I falò e la luna – e-book
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I falò e la luna – e-book
letteratura / ROMANZI Giuseppe Fedeli I FALÒ E LA LUNA Novelle e altro Cendon LIBRI Letteratura - Romanzi Anche questo finirà. Anche questo. Sì, come tutto. Finirà come tutto. Giuseppe Fedeli consegue la Laurea in Giurisprudenza e successivamente la Specializzazione in Diritto Civile presso l'Universitas Studiorum di Camerino. Avvocato e giudice di pace, collabora a forum e riviste giuridiche, svolgendo in pari tempo l'attività di Cultore del Diritto presso l'Università Gabriele D'Annunzio di Pescara. Ha al suo attivo pubblicazioni presso prestigiose case editrici. Alterna alla professione ed allo studio di codici e pandette l'amore per la letteratura e la poesia. Partecipa a concorsi e premi letterari, che gli valgono significativi riconoscimenti. Sposato, è padre di tre figli. “i falò e la luna”è il suo secondo lavoro letterario, nel 2010 ha esordito con il romanzo-diario “Guarda nell'abisso-lettere ad Alessio, bellissimo bambino senza parole”edito da Pagine. EDIZIONE LUGLIO2013 © Cendon Libri Editore S.n.c. di Paolo Cendon & C. via San Lazzaro 8 - 34100 Trieste (TS) Sito internet: www.cendonlibri.it E-mail [email protected] ISBN 9788898069804 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione, di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati in tutti i Paesi. 2 INDICE Incipit Parte prima La Prosa 1. ELVEZIA L'IRRIDUCIBILE 2. LA TELA 3. I PALLINI 4. IL PRINCIPE DEL FORO 5. LA CAGNA 6. LA DOPPIA VITA DI SAVIO 7. LA “SOLONA” 8. L'APPUNTAMENTO 9. LE AULE AGERIE 10. IL DEVOTO 11. IL BAMBINO CHE MANGIAVA CIOCCOLATA 12. NELLA BUONA E NELLA CATTIVA SORTE Parte seconda La Poesia 1. IL TEMPO 2. GILDA 3. LA FANCIULLA VESTITA DI FIORI 4. LA FELICITÀ 5. ANGELO DECADUTO (A STEFANO) 6. GRENDEL 7. IL VISO SEGNATO (ALLA SPOSA) 8. IL VECCHIO GIRADISCHI 9. VAI, GIRARDENGO!…(IN MEMORIA DI DARIO) 10. IL SAPORE DELLE COSE 11. DIARIO DI UN MEDICO DI CAMPAGNA 12. TUTTO HO PERDUTO 3 EXIT (IL CANTO DELLA VITA) CLAUSOLA INCIPIT Sperare di cambiare le cose, di mutare sorte, è una sfida nella quale si è destinati a perdere, non soltanto la partita, ma anche noi stessi. Forse, prefigurata la situazione ideale, una volta che essa avesse a realizzarsi, rimpiangeremmo quel che di più vero e nostro ci è stato sottratto: la vocazione alla vita, a quello che siamo, a quel che il Cielo, attraverso trame perfette ma imperscrutabili, giorno dopo giorno ci elargisce. Giuseppe Fedeli A Benedetta, Alessio e Stefania 4 Parte Prima LA PROSA 1. Elvezia l’irriducibile Elvezia si sposò con una specie di Barnabo delle montagne in giovane età non appena laureata -, ma il matrimonio di lì a poco tempo andò a rotoli. La colpa era – forse - imputabile al fatto che ella non era adatta a una stabile convivenza, o – forse -, come usa dire, i due non erano fatti l’uno per l’altra. A detta di lei, fu costretta a scappare da un despota che la tiranneggiava, angariandola al punto che per lei l’unica chance di sopravvivenza era sottrarsi alle sue grinfie. Da quell’unione scellerata fortunatamente non nacquero figli. Tornata a vivere coi genitori al suo paese d’origine, dopo aver varcato la fatidica soglia dell’esame di stato, le seconde “nozze” le celebrò con la Giustizia, di cui si autoelesse vestale. Lo zelo e la travolgente voglia di riscatto dalle ingratitudini della vita a favore dei più deboli e derelitti la indussero per l’appunto a fare la scelta dell’avvocatura. L’irriducibile aveva fatto suo il motto che echeggiava muto nelle stanze del “palazzo”: habent sua sidera lites. In seguito, a questa innata vocazione affiancò il ruolo di magistrato onorario, vestendo così due paludamenti, o meglio indossando a seconda delle funzioni quando la toga del legale, quando la toga del Giudice. I ritmi che governavano le sue adunanze erano da caterpillar, non c’erano orari. Lavoratrice indefessa, poteva succedere che un’udienza si protraesse - se si eccettuano radi interludi e briefing - anche oltre le dieci ore pro die. Divorata dal fuoco di questo nobile quanto “singolare” investimento, i suoi giorni, che non conoscevano soste né tregue, si confondevano tra loro nel duplice ruolo che ella rappresentava. Gli unici diversivi che si concedeva - per lo più il sabato e la domenica erano il teatro e la danza, ai cui eventi partecipava come spettatrice con entusiasmo. Donna di una semplicità e un tratto unici – ma risoluta -, di là dal fervore stakanovista non aveva particolari ambizioni: la sua vita erano codici e pandette, ermeneutica e algoritmi processuali. 5 Incline allo scherzo e complice nel motteggio mai scurrile ma faceto, non se la prendeva nemmeno se veniva fatta bersaglio di battute salaci, intinte nel calamo puntuto dell’ironia, lei che d’autoironia ne aveva da vendere: bastava che non le si toccasse l’argomento lavoro. Capitò un giorno in cui era impegnata come magistrato che i fascicoli da dibattere fossero numerosissimi – una trentina all’incirca. Sbrigate così le prime formalità di rito - un rito sempre sacramentale, a dispetto della bassezza in cui erano caduti i tribunali e dello squallido trascinarsi in una grigia vita di routine dei “tribuni”, travet da quattro soldi -, Elvezia – rectius, la Dott.ssa Elvezia Cossiri - si tuffò nella “cognizione” delle cause, che sfilavano una di seguito all’altra seguendo un ritmo lento ma regolare, senza lasciar spazio a tentennamenti o resipiscenze di sorta. Quel giorno – a parte il quarto d’ora d’ordinanza dedicato alla consumazione di un pasto più che frugale - non ci furono interruzioni. Si arrivò, così, davanti a una platea rintronata dalle parole –sovente tautologie - e annebbiata dal sonno, alle 0,15 del giorno successivo, sic et simpliciter – era l’espressione gergale frusta di cui infarcivano le arringhe gli avvocati -, senza che il Magistrato battesse ciglio. Sennonché i genitori di lei, allarmati – in preda a un delirio mascherato da finta imperturbabile calma, Elvezia si era dimenticata di avvertirli che avrebbe ritardato per cena…-, disperati perché la figlia non rispondeva nemmeno al cellulare - puntualmente tacitato -, dopo una ricerca spasmodica telefonarono al numero privato dell’ufficio: al che la vessillifera della Giustizia, senza perdere le staffe ma visibilmente seccata dall’intrusione, appartatasi il tempo che bastava ad evadere la “commissione”, rispose chiaro e tondo: “Per favore, lasciatemi lavorare, ché non ho ancora finito. Non so per quanto ne avrò. Quanto alla cena, quando tornerò a casa, mi arrangerò alla meglio”. Immediatamente dopo, davanti a un pubblico sparuto, più tramortito che trasecolato, con fiera determinazione e un’appena accennata sprezzatura, sedette di nuovo sullo scranno. 6 2. La tela Aveva da poco sistemato il cavalletto in faggio, i colori sornioni dalla tavolozza condiscendenti lo spiavano, la tela non aspettava che di venirne intrisa, irrorata, di essere scavata. I pigmenti ricavati dalla natura o da processi sintetici erano delle più svariate sfumature, andavano dalle tonalità di grigio all'arancio all'ocra alla terra di Siena, al rosso Tiziano, al carminio, al vermiglione, al blu di Prussia, all’oltremare, al cobalto... Il pennello e gli strumenti di lavoro erano pronti, non restava che incominciare l'opera, dare il la all'atto creativo. *** *** Il pittore, il cui nom de plume era Odil - per una certa qual somiglianza nei soggetti ritratti e nell'ispirazione ai gusti ed alla poetica di Odilon Redon traeva di solito spunto per le sue creazioni da paesaggi o stati d'animo tradotti in metafora e simbolo, policromi e versatili, camaleontici e proteiformi. Questa volta aveva però deciso che a fare da Musa sarebbe stato il suo io. Narcissica smania d'onnipotenza o semplice vezzo d'artista? Pose dunque una vecchia specchiera che rifletteva in maniera alquanto opaca la sua figura a lato della tela, e incominciò a tratteggiare i lineamenti dell'alter ego. Via via che il lavoro procedeva, nelle intermittenti pause che si concedeva per fumare una sigaretta o prendere una boccata d'aria, recuperato alla realtà il suo stato - quando dipingeva era divorato dal sacro fuoco - si avvide d'un tratto che la fisionomia dei ritratto non corrispondeva interamente a quella del soggetto dipinto, ma evidenziava piuttosto quei connotati che la trasfigurazione immaginifica desiderava fossero a lui propri. Al tempo stesso la forza dell'atto poietico era tale, da generare dentro di lui una specie d'incantata sospensione, che di lì a poco si traduceva puntualmente in una sottile inquietudine non aliena da una fuggevole ma palpabile crisi d'identità. Era come se l'io allo specchio si sdoppiasse nella sostanza, in una scissione che apriva una crepa sorda nel suo petto. *** *** 7 Odil continuava indefesso nella sua opera “mimetica”, ma la lenta e incessante metamorfosi che non tanto nel soggetto ritratto nella tela, quanto dentro di sé andava facendosi viepiù strada lo costringeva a lunghi interludi di contemplazione, in cui l’assenza dalla cosiddetta “realtà” era totale, e il suo sradicamento dal mondo non concedeva spazio a tregue di sorta. Solo nel graduale recupero dello stato di coscienza, o nelle interminabili veglie notturne l’artista avvertiva, scandito dai battiti del cuore che gli rimbombavano nel petto con tonfi sordi, che il corso della sua esistenza stava come deviando dalla via maestra, quasi fosse stato affatturato da quell’idea tradotta nella rappresentazione di sé. Con la fronte imperlata di sudore, si svegliava di colpo nel cuore della notte, e non gli riusciva più di riaddormentarsi. Era come se il demone della nevrosi, causata da quell’intima scissione, da quello sgretolamento, si fosse impadronito della sua anima. *** *** I giorni passavano, e Odil, la mente fissa e concentrata unicamente nel portare a termine l’opera cui da tempo aveva messo mano, sentiva che le forze lo stavano lentamente ma ineluttabilmente abbandonando. Mentre in passato si dedicava a più lavori, scivolando da una tela a un’altra a seconda dell’ispirazione e della stimmung del momento, adesso non esisteva altra ragione di vita che il suo io abbellito – o ammorbato?... - di fronzoli e d’insani desideri: aveva osato varcare i limiti, ed ora gli dei lo punivano: doveva temere il destino, il loro inesorabile decreto. Non poteva continuare a stare in bilico tra realtà e immaginazione, tra quello che era e quello che avrebbe potuto – dovuto…? - essere, doveva al più presto scegliere uno tra i due corni del dilemma, pena la perdita del ben dell’intelletto, ma soprattutto del suo io, in una grottesca e progressiva deformazione delle sue facoltà coscienti e sensoriali. La tela veniva di solita coperta da un velo al termine della giornata, per poi essere di nuovo messa a nudo l’indomani, al ritorno all’opus. Tutto accadde in un baleno. Una notte, in preda al delirio più incontenibile, a Odil capitò quasi per caso di leggere, su un Quaderno di Bella vergato a mano, un frammento della “Suite furlana” di Pier Paolo Pasolini: “Un fanciullo si guarda nello specchio,/il suo occhio brilla nero./Non contento guarda nel rovescio/per vedere se è un corpo quella Forma./ Ma vede solo il 8 muro liscio/o la tela di un ragno maligno./Scuro torna a guardare nello specchio/la sua Forma , un barlume nel vetro./Io fanciullo, guardo nello specchio,/e il ricordo mi ride leggero/il ricordo della mia vita viva/come erba in una nera riva./Ma non contento guardo nel rovescio/per vedere se è qualcosa a dolermi./ Un barlume, è, un barlume,/solo il bianco di un barlume(…)”. Si precipitò nella stanza di lavoro, strappò il panno che avvolgeva come un sudario la tela, ormai prossima al battesimo, squarciandola senza pietà, per poi immolarla al fuoco purificatore. Come d’incanto, egli si vide seduto, spettatore muto d’un vuoto proscenio, ad applaudire la parodia di sé, e ritrovò il senno. 