Gorbaciov: “Addio alle armi nucleari”

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Gorbaciov: “Addio alle armi nucleari”
Gorbaciov: “Addio alle armi nucleari”
A 25 anni dal primo vertice di Reykjavik, che ha aperto la strada alla fine della Guerra fredda,
Mikhail Gorbaciov rilancia il disarmo nucleare universale
MOSCA - Venticinque anni fa, in questo mese, sedevo di fronte a Ronald Reagan a Reykjavik,
capitale dell’Islanda, per negoziare un accordo che avrebbe dovuto ridurre ed eliminare, entro il
2000, gli spaventosi arsenali di armi nucleari in possesso dagli Stati Uniti e dall'Unione
Sovietica.
Nonostante le nostre differenze, sia io che Reagan eravamo convinti che i Paesi civilizzati non
dovessero considerare queste armi barbariche il fulcro della loro sicurezza. Anche se non
riuscimmo a concretizzare le nostre più alte aspirazioni a Reykjavik, il vertice fu comunque,
come sottolineò il mio ex omologo, “un importante punto di svolta nella ricerca di un mondo più
sicuro”.
I prossimi anni potrebbero, quasi con certezza, stabilire se il nostro sogno comune di liberare il
mondo dalle armi nucleari potrà mai essere realizzato.
I critici vedono un eventuale disarmo nucleare nel migliore dei casi come qualcosa di irreale e,
nel peggiore dei casi, come un’utopia pericolosa. Fanno riferimento al “lungo periodo di pace”
dalla Guerra Fredda come a una prova efficace del fatto che la forza deterrente del nucleare sia
l’unico mezzo per prevenire un grave conflitto.
Da ex comandate di queste armi esprimo il mio dissenso rispetto a tali affermazioni. In qualità di
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deterrente, il nucleare è sempre stato un garante duro e fragile della pace. Non riuscendo a
presentare un piano convincente per il disarmo nucleare, gli USA, la Russia e le rimanenti
potenze nucleari stanno promuovendo, a causa della loro inazione, un futuro in cui le armi
nucleari verranno inevitabilmente utilizzate. Una simile catastrofe deve essere prevenuta.
Come ho sottolineato cinque anni fa, assieme a George P. Shultz, William J. Perry, Henry A.
Kissinger, Sam Nunn e molti altri, la deterrenza del nucleare diventa meno affidabile e più
rischiosa con l’aumento dei Paesi in possesso di tali armi. Escludendo una guerra preventiva
(che si è dimostrata controproducente) o l’applicazione di sanzioni efficaci (che si sono
comunque rivelate insufficienti), solo dei passi reali verso il disarmo nucleare potrebbero
assicurare la sicurezza reciproca necessaria per arrivare a seri compromessi sulle questioni
legate al controllo e alla non proliferazione delle armi.
La fiducia e la comprensione raggiunta a Reykjavik hanno aperto la strada a due trattati storici.
Il trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces) del 1987, che stabilì la distruzione delle
testate nucleari che al tempo minacciavano la pace in Europa, e il trattato START I (Strategic
Arms Reduction Treaty) del 1991, volto a ridurre dell’80% gli arsenali nucleari statunitensi e
sovietici nel giro di dieci anni.
Ma le prospettive del progresso sul controllo e la non proliferazione delle armi stanno sbiadendo
in assenza di una spinta credibile per il disarmo nucleare. In quei due lunghi giorni a Reykjavik
ho imparato che le trattative sul disarmo possono essere costruttive tanto quanto ardue.
Legando assieme una gamma di questioni correlate, io e Reagan abbiamo creato la fiducia e la
comprensione necessaria per moderare una corsa alle armi nucleari sulla quale avevamo perso
il controllo.
A posteriori, la fine della Guerra Fredda ha presagito l’arrivo di un piano ancor più ingarbugliato
di potere globale e di persuasione. Le potenze nucleari dovrebbero, infatti, aderire ai requisiti
del Trattato di Non Proliferazione del 1968 e dovrebbero riprendere in “buona fede” le
negoziazioni sul disarmo. Ciò dovrebbe intensificare il capitale morale a disposizione dei
diplomatici nel tentativo di contenere la proliferazione del nucleare in un mondo in cui, mai
come ora, sono molti i Paesi che hanno i mezzi finanziari per poter costruire una bomba
nucleare.
Solo un piano serio di disarmo nucleare universale può dare la rassicurazione e la credibilità
necessaria atte a creare un consenso globale sulla fine della dottrina del nucleare quale
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deterrente. Non possiamo più permetterci, sia in termini politici che finanziari, la natura
discriminatoria dell’attuale sistema fatto di detentori e non detentori del nucleare.
