giovani e cattive.
Noi fregare voi vostro paese.
Viva Romania!
Viva URDEMDUIDM!
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Daniele Gabrieli
DUNGEON BOY, DUNGEON GIRL
"Credere che l'amicizia esista,
è come credere
che i mobili abbiano un anima"
Marcel Proust
1 - Giovedì
Era il terzo giorno del nono mese del diciottesimo anno dalla caduta
dell’Impero Maebita quando Gretznor Cuordifalce, Paladino di Tutti i
Confini e Difensore della Fede di Luminus, e il suo fedele compagno
d’armi Kazumani, nano scassinatore del
clan delle Ombre Corte, discesero i 5555 gradini che conducono in
fondo al Pozzo Senza Fondo di Wallapurgan.
5555 gradini più in alto, il sole delle pianure di Wallapurgan era
piccolo come un doblone d’oro. Nelle viscere dell’abisso giungeva a
malapena la luce necessaria a scorgere sette sarcofagi disposti in
cerchio. D’un tratto il frammento di corindone incastonato nell’elsa di
Scassaserpi, la spada incantata di Gretznor, prese a sfolgorare come
una stella di sangue. «La mia spada avverte un grande male in questo
luogo» disse Gretznor.
«Ci scommetto che adesso si aprono le tombe» disse Kazumani.
In quell’istante, le tombe si aprirono. I pesanti coperchi di pietra si
rovesciarono e crollarono al suolo con clamore. Dagli eterni giacigli si
levarono sette scheletri scarnificati; le dita ossute stringevano
scimitarre e mazzafrusti. I guerrieri risorti varcarono i bordi dei loro
avelli e, seminando pezzi d’armatura rugginosa ad ogni passo,
avanzarono verso Gretznor e Kazumani.
«Per la gloria di Luminus!» gridò Gretznor, e brandì Scassaserpi.
«Fatevi sotto, stronzi!» gridò Kazumani, e impugnò le sue asce
gemelle, Divora & Devasta. Dopodiché cominciò a roteare su se stesso
a guisa di trottola: un turbine vivente che travolse i soldati scheletrici
uno a uno, scagliando costole e tibie in ogni dove.
«No», dice Lucio, «non puoi».
«Perché?» chiede Marcello.
«Perché hai diritto ai bonus sugli attacchi multipli solo quando
colpisci alle spalle» spiega Lucio.
«Ed è un’abilità inefficace contro i nemici non morti» aggiunge
Andrea.
Marcello lo guarda e aggrotta la fronte. «Ma tu da che parte stai?
Dovremmo essere noi due contro di lui!»
Lucio scuote la testa. «Dopo un anno e mezzo di sessioni settimanali
hai ancora questa visione agonistica del gioco di ruolo. Ormai dovresti
aver capito che il Master non è l’avversario dei giocatori. Al massimo è
l’arbitro».
«Vabbè», dice Marcello, «e quindi?»
Andrea gli allunga un dado a venti facce. «E quindi tira».
«Fatevi sotto, stronzi!» gridò Kazumani, e impugnò Devasta &
Divora. Ma quando fu il momento di lanciarsi all’attacco, inciampò nei
suoi stessi piedi e rovinò faccia a terra.
Il dado a venti facce è fermo sul numero uno.
«Che palle» digrigna Marcello. È un tipo basso e panzuto, un
coacervo di residui tardoadolescenziali e anticipazioni di declino
precoce: ha le guance crivellate d’acne e i denti già tutti ingialliti, un
felpone da gangsta rapper e una stempiatura quasi
completa. È seduto dal lato est del tavolo.
A ovest siede Andrea. Ha i capelli a mezzo collo e, per tratti somatici
e costituzione fisica, sembra scappato da un diorama del Museo di
Scienze Naturali sull’uomo di Cro–Magnon. Porta una T–shirt degli
Arizona Coyotes. Ha un occhio nero e l’altro
pure, nel senso che entrambi hanno l’iride scura, e inoltre il destro è
tumefatto.