3. I Pallini Li chiamavano da sempre i Pallini. Erano matti, ma (almeno fino a un certo punto della loro esistenza) mal non gliene incolse. Avevano il privilegio della follia, quella numinosa dote di diversione dalle regole codificate dal consesso “civile” come “normali” (da norma), non sapevano il bene e il male, l'astuzia né l'inganno, conoscevano il ritmo del tempo e l'alternarsi delle stagioni, agivano d'istinto. Come le bestie che, davanti a un pericolo che fiutano anzitempo, scappano. Dopo una vita vissuta in due - Pierino e Mario - non si sa come - nessuno osava varcare la soglia della loro casa -, un giorno il prevosto del villaggio, uomo scorbutico e irsuto ma con un cuore grande così, che nascondeva sotto la ruvidità degli approcci uno spirito caritativo d'altri tempi, e dietro il burbero cipiglio la commozione delle lacrime, saltò il fosso della coscienza e li volle con sé. Sì, li accolse nella sua modesta dimora, li fece venire a vivere con lui. I giorni scorrevano nella piatta calma della vita di paese, ma l'anima di Don Vittorio, traboccante d'amore, non faceva mancare agli “ospiti” nulla, perché questi si sentissero a loro agio e come gente, se non normale, quanto meno degna di far parte del consesso degli umani. Ma la follia, se da un lato è libertà di e da, dall'altro nasconde perigliose trappole, è una bomba a orologeria che può esplodere da un momento all'altro, è governata da leggi arcane. E così, man mano che il tempo passava, i Pallini, comunque a modo loro furbi, presero sempre più ad avanzare pretese nei confronti del loro 9 benefattore, angariandolo al punto da sputargli in faccia se qualcosa non andava - secondo il loro modo di “vedere” la vita - per il verso giusto. Non mancavano poi di fare sceneggiate innominabili, condite d'epiteti blasfemi alla volta del povero cristo, non di rado alzandogli anche le mani, così da essere in più di un'occasione protagonisti di spiacevoli incidenti, dalle conseguenze incresciose. I matti andavano addirittura sproloquiando, rovesciando a loro tornaconto la situazione, che era l'anfitrione a vessarli e tiranneggiarli: quindi, tanto matti poi non erano, se avevano una pur minima capacità di ragionamento. Capitò che il prete si ammalò, e i Pallini, vista la mala parata - non potevano più essere serviti e riveriti a puntino - se ne tornarono nel luogo da cui il parroco li aveva strappati, perché, se fossero rimasti lì, sarebbero crepati di stenti, tra mucchi d'immondizia e un fetore indicibile. Ma così vollero, e Don Vittorio, anche perché ormai allo stremo, non si oppose a quella “dissennata” decisione, non volle interferire sul loro “libero” arbitrio. Abituati com'erano al “lusso” di quell'esistenza toccata dagli Angeli, senza più un punto di riferimento essi furono, sul finire dell'inverno - la dipartita dalla casa parrocchiale avvenne ad autunno inoltrato - trovati agonizzanti, tra deiezioni e topi che sgusciavano da ogni dove, in quella che definire una stamberga era troppo. Furono alcuni vicini ad accorgersene, a causa del prolungato e inspiegabile “silenzio” dei due, che ormai si protraeva da giorni: sfondato l'uscio tarlato di casa - in verità bastò una piccola spinta, e questo si divelse , i Pallini furono ricoverati d'urgenza al nosocomio, dove, dato lo stato in cui erano ridotti, spirarono nel volgere di poche ore. E se ne andarono prima di chi dedicò parte della sua vita a loro, e che, ormai ad un passo dall'abbraccio con sorella morte, fu trovato a recitare il rosario in suffragio delle anime di quei poveri disgraziati. 4. Il principe del foro C’è chi nasce con la camicia, e chi con la toga. Precipuo apparteneva alla seconda schiera. Egli - il suo nome era tutto un programma - veleggiava protagonista indiscusso delle aule giudiziarie: vinceva puntualmente ogni causa che gli veniva affidata. La sua cura e abnegazione non avevano eguali, né lui temeva rivali nella professione. Sfruttando le sue abilità - non solo oratorie - e la furbizia - che di certo non faceva in lui difetto, da doppiogiochista quale era -, riuscì col tempo a crearsi una “piazza” nutrita, 10 fatta di clienti di diversa estrazione, anche se tendeva a privilegiare - in accordo alla sua cupidigia - quelli provvisti di “verde”. Man mano che si diffondeva la sua fama, intrecciava rapporti sempre più stretti - la sua area d'elezione era il diritto civile, ma non disdegnava puntate sui territori del penale - coi pezzi da novanta della politica e dell'alta finanza, trincerandosi sapientemente dietro lo schermo di un'inappuntabile dialettica da mercante della Giustizia. Insomma, il suo “talento” (e la capacità di dissimulazione) era tale, che usciva “senza macchia” anche dal più ardito e spregiudicato jeux d'hazard, attraverso le chicanes i certamina curiali, i sofismi parolai e le ermetiche quando non fluviali citazioni dotte. Sposato, la donna con la quale aveva deciso di dividere la sorte trovava finalmente pane per i suoi denti, essendo costei della peggior razza delle saccenti sedicenti depositarie del verbo. I figli -due maschi - non volevano saperne di codici e codicilli, ma, in una lenta quanto scarnificante opera di persuasione, furono a tempo debito sacrificati alla inderogabile “ragion di Stato” che vigeva in quel focolare.”Consigliori” di diversi istituti di credito e svariate Compagnie di Assicurazioni, all'Avv. Perficio - non riveliamo per necessità di privacy il cognome - venne un giorno conferito un incarico, favorito da un suo scherano di “palazzo”. Era chiamato a difendere uno dei boss più efferati dei clan di spicco siciliani, ma prima gli occorreva intessere una ragnatela di rapporti in cui, se non avesse adottato la massima cautela, rischiava di rimanere irretito: comunque sia, ne andava della sua credibilità, come professionista più che come uomo, anche se le due figure si confondevano in un'unica ratio consustanziale al suo essere. In quel frangente si era rivolto a lui un cugino assai più giovane d'età, da poco laureato - il quale, prima di allora, non aveva avuto notizie né sentore di alcunché riguardo a detta “investitura”. Joshua - era questo il suo nome -, reduce da un'esperienza di vita estrema, era impegolato suo malgrado in una situazione che non gli lasciava scampo, e si dibatteva in un ginepraio di dubbi e interrogativi inevasi. Era così andato a bussare alla porta dello Studio Legale, memore della promessa fattagli dal cugino maggiore tempo addietro, in vista di una collaborazione professionale. Sulle prime Perficio, che rimase d'acchito perplesso, si mostrò di massima consenziente - anche se senza mostrare eccessivi entusiasmi -, ma di lì a pochi giorni ritrattò tutto 11 respingendo al mittente il neofita (dall'”ipse dixit!” aspramente marchiato presso la cerchia dei sodali come miserabile “postulante”). Ma il destino aspetta al varco tutti, specie chi osi impunemente sfidarlo. *** *** Il campo era apparecchiato per la “singolar tenzone” nella famigerata aula bunker di Palermo. Vestita la toga, impreziosita di cordoneria oro e nero e provvista di pettorina - il giorno avanti, partito di buon mattino, l'avvocato aveva soggiornato presso un lussuoso hotel del capoluogo isolano - il dibattimento si infiammò subito in un serrato confronto/scontro con il Pubblico Ministero da una parte, e l'accusa privata dall'altra. Fin quando la pubblica accusa non estrasse l'asso dalla manica: erano state – a dire del rappresentante statuale - intercettate, secondo le regulae juris, quindi del tutto legittimamente, parecchie telefonate tra l'Avv. Perficio e il boss imputato, da cui emergeva l'ipotesi di un coinvolgimento del primo nel reato di favoreggiamento personale. Inviato così motu proprio l'incarto processuale alla Procura competente, nel giro di pochi mesi - il tempo occorrente a svolgere le indagini - il principe del foro si ritrovò, con incredulità pari allo sconcerto, alla sbarra degli imputati. Dopo mesi passati a rosolare sulla graticola - nessuno volle assumere la veste di difensore, vuoi per l'invidia serbata da anni nei confronti del “rivale”, vuoi perché erano venute alla luce più o meno manifeste combine con diversi pregiudicati, gentaglia pronta a vendersi l'anima per la ricchezza e il successo, sicché appariva disdicevole perorare una simile causa -, alla prova dei fatti gli sovvenne il distico - preso in prestito da un suo amato poeta - che, prima di riattaccare la cornetta, il cugino, freddato dal veto, gli declamò: “il meglio che possono darti/gli uomini, è dimenticarti”. Ebbene sì, proprio a Joshua, in precedenza liquidato subdolamente e con la scusa di difficoltà logistiche laddove invece il titolare dello Studio temeva che quanto da lui sin lì costruito potesse essere divorato dalle fauci di appetiti incontenibili - toccò, anima nobile nel senso autentico della parola, difenderlo perché a Perficio, supponente e schifiltoso, non era rimasto nessuno accanto. Neppure i figli, che nel frattempo avevano a loro volta indossato la toga. Dopo essersi intrattenuto in un colloquio con il proprio difensore, il “cliente”, fatta ammenda della vergognosa abiura, si mise a piangere e, disperato, gli tese la mano. 12 5. La cagna L'avevano soprannominata 'la cagna' per la sua totale e incondizionata dedizione ai suoi amici bulldog, ai quali aveva sacrificato tutto, anche la famiglia. Il marito, di diversi anni maggiore d'età, se l'era scelto perché rivestiva una posizione di tutto riguardo in seno al consesso sociale: era guarda caso veterinario, mentre lei insegnava alle scuole elementari di una sperduta frazione in mezzo alle montagne. Da quel matrimonio di convenienza erano nati tre figli, uno peggiore dell'altro: le punizioni inflitte a ciascuno di loro dal padre padrone li aveva resi tutti - eccettuato uno, di cui si vociferava fosse 'figlio d'altri', che si distingueva per il tratto fine e la nobiltà d'animo - cattivi e perfidi, in ossequio a una inesorabile legge di natura, che vuole si compensino le frustrazioni e le angherie subite in tenera età rendendo al prossimo - chiunque esso sia, e nel quale ci si imbatta per ventura - la pariglia. L'atteggiamento snobistico e sussiegoso e il DNA l'avevano ereditato dalla madre, parvenu di paese che si credeva la Regina d’Inghilterra. Costei aveva speso poco del suo tempo - lo stretto indispensabile - a crescerli e a educarli, anche se aveva insufflato nei loro alveoli un'aria ammorbata. Morto il compagno, se si eccettua qualche 'diversione' con camionisti intercettati sulla lunghezza d'onda dei radioamatori, ella poteva finalmente coltivare la sua passione - una vera e propria fissa - a tempo indeterminato. Dava loro da mangiare, li faceva scorrazzare nel prato che circondava la villa, accarezzava le bestiacce: diversamente non le si poteva definire, se è vero che un giorno, al guinzaglio del ‘cane’ – nome di penna del figlio maggiore e più spietato - avevano, facilitati nell'azione dal padrone, azzannato un ragazzo minorato verso cui quello nutriva - non si sa per quale mai motivo, ma i disturbi psicotici non seguono le ordinarie leggi dell'etica e del vivere civile - singolare antipatia (si venne a sapere poi che la mamma si compiacque di tanta ignominia: al punto che il padre del bambino disabile andò a bussare umilmente, ma con determinazione, alla porta della 'cagna' per chiedere spiegazioni in merito all'accaduto, ma per tutta risposta gli fu sbattuto l'uscio in faccia e, come se non bastasse, egli si guadagnò pure la nomea di matto del villaggio: fata non parcunt bonis...): in realtà la persona che il losco figuro odiava profondamente era se stesso, come sempre succede – Freud docet - a chi scarica la propria furia cieca sul prossimo. 