nazione e di collaborazione doveva legare i soggetti per il consegui

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I RAPPORTI PATRIMONIALI – L’IMPRESA FAMILIARE
nazione e di collaborazione doveva legare i soggetti per il conseguimento nell’ambito organizzativo dell’impresa di un fine produttivo di
beni e di servizi. Il problema dibattuto in dottrina e giurisprudenza 165
è stato risolto dalla Corte costituzionale che con sent. 10 dicembre
166
1997, n. 476 , ha dichiarato l’illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3, comma 1, e 38, comma 2, Cost., l’art. 4. comma 1,
n. 6, d.p.r. 30 maggio 1965, n. 1124 T.U. delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e dalle malattie
professionali, nella parte in cui tale norma non ricomprende proprio
le persone assicurate, i familiari partecipanti all’impresa familiare indicati nell’art. 230-bis, c.c., che prestano opera manuale o a questa assicurata ai sensi del precedente art. 2.
Si è ritenuto, allora, che a seguito di tale pronuncia la tutela assicurativa contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali è stata
estesa anche ai familiari collaboratori nell’impresa familiare che prestino attività lavorativa non riconducibile all’ipotesi del rapporto societario o di lavoro subordinato 167.
14. Aspetti fiscali.
Il dibattito sulla natura giuridica dell’impresa familiare ha assunto
particolare rilevanza ai fini dell’inquadramento tributario dei rapporti
economici tra imprenditore e collaboratore.
La natura individuale dell’istituto determinava l’assoggettamento
in via prevalente dei redditi dell’imprenditore alle imposte, mentre la
natura collettiva comportava l’assoggettamento dei redditi di tutti i
partecipanti alle imposte come tutti i redditi prodotti in forma associata.
Di particolare importanza è l’esame della successione delle norme
165
M. CINELLI, Nota critica alla sentenza del Pretore di Macerata, 25 marzo 1980, in
Giust. it., 1980, I, 2, p. 513; M. PERSIANI, Rapporti economici in Commentario della Costituzione, Bologna, 1979, I, p. 239; Cass., 30 gennaio 1976, n. 290, in Riv. inf. mal. prof.,
1976, II, p. 52.
166
Cass., 10 dicembre 1997, n. 476, in Giust. civ., 1988, I, p. 316.
167
Cass., 8 agosto 2003, n. 12012, in Mass. Cass., 2003, p. 1884.
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tributarie nel tempo dal quale emerge l’evoluzione verso l’accoglimento della tesi che riconosce all’impresa familiare natura di impresa individuale.
L’impresa familiare è stata disciplinata sotto il profilo fiscale in un
primo tempo dall’art. 5, d.p.r. n. 597/1973, modificato dall’art. 9, l. n.
576/1975, e successivamente dall’art. 3, comma 12, l. n. 17/1985. Attualmente è disciplinata dall’art. 5, comma 4, d.p.r. n. 917/1986.
L’art. 5, d.p.r. n. 597/1973, prevedeva che i redditi dell’impresa
familiare di cui all’art. 230-bis c.c., fossero imputati a ciascun collaboratore familiare proporzionalmente alla sua quota di partecipazione
agli utili dell’impresa quando questa viene fissata prima dell’inizio
dell’anno finanziario con atto pubblico o con scrittura privata autenticata. Tale disposizione fu interpretata come estensione alle imprese
familiari del c.d. principio di trasparenza adottato per i redditi prodotti in forma associata (società semplice, in nome collettivo e società
in accomandita semplice).
In base a tale principio il reddito veniva imputato a ciascun socio indipendentemente dalla effettiva percezione, e ciò è proporzionalmente
alla sua quota di partecipazione agli utili il cui ammontare si presumeva
uguale per tutti i soci ove non risultasse diversamente determinato con
atto pubblico o scrittura privata autenticata.
Tale impostazione aveva indotto molti autori a ritenete che l’art. 5,
d.p.r. n. 597/1973 prevedesse la ripartizione di un reddito di natura
imprenditoriale in capo ai singoli collaboratori 168.