A nord, dietro lo schermo del Master e un paio d’occhiali, è seduto
Lucio. Segni particolari: nessuno. Ha una di quelle facce neutre che, se
estrapolate da un contesto anatomico, potrebbero appartenere
indifferentemente a un uomo o a una donna.
Il versante sud è scoperto. In mezzo c’è il tavolo, invaso da matite a
pulsante, schede di personaggi, manuali del Master e dei giocatori,
mappe, miniature e dadi a quattro, sei, otto, dieci, dodici e venti facce.
«Marcello», dice Lucio, «sono mesi che te lo voglio chiedere.
Kazumani, come nome, da dove arriva?»
«Dalla Polonia» risponde Marcello. «Ho aperto Ruzzle, ho scelto il
polacco come lingua e ho passato il dito a caso. E Gretznor?»
«Wayne Gretzky», dice Andrea, «il più grande giocatore di hockey di
tutti i tempi».
«Non ti sei ancora rotto di questa storia dell’hockey?» chiede
Marcello. «Sei italiano, la natura vuole che tu sia fissato col calcio».
Andrea alza le spalle. «Preferisco lo sport al melodramma».
«A proposito», interviene Lucio, «non ci hai raccontato di preciso
come ti sei fatto questo». Si indica l’occhio destro.
«Credevo che in
campo aveste delle protezioni».
«Ce le abbiamo. L’occhio nero me l’hanno fatto negli spogliatoi».
Marcello fischia. «Pesante! Le hai solo prese o le hai anche date?»
«Mi sono difeso».
«Una rissa», dice Lucio, «che cosa cinematografica. Com’è
combattere nella vita reale?»
Andrea prende un dado da venti e si prepara a lanciarlo. «Non ci sono
i dadi».
A conclusione della battaglia, il fondo del Pozzo Senza Fondo era
cosparso di ossa umane spezzate o tranciate di netto.
Gretznor Cuordifalce sfilò la lama di Scassaserpi dal teschio trafitto
di un nemico caduto. L’armatura del paladino mostrava i segni della
tenzone: un cosciale era ammaccato, uno spallaccio forato. Ma le vesti
candide del sacro culto di Luminus, sfoggiate come uno stendardo sopra
il pettorale, erano ancora intatte.
Al contempo Kazumani frugava nelle tombe in cerca di tesori: aveva
già raccolto un bottino d’una tiara, una cinta istoriata e una maschera
funeraria d’oro puro. Finché, giunto al settimo sarcofago, vi rinvenne un
tubo d’avorio di mastodonte, dal quale
estrasse un foglio di pergamena.
«Ehi», disse il nano, «la mappa. Mi sa che l’abbiamo trovata».
«Sia lode a Luminus!» esclamò Gretznor. «Ora conosceremo la
strada che porta alle Cave della Follia, che conducono al Tempio del
Dio Perduto, dove è nascosto l’elisir che riporterà in vita il Signore
degli Elfi, che custodisce la parola segreta che ci darà accesso al
sotterraneo dell’Arcimago!»
«E per stasera abbiamo finito» dice Lucio. «Scusate, ma domani alle
otto in punto voglio essere sui libri. Lunedì ho l’orale di Analisi Uno».
«Questo sabato non sei dei nostri?» chiede Andrea.
«Ho paura di no», risponde Lucio, «sarò in ritiro pre esame.
Salutatemi tutti, e noi ci vediamo giovedì per la prossima sessione».
Marcello si schiarisce la gola. «Parlando di giovedì… Vi seccherebbe
se portassi una persona?»
Gli altri due gli puntano contro sguardi densi di sospetto.
«Mia cugina si è trasferita in città da una settimana» spiega Marcello.
«Non conosce nessuno, e mia mamma mi ha consigliato, che nel suo
caso è come dire ordinato, di
portare anche lei».
Andrea sbarra l’occhio sinistro e, nei limiti consentiti dalla
tumefazione, anche il destro. «Qui? Con noi? A giocare?»
«Non mi sembra una buona idea» dice Lucio.