13 Ma tutti erano in attesa dell' ‘evento’: ché non se ne poteva più dei soprusi di quella sequela di idioti, sussiegosi e perversi. *** *** Un giorno di maggio, le rose dischiuse nel loro smagliante fulgore, la padrona - alias cagna - si recò di buonora a dare il cibo alle sue adorate creature. Il vento che d'un tratto si era levato portava seco una sinistra eco, come se i latrati di mille cani si fosse condensato nel mulinare vorticoso degli elementi. Anche il cielo si oscurò, quasi latore di un fatale presentimento. Tutto accadde in un lampo: uno dei bulldog - di sesso femminile anch'esso -, addestrato sin da cucciolo alla lotta contro l'uomo, fiutando qualcosa di strano nell'aria, scambiò la padrona per un'altra, e le si avventò sul collo, recidendole la giugulare: con tale repentinità che quella non ebbe nemmeno il tempo di reagire, e di cacciare un urlo. Nessuno fu spettatore di nulla. Solo a distanza di un quarto d'ora, un vicino che si trovava a passare nei paraggi si accorse della scena raccapricciante, e chiamò subito il 118, ma non c'era più niente da fare. Il capo riverso in una pozza di sangue e gli occhi spalancati in un'allucinata incredulità, occorse la scientifica per il riconoscimento della vittima di quell'insano istinto di morte. La platea, accorsa alla spicciolata, non fece alcun commento, e se ne tornò sui propri passi con malcelata e cruda soddisfazione, sogghignando. Morale della favola: chi varca il limite, tema il destino (greci docunt). 6. La doppia vita di Savio Savio viveva alla periferia della capitale, in un appartamento temporaneamente preso in affitto. Studente di vaglia, si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza, superando brillantemente gli esami. Cinto d'alloro, aveva ripreso le sudate carte per un ambizioso traguardo: la Magistratura. Pure questo cursus era stato di tutto rispetto, e nel giro di pochi anni egli aveva tagliato anche il faticoso quanto ambito nastro. Il prestigio derivante dalla carica di cui era il corifeo lo faceva sentire una persona importante, speciale, con in mano le leve e gli strumenti per imprimere una svolta al mondo, e vincerne le insane pulsioni. Assegnato all'inizio ad una sede disagiata - la ‘famigerata’ sede di Platì -, i riconoscimenti e le lodi che gli valsero il suo zelo e la bruciante passione 14 fecero sì che, dietro sua richiesta, di lì a poco fu trasferito nel palazzo di Giustizia di Frosinone. Tra un interrogatorio e l'altro, un decreto e una sentenza - data la scarsità dell'organico, era chiamato via via a ricoprire i ruoli quando di magistrato requirente, quando di magistrato giudicante - la vita di Savio, che scorreva piuttosto tranquilla nell'avamposto ciociaro, ebbe una svolta. Tra pile di carte processuali e logomachie curiali, arringhe e astrazioni iperboree si accampò un giorno sul breve orizzonte del ‘palazzo’ il volto di una donna semplice e risoluta ad un tempo, dal cui fascino e dalla cui classe restò subito irretito. Venuta anche lei - il suo nome era Annacarla - dalla corvé di location minori, aveva alfine fatto sbarco in quel luogo che - si disse poi - era stato favorito dalla fortuna per un incontro così speciale. In preda al demone dell'infatuazione, i due incominciarono così a frequentarsi sempre più assiduamente, nei ritagli di tempo che l'attività lo consentiva, fin quando non decisero di andare a vivere insieme. Ad essi, nell'appartamento del quartiere Prati dove stabilirono la comune dimora, si aggiunse Veronica, men che decenne, figlia di primo letto di Annacarla - quest'ultima aveva alle spalle un passato burrascoso con un marito geloso e satrapo da un lato, e libertino dall'altro, che durante la parentesi matrimoniale non si era fatto mancare nulla, specie le concubine di ogni razza e genere, fino all'uscita di scena in sordina con una giovane e procace collega della consorte. Speriamo - erano questi i pensieri che animavano Annacarla - di aver coronato il sogno della mia vita, e di non ricacciarmi mai più nell'inferno e nelle ambiguità cui sono miracolosamente scampata. Così pensava, in un confidente e quasi compiaciuto immaginare. *** *** I giorni passavano ora nella inevitabile routine del lavoro e della casa, ora movimentati da qualche cenetta a lume di candela e da occasionali gite fuori porta, quasi sempre durante i fine settimana. Dopo un anno di convivenza trascorso tra alti e bassi - anche se senza scossoni che facessero presagire l'uragano che di lì a pochi mesi si sarebbe abbattuto sulle loro vite - l'esaltazione dei primi mesi era andata via via 15 scemando, come quasi sempre accade quando una relazione si consolida, e si assopisce il demone della passione. Fin quando Annacarla scoprì d'essere incinta di un bambino. All'annuncio festoso del nuovo arrivato - sarebbe più corretto dire nascituro Savio, invece di manifestare gioia e commozione, si rinchiuse in un silenzio ostinato. Dietro l'impenetrabile cortina che questi aveva innalzato tra sé e l'esistenza degli altri - Annacarla e Veronica - si nascondeva adesso un ambiguo uomo come usa dire - tutto d'un pezzo, che a casa signoreggiava le altrui sorti, impartendo direttive a destra e a manca, mentre fuori se la spassava a suo piacimento con giovani condiscendenti pollastrelle dall'appetito insaziabile. Al tutore della legalità fino alla pedanteria si “giustapponeva” l'araldo del libertinaggio godereccio e gigionesco off limits. In verità, prima di scoprirsi ancora una volta mamma, Annacarla aveva del tutto casualmente ‘intercettato’ lettere che il compagno indirizzava a ‘fantomatiche’ esponenti del gentil sesso, ma, forse più per rassicurare se stessa che non per un'intima persuasione, non vi aveva dato peso, limitandosi a sorriderne indulgente ed a considerarle nulla più che un esercizio del 'bello stilo’ che da sempre infiammava la faconda penna di Savio. C'è da dire che alla ‘metamorfosi’ di quest'ultimo aveva senz'altro contribuito la sua dipartita dalla Magistratura, ai cui altari aveva sacrificato una vita di studi, illudendosi, forte del credo marxista e arso dal fuoco sacro della ‘rivoluzione’, che quell'approdo fosse la leva per sollevare - e cambiare - il mondo: anche se non si conobbero mai in profondità le ragioni di quest'abbandono, con successiva virata ai lidi dell'avvocatura, complice nella difficile decisione un amico di vecchia data. Soltanto dopo Annacarla sarebbe venuta a scoprire che questa delusione, che lo aveva indotto a saltare il fossato, rifletteva in fondo l'essere più ‘autentico’ di Savio, quell'insanabile scissione che lo divideva nell'intimo e gli faceva indossare i panni ora del dr. Jeckill, ora di mr. Hyde. *** *** Dopo l'ennesima lite, Savio non vide altra via d'uscita che di allontanarsi, a distanza di pochi mesi dalla nascita di Emilian. 16 Allentatasi la morsa del ‘mostro’, si evidenziavano i primi sintomi di una larvata anoressia in Veronica, esito fatale in cui era sfociata la forzata convenienza col patrigno che a raffica e al modo di un duce impartiva i suoi odiosi comandi e imponeva il paradossale diktat, un misto di perbenismo borghese e tirannia. Dal canto suo Savio, la cui vernice d'integerrimo andava scrostandosi mostrando la vera pelle, anche su consiglio di Annacarla - ridottasi a comunicare con lui via mail -, per il bene del figlio comune, incominciò le sedute dallo psichiatra. Non sarebbe tuttavia uscito mai dal fortilizio del suo disperato solipsismo, egoico e psicotico. Trovò una collocazione temporanea in un appartamento facente parte di una palazzina di un pressoché sconosciuto condominio di cui il padre - la cui autoritarietà era la causa, secondo lo psichiatra, del dualismo che si dibatteva nel figlio - era comproprietario per una quota irrisoria. Non perdendo il vizio di cogliere fior da fiore, la magnifica quanto distruttiva ossessione di volare qua e là, a seconda degli umori e della luna, Savio s'imbattè un bel giorno in una frequentatrice delle aule giudiziarie, una ‘suffragetta’ prostrata dopo il coup de foudre alle di lui ginocchia in adorante sottomissione, ma, all'insaputa del medesimo -, adusa - dalla scoperta della sua bellezza ancora acerba - al mestiere più antico del mondo. L'aspetto acqua e sapone di Elisa ingannò il tombeur de femme, che se ne invaghì perdutamente. Al punto che i due andarono a vivere insieme, progettando un futuro prodigo di lusinghe. Intanto Annacarla, con l'aiuto di uno psicologo a tutela della crescita sana del bambino, si andava facendo una ragione del fallimento del tormentato ménage, riponendo prima i sogni nel cassetto, per poi scaraventare scarpina e vestito da ballo alle ortiche: non valeva la pena - si diceva - starsela a prendere per un bastardo di quella risma. Anche Veronica riuscì piano piano, dopo aver soggiornato ed essere stata presa in cura presso una clinica specializzata per certe tipologie di disturbi, a venir fuori dall'incubo, dribblando elegantemente e con impareggiabile nonchalance le patetiche scuse di Savio - nomen omen? - trovato un giorno implorante e in lacrime davanti alla porta della di lei stanza - come avesse fatto ad entrare, non avendo più le chiavi, è mistero affidato all'intuito di uno Sherlock Holmes. 17 Impantanato suo malgrado - o per sua colpa? - nella novella situazione, messo con le spalle al muro dall'obbligo di mantenimento a beneficio della ex compagna e dalle minacce tutt'altro che larvate di dover fare altrettanto nei confronti di Elisa (con cui aveva intanto ratificato il legame ‘indissolubile’ davanti a Dio ed agli uomini), Savio passava la maggior parte del suo tempo a guardare, inebetito, sfilare davanti a sè la folta schiera di chi - uno dopo l'altro - lasciava, sazio, quel laido lupanare. 7. La “Solona” La Pallosi si sentiva in diritto - dovere? - di dire la sua – ipsa dixit! - su tutto e su tutti. Mestierante del dileggio, il suo giudizio - riteneva lei - era infallibile, indiscutibile, dogma. Dall’alto della sua odiosa albagia, tranciava sentenze a destra e manca, non sfuggendo al suo occhio inquisitore alcunché della realtà tangibile e – sic!...