Questo orientamento che considerava di fatto l’impresa familiare come una nuova forma di ente collettivo per l’esercizio dell’impresa non
teneva conto di un dato essenziale che differenziava l’impresa familiare
dalle società e riguardava un diverso trattamento delle perdite.
Queste difatti per le società erano attribuite pro quota alle persone
fisiche partecipanti di cui all’art. 8, d.p.r. n. 597/1973, mentre nell’impresa familiare erano fiscalmente attribuite all’imprenditore individuale e ciò sia per effetto del mancato richiamo dell’ultimo comma
dell’art. 5, e sia per effetto del mancato richiamo della partecipazione
alle perdite da parte dell’art. 230-bis, c.c.
L’art. 3, l. n. 649/1983, ha introdotto una prima modifica normati168
P. FILIPPI, Impresa familiare, II, Diritto tributario, in Enc. giust. it., p. 1.
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va significativa al regime fiscale delle imprese familiari stabilendo che
la disposizione dell’art. 5, comma 4, d.p.r. n. 577/1973, si applica per
i redditi che risultano dalla dichiarazione annuale presentata dall’imprenditore ed a condizione che la dichiarazione stessa rechi l’attestazione che le quote di partecipazione dei collaboratori familiari agli
utili siano proporzionate alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato da ciascuno di essi in modo continuativo e prevalente.
Il contenuto di tale attestazione deve essere conforme a quello dell’atto pubblico o scrittura privata autenticata previsti dallo stesso articolo.
Detta disposizione richiama espressamente la figura dell’imprenditore e subordina l’applicabilità del regime fiscale in essa prevista alla
proporzionalità delle suddette quote di partecipazione alla quantità e
qualità del lavoro effettivamente prestato dai collaboratori, secondo
quanto già previsto dall’art. 230-bis c.c.
Da tale norma si evince che mancando uno degli elementi richiesti
per la ripartizione del reddito per quote ne consegue l’imputazione
dell’intero reddito al solo imprenditore. A quest’ultimo doveva altresì
essere attribuito un eventuale maggiore reddito accertato in quanto
l’art. 3, l. n. 649/1983, consentiva l’imputazione pro quota solo per i
redditi dichiarati dall’imprenditore. Se mancava uno degli elementi
richiesti per l’applicabilità dell’art. 5, d.p.r. n. 597/1973, e cioè per la
ripartizione del reddito per quote, il reddito sarebbe stato attribuito al
solo imprenditore.
Modifiche ancora più profonde sono state apportate alla disciplina
fiscale dell’impresa familiare dall’art. 3, comma 12, l. n. 17/1985, recepito dall’art. 5, comma 4, d.p.r. n. 917/1986.
Esso ha espressamente previsto “i redditi delle imprese familiari di
cui all’art. 230-bis c.c., limitatamente al 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a
ciascun familiare, che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell’impresa, proporzionalmente alla sua
quota di partecipazione agli utili. La presente disposizione si applica a
condizione:
– che i familiari partecipanti all’impresa risultino nominativamente,
con l’indicazione del rapporto di parentela o do affinità con l’imprenditore, da atto pubblico o scrittura privata autenticata anteriore al-
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l’inizio del periodo di imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti;
– che la dichiarazione dei redditi dell’imprenditore rechi l’indicazione della quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e
l’attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e
quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa in modo continuativo e prevalente nel periodo d’imposta;
– che ciascun familiare attesti nella propria dichiarazione dei redditi di aver prestato la sua attività di lavoro nell’impresa in modo continuativo prevalente”.
Dall’esame delle disposizioni si evince il ruolo preminente dell’imprenditore al quale viene imputato il 51% del reddito dell’impresa
familiare mentre il 49% viene attribuito ai collaboratori familiari .
Esse inoltre sanciscono la irrilevanza ai fini fiscali del lavoro prestato nella famiglia consentendo l’imputazione di quote del reddito risultante dalla dichiarazione dell’imprenditore solo ai familiari che abbiano prestato attività di lavoro nell’impresa.
