La perla del Tirreno

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La perla del Tirreno
Pagine di Autore
(Lettera da Ischia - anno I, n. 1/1957)
La perla
del Tirreno
di Elena Canino
La casa tra la pineta e il mare offriva una pronta
consolazione al mio corredo estivo. Era un corredo da
forzato, scelto dalle autorità familiari secondo criteri di
durata. Le ruvide tele di Procida mi si gonfiavano intorno, i solidi sandali del calzaturificio di Varese, traforati da un disegno a grattugia, mi adornavano il piede.
Dimenticavo la delusione, la mattina stessa che mi svegliavo nel nuovo letto. In accappatoio correvo sulla terrazza, camminando scalza sull’asfalto bollente, mi pareva di camminare sui bei nomi sonori dei mesi estivi:
agosto gonfio come un’onda, settembre spiaggia lunga,
dorata su cui distendersi. L’accappatoio, oltre ingoffarmi, mi pesava addosso, munito da tanto di cappuccio,
lungo alle caviglie e i maniconi fino al polso, ma io ne
ero orgogliosa, odorava di biancheria nuova, di cloro.
Ischia in quegli anni era un’isola ancora poco frequentata dalla folla estiva, le famiglie villeggianti si
potevano contare sulle dita, nessun giornale ne faceva
l’elenco, eppure erano nomi da figurare in capo ad ogni
lista. C’erano i ragazzi a sbandierarli, non era venuta la
moda di ignorare i parenti e ognuno di essi alla provocazione presentava fieramente le proprie credenziali:
Mio padre è ammiraglio, il mio è deputato, il mio è Eccellenza.
L’Eccellenza era Nitti e sua era l’unica cabina appoggiata agli scogli della Punta del Mulino, punto d’avvio
ai grandi archi di spiaggia scintillante che accompagnavano il mare aperto fino al riparo del Porto. Nitti
usava la cabina come studio oltre che come spogliatoio; si sedeva sul limitare e, tiratasi avanti la panca di
legno, là sopra sbrigava la corrispondenza che verso le
undici gli portava il postino Liberato. L’uomo arrivava
annunziandosi con un fischietto, camminando sugli
ultimi ricami dell’onda fino a che era possibile e poi
affondando le grosse scarpe nella sabbia per arrivare
da Sua Eccellenza. Quel suo fischietto ci dava allegria,
eravamo in una età felice che dalla posta non si aspettava nulla, né ci peritavamo di spruzzare d’acqua quel
modesto Mercurio.
A mezzogiorno preciso, Nitti scendeva in mare come
la palla di Sant’Ignazio a Roma nella stessa ora; il costume di maglia nera gli metteva in rilievo tutte le pro-
minenze. Grosso com’era riusciva a sbaragliarci tutti,
o forse noi ci prestavamo alla sconfitta per deferenza;
donna Antonia si teneva lontana dalle battaglie acquatiche, aveva la specialità di nuotare come se camminasse, mantenendosi a galla con piccole bracciate placide, un gran pagliettone come una cuffia legato sotto
il mento.
Il mare si stendeva davanti a noi offrendoci approdi
facili, illusori, ma noi non lo capivamo e... ciò aumentava la confidenza in esso, come se il Castello fosse uno
scoglio da scalare e Vivara un comodo cuscino sull’onda.
Quando oggi vedo tutte le «parafernalia» che servono ai ragazzi per divertirsi a mare, ricordo come ci andavamo noi, già in costume, i sandali dentro un asciugamano ché l’accappatoio non serviva più quando la
pelle si era abbastanza indurita al sole.
Maestosamente, a mezzogiorno passato, arrivava
la... Marina. Precedeva la moglie dell’ammiraglio B. un
marinaio in divisa candida, sul nastro del berretto in
lettere d’oro c’era scritto: Dante Alighieri. Quel riverito
ma temuto nome vederlo militarizzato era una soddisfazione, la scuola appariva anche più lontana, oltre le
coste chiuse intorno come un anello di protezione. Il
marinaio portava una sedia a sdraio, diceva ai ragazzi:
La mamma è venuta a sorvegliarvi. Ma anche se essi,
e noi con loro, fossimo tutti annegati, lei certo avrebbe
dovuto assistere impotente alla catastrofe: era vestita
di tutto punto, uno spolverino di seta cruda con tante
mantelline sovrapposte, alla postiglione, un largo cappello avvolto in veli, scarpe e calze grigie. Intorno a lei
subito si faceva circolo, bella ed intelligente com’era.
Nitti in suo onore si paludava in un accappatoio, sembrava un grosso frate, rapato e il viso rubicondo.
Stranieri ad Ischia ce ne arrivavano di rado, ma quei
pochi eccentrici anche allora. Per una settimana la
familiare Punta del Mulino vide arrivare sempre alla
stessa ora, una donna bionda. Non aveva addosso che
un costumino di lana celeste, ma portava sempre i
guanti. Si sdraiava su uno scoglio, si scioglieva i lunghi capelli; in quel punto dove arrivava l’ombra della
pineta l’acqua era verde, con riflessi cangianti come le
squame dei pesci. Non dava confidenza a nessuno, ma
accettava i ricci del vecchio pescatore che passava tutta
la mattina a snidarli di sotto gli scogli; egli apriva con
un coltello i gusci spinosi, le porgeva il frutto carnoso
e giallo in una specie di naturale scodellina e lei, sollevandosi un poco sui gomiti, apriva la bocca, li sorbiva con delizia. Con voce aspra di altro paese e suono
ripeteva una parola, sempre la stessa, i capelli biondi
nell’atto scendevano a lambire l’acqua, pareva una sirena. Tutti la guardavano affascinati, Sua Eccellenza
compreso, quella figura era come una spiegazione del
paesaggio, lo riportava ad un’origine mitica. Nella pauLa Rassegna d’Ischia 3-4/03
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sa che interveniva nei discorsi dei grandi e nei nostri
stessi giochi, si sentiva il frinire frenetico delle cicale,
come la voce piena dell’estate, dell’ozio, di un invito al
sonno dopo il bagno.
I ragazzi cominciano a farsi grandi dicevano le
mamme. Certo fu opera loro e non del ministro, se un
giorno asciugandosi il viso sudato, con un fazzoletto
bianco tra berretto e collo come uno della legione straniera, arrivò sulla spiaggia il Commissario.
Quei capelli non sono mica naturali disse mia
ma¬dre ch’era la più puritana. Donna più di mondo, la
moglie dell’ammiraglio spiegò che per farli così biondi
bisognava lavarli con il rosso d’uovo. Approfittai subito
di quel suggerimento, ormai avevo quasi quindici anni,
la vanità cominciava a spuntare timidamente ed inesperta. M’impiastricciai le chiome e un gran dubbio mi
venne al momento di risciacquarle: Se ora ci metto
l’acqua perdo tutto l’effetto...
Era di pomeriggio, mia madre riposava ed io stavo
sdraiata al sole sperando prima di sera di essere tutta dorata. Sulla terrazza circondata tutto intorno dal
giardino veniva l’odore di certi gigli rosa che ad Ischia
nascono anche sulla sabbia. Per le poche letture dannunziane che avevo, sapevo che si chiamavano Amarillis e dentro « gl’insetti vi morivano di dolcezza ». Ma
nemmeno il loro mortale profumo riusciva a vincere
quello di frittata che si sprigionava dai miei capelli.
Mentre con tanta pervicacia stavo covando la mia bellezza, di tra gli alberi mi appariva quella così spontanea
e riposata del tratto di mare che incorniciavano, dentro
vi stava Vivara, con quell’assalto continuo dell’onda sui
suoi fianchi, con il cielo di cristallo che vi si curvava
sopra, solitaria misteriosa come la sirena che un po’ a
tutti, a chi per una ragione a chi per un’altra, aveva mutato impercettibilmente la vita mattutina.
Solo il pomeriggio del sabato eravamo condotti in
massa a prendere una ghiacciata di amarene da Angarella al Porto. Era un gran bicchiere di ghiaccio,
triturato con «gratta chepca» debolmente colorato di
roseo. La pagoda sull’altro lato del porto, con i suoi
spioventi di legno sotto la cupola sfrangiata di un pino
marittimo, metteva una nota esotica contro l’orizzonte
pallido come la seta; respiravamo avventura ed oriente, sognavamo d’imbarcarci per la Cina sul vaporetto
della Cumana che approdava alla banchina.
Eccellenza dicevano le signore perché non fa ripristinare l’uso della banda su quell’isolotto? Ma Sua
Eccellenza reputava ch’esso era troppo stretto e il «
trombone », in uno sforzo, sarebbe caduto nell’acqua.
Solo alla fine della stagione qualche famiglia isolana
riusciva a penetrare nella nostra cerchia, c’invitavano
a mangiar l’uva in quei loro vigneti che crescevano con
le case, serrati tra alte mura, dove il sole non riesce a
penetrare. Conoscevamo ragazze della nostra età, ma
già mature con i seni sviluppati su cui sempre appuntavano, quando aspettavano visite, tralci di edera artisticamente intrecciati a gelsomini. Avevano carnagioni
bianche e delicate, capelli tutti arricciolati.
In uno di quegli autunni scoppiò un grande temporale, acqua venendo giù a «lava» dal Montagnone fece
sprofondare un tratto di strada verso la spiaggia dei
pescatori e scorreva in quell’improvvisato letto come
un fiume. Vi galleggiavano talponi morti, pietre e cespugli, non vi furono altri guai. Ma la notte fummo
svegliati, noi primi di tutti nelle nostre villette sulla
spiaggia, dagli urli eccitati d’una sirena, ma questa volta la sirena seria di una nave da guerra. L’aveva messa
a disposizione dell’ammiraglio B., Sua Eccellenza, per
portare i primi soccorsi alla sua famiglia, alle nostre,
alla popolazione intera. Sul giornale infatti quella mattina a grandi caratteri era comparsa la notizia: La Perla
del Tirreno, sommersa...
Elena Canino
Cartaromana dal Castello
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