- “metafisica” (d’altronde, la passione per la filosofia, dei cui allori menava vanto, la portava sovente a sragionare, o a impegolarsi in argomentazioni cavillose, speciose, tautologiche). I suoi sentimenti erano, come contraltare, di cartapesta, e i legami con il resto del mondo solo di comodo e ispirati alla più bieca convenienza. Sì, perché, Paperon de Paperoni declinato al femminile, ella sapeva ben fiutare l’odore del danaro, non disdegnando così di frequentare il “salotto buono” della provincia, sussiegosa al pari di lei quanto legnosa, per ingraziarsi i magnati della finanza, ai cui favori si vendeva melliflua: i “notabili”, fantocci telecomandati che, pur nel loro snobismo pseudointellettuale, non sapevano distinguere una “c” palatale da una “c” cerebrale, schierati immancabilmente a sinistra (la cultura era da sempre stata appannaggio dei “compagni”), ma inguaribilmente “radical chic”. Come la “Solona”. Ma dai e dai, costei finì con l’attirare gli strali velenosi – ma meritati - di chi aveva eletto a suo bersaglio, perlopiù poveri cristi che la sorte non aveva omaggiato di fortuna, o gente senza un soldo, “gentuccia” – era la locuzione che lei amava affibbiare a questa “plebaglia”- che non andava considerata degna di far parte dell’umano consesso. La Pallosi apparteneva invece alla cerchia della gente cosiddetta “per bene”, ai benpensanti che facevano la carità buttando con malcelata aria di 18 sufficienza dentro la scodella un euro di troppo, al tempo stesso lesinando il pur minimo aiuto ai più bisognosi, anche del milieu parentale. Insomma, era la classica tipa che predicava - e che predicozzi! - bene, e razzolava male. Ma guai a criticarla: chi avesse osato sarebbe stato colpito da anatemi e dardi infuocati. Né la medesima-sorvoliamo sul prenome….- faceva nulla per rendersi non dico simpatica, ma quanto meno sopportabile da chi bon gré mal gré veniva, magari accidentalmente, a contatto con lei. Aveva messo su famiglia - un matrimonio “combinato” ispirato, come era adusa la sua condotta, da un occhio lungo e cupido, e che si reggeva sulla reciproca diffidenza e malalingua, su una quotidiana corsa a ostacoli tra i coniugi, ciascuno mirante al podio a costo di dover passare sul cadavere dell’altro. I due rampolli – ragazzi come tanti altri, avevano tuttavia, secondo legge di Natura, ereditato il DNA materno e paterno - non risparmiavano fiele e battute al fulmicotone all’indirizzo di chi reputavano non fosse un eletto, della loro levatura, sociale e culturale, di sangue e di ceto. Ma non mancavano – anzi, erano all’ordine del giorno- le liti imbastite come una furente pira dalla madre proterva, dettate dall’incistata brama di arrivare prima anche sui figli. A conti fatti, la Pallosi metteva alla berlina chiunque. Per meglio gustarne il martirio, faceva cuocere a fuoco lento chi non era – e chi lo era?... - nelle sue grazie, straziandolo a brano a brano: ella viveva – o meglio, le era consentito vivere - godendo dell’altrui sofferenza e della disdetta, non avendo il “prossimo” barriera per proteggersi dalle di lei frecce letali. Accadde che la detestata fustigatrice di costumi si ammalò. La diagnosi fu sin dall’inizio infausta, non lasciava spazio a speranze. Sulle prime, a lei parve di non accorgersene – probabilmente perché colta da autentico spavento - ma via via che il morbo inesorabile si faceva strada, ne acquisì lucida coscienza. Alcuni la videro piangere – anche se non era la prima volta che si struggeva, perché, come si addice ad ogni perbenista, aveva sempre la lacrima in tasca pronta a cospetto di situazioni tragiche o melo, da cui prendeva pietisticamente e invariabilmente le distanze: a ciascuno il suo, non ti aspettare niente dall’altro, era questo il suo “manifesto”. Ma di questo credo morì perché, a un passo dal fatidico varco, tutti – persino i figli e il marito, chi inventandosi impegni improrogabili ed estemporanei, chi dicendosi inadeguato alla situazione, in disparte quelli che 19 pregustavano l’imminente fine di una bastarda di quella risma, declamandolo senza mezzi termini - disertarono il capezzale. Mai detto più giusto e più vero si attagliò alla grottesca condizione della morente Solona: chi la fa l’aspetti. Ella chiuse gli occhi – per una oscura legge del contrappasso priva di conforto alcuno, se si esclude la vicinanza di una pia donna, trovatasi lì per caso, che, mossa a compassione, ne accompagnò il viatico recitando la Coroncina della Divina Misericordiosa. 8. L'appuntamento Ad Altero avevano consigliato di andare dall'analista per una terapica di tipo cognitivo-comportamentale che, se anche non lo avesse guarito, avrebbe - si sperava - attenuato le sue ubbie. Il complesso di Edipo, che lo legava in un nodo inestricabile all'imperiosa figura materna, non si era – a dire dei Soloni e delle Pizie che lo circondavano - ancora dissolto, e questo era cagione delle anomalie del suo comportamento, delle frequenti diversioni dal tracciato “normale” della vita, delle sue stravaganti curve sinusoidali. Prese così appuntamento per telefono, dopo essersi consigliato con persone che stimava autorevoli e sagge su quale approccio psicologico fosse più confacente al suo caso. Decise, dopo innumerevoli consulti, di affidarsi a tale Dott.ssa Cristina Storti, di matrice psicanalitica rigorosamente freudiana. La prima seduta servì per fare la conoscenza reciproca, a parte la narrazione di dettagli di contorno per inquadrare di massima la situazione da sviscerare. Successivamente - ogni seduta durava i canonici quarantacinque minuti, non era dato derogarvi - s'incominciò a mettere a nudo l'anima di Altero, in un gioco di rifrazioni e dialettiche incrociate -con tanto di transfert e attaccamento morboso alla psic che avrebbe portato con lenta ma ineluttabile gradualità a giocare la partita a carte scoperte. Man mano che il rapporto s'intensificava e il garbuglio delle emozioni e dei nodi irrisolti veniva a galla, l'analista aveva modo, tuttavia, di scoprire nel soggetto in cura, nonché un'ironia e una verve insospettabili, una capacità di disamina non comune a quelli del suo “rango”. Sì che alle “letture” dei sogni, dei lapsus e delle fenomenologie della vita quotidiana da parte della Dott.ssa Storti, Altero replicava con prontezza di spirito ed acume critico, non di rado smontando i castelli di carta costruiti con perizia accademica nei santuari della Scienza. 20 Accadde un giorno che, auspice il bel tempo e un venticello che benevolo soffiava sfiorando e pungendo dolcemente la pelle, il paziente, all'ennesima seduta, mostrasse più di sempre una grinta che subito spiazzò la dott.sa Storti. Ogni notazione e interpretazione era rintuzzata da Altero con proprietà semantica, cognizione di causa e fiero cipiglio. Egli sfoderò anche un bagaglio di conoscenze e di cultura che spaziava in molteplici campi dello scibile, pertinente alla sua situazione, ben oltre le fumisterie verbali che erano state sin lì spese e ruminate. Non era vero nulla di quanto era stato sentenziato su di lui, che la presenza della madre l'avrebbe schiacciato, sicché Edipo, innamorato di Giocasta, bramava di uccidere il padre, a lui sostituendosi in un triangolo morboso dall'esito letale. Erano fandonie e sproloqui della psicanalisi, denudata e sbugiardata nella sua ambiziosa pretesa di riscrivere lo statuto dell'anima e della mente, quelli di cui infarciva l'eloquio l'analista. Non era vero niente di niente. E la psicologa finì col crederci, e con l'ammettere di non aver colto nel segno, persuadendosi di essere andata del tutto fuori tema. Terminata la seduta, Altero s’accomiatò senza pagare - fu la Storti che non volle i soldi -, ma questa non fu l'ultima volta che i due s’incontrarono. In un grottesco gioco di rimandi e specchi rovesciati, fu infatti l’analista a chiedere al paziente un appuntamento, previo accordo sulla parcella da pagare, in anticipo, ad Altero. 9. Le Aule Agerie Il curioso “pseudonimo” affibbiato alle due donne era ispirato ad un antico Romano (per l'appunto Aulo Agerio, nome fittizio usato nei testi di diritto romano per illustrare, con esempi concreti, la posizione di un soggetto nelle diverse questioni giuridiche), in quanto costoro erano solite zappare l'orto di casa, e comunque nelle più impensate fasi della giornata intente a lavori e commissioni “agricole”. Pettegole e furbe come le allegre comari di Windsor, Leonina e Annunziata, legate tra loro da rapporto di parentela, erano sposate ciascuna a un colono, a loro volta l'un l'altro legati da vincoli di sangue. Le relazioni procedevano nel consueto lento scorrere del tempo al paese vecchio, e i menage, tutt'altro che stimolanti e flamboyant, si lasciavano andare in una sorta di reciproca, buon grado mal grado accettata, grigia apatia. I figli di ciascuna coppia avevano pure loro messo su famiglia, al punto giovani che le Aule Agerie 21 vennero a trovarsi nei panni delle nonne poco più che quarantenni (nei paesi usa da sempre ratificare le unioni coniugali in verde età). Furbe, dicevamo, come furbi sono gli abitanti del “contado”, non si lasciavano sfuggire occasionali interludi con qualche vicino di bocca buona e dall'appetito mai sazio, sorta di priapo postdatato coi capelli - quando ne avesse ancora a coprire la capa - più sale che pepe. Delle scappatelle, puntualmente, erano - non si sa per quale mai fortuita coincidenza astrale all'oscuro i mariti, intenti notte e dì ai lavori di tomaia, ma le “fughe” non passavano inosservate ai vicini - e sopra tutto alle vicine - inclini a loro volta ad episodici “commerci” carnali, al godimento di una manciata di minuti, al touch and go di stampo piccolo-borghese, quando non più “vile”. “Nunziati', comme stai...?”, “staco ve'”, e intanto non mancava l'occhiolino foriero di improbabili quanto vissute, sia pure nello spazio di un furtivo dai e dai, copule in altrettanto improbabili alcove d'accatto. I giorni passavano, i figli avevano messo giudizio, i nipoti crescevano. Ma il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, e un bel giorno-si fa per direda uno di quegli amplessi di trafugo nacque il frutto del peccato. La gestante, Leonina, ben oltre i fatidici “anta”, seppe nascondere magistralmente al marito - valendosi di una dote tutta femminile - l'incidente di percorso, e quello - ignaro della “cornucopia” ordita ai suoi danni, o forse piace pensarlo - ci cascò come un babbeo. Ma natura non facit saltus, e il “caso” volle che la creatura venuta alla luce assomigliasse come una goccia d'acqua a Ferdinando, il “dritto”. *** *** Tutto il paese lo sapeva. Anche Ferdinando, che aveva il fiuto lungo, lo sospettò, non foss'altro perché un giorno mise per caso a raffronto le foto che aveva conservato di quando era bambino coi tratti somatici del piccolo Christian, sbalordendosi della “comunanza” di connotati somatici. Tanto che quest'ultimo, via via che cresceva, obbedendo ad un oscuro quanto spiegabile impulso – istinto - di sangue era sempre proclive nei confronti del padre naturale, che affettuosamente gli veniva da chiamare zio (quantunque non esistessero vincoli di parentela di sorta, nemmeno alla lontana). Una sera d'estate Christian, ancora impubere ma abituato ad essere autonomo negli spostamenti da casa all'aia di qualche vicino, andò proprio dallo “zio”, e, approfittando di un attimo di distrazione di questo, gli sottrasse le foto che 22 Ferdinando aveva posato sul comò ,e che lo ritraevano fanciullo. Trafelato e trepidante come chi infila le dita nella marmellata e rischia da un momento all'altro di essere colto in fallo, corse dai genitori, apparecchiati attorno al desco e in procinto di andare a dormire, e, il mazzetto di foto in mano, se ne uscì: “guardate, guardate zio Ferdinando come mi somigliava da piccolo!”