Va ancora rilevato che mentre nelle imprese personali assume rilievo la necessità di predeterminazione delle quote con atto notarile,
per l’impresa familiare viene accolto il principio della variabilità delle quote così come previsto dall’art. 230-bis c.c. Tale disciplina ha
posto dei problemi in quanto la ripartizione delle quote di reddito –
prevista dall’art. 5, comma 4, d.p.r. n. 917/1986, nella misura del
51% per l’imprenditore, e del 49% per i collaboratori familiari –
non tiene conto del fatto che in concreto l’art. 230-bis c.c. consente
che il reddito dei collaboratori superi complessivamente quello dell’imprenditore.
A ciò occorre aggiungere che ove ciò avvenga l’imprenditore, qualora la quota degli utili spettante a coloro che prestano la loro attività
di lavoro nell’impresa, sopporta un carico tributario relativo ad un
reddito del quale non ha la disponibilità e ciò è in contrasto con l’art.
169
53 Cost. .
Alla luce delle disposizioni su riportate sono attualmente le dichiarazioni dei redditi rispettivamente dell’imprenditore e dei collabora169
E. LA ROSA, L’impresa familiare alla luce del trattamento tributario: appunti per
una ricostruzione, in Riv. dir. civ., 1986, II, p. 135.
20.
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tori familiari che, alla fine del periodo di imposta considerato, quantificano le quote di spettanza dei collaboratori.
Dette dichiarazioni devono essere date in forma di atto pubblico o
di scrittura privata autenticata: la funzione di queste dichiarazioni è
anche quella di qualificare il reddito imputabile a ciascun collaboratore familiare come reddito di impresa.
L’art. 5, comma 4, d.p.r. n. 917/1986, prevede che un reddito di
natura imprenditoriale venga imputato in capo ai collaboratori familiari solo in presenza di alcune formalità tra cui la redazione preventiva dell’atto dichiarativo dell’esistenza dell’impresa familiare. In mancanza di tale atto sarebbe impossibile qualificare la quota di partecipazione dei collaboratori familiari in materia di impresa con la conseguenza che il reddito viene qualificato come rientrante in una determinata categoria non in relazione all’attività svolta o alla fonte produttiva, ma in base alla esistenza di una formalità, quale un atto pubblico
o una scrittura privata autenticata.
Da ciò deriva che l’atto pubblico o la scrittura privata autenticata
non costituiscono solo la formalità che permette di considerare reddito di impresa la quota di partecipazione agli utili dei collaboratori familiari, ma costituiscono l’elemento formale essenziale per attribuire
al reddito dei collaboratori rilevanza fiscale 170.
Quanto ai poteri di accertamento degli uffici delle imposte rispetto
all’atto dichiarativo di impresa familiare e rispetto alla determinazione
delle quote di partecipazione effettuata nella dichiarazione dei redditi
dell’imprenditore si ritiene che gli uffici preposti non abbiano alcun
potere di sindacare formalmente l’atto dichiarativo e la fissazione dell’entità delle quote di partecipazione spettando ciò ai partecipanti all’impresa familiare purché nel rispetto dei limiti del 51% al minimo
per l’imprenditore e del 49% al massimo per i collaboratori ai sensi
del comma 4, art. 5, d.p.r. n. 917/1986.
Gli uffici però hanno sicuramente il potere di accertare la sussistenza degli elementi di fatto che danno rilevanza fiscale alla partecipazione all’impresa dei collaboratori familiari e cioè la sussistenza dell’atto dichiarativo dell’impresa familiare in data anteriore all’inizio del
170
P. FILIPPI, L’impresa familiare nell’imposizione diretta, in Riv. dir. fin., 1976, p.
612 ss.
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periodo di imposta, la sussistenza dei rapporti di coniugio, di parentela ed affinità richiesti dalla legge e la sussistenza della continuità e della prevalenza della prestazione lavorativa dell’impresa familiare da
parte del collaboratore.