«Neanche a me», conferma Marcello, «ma finché non mi trovo un
lavoro non ho margine di trattativa con mia madre». Unisce le mani in
preghiera. «Vi scongiuro, venitemi incontro!»
«Quanti anni ha ‘sta cugina?» chiede Andrea.
«Un paio meno di noi», risponde Marcello, «si è appena iscritta
all’uni».
«Come si chiama?» chiede Lucio.
Marcello esita un attimo, poi sospira e spara: «Belinda».
C’è un istante di silenzio, al quale segue una fragorosa risata
collettiva.
«Belinda» ripete Lucio, asciugandosi una lacrima.
«Che nome del cazzo» riesce a dire Andrea, tra uno sghignazzo e
l’altro. «Senza offesa, eh».
«Figurati», sogghigna Marcello, «lo penso anch’io. È peggio di
Kazumani».
2 – Giovedì
«Il mio nome è Bibernell Fiordineve, esploratrice scelta degli elfi
silvani, e questo è il mio fidato famiglio, Becco d’Asbesto».
Il falco, posato su una spalla della dama dalle orecchie a punta,
spalancò il becco argenteo e stridette.
«Mi sono introdotta nelle Cave della Follia alla ricerca di Vurdak»,
narrò Bibernell, «il ciclope che ha barbaramente assassinato i miei
genitori. Mentre seguivo le sue tracce, accecata dal desiderio di
vendetta, mi sono lasciata cogliere di sorpresa da questa orrenda
creatura».
A fianco della fanciulla elfica, riverso sul pavimento roccioso della
caverna, giaceva il corpo esanime di un ragno dalle dimensioni
elefantiache.
«Io e Becco d’Asbesto siamo stati catturati», concluse Bibernell,
strappando un pezzo di ragnatela dalla sua faretra, «e saremmo morti
d’una morte orribile se non foste intervenuti voi in nostro aiuto. Vi
dobbiamo la vita».
Gretznor accennò una riverenza. «Abbiamo soltanto compiuto il
nostro dovere». La sua armatura era lorda degli umori verdastri
scaturiti dalle ferite del ragno, ma le sacre vesti di Luminus erano
intonse.
Kazumani stava usando Devasta per ripulire Divora dalle chiazze di
liquami. «Sì, bello, ma il tesoro? I ragni giganti non mettono via i
soldi?» All’improvviso, da qualche parte nel dedalo delle Cave della
Follia, risuonò un verso troppo mostruoso per essere umano, ma troppo
vibrante di malvagità per provenire da una bestia. Gli fece seguito un
approcciarsi di passi pesanti.
«È Vurdak», disse Bibernell, «lo riconoscerei tra mille».
Incoccò
una freccia e tese la corda dell’arco.
«E adesso?» chiede Belinda, una ragazza minuta con gli occhi
azzurro ghiaccio, i capelli decolorati e un piercing al naso, attualmente
seduta dal lato sud del tavolo.
Andrea fa per passarle un dado da venti. «Adesso tira».
Lucio lo blocca per il polso. «Vacci piano. È la sua prima volta». A
Belinda: «Nel gioco di ruolo l’esito di ogni azione viene stabilito con un
lancio di dado. Più è difficile l’impresa, più alto è il numero che devi
ottenere».
«E se l’impresa è impossibile?» chiede lei.
«Niente è impossibile», risponde Lucio, «c’è sempre una chance di
successo, per quanto piccola». Prende il dado da venti e glielo posa sul
palmo.
«Adesso tira».
Il grido di battaglia del ciclope si mutò in un urlo di dolore quando la
freccia si conficcò nel suo unico occhio.
Il dado è fermo sul diciassette.
«Bel colpo!» esclama Lucio.
«La fortuna dei principianti» sbuffa Marcello.
Belinda ridacchia e arrossisce un po’. «Ho solo tirato un dado».
«Ci vuole stile anche per tirare i dadi» dice Lucio. «Tuo cugino, per
esempio, non è capace».
«Ah ah, molto divertente» ribatte Marcello, serio.