. Al che il padre “anagrafico” - che invero in cuor suo aveva da sempre nutrito il sospetto - sbiancò, e ci mancò poco si dovesse chiamare l'ambulanza per prestargli soccorso. 10. Il devoto Tommaso - detto Tomasso - era il primo a recarsi alle funzioni religiose, a nessuna delle quali si assentava. Il primo ad entrare, seduto al primo banco, dedito ai riti che precedevano la liturgia, quali accendere le candele, controllare scrupolosamente che non mancassero l'acqua e il vino che si sarebbero transustanziati in Corpo e Sangue di Cristo, e che il Santo Evangelio fosse ben sistemato sull'ambone. Sempre il primo, il sedicente “intemerato” aveva, però, contrariamente agli insegnamenti del Messia, due grossi difetti, che poi, in una specie di fanatismo delirante, si legavano l'un l'altro: un alto concetto di sé, al punto da sentirsi Unto dall'Alto, e la certezza che la somma delle messe e celebrazioni varie – anche nello stesso giorno erano tanti punti da collezionare per l'ascesa in Paradiso. Peccato che non avesse capito - o faceva finta? - niente dell'essenza della Carità, che, insieme all'Umiltà ed all’Amore, era il Verbo. Larmoyant quanto superbo nei rari scambi verbali con la “plebaglia” (che guardava dall'alto verso il basso), nel suo animo albergava solo la smania di essere il primo a tagliare il traguardo, secondo la sua visione distorta della “realtà”, che lo avrebbe traghettato nel Regno dei Cieli, affastellando tante tessere quante erano, per l'appunto, le sue presenze in chiesa. L'esaltazione in lui si spinse così in là, che reputava suo appannaggio, castigando mores, criticare non tanto la sostanza, quanto la forma che connotava l'ambito parrocchiale, tanto da vestire anche i panni dell'odioso delatore di immaginari inadempimenti - da parte di chi indossava la pianeta - presso le alte sfere della Curia. Nulla sfuggiva al suo occhio indagatore da Torquemada. Autoinvestitosi del carisma d'infallibile fustigatore, esumando sepolti oscurantismi medievali, si appostava nei punti strategici della navata-quando non invadeva l'abside - per spiare, e poi - se del caso - riferire. 23 Un giorno - come di consueto - si recò, a passo spedito, da casa sua, che distava un mezzo miglio dalla piazza del borgo, in chiesa ad espletare le solite mansioni. Abituato com'era a considerare la morte non tanto l'ultimo atto da recitare in vita, quanto, al pari di ogni buon cristiano- il passaggio all'eternità, intonava spesso il Cantico delle Creature del Poverello d'Assisi, addirittura fischiettandolo, e ponendo l'accento su sorella - più rettamente sora nostra - morte corporale, in rapimento estatico. Giungesse alfine pensava tra sé - a liberarci da questo insostenibile giogo, a spezzare le catene che ci imprigionano in questo corpo destinato a perire. Colto ad un tratto da un leggero tremore cui non ritenne di dare soverchio peso, fece per accendere la prima candela ma, come guizzò la flebile luce, si accasciò al suolo privo di sensi. La funzione religiosa sarebbe incominciata di lì a un quarto d'ora - lui prediligeva andare sempre in anticipo -, e né in chiesa né in sagrestia c'erano il prete e nemmeno il chierichetto. C'era solo una fredda ombra attaccata al suo corpo paralizzato. Sulla bocca semiaperta si disegnò in un rantolo spezzato una smorfia beffarda: Tommaso cercò disperatamente aiuto, ma le sue invocazioni non furono raccolte da nessuno, perché non era ora della Santa Messa. Sorella Morte che egli tanto amava se l'era venuto a prendere furtiva, accogliendolo tra le sue premurose braccia, ma lasciandolo sgomento. Rispose solo il rintocco della campana, cui seguì un Silenzio carico di interrogativi e di ombre inquietanti. 11. Il bambino che mangiava cioccolata Mi piace la cioccolata, e non immaginate quanto. La cerco giorno e notte, mentre voi badate alle vostre cose. E non soltanto la cioccolata. Amo mangiare, far mio tutto ciò che è opulento, ghiotto, ricco di ingredienti succulenti. E intanto il mio corpo lievita. …sto studiando, per cortesia non m’interrompere, continua a guardare la videocassetta…se vuoi ne metto un’altra, il documentario sulla fauna degli abissi marini… anch’io non ho tempo di badare a te, sono zeppo di lavoro, l’agenda trabocca d’impegni, fra poco ho un altro appuntamento, l’ennesimo appuntamento della giornata…non mi chiedere per favore se è vero che uno più uno fa due, su, è talmente logico… 24 Logico, è facile dirlo a chi ha una logica di questo tipo. E’ stato sempre così, da quando ero in fasce. Non so se da parte vostra vi sia stato un rifiuto. Sono stato sempre, è vero, un po’ particolare, ma ricordo la leggerezza e le luci opalescenti che filtravano dal mondo quando ero una cosa con te, mamma… Non te ne andare, mia principessa, ho paura che te ne vada un’altra volta, tu pure alla volta dei tanti impegni che costellano, scandendone i ritmi, la tua giornata, e mi lasci solo in questo casa che, con me dentro, assomiglia a un museo dalle occhiaie vuote spaventose….le suppellettili mi guardano torve…talvolta le mura sembrano volersi chiudere su di me, e schiacciarmi… Ma, se proprio lo desideri, va’ pure, tanto so arrangiarmi da solo, so cavarmi d’impaccio come sempre me la sono cavata anche quando i fantasmi più cattivi e spietati mi braccavano lasciandomi senza respiro. E sai cosa farò? mi dedicherò al mio hobby preferito, l’arte gastronomica, e, sfruttando i più moderni ritrovati della tecnologia, farò un dolcetto coi fiocchi…così colmando, si fa per dire, la mia inguaribile solitudine, il mio vuoto a perdere. Si, è vero: mangio per non pensare. Ovvero, abbuffandomi, sazio la mia fame d’amore, colmo quelle voragini spaventose in fondo alle quali voi non avete mai avuto il coraggio – o forse la viltà - di guardare, perché così facendo vi sareste persi in meandri innominabili, senza riuscire più a venirne fuori. Così dovendo per forza rinunciare al vostro insaziabile egotismo. Ma voi non avete mai capito, o fingete di non capire, che questa è fame d’amore. Voi continuate a coltivare le vostre ambizioni, cavalcando il sogno dorato della carriera e dell’essere glamour, e mi avete lasciato da parte, come un intruso. Adesso sono arrivato a pesare non oso dire quanto. Che vergogna. Non tanto per me, quanto per voi, notabili laureati. …lasciami dormire, per favore, la casa di montagna serve per riposare e rinfrancare le energie consumate…gioca tu se vuoi, io non ne ho voglia…su, dai retta alla mamma, anch’io sono esausto, a cavallo ci andremo, e la bicicletta l’ho lasciata in soffitta, la faremo aggiustare prima o poi…devo inoltre completare un lavoro che mi lancerà nell’Olimpo dei VIP, vacci da solo a fare la passeggiata, sei o non sei autonomo?…e poi c'è la partita in TV... Autonomo: ma da chi, da che cosa? E voi forse lo siete, chiusi nel vostro insanabile autismo pseudomondano e cool? 25 Sognavo la tua mano, papà, che stringesse la mia e mi lanciasse a perdifiato sui prati verdi dove la linea dell’orizzonte scompare inghiottita dall’Infinito… il risveglio all’aurora nel nido caldo di respiri… quegli abbracci che, non so perché, mi avete lesinato, quei baci che non mi avete dato… e tu, mamma… ti ho incoronato nei miei sogni e nelle fantasie come la regina delle regine, principessa di un reame incantato, madre e sposa di questo figlio che ora rappresenta quasi una sconfitta per voi, il fio da pagare per una colpa che insistete ad esorcizzare, attribuendola a chi di nulla può essere rimproverato, se non di essere catapultato in questo mondo beffardo e vile… Sognavo l’amore, e continuo a sognarlo, nelle mie notti e nelle scorribande che faccio ad occhi aperti, quando vi vedo assopiti e anche quando mi sgridate, cercando di riportarmi sulla”retta via”… come se dipendesse da me questa bulimia che mi consuma giorno dopo giorno…poi, puntuale ogni giovedì, via al corso sull’autostima… ma che pena… uscire dallo psic e vagare da soli per le strade del corso, alla ricerca di un’anima con cui scambiare due parole… ma io non ne sono capace, mi vergogno, credo sempre di non essere all’altezza… perché non parlate mai con me?...non “percepite” le mie domande mute, i miei lancinanti perché…? Che cosa ho di diverso?... Quando vi accorgerete che ormai è troppo tardi…, allora, come scrisse un grande poeta, se non sbaglio Leopardi, allora sconsolati vi volgerete indietro…ma sarà tardi. Non dovrò essere io ad accorgermi, ma voi a dovervi guardare in faccia l’un l’altro, e stilare il conto del dare e dell’avere. Affari vostri, ma soprattutto miei. Intanto, per sopravvivere a questo abisso di solitudine, mangio pane e cioccolata. E non solo. P.S. Credono di tacitare la loro coscienza sommergendomi di messaggini e tempestandomi di telefonate, così riescono in qualche misura ad essere “presenti”. Li lascio fare, anche se spesso mi arrabbio, d’altronde non hanno detto che sono autonomo? E allora a che pro essere importunato ogni mezz’ora quando loro non ci sono? La verità è che non sanno che ho còlto di questa vita grama molto più di quanto loro, menti illuminate, s’illudono di aver capito. 26 12. Nella buona e nella cattiva sorte La solita minestra. Quella riscaldata del pranzo, per non sprecare tempo ai fornelli. Il rientro stanco e rassegnato a casa alle prime avvisaglie della sera, quando il mondo decide di rallentare il ritmo farneticante che ne risucchia l’anima. “Ciao, com’è andata la giornata?”. Così di solito accogli la sua venuta dopo un giorno intero che non vi siete visti, ognuno intento alle proprie cose e occupazioni. La minestra è sempre lì, sul piatto, che aspetta di essere sorbita, che qualcuno la trangugi. Non c’è granché altro. Un po’ di verdura, una fettina di manzo messa a cuocere all’ultimo momento, un frutto di stagione. “E a te, come sono andate le cose?”. Un gesto muto di assenso, sempre uguale ogni volta che vi rivedete segue laconico e incolore la domanda. Dietro le frasi a mezza bocca spesso si nascondono sorde e sordide recriminazioni che, nella rete dei forzosi infingimenti, ci si rinfaccia silenziosamente a vicenda, in un gioco votato allo scacco. Fin quando, raschiato il belletto appiccicoso e stantio messo apposta a coprire le oscene nudità, da uno sguardo, da una parola sguscia fuori improvvisa la realtà cruda e desolata, col suo volto spietato e truce. Ti siedi, mandi giù la minestrina, anche lei, smessi i panni di cuoca d’accatto, si concede un boccone in compagnia. Ma in compagnia di chi? Quando non gravano insostenibili i silenzi, parlate, parlate, parlate del più e del meno, di questo e di quello, ma a chi interessano le vostre parole. Men che meno a voi. Pure, è un modo come un altro per sentirsi vivi, meglio, non morti. Anche se l’abulia spirituale da tempo soverchia ogni pensiero e azione. Stiamo insieme per vincere la tetra solitudine, e farci l’un l’altra un po’ di compagnia, che riscaldi le lunghe interminabili ore, passate in attesa di un improbabile evento che muti rotta alla consueta anonima direzione di un’esistenza scialba e senza vita. La nostra storia da tempo è finita, forse non è mai incominciata, d’altronde spesso ci si accomoda per inerzia, perché non si riesce a trovare alternativa migliore. 