Si è posto il problema del caso in cui i collaboratori familiari non
pongano in essere l’atto dichiarativo di impresa familiare. Si ritiene da
alcuni autori che non si possano applicare le norme della disciplina
fiscale dell’impresa familiare nel caso in cui i partecipanti non redigano l’atto dichiarativo con la conseguenza che se questo non viene redatto si impedisce che il rapporto di collaborazione familiare assuma
rilevanza fiscale. Pertanto, pur essendo l’atto meramente dichiarativo
e non costitutivo dell’impresa familiare, la sua mancanza determina
l’applicazione alla stessa di in regime fiscale anziché di un altro e cioè
il regime dell’impresa ordinaria anziché il regime dell’impresa familiare che fiscalmente non esiste. Le conseguenze di questo orientamento
sono particolarmente gravose in quanto l’intero reddito dell’impresa
familiare dovrà essere tassato al solo imprenditore che non potrà detrarre la quota di partecipazione (fino al massimo del 49%) spettante
ai singoli collaboratori familiari non potendosi qualificare tali quote
come reddito di impresa 171.
Tale orientamento è stato criticato da alcuni autori 172 i quali hanno
evidenziato non solo aspetti di illegittimità costituzionali ma anche il
profondo contrasto che determina tale interpretazione tra l’istituto
dell’impresa familiare regolato dal codice civile e quello regolato dal
diritto tributario.
Quanto alla natura del reddito dei collaboratori familiari la maggior
parte della dottrina ritiene che sia il reddito dell’imprenditore familiare
che quello dei collaboratori deve essere qualificato come reddito di
impresa alla luce sia delle disposizioni di cui al d.p.r. n. 597/1973, sia
delle norme del Testo Unico approvato con d.p.r. n. 917/1986.
Da ciò deriva che essendo l’impresa familiare un’impresa individuale e non una società è possibile suddividere il reddito (anche se
con la limitazione di una percentuale massima del 49% imputabile ai
171
172
P. MARINI, L’impresa familiare, Roma, 1981, p. 55 ss.
P. FILIPPI, op. cit., p. 620.
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collaboratori familiari), facendo conseguire notevoli vantaggi fiscali
dovuti alla interruzione della progressività dell’imposta sul reddito
delle persone fisiche a carico del titolare dell’impresa. In effetti, questo meccanismo permette di trasferire reddito imponibile da un soggetto con percentuali più elevate di tassazione ad altro soggetto che
invece subisce tassazione meno elevata 173.
Problemi particolari riguardano la rilevanza fiscale del diritto al
mantenimento assicurato al collaboratore familiare dall’art. 230-bis
c.c., e la disciplina dei diritti patrimoniali diversi dagli utili riguardanti
i rapporti tra imprenditori e familiari e previsti dallo stesso articolo.
Quanto al diritto al mantenimento ci si era chiesti se esso fosse imponibile nei confronti del beneficiario come reddito in natura e se potesse essere compreso tra gli oneri deducibili dal reddito del soggetto
obbligato, cioè dell’imprenditore familiare.
Secondo l’orientamento prevalente, tenuto conto della disciplina
dettata in particolare dagli artt. 12 e 62, d.p.r. n. 917/1986, dal reddito dell’imprenditore familiare è deducibile una quota corrispondente
al carico di famiglia relativo al mantenimento dei collaboratori familiari conviventi che non abbiano redditi propri al lordo degli oneri
deducibili superiori ad € 2.065,83.
Gli altri diritti patrimoniali previsti dall’art. 230-bis c.c., riguardano
il diritto di partecipazione, il diritto ai beni acquistati con gli utili dell’impresa familiare, gli incrementi dell’azienda, l’avviamento.
Quanto al diritto di partecipazione previsto dall’art. 230-bis, comma 4, c.c., viene stabilito che esso può essere liquidato in danaro, alla
cessazione per qualsiasi causa, della prestazione di lavoro ed in caso di
alienazione dell’azienda. L’orientamento prevalente della dottrina e
della giurisprudenza attribuisce al diritto di partecipazione natura di
diritto personale, obbligatorio, ossia di credito; orientamenti minoritari attribuiscono ai diritti di partecipazione natura di diritti reali. Un
diverso inquadramento dei diritti di partecipazione tra diritti reali e
diritti di credito comporta conseguenze diverse in ordine ai casi di
conferimento di azienda, di successione dell’imprenditore e di cessione di azienda.