«Quindi il gioco è tutto qui?» chiede la ragazza.
«Bè, no» risponde Lucio. «I dadi rappresentano la parte, per così dire,
meccanica del gioco di ruolo, ma le scelte tattiche spettano a voi
giocatori. E soprattutto siete liberi di interpretare i vostri personaggi
come preferite».
«E tu cosa fai?»
Il timbro della voce di Lucio si abbassa in modo appena percettibile.
«Io creo il mondo».
«Quindi sei tipo Dio?»
«Sì, cioè no, non proprio. Un’eventuale divinità, se esistesse,
potrebbe fare quello che le pare. Mentre io, in quanto Master, devo
preoccuparmi della buona riuscita delle sessioni. È importante che gli
ostacoli incontrati dai giocatori rappresentino
una sfida, ma non siano insormontabili».
«Sembra complicato».
Lucio ridacchia e si stringe nelle spalle. «Ma no, è solo un hobby».
«Non fare il modesto, pirla» interviene Andrea. «Essere il Master è
un casino, c’è da star dietro a un sacco di numeri e di tabelle. Ci va bene
che abbiamo un cervellone che ha passato Analisi Uno con trenta e
lode!» Alza una mano aperta, e Lucio batte il cinque.
«In pratica», spiega Marcello alla cugina, «i giochi di ruolo sono
come la vita. Puoi scegliere cosa fare, ma non sei mai sicuro delle
conseguenze delle tue azioni, e comunque c’è sempre qualcuno più in
alto che decide per te». Si gratta la testa. «Ci pensate che magari quella
che noi chiamiamo realtà è solo un altro grande gioco di ruolo? Forse
noi crediamo di essere veri, ma siamo personaggi controllati da entità
della quinta dimensione con nomi impronunciabili fatti solo di
consonanti».
Andrea si alza. «Quando Marcello comincia a sparare cazzate, vuol
dire che s’è fatto tardi. Ci si vede sabato?»
Si alza anche Marcello. «Cinema?»
«Perfetto» risponde Lucio. «Belinda, hai da fare sabato sera?»
«Purtroppo sì, questo fine settimana torno al paese. Ma tanto ci
vediamo giovedì prossimo, giusto?» Si alza anche lei. «Lucio, grazie di
tutto. Specie di avermi dato una mano con la scheda del personaggio».
Gli sorride. «Bibernell è un bellissimo
nome».
Lucio ricambia il sorriso. «Anche Belinda».
I giocatori si allontanano. Il Master rimane solo sul fronte nord del
tavolo, ma non per questo smette di sorridere. La sua faccia non è più
così anonima: dietro gli occhiali brilla una luce nuova.
In lontananza si sente una domanda: «Come te lo sei fatto
quell’occhio nero?»
3 – Giovedì
«Io sono Ragnix, figlio di Tachios, figlio di Gurdik, Signore degli Alti
Elfi della Foresta di Ravendix. Quattordici inverni fa l’Arcimago
Velanmorg ha gettato su di me una maledizione che mi ha tramutato in
una statua di pietra. Ancor oggi sarei un pezzo di fredda roccia, se gli
Dei non ci avessero inviato questi tre campioni.
Gretznor Cuordifalce, paladino del sacro culto di Luminus».
Gretznor si inchinò. «La vostra gratitudine è la mia ricompensa».
«Kazumani, del clan delle Ombre Corte».
«Non c’è un premio in denaro?» chiese Kazumani.
«E Bibernell Fiordineve, degli elfi silvani».
Bibernell e Becco d’Asbesto chinarono il capo insieme. Il Gran
Consiglio degli Alti Elfi dedicò un lungo applauso ai tre eroi.
«Ora», proseguì Ragnix, «vi rivelerò la parola che apre le porte del
sotterraneo di Velanmorg, cosicché possiate mondare le nostre terre
dalla minaccia che egli rappresenta. Ma prima, amici miei, è necessario
discorrere di un’altra questione».
Un brusio interrogativo percorse le fila del Gran Consiglio.