27 Storie di ordinaria follia, o “normale” quotidianità. Ma dietro la porta torvi s’acquattano i fantasmi, che non vivono solo nella fantasia. La simulazione ha un prezzo, che si paga giorno dopo giorno. Domani un altro giorno. Uscirete, lei insieme alle amiche, tu verso un’incerta nebulosa meta, a far chiacchiere inutili e futili per ingannare l’attesa e ammazzare il tempo. Alla sera vi ritroverete, poi, come sempre, il piatto di minestra messo lì a riscaldare, la luce fioca di un’altra sera senza palpiti né promesse, lo zapping alla TV per trincerarsi dietro di sé ed evitare di cadere nei soliti logori banali luoghi comuni, negli argomenti triti e ritriti…hai aggiustato la macchina?... il forno ha ripreso a funzionare?… ci pensi tu a ramazzare il cortile della casa di campagna, e ad innaffiare i pomodori?... e si aspetta l’ennesimo, sfiancante, grigio domani. Quell’approdo in verità da sempre corteggiato, ma che, nella studiata convinzione che in fondo si trattava solo di un irraggiungibile sogno, avete nella stessa misura da sempre allontanato dal vostro spazio. Ma tutto sommato, ça va bien. Molto più facile pensarla e vivere così, non mettersi in gioco, lasciare che i sentimenti ti “attraversino”, e abitino le storie degli altri. 28 Parte seconda LA POESIA 1. Il Tempo Durante una conversazione del più e del meno, vien fatto a un certo punto di constatare “sai, le nuove generazioni non sono più come una volta, quando noi eravamo ragazzi, e si coltivava l’illusione del vivere...”. Ma, a un certo punto, come in un flash, s’illumina il backstage della tua esistenza, e ti accorgi con dolente rammarico che l’interlocutore che hai di fronte è più giovane di te di cinque sei-generazioni. Così fai il conto del tempo che, inesorabile, passa, e tutto travolge. E ti ritrovi a noverare gli anni che, impietosi, sciamano alle tue spalle. 2. Gilda Donna tenace e volitiva, dal tratto unico e impareggiabile, Gilda veniva fuori da un matrimonio naufragato suo malgrado per via delle scelleratezze e leggerezze infantili di quello che fino a pochi mesi prima era stato il suo compagno di vita. Basta - si disse - e tenne fede alla sua promessa. Con al fianco quello che era stato il miglior amico dello sciagurato marito, a sua volta reduce da analoga ventura, Danny - non si seppe mai in verità quale relazione legasse quest'ultimo a Gilda, essendo i due inseparabili nelle decisioni e negli spostamenti - mise su un'attività di ristorazione, di cui lei era lo chef, e lui il valente direttore d'orchestra. Con l’eleganza ed una classe innata, mai esibita ma che trapelava da ogni gesto e nel modo di proporsi, cucinava piatti ricercati e squisiti: l'arte culinaria non aveva segreti per lei, era anche molto fantasiosa nelle diverse combinazioni e negli abbinamenti delle pietanze (il locale era segnalato come uno dei migliori nelle guide locali e in ambito nazionale). Al “Corsiero” sorse anche un club d'arte, dove, tra una portata e un'altra, sempre di firma pregevole, venivano organizzati eventi per pittori in erba, poeti desiderosi di spargere il proprio verbo, e artisti più o meno noti, che amavano ammannire vernissage nei locali messi a disposizione. In poco tempo, oltre che meta di avventori di palato fine, la location divenne punto di ritrovo di apprendisti dell'arte nelle sue più varie 29 rifrazioni, e ombelico degli happening di un ambito che raggruppava una larga fetta del territorio del piceno. Ma l'arte e la cucina non potevano cancellare mete rimpiante, carezze negate, incontri furtivi e prodighi di promesse, scioltisi come neve al sole nel disincanto di una stagione prossima a sfiorire. E così, man mano che il tempo inesorabile avanzava, allungavano il passo anche le ubbie, la nostalgia dei mancati indefinibili traguardi, il tedio anche per quell'innocente bovarismo che animava il padiglione degli innamorati dell'arte. Gilda invecchiava, e con lei si andava spegnendo la voglia di fare, creare, proporre - anche se, per il vero, lei non aveva mai voluto mettersi al centro dell'attenzione, schiva com'era di natura: il che non significa non fosse socievole, ché, anzi, s’intratteneva volentieri in amabile conversazione con chi ne manifestasse il gusto e il piacere, con lo stile che da sempre la connotava. Nei suoi stanchi pensieri era subentrato un viepiù incalzante cupio dissolvi, l'indocile desiderium di lasciare le stanze di questo mondo, questa vita che ormai al suo occhio stanco appariva come una teoria interminabile di marionette che calcavano un palco vociante, ma desolatamente vuoto di palpiti e ardori. A nulla valse il pennello perito di Danny, che volle ritrarla da seduta, in atteggiamento assorto, e che, pur volendo infondere linfa nuova nelle essiccate vene della sua “compagna”, sortì per ironia della sorte l'effetto inverso, cogliendo nell'espressione i segni di quel decadimento fisico e morale che da tempo avevano lasciato le loro impronte sui tratti del volto di lei. Gilda morì all'età di sessantatré anni di “lenta consunzione”, si lasciò spegnere come candela. Ma prima di togliere il disturbo, volle che il fedele sodale immortalasse, non tanto i segreti delle sue prelibatezze culinarie, quanto gli arcana di quella che un tempo fu un'anima assetata d'amore, attraverso pennellate leggere come l'aria, su uno sfondo alabastrino, increspato da una lieve brezza che veniva dai monti. 3. La fanciulla vestita di fiori Sofia dimorava nella Landa dei Fiori. Alla plaga era stato dato questo nome, perché la fioritura vi durava tutto l’anno. Sì che allo sfiorire di talune specie si alternava, in un magico circolare evento, lo sbocciare di altre varietà. Sovente – specie in primavera - il dischiudersi delle corolle obbediva a una 30 legge di sincronicità: poteva così capitare di ammirare le teorie di mandorli che correvano sino al declivio, e le file geometriche dei meli che, coi loro petali, punteggiavano di colori delicati, al pari dei ciclamini e delle violette, occhieggianti tra l’erba, i prati e il cielo. Anche d’inverno, specie nelle numinose giornate d’ottobre, timide rose si affacciavano gentili dai davanzali delle villette a schiera o delle case dai tetti d’ardesia, esibendo pudiche i petali di là della staccionata, o sulle altane, o ancora tra le sbarre di ringhiere poste a confine tra le dimore. Nelle giornate assolate di marzo si potevano cogliere anche le delicate primule, del soffuso colore dell’incarnato d’un infante. Sofia si sentiva parte di quel mondo, si confondeva col paesaggio, conosceva tutte le famiglie di vegetali, di cui ciascun esemplare era conservato amorevolmente e con grande cura in un erbario: ne aveva appreso anche i nomi latini. Sulla veranda, con l’aiuto della mamma, la fanciulla aveva sistemato dei pensili sgargianti di varietà floreali le più diverse, di cui, vezzosa, s’inghirlandava sovente le chiome. La sua piccola mano, intenta al bisogno a ristorare i fiori con l’annaffiatoio, pareva avesse il magico potere di infonder loro linfa nuova, una vita che non si sarebbe mai spenta. Quando all’opera era intento qualcun altro – per solito la mamma -, i fiori non conoscevano infatti quella stagione di splendori e riflessi quando dorati, quando ambrati in grazia del crepuscolo che tenue li avvolgeva di ombre in un’elegiaca, trepida aspettazione. Sofia aveva insomma quello che usa dire il “pollice verde”, ma quando si fermava davanti ai cespi di lavanda o ai mazzi di violacciocche pareva ristare incantata come sulla soglia di un reame, quasi timorosa, in un silenzio sacrale, e le creature che lei amava sembravano dal canto loro recepire tali vibrazioni, porsi in umile ascolto della sua anima. Accadde un giorno che la bambina, a un passo dal diventare adolescente, si ammalò. Sulle prime ciò non suscitò allarme, in quanto tutto lasciava immaginare si trattasse di una semplice febbre virale (il cosiddetto malanno di stagione), dagli esiti di guarigione non lontani a venire. Ma i giorni passavano in un’atonia e fissità irreali, e Sofia, visibilmente smunta e debilitata, colta da una strana e preoccupante astenia, non aveva più la forza 31 di alzarsi dal letto. Era come se la vitalità avesse abbandonato il suo corpo ancora acerbo, ma pronto a sbocciare da un momento all’altro in fiore. Furono così chiamati a consulto vari esperti in campo medico, sin quando un luminare venuto dal nord a “schiarire” il “male oscuro” non stilò la diagnosi definitiva: si trattava – e i segni inequivocabili del morbo erano le varie ecchimosi comparse via via più numerose sulla pelle della fanciulla - di leucemia, e in una forma alquanto severa. La mamma, costernata – il papà era morto quando Sofia era ancora in fasce e ancora incredula, si sforzò di non lasciar trapelare nulla agli occhi della amata figlia. Solo si limitò a dirle che il decorso della malattia sarebbe stato lungo, e ogni giorno, per farle compagnia, le portava mazzi di fiori delle più “fantasiose” varietà, abbelliti e resi quasi “selvaggi” da fili d’erba e piccole foglie, che affidava alla di lei cura. La fanciulla si affaccendava allora perché le sue creature predilette non deperissero, e anzi acquistassero viepiù vigore dal nutrimento che dava loro secondo i ritmi della natura che ella conosceva a menadito, scanditi dai battiti del suo cuore. *** *** Passata l’estate con le sue effimere promesse, una grigia mattina d’autunno la morte sigillò le labbra di Sofia. Dopo una composta cerimonia d’addio, la terra accolse pietosa, vestito di una tunica bianca trapunta di petali, quel corpo ancora in boccio, un tempo sfiorato da tèpidi zefiri e percorso da trepidi ardori. La mamma, gli occhi velati dal pianto, e tutti i presenti a quella mesta cerimonia deposero ciascuno un fiore sulla piccola bara d’avorio. Intorno alla lapide, che custodiva la foto di lei sorridente, furono posti a semicerchio dei sassi di torrente, e a lato fiori di ogni famiglia avrebbero di lì ai giorni a venire reso più lieve il trapasso: viole, nontiscordardimé, colchici, azalee, genziane… Come per miracolo, i fiori non appassivano mai, invulnerabili alle ingiurie del tempo, intatti alla sferza degli elementi: sentivano ancora la carezza di Sofia, vicino a lei si sentivano al sicuro. 4. La felicità Felicità è rubare l’attimo al tempo. Quell’istante che, se non lo cogli, non tornerà mai più. 32 Essa è tutta nell’attesa, perché, nel momento in cui l’oggetto del desiderio è còlto, si dissolve con quello. Felicità è una promessa, il passaggio da un prima a un poi, solo questo. 5. Angelo Decaduto (a Stefano) Non ti conoscevo prima che la sorte imprimesse il suo tremendo definitivo sigillo sulla tua pelle e sulla tua anima, ma da quei tratti marcati e sapientemente intagliati, che disegnavano labbra carnose e ciglia folte su occhi trasparenti come il cielo intuivo una bellezza selvaggia, di stampo mediterraneo, solare, vitale. Quasi una ferocia, subitaneamente stemperata in uno sguardo languido. Carnagione bruna, capelli scarmigliati e incedere corsaro, di statura e presenza imponenti, troneggiavi dominando il mondo e imponendo il tuo fascino, cui le tante prede in verità quasi mai riuscivano a resistere. Col tempo, complice una congiuntura maledetta, cominciasti però a scendere una china che, una volta battuta, è arduo abbandonare, inebriato dai paradisi artificiali che, come ti regalano momenti di estasi, ti precipitano però violentemente nell’ineluttabile rovina. Angelo decaduto, più i giorni passavano più eri costretto a chiedere alla vita, a quella vita che sempre ti era stata benevola e dispensatrice di doni. Cambiava così radicalmente il tuo modo d’essere, tanto che dovevi trovare rifugio nella vecchia casa, con accanto una mamma impagabile, che ti aveva promesso fedeltà e dedizione per tutti i giorni a venire. Quella mamma che, fino all’ultimo, non ti abbandonò mai. Anche le facoltà intellettive, per via di quel mostro che divora la mente e i sensi andavano viepiù scemando, al punto da valerti la “nomina” di matto del villaggio. Come un automa, cui si dà la carica, prendevi allora ad andare “a comando” in su e in giù per la piazza del paese, misurando le pietre dell’intero quadrilatero, farfugliando frasi quasi sempre sconnesse e ridendo impietosamente di te. O forse degli altri, marionette che si aggirano stralunate e straniate in quest’orizzonte senza luce e senso. 