Un aspetto importante anche ai fini fiscali è quello di verificare se
173
P. MARINI, op. cit., p. 90 ss.
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vi siano criteri vincolanti per le parti e per il giudice nella valutazione
dei diritti di partecipazione e cioè se le parti o il giudice debbano attenersi alle quote di ripartizione risultanti anno per anno dalla dichiarazione dei redditi applicandole alla quota di incremento (costituita
dalla differenza tra attivo finale e patrimonio aziendale alla data di inizio della collaborazione) proporzionalmente attribuibile a quel periodo di imposta ricostruendo attraverso la contabilità iniziale gli accantonamenti ed i reinvestimenti di utili nei vari esercizi.
Molteplici ragioni escludono l’applicazione di tale procedura. Innanzitutto il richiamo contenuto nell’art. 230-bis c.c., alla qualità del
lavoro prestato evidenzia una discrezionalità nella valutazione del diritto di partecipazione inconciliabile con la rigidità dei meccanismi di
calcolo che si utilizzano per fini fiscali.
Inoltre occorre tener conto che la l. n. 649/1983, ha subordinato
l’applicabilità dell’art. 5, d.p.r. n. 597/1973, alla condizione che la dichiarazione annuale dei redditi porti l’attestazione che le quote di partecipazione agli utili sono proporzionate alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato da ciascun collaboratore in modo continuativo e prevalente.
Tale previsione, richiamata anche dal d.p.r. n. 917/1986, determina
la necessità di coordinare ai fini fiscali gli accordi, relativi alle quote,
fra imprenditore e collaboratori familiari con la quota massima di utili
ripartibile fiscalmente fissata dalla legge nel 49% degli utili totale. Ciò
significa che la valutazione operata dalle parti difficilmente può conciliarsi con la valutazione operata ai fini fiscali tenendo conto del limite
legale alla quota di utili ripartibili. Va infine evidenziato l’ulteriore
contrasto tra criteri di valutazione civile e criteri di valutazione fiscale
determinato dalla esclusione dell’imputazione del reddito ai familiari
che prestano la loro attività nella famiglia e non nell’impresa.
Alla luce di tali considerazioni la dottrina dominante 174 ritiene che
nella quantificazione dei diritti di partecipazione le parti ed il giudice
non sono vincolati a calcoli matematici in applicazione delle risultanze
delle dichiarazioni fiscali. Tali conclusioni sono condivise anche dalla
giurisprudenza la quale ha affermato che le norme fiscali non possono
influire sulla determinazione civilistica delle quote di partecipazione
174
A. FANTOZZI, Impresa familiare, in Noviss. Dig. it., IV, Torino, 1983, p. 92.
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agli utili dell’impresa familiare 175 e che l’atto di determinazione delle
quote redatto ai fini fiscali può essere valutato liberamente dal giudice
come elemento indiziario 176.
In giurisprudenza, ad integrazione di quanto già riportato, è stato precisato che nell’impresa familiare, ove la ripartizione degli utili sia stata stabilita dalle parti con atto
scritto, come richiesto dalla normativa fiscale in materia, il giudice non può disattendere
il valore probatorio della scrittura, in difetto di prova della simulazione, accertando
l’insussistenza dell’impresa familiare, senza motivare adeguatamente sul carattere simulato dell’atto stesso (Cass., sez. lav., 20 giugno 2003, n. 9897, in Giust. civ. mass.,
2003, f. 6; Cass., sez. lav., 4 agosto 1998, n. 7655, in Giust. civ. mass., 1998, p. 1647); la
fattispecie giuridica disciplinata dall’art. 230-bis c.c. ha natura essenzialmente negoziale
e, pertanto, non sussiste nel caso in cui la sua costituzione sia avvenuta solo al fine di
ottenere il beneficio fiscale di cui all’art. 5, ultimo comma, d.p.r. 29 settembre 1973, n.
579, che prevede l’imputazione dei redditi conseguenti al suo esercizio a ciascun collaboratore familiare proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili dell’impresa (Pret. Parma, 9 aprile 1987, in Giust. Civ., 1988, I, p. 1350), la cui ripartizione deve
essere accertata in base alla effettiva partecipazione anche in contrasto con la documentazione fiscale (Pret. Catania, 28 maggio 1996, in Rass. dir. farm., 1997, p. 23).