Il vertice di Reykjavik ha confermato che il coraggio viene ricompensato. Le condizioni iniziali
per un accordo sul disarmo nel 1986 erano tutt’altro che favorevoli. Prima di diventare leader
dell’Unione Sovietica nel 1985, le relazioni tra la superpotenze della Guerra Fredda avevano
toccato il fondo. Ciò nonostante, io e Reagan eravamo riusciti a creare una riserva di spirito
costruttivo grazie alla nostra apertura costante e a un confronto faccia a faccia.
Ciò che sembra mancare oggi sono leader con coraggio e una visione tali da ristabilire la fiducia
necessaria per reintrodurre il disarmo nucleare quale colonna portante di un ordine globale di
pace. Le limitazioni economiche e il disastro di Chernobyl ci hanno spinto ad agire. Perché
quindi la grande recessione e il disastro di Fukushima Daiichi in Giappone non hanno portato
una simile risposta anche nel contesto attuale?
Il primo passo dovrebbe essere la ratifica da parte degli USA del trattato di bando complessivo
dei test nucleari (Comprehensive Test Ban Treaty-CTBT) del 1996. Il Presidente Barack Obama
ha sostenuto questo trattato definendolo come uno strumento vitale per scoraggiare la
proliferazione e prevenire una guerra nucleare. È tempo che Obama tenga fede agli impegni
presi a Praga nel 2009, che prenda in prestito l’arte oratoria di Reagan e persuada il Senato
degli Stati Uniti a formalizzare l’adesione dell’America al CTBT.
Un simile passo obbligherebbe anche gli ultimi Paesi resistenti (Cina, Egitto, Indonesia, Iran,
Israele, Corea del Nord e Pakistan) a riconsiderare il CTBT, spingendo tutti verso il divieto
globale dei test nucleari in qualsiasi ambiente (atmosfera, ambiente sottomarino, spazio o
sottoterra).
Un secondo passo necessario è che Russia e Stati Uniti portino avanti l’accordo New START e
inizino a ridurre in maniera più consistente gli arsenali, in particolar modo le armi tattiche e di
riserva che non hanno alcuno scopo se non quello di sprecare i fondi e minacciare la sicurezza.
In questo contesto ci si dovrebbe anche occupare dei limiti da porre ai missili per la difesa, una
delle questioni principali che minarono il vertice di Reykjavik.
Un trattato che proibisca la produzione di materiale fissile per le armi nucleari (FMCT), fermo da
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diverso tempo nelle trattative multilaterali di Ginevra, e un secondo vertice sulla Sicurezza
Nucleare che si terrà il prossimo anno a Seoul aiuteranno a mettere in sicurezza i materiali
nucleari pericolosi. Il vertice dovrà, inoltre, stabilire il rinnovo e l’ampliamento della Partnership
Globale del 2002, mirata a mettere in sicurezza ed eliminare tutte le armi di distruzione di
massa (nucleari, chimiche e biologiche), in vista dell’incontro successivo programmato per il
prossimo anno negli Stati Uniti.
Il nostro mondo è troppo militarizzato. Nell’attuale clima economico, le armi nucleari sono
diventate un ripugnante pozzo di soldi. Se, come sembra probabile, le difficoltà economiche
dovessero continuare, gli USA, la Russia e le altre potenze nucleari dovrebbero cogliere
l’attimo per promuovere una riduzione delle armi multilaterali tramite canali nuovi o già esistenti,
come la Conferenza ONU sul disarmo. Queste considerazioni garantirebbero maggior sicurezza
e un minore dispendio di denaro.
Ma si deve affrontare anche l’aumento delle forze militari convenzionali, determinato in gran
parte dalla vasta potenza militare impiegata dagli USA a livello globale. Mentre ci impegniamo a
portare avanti il trattato sulle forze convenzionali in Europa (CFE), dovremmo seriamente
considerare di ridurre il peso delle forze e dei budget militari a livello globale.
Il Presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy una volta affermò che “ogni uomo, donna e
ragazzo vive sotto la spada di Damocle del nucleare, sospesa al più tenue dei fili che può
essere reciso da un momento all’altro”. Per più di cinquant’anni l’umanità ha osservato con
cautela questo pendolo letale, mentre i leader di Stato discutevano su come riparare le sue
fragili corde. L’esempio di Reykjavik dovrebbe ricordarci che le misure palliative non
funzionano. I nostri sforzi di 25 anni fa non saranno stati vani solo quando la bomba atomica
finirà accanto alle manette dei commercianti di schiavi e all’iprite della Grande Guerra, nel
museo della violenza del passato.
11 OTT 2011 - Fonte: Project Syndicate
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