33 Dall’alto di una logica interdetta ai più potevi così vedere il mondo con gli occhi incantati e puri di un bambino, scrutarne a fondo i penetrali, viaggiare tra le pieghe dell’anima come un tempo viaggiavi in volo verso mete lontane… Nessuno avrebbe conosciuto mai i tuoi pensieri, la sintassi e le regole che li disciplinavano, né se la tua “follia” fosse in realtà saggezza, sguardo ippocratico sulle cose e sulla miseria di un mondo che dà in ricca messe, salvo poi buttarti a mare e berti anche il cervello. Ma da oggi nessuno avrà più il matto del villaggio, perché è calato il sipario sulla tua fragile esistenza, divorata da un male che non perdona. *** *** Te ne sei andato senza far rumore, lasciando un’eco smorzata delle tue risa e delle tue irrisioni, come un’ombra che si aggira ancora furtiva tra le mura del paese. Al tuo capezzale immagino solo pochi affetti, affacciati sulla soglia sacrale dell’ultimo doloroso passaggio. Ma, sull’orlo dell’abisso, la partita con la morte, di questo sono sicuro, l’hai vinta tu, facendoti beffe fino all’ultimo del suo volto truce, e burlandoti ancora una volta di quella tragicomica parodia dell’eterno che è la vita. Hai reso così impotente la livida sogghignante falce ridendole in faccia. E, al rintocco dell’ora, hai rivolto l’ultimo supplichevole e innamorato sguardo alla tua mamma, le mani strette nelle sue in un abbraccio che va oltre il tempo. 6. Grendel La strada saliva fino alla sterrata. Dal paesaggio vago d'ombre spirava un senso d'impalpabile inquietudine. Le rocce e i contrafforti di granito stringevano la casa come in una morsa. Incominciava a sbiadire il cielo, esitante se lasciare il ruolo da primo attore alla notte. Poi le tenebre vinsero le ultime titubanze. La casa echeggiava della nenia del carillon al modo di una filastrocca. I bambini erano seduti quieti davanti al camino, che sprizzava scintille e lingueggiava di rosso rubino. 34 La nonna, intenta ad armeggiare col fuoco, li accarezzava di quando in quando. Il suo viso, segnato da profonde rughe, era come scavato nel granito, e adorno di due gemme splendenti color del mare, che serbavano la memoria di un dolente, incompiuto passato, e insieme la terragna speranza della gente di tempra forte quale ella era. I suoi gesti rituali, la figura minuta ma solenne, il modo di parlare, tutto in lei spirava gravità e decoro. Fuori la pioggia batteva con ritmo diseguale sugli scuri socchiusi, tambureggiando sui vetri opachi. La sua intensità andava via via intensificandosi al modo di un crescendo d'orchestra, e nel grembo della notte covavano i fantasmi. Acquattati dietro l'uscio, gli spettri prendevano furtivamente a danzare sui muri scrostati, per poi svanire con la stessa rapidità con cui erano comparsi. La vecchia incominciò allora a narrare: c'era una volta una radura frondosa popolata di pini e larici, che confinava con un palmizio lussureggiante di verde e gremito di canti di uccelli delle specie e colori più vari..., quando all'improvviso un tuono preceduto dalla folgore squarciò il silenzio che regnava indisturbato davanti alla “rola”. I bambini rimasero senza fiato, e si accucciarono sotto le gonne della nonna, tramortiti. Era tornato il demone della foresta... *** *** Da quella notte la vita a Col Fiorito - al luogo era stato dato questo nome per le smaglianti fioriture di primavera, quando dai teneri germogli spuntavano timide foglioline e poi iridescenti corolle di fiori, e i prati diventavano un tappeto morbido trapunto di mille colori, svarianti dal rosa pastello al giallo acceso - era cambiata. La bambina, Grendel, si era infatti chiusa in un impenetrabile - ostinato? - silenzio, e su di lei vegliava, quando la nonna doveva assentarsi per sbrigare le faccende di casa, il fratellino dal nome dei luoghi che ospitavano i folletti e i lupi, Silvan. Pareva che un vento gelido avesse spazzato via i luminosi incanti della radure, i confidenti conversari, la commovente quanto ferrea complicità tra chi viveva nella casa. Dobbiamo infatti precisare che, all'indomani della tragica scomparsa a causa di un incidente fatale dei genitori, i bambini erano stati affidati alle cure amorevoli della nonna, Heidi. Costei non faceva mancare loro nulla, li accudiva da mane a sera, vigilava costante sui loro passi. La scuola non era vicina, e per andarci Grendel e Silvan prendevano il postale che ogni ora faceva scalo 35 all'incrocio del piccolo borgo, da dove si biforcavano altre stradette per frazioni sconosciute al pari del loro villaggio. Dallo schianto di bufera, dicevamo, Grendel sembrava aver perso la facoltà di comunicare a parole. Mutismo elettivo, così lo definivano sulle prime i medici da cui era stata portata a consulto, con non poche difficoltà, dalla nonna. Avevano preso il treno di buon'ora, a Silvan era stato preparato tutto dalla impagabile Heidi per la merenda e il pranzo. Il viaggio era stato segnato dal silenzio, una specie di coltre di bambagia pareva essersi posata come orme di pettirosso su ogni labile tentativo di entrare in comunicazione. Non mancava certo l'intesa tra nonna e nipote, ma quella magica empatia pareva stemperarsi sotto la volta plumbea del cielo oscurato di nembi minacciosi. *** *** Il responso era stato lapidario e confermava la prima diagnosi: mutismo elettivo, una sindrome che poteva colpire un soggetto a causa di un trauma improvviso, ovvero restare incubato per mesi, anche per anni, fino a quando una causa scatenante - in cui sboccava il fiume rapinoso del dolore - non lo faceva erompere sordo e ostinato. Non si conoscevano ancora le terapie adeguate al caso: l'unica pur flebile certezza era che con determinate persone - e animali particolarmente sensibili - chi ne era colpito poteva, con discrete possibilità di successo, aprirsi in armonioso conversare. La nonna, di ritorno sulla strada di casa, seduta sull'ultimo sedile del postale, era certa, sapeva in cuor suo che i sogni ricamati sul cuscino e il confidente immaginare della sua piccola l'avrebbero riportata pian piano a quello che era prima, alla gioiosa vita sui prati punteggiati di fiori, sotto un cielo acceso di stelle. Un giorno di primavera (la notte avanti la bambina era stata visitata in sogno da visioni celestiali, ma incrinate da una sorta di presentimento, oscuro e inappellabile) allietato dai gorgheggi degli uccelli e dal ritorno garrulo e festoso delle rondini che arabescavano l'azzurro Grendel e Silvan, di ritorno dalla scuola, dopo aver consumato il frugale pasto ed aver fatto i compiti, andarono a giocare in riva al fiume che, come un serpente sonnacchioso, snodava le sue morbide anse riverberando i capricciosi umori del cielo. Il murmure delle acque placide e flessuose era il sottofondo ideale per questa muta sinfonia. I fratellini avevano da sempre un loro codice segreto, e intuivano d'istinto l'uno le domande inespresse dell'altro. Anche Silvan, per non erigere tra sé e l'amata sorellina una barriera di diversità, al vociare gaio 36 e festoso d'un tempo aveva preferito il silenzio, un silenzio complice, carico di mille sottintesi. Il dialogo, segnato da gesti e sguardi, obbediva alle misteriose leggi di natura, seguiva il frullo del passero, inseguiva la timorosa lucertola. Pareva che nessun dio avesse mai potuto separarli. A un certo punto, accadde che Silvan, attratto più che altro da infantile curiosità, volle spingersi fin dove il fiume, cui facevano da argine poderosi massi, s'ingorgava in una depressione del terreno piuttosto scoscesa, così da formare una pozza di notevole profondità. Il clima provvido e l'aria frizzante d'aprile lo spinsero a tentare i segreti di quello che i due avevano da sempre chiamato il reame incantato. Si tolse quindi le scarpe e, arrotolati i calzoni all'altezza delle ginocchia, incominciò ad esplorare i sacri penetrali del tempio, con occhi sgranati per la meraviglia Quali tesori - orrori? nascondeva il cupo fondo? Quali forme di vita lo popolavano? Forse il demone dei boschi aveva dimora laggiù, dove lo sguardo non poteva arrivare... Mentre era immerso nelle sue vaghe fantasticherie, il terreno si fece molle e arrendevole ai suoi piedi, che scivolarono inesorabilmente nel grembo lattescente, fin quando la figura del fanciullo non scomparve inghiottita dall'antro liquido. Come in un anfiteatro surreale, sfiorato dalle brezze vespertine, il piccolo invaso era ora l'avvolgente grembo nel quale riposavano per sempre le spoglie del piccolo Silvan il cui sembiante, sempre più lontano, era confuso al viluppo di foglie e pietrisco che mulinavano irrequieti. Sperimentata l'inutilità di ogni tentativo di salvarlo da quell'abbraccio fatale, come obbedendo a una forza cieca Grendel aprì il quaderno nel quale era solita trascrivere i versi che più l'avevano affascinata. Quelli che suggellavano il triste addio erano suggeriti dal poeta che più di ogni altro amava, Silvio Raffo: “Anche se qualche inganno ti sedusse/di quando in quando, tu non distogliesti/lo sguardo mai dalle tue stelle fisse:/ a ciò non fosti il solo, altri patimmo/gli stessi inganni, e tutto il suo martirio-/nella sabbia la pena seppellimmo/per attutire l'urla del delirio/accecati da un sole mercenario/abbiamo trascinato questa vita/di giorno in giorno, al vaglio della pena/a denti stretti. Meglio se desista/il tempo dal suo futile cimento,/meglio la sosta ai limiti d'Altrove/dove la luce sfumi nel riverbero/qui la luce è miraggio liquescente,/fata morgana, alone d'ametista/l'occhio velato è pago di quel niente/un ragnatelo maschera la vista/così per l'acqua: di secreti umori/s'alimenta una sotterranea linfa/che 37 ci conforta dell'eterno ardore-/dagli oscuri meati stilla un pianto/sommesso, come lacrime di ninfa-/che è la sorgente d'ogni nostro canto”. Terminata la muta lettura nella solennità di una liturgia, pure il paesaggio trattenne il fiato, e un silenzio imperturbabile si posò lieve sulle cose: anche la querula rana tacque. In quel preciso istante la sorellina, impotente davanti al consumarsi della tragedia, sussurrò per la prima -ed ultima- volta da quando era entrata nel Mondo del Silenzio queste parole: “addio, mio amato Silvan. Fra non molto ci rincontreremo dove gli angeli ti stanno conducendo per mano, dove il Silenzio è eterna Musica, e le lacrime lasciano il posto al raggiante, divino sorriso”. Poi se ne andò, incredula ma con una luce segreta, per i prati fioriti, brulicanti di occhi. 