In argomento, la predeterminazione, ai sensi dell’art. 9, l. n. 576/1975 (integrativo
dell’art. 5, d.p.r. n. 597/1973) e nella forma documentale prescritta, delle quote di partecipazione agli utili dell’impresa familiare, sia essa oggetto di una mera dichiarazione di
verità (come è sufficiente ai fini fiscali) o di un negozio giuridico (non incompatibile con
la configurabilità dell’impresa familiare), può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere mediante presunzioni l’onere a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili della dimostrazione
sia della fattispecie costitutiva dell’impresa stessa che dell’entità della propria quota di
partecipazione (in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato) agli utili dell’impresa, sul cui credito sono dovuti – con decorrenza dalla maturazione del diritto –
interessi e rivalutazione monetaria ai sensi dell’art. 429, comma 3, c.p.c. (Cass, sez. lav.,
17 giugno 2003, n. 9683, in Foro it., 2003, I, c. 2628 e Dir. giust., 2003, n. 27, p. 101).
Nel dettaglio, la disposizione tributaria di cui all’art. 3, comma 12, d.l. 19 dicembre
1984, n. 853, convertito nella l. 17 febbraio 1987, n. 17, che ai fini esclusivamente fiscali
limita nella misura del 49% la possibilità di imputazione ai familiari compartecipanti dei
redditi dell’impresa familiare, non ha alcuna rilevanza ai fini dell’accertamento in ordine
alla sussistenza dell’impresa familiare prevista dall’art. 230-bis c.c. e alla determinazione della partecipazione effettiva ai redditi dell’impresa, che deve essere compiuta in relazione alla qualità e quantità del lavoro prestato in concreto nell’ambito dell’impresa
stessa (Cass., sez. lav., 25 luglio 1992, n. 8959, in Dir. giur., 1993, p. 580, con nota di
CHIARI).
175
176
Cass., 25 luglio 1992, n. 8959, in Nuova giur. civ. e comm., 1993, I, p. 408.
Cass., 18 dicembre 1992, n. 13390, in Dir. e giur. agr. e amb., 1993, II, p. 83.
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Infine, particolare rilevanza ha assunto la decisione in base alla quale il reddito conseguito per l’attività di collaborazione in un’impresa familiare, la cui natura non sia rivolta alla produzione di servizi o di determinati beni di caratteristiche artigianali, bensì di
una vera e propria attività imprenditoriale, non assimilabile ai fini fiscali ad una attività di
lavoro, è reddito d’impresa e come tale è da assoggettare all’imposta locale sui redditi
(Comm. Trib. centr., sez. XVIII, 23 marzo 1988, n. 2956, in Rass. trib., 1988, II, p. 471).
La comunione tacita familiare: a) introduzione; b)
origini storiche; c) definizione; d) elementi costitutivi della comunione tacita familiare; e) natura
giuridica e fondamento della comunione tacita
familiare; f ) comunione tacita familiare anche per
attività estranee all’agricoltura; g) costituzione,
15.
gestione e scioglimento della comunione tacita
familiare; h) aspetti processuali; i) rapporti tra comunione tacita familiare ed impresa familiare; l)
rapporti tra comunione tacita familiare, società di
fatto, società semplice, comunione ereditaria, comunione volontaria e famiglia coltivatrice.
a) Introduzione.
L’art. 230-bis, ultimo comma, c.c., dispone testualmente “le comunioni tacite familiari nell’esercizio dell’agricoltura sono regolate dagli
usi che non contrastino con le precedenti norme”. Tale disposizione
riproduce in parte l’art. 2140 c.c. del 1942 riportando però nel libro
primo intitolato “delle persone e della famiglia” la norma che era collocata nel libro quinto “del lavoro”.
Molti autori considerano la comunione tacita familiare come l’antecedente storico dell’impresa familiare: tuttavia molteplici sono le differenze tra i due istituti sia con riferimento ai soggetti, che all’oggetto,
nonché al fondamento ed alla disciplina.
L’istituto verrà trattato con riferimento alle origini storiche, ai requisiti soggettivi, all’oggetto, alla costituzione e con riferimento ai suoi
rapporti con l’impresa familiare.