«Troppo a lungo alti elfi ed elfi silvani sono stati separati da rancori,
invidie e incomprensioni» proclamò Ragnix. «Lo scisma ci ha resi
vulnerabili agli assalti degli orchi, dei goblin e degli uomini lucertola. È
il momento di ricordare che la razza elfica è una e una sola, e l’unico
modo per farlo è suggellare una nuova
alleanza».
Il Signore degli Alti Elfi si avvicinò a Bibernell. Prese una mano della
fanciulla tra le sue.
«Bibernell, vuoi farmi l’onore di diventare mia moglie?»
«Lo sapevo» borbotta Marcello. «Appena fai entrare una donna si
passa da Tolkien a Beautiful».
Belinda ha l’aria confusa. «Cosa devo fare? Devo tirare un
dado?»
Lucio scuote la testa. «Questa è una di quelle situazioni nelle quali
non c’entrano i dadi. Devi solo… rispondermi». C’è un’improvvisa
irregolarità nel ciclo di apertura e chiusura delle sue palpebre, per cui si
potrebbe avere l’impressione che abbia
appena strizzato l’occhio a Belinda. Ma se lei se n’è accorta, non lo dà a
vedere.
«Occhei», dice la ragazza, «ho capito».
«L’onore è il mio» disse Bibernell. «È fuor di dubbio che qualunque
fanciulla elfica sarebbe felice di ricevere una tale proposta».
Ritrasse la mano dalla presa di Ragnix.
«Tuttavia, per onestà, sono costretta a declinare. Perché il mio cuore
appartiene già a un altro».
Si volse in direzione della persona al suo fianco.
«Io ti amo, Gretznor Cuordifalce».
«Eh?» chiede Andrea. Non ha più l’occhio pesto, ma al momento ha
tutti e due gli occhi persi.
Le guance di Belinda hanno assunto un leggero color porpora.
«Non è proibito, giusto? Il mio personaggio può fare tutto quello che
voglio».
Lucio, senza bisogno di maledizioni, è come pietrificato.
Belinda fissa un punto nel vuoto a metà strada tra una gamba del
tavolo e una scarpa di Andrea. «Tocca a te. Cosa rispondi?»
Andrea prende un respiro profondo.
«Per me va bene» disse Gretznor.
Bibernell si gettò tra le sue braccia.
«No!» grida Lucio. «Non puoi».
«Perché?» chiede Andrea.
«Perché», Lucio ha il respiro leggermente affannoso, «perché il tuo
personaggio è devoto al culto di Luminus. E quindi ha fatto voto di
castità».
«Ma da quando?»
«Da sempre! Cioè, è implicito, non te ne avevo mai parlato perché
non ce n’è mai stata l’occasione».
«Ah. Allora è diverso».
«Per me va bene» disse Gretznor, strappandosi di dosso le vesti
bianche. Bibernell si gettò tra le sue braccia.
Belinda rialza lo sguardo. Al massimo dell’estensione, il suo sorriso
ha come effetto collaterale una coppia di adorabili fossette. «Ragazzi,
questo sabato ci siete?» chiede a Andrea.
«Cascasse il mondo» risponde lui.
«Lucio, tu ci sei?» chiede Marcello.
Lucio sembra scomparso dietro lo schermo del Master. La sua voce
arriva fessa e lontana.
«Non credo».
4 – Giovedì
Fu così che Gretznor, Bibernell e Kazumani, con l’apporto
fondamentale di Becco d’Asbesto, si avventurarono nel sotterraneo
dell’Arcimago. Scesero scale, varcarono arcate, percorsero corridoi,
scassinarono serrature, fecero scattare trappole alle quali sfuggirono
per un soffio, percorsero altri corridoi, scesero altre scale. Affrontarono
tre viverne, quattro manticore, undici mummie viventi, una falange di
minotauri,
un golem a vapore e un elementale del magma. Alfine, in una grande
stanza delle torture piena di gabbie, gogne e vergini di ferro, giunsero al
cospetto di Velanmorg, terrore degli elfi, flagello dei nani e traditore
della razza umana.
«Siamo alla resa dei conti, Velanmorg!» disse Gretznor. Sguainò
Scassaserpi: la gemma sull’elsa risplendeva come un sole rosso.
«Il tuo regno di terrore finisce oggi!» disse Bibernell, cogliendo una
freccia dalla faretra.
«Perché noi ti faremo il mazzo!» gridò Kazumani mentre emergeva
da un angolo buio alle spalle del mago, con Divora stretta in un pugno e
Devasta nell’altro. Velanmorg neppure si volse: sollevò una mano, e una
raffica di vento polare sorta
dal nulla investì Kazumani. Il nano fu scaraventato contro un muro e si
accasciò a terra, intirizzito e coperto di brina.
«Così?» chiede Belinda. «Senza neanche tirare?»
Becco d’Asbesto spiegò le ali, lanciò un verso stridulo e spiccò il
volo alla volta dell’avversario. Velanmorg puntò un dito: una folgore
colpì il rapace, che cadde già spiumato e
arrostito. Dopodiché dalle pareti della stanza scaturì un fascio di viscidi
tentacoli butterati, che si riversarono su Bibernell: bloccarono le sue
gambe e le sue braccia e stracciarono le sue vesti.
«Lucio», chiede Marcello, «non stai esagerando?»
Velanmorg schioccò le dita e Kazumani esplose. Poi l’Arcimago si
rivolse a Gretznor. Dalla sua gola affiorò una voce che suonava come
ossa sfregate su altre ossa e diceva: «Fatti sotto, stronzo».
«Lucio», chiede Andrea, «c’è qualche problema?»
Il Master ha un’espressione impenetrabile. Una maschera di pietra.
Velanmorg batté le mani e l’armatura di Gretznor cadde a pezzi.
Schinieri, cosciali, cubitiere e spallacci piovvero sul pavimento,
disgiunti gli uni dagli altri e corrosi da ruggine precoce, lasciando
Gretznor nudo e indifeso quanto un lombrico.
Ora anche il volto di Andrea è una maschera di pietra. Lui e Lucio si
fissano a vicenda negli occhi mentre Andrea prende uno dei dadi da
venti sparsi sul tavolo.
Velanmorg levò in alto entrambe le mani aperte. Vi fu un lampo di
luce, e apparve una schiera di scudi a losanga sospesi a mezz’aria, che
presero a ruotare intorno al corpo dell’Arcimago come un’impenetrabile
muraglia incantata.
Andrea scuote il pugno nel quale stringe il dado e si prepara a tirare.
Velanmorg gonfiò le guance e soffiò. La luce sull’elsa di Scassaserpi
si spense.
Andrea tira.
Gretznor brandì a due mani l’oggetto di metallo affilato che in
precedenza era una spada magica e si scagliò all’attacco al grido di
«Vaffanculo!»
Il dado rotola sul tavolo.
La testa di Velanmorg rotolò a terra.
Il dado è fermo sul venti.
Nel profondo del sotterraneo che era stato dell’Arcimago, al centro
di un labirinto di scale, corridoi, arcate, ponti, botole e bivi, in una
grande stanza piena di ruote da tortura, tavolacci da stiramento e sedie
irte di spuntoni Gretznor e Bibernell, nudi e
bellissimi, celebrarono un mondo libero dalla crudeltà di Velanmorg
scambiandosi il bacio del vero amore.
Lucio si alza.
Ha lo sguardo iniettato di sangue.
Belinda si aggrappa a un braccio di Andrea.
«Lucio», dice Andrea, «io…»
La bocca di Lucio si spalanca a un’angolazione innaturale.
Con un
ruggito, dalle viscere del Master erutta una colonna di fiamme arancioni.
Brucia il tavolo con tutti i dadi, i manuali e le schede dei personaggi.
Brucia Marcello, bruciano fino al
midollo Andrea e Belinda, avvinti in un ultimo abbraccio. La stanza si
riempie di urla di dolore e del puzzo di carne carbonizzata.
«No», dice Mxyz, «non puoi».