7. Il viso segnato (alla sposa) Il viso segnato, le membra stanche, pure sei sempre nuova. Come sempre. Lo stile e l'eleganza non passano con gli anni, e il fascino dolente dei tuoi occhi dice l'incanto e la segreta bellezza della tua speranza. Disperata speranza, un ossimoro che mi piace usare pensando a te, alle tue recondite domande, ai tuoi lancinanti tortuosi perché. Interrogativi aspri, che non scalfiscono, e anzi aumentano il tuo charme, rendendolo più maturo e consapevole. La tua figura altera e statuaria si spezza al giogo dei giorni, ma non si piega alla fatica del vivere. C'è un Angelo a vegliare sui tuoi malcerti sicuri passi notte e dì, un angelo che effonde soave il suo profumo nelle divaganti brume d'inizio gennaio. Tu lo dici il lacerante dono di essere, ti maceri nel dubbio, elabori le tappe della tua esistenza, pure resisti, indomita, invincibile. Io sarò accanto a te, lungo i tragitti di un insonne viatico, fino a quando il respiro si farà fievole, e si spegnerà con l'ultimo, stupito sguardo. 8. Il vecchio giradischi 38 Lo sfrigolare del vecchio vinile sul giradischi, quella voce che non smette di graffiare l’anima, artigliando ricordi sepolti sotto la polvere grigia del tempo. “Tu mi fai giraaar, tu mi fai giraaar….” Che tempi. Quando ci si perdeva ad ascoltare in religioso silenzio quello che puntine aduse a solchi consunti rimandavano come un’eco di nostalgie inguaribili e d’immagini scampate all’usura degli anni. Il vecchio giradischi, quello che leggeva anche i 78 giri. Sonnecchia burbero in soffitta, buttato là alla rinfusa insieme a mille altre cianfrusaglie, dissacrato da una falsa ma ineluttabile necessaria condiscendenza, che talvolta assume i tratti vagheggiati del sogno, tal altra il sembiante spettrale delle cose che non ci sono più. Che tempi. Nell’epoca della comunicazione interplanetaria multimediale off-limits, del metissage e cross-over culturale e del villaggio globale, degli sms e dei blog pieni di vuoto, gloria in excelsis al nuovo idolo, il computer con tutti i suoi sofisticati algoritmi, le metamorfosi e alchimie digitali! Allegoria, metafora del reale? Che follia. La “realtà” è diventata tutta un’interfaccia, pura metafisica astrazione, di là della quale c’è il nulla. Stesso destino è toccato alla musica. La musica è divenuta un “file” compresso (incredibile auditu!), fungibile a comando, “dato” che obbedisce al sistema 0101…, in gergo Mp3. Algida impersonale senz’anima, non la “tocchi”, non la “senti” più. E non mi si venga a dire che il digitale ha officiato il requiem dell’analogico, sbaragliando il campo alle trasudate configgenti emozioni… In un anonimo e anodino CD (o DVD, ovvero dentro un file archiviato nella memoria del computer) c’entra tanta musica, ma sono dati, assemblati con logica matematica, coazione a ripetere, alla stessa stregua delle notizie e informazioni non-stop che viaggiano alla velocità di milioni di bytes etc etc. Alienazione dell’uomo del terzo millennio, restituito imbelle a sé ed al proprio straniamento. 39 Cara intelligenza artificiale, sei stata tu ad uccidere il fascino e la poesia delle cose. *** *** Il disco è rotto, nella soffitta brulicante di fantasmi e fitta di voci è schiacciato da una congerie di masserizie e suppellettili varie ammannite al passato, restituite alla loro dolorosa inanità. Quando… … andavi al negozio di via del Corso a comprare l’ultimo Lp dei Genesis o il live dei Deep Purple (o Venus degli Shocking Blue!...), già annunciati “clamorosamente” da Lelio Luttazzi o ancor prima da Supersonic, trasmissione antesignana dei moderni (ma piatti) format via etere, e trasognato ti “fiondavi” a casa, nel tuo cantuccio preferito – e guai a chi osava profanare il tempio!...- e, liturgo di un sortilegio, dimentico di tutto il resto propiziavi il rito: in quel silenzio carico di magia - dissigillavi piano piano la copertina del cellophan che la fasciava stretta come il vestito una donna dalle curve generose…-, in quello sfiorarla, e infine toccarla, e annusarla nuda e “vera” c’era un incanto, abitava lo stupore. Dall’involucro sfilavi allora la custodia che sapeva di nuovo, ne tiravi fuori il disco, rimirandolo nei suoi solchi ancora intonsi e nei suoi vertiginosi vorticosi giri, per riporlo infine, dopo accurata pulitura, sul piatto. Trasumanante oblio, mistero inattingibile….ma palpabile, con un suo profumo, un colore, un’identità. Consumato da ascolti e ascolti, accadeva che, col tempo il long playing a tratti crepitasse: “Quand il me prend dans ses bras/Qu'il me parle tout bas/Je vois la vie en rose…”; “I see trees of green, red roses too/I see them bloom for me and you/And I think to myself, what a wonderful world…”. Ma forse proprio lì stava l’incanto. 9. Vai, Girardengo!…(in memoria di Dario) “sit tibi terra levis” 40 La salita di tornanti incorniciata di vette impervie e frastagliate è dura, ma ce la farò. Il sole scivola rasente i boschi sulle pareti d’alabastro di questa landa silenziosa e piena di fascino, devo dare di gambe perché arduo è il cimento, temprare i muscoli e pigiare sui pedali per la” tirata” finale... Il gioco della vita. Tra impegni rispettati alla lettera, scanditi da ritmi e stile da vero professionista, e il lato leggero delle cose, per fuggire quell’ombra che ti sta appiccicata addosso, e da cui ognuno di noi vorrebbe staccarsi. Quel “disimpegno” diventa modo d’essere, fino a sostituire il personaggio “vero”, quello che la società ama etichettare, per comodità ma spesso per accidia intellettuale. Anche se, sovente, d’intellettuale trovi ben poco. Insomma, dottore sì, ma dentro la phisique du rôle dello sportivo. Oltre il dilettantismo da quattro soldi che oggi va tanto di moda, e spesso si risolve in quel patetico belletto di cui ci si spalma la faccia per apparire, sia pure un attimo soltanto, e salire su un proscenio che, alla fine, si scopre desolatamente vuoto. Vai Girardengo, vai grande campione!…, mi accompagnano nel ricordo di Dario le note easy di un motivo giovanile. Ma anche Girardengo, purtroppo, deve prima o poi gettare la spugna. Ananke, ammonivano i Greci, è in agguato, nulla può contro il Fato, che governa il mondo. E il nostro breve transito su questa terra. La bicicletta, tirata a lucido, vezzeggiata, blandita, un altro amore, un amore diverso, che non tutti capivano. Connubio fatale, simbiosi mistica di terra e cielo, ardimentose sfide e metafisici orizzonti. La voglia di riempirsi i polmoni di quell’aria che, nelle plaghe incontaminate dove avevi messo radici, ancora spira benefica, dopo il rigoroso impegno di dare salute fin dove era consentito ai tuoi affezionati pazienti. Oggi usa dire “staccare la spina”: mai espressione è parsa più beffardamente appropriata per quello che da tempo ti teneva in serbo la sorte. La giostra assurda della vita incomincia in un lontano giorno da un trasalimento di sensi e d’anima, per poi spezzarsi bruscamente al capolinea decretato ab aeterno. 41 Non possiamo che tributare silenzio e rispetto, non ci è dato strappare il velo, la tela intessuta dalle Parche. Il mio silenzio, allora, accompagni la tua dolorosa muta dipartita dalle scene di questo mondo che, visto da quaggiù, “di tanto inganna i figli suoi” nel ricordo delle serate passate a celiare tra un vecchio disco crepitante dei Genesis e un innocente bicchierino, una corsa tra il verde dei prati e le speculazioni filosofiche sulle domande capitali dell’esistenza. Sempre con la nota pittoresca e picaresca di una battuta irriverente, bersaglio il malcapitato di turno individuato con salace corale connivenza, spia di un ingegno ferace e di uno humour di cui sento grondare ancora l’aria. Perché l’aria porta scritto in sé per sempre il tuo, il nostro nome, è ánemos, spirito, vento leggero 10. Il sapore delle cose Ci sono sapori, odori, colori, volti che quando ti hanno toccato le corde del cuore non li scordi. La veranda fresca e accogliente cui mette l’ampio viale adombrato di verde e di richiami, il volo leggero delle rondini che si levano fino all’azzurro per poi planare e rubare una goccia allo specchio d’acqua incastonato come uno zaffiro nel cuore palpitante della natura. C’è gioia e sentire in quest’agape fraterna all’ombra di più consolanti verità. C’è l’onestà del dire, un più soffuso calore che s’irradia dagli sguardi, discreti e pudichi. C’è la semplicità vergine e incontaminata delle cose, le cose buone e genuine della campagna, erbe spezie e frutti di stagione, il pane fatto in casa fragrante di promesse, una brezza sottile che sussurra echi lontani, voci che d’incanto si rianimano… Il cerchio degli affetti è una dolce morsa che ti prende, e ti prende per mano al punto che non te ne vorresti mai partire, al riparo dal frastuono e dalle doppiezze che si giocano fuori, subdole e letali. Nella quiete dell’ora, godere insieme della compagnia e dividere, in amabile condivisione, i frutti della terra è miracolo, e anche le cose lo sentono, nel loro discreto origliare e nel torpore in agguato, il demone meridiano che 42 viene a rubarne l’anima. Fin quando l’angelo della sera non restituisce quella pace e trasparenza che si dispiegano placide nelle iridescenze del tramonto. La terra e chi la abita è custode eterna di valori e verità che ne fanno un sacrario, interdetto a chi non sa guardare dentro e al di là delle cose, carpirne l’essenza. La chiave per entrare in questo tempio di primizie e gourmandises dello spirito è dono di pochi eletti. *** *** Mi hai accolto in questo giardino segreto, facendomene gustare i doni preziosi, il sangue della terra nutrito da mani esperte e innamorate della loro opera. Opera prima, il cui palcoscenico è questo fazzoletto di mondo, gremito di vita e d’incanti, di saggezza e intuizioni, di purezza e umiltà. Ricco di cose buone e di talenti, di messaggi che il vento trasporta sulle sue ali, riverberandone la luce. Quest’armonia, lo sposalizio tra uomo e natura si suggellano nei gesti sacrali e nei riti che scandiscono i ritmi della terra, che dicono la sapienza del buon vivere, religione del focolare. E si traducono nella dedizione, nella dolcezza e nella meraviglia di essere padre, e in questo essere meraviglioso non solo con i figli, ma anche con chi ti guarda con gli occhi straripanti di cielo e di voli, e squaderna una realtà altra, che piano piano scopri affascinante, tenera, meravigliosa anch’essa. Fino a indovinarvi le coordinate dell’infinito. Scendono le ombre, e planano sulle foglie, sfiorando le cose. Resta nell’aria, in un filo d’erba, nei trasalimenti della notte, e nello stupore delle timide rugiade mattutine l’eco di un canto, che gelosi carezziamo e stringiamo a noi, teneramente, per non sciuparne la bellezza. 11. Diario di un medico di campagna Seduto davanti al solito bar, guardi la gente che passa e intanto accendi l’ennesima sigaretta, a scandire un’esistenza che, vista dall’esterno, si 43 sarebbe portati a giudicare monotona e piatta, “inadeguata” all’abito che indossi. Senza palpiti e voli a tutto cielo. Ogni mattina, alla stessa ora, ti alzi, fai la toletta, ti vesti in maniera frugale, e vai al lavoro. Un ambulatorio d’otorino che ha visto avvicendarsi tanti, forse troppi destini. Di talento sin da giovane età, luminare nel tuo campo, hai un intuito bruciante: ci azzecchi che è una meraviglia, scavando in profondità. Forte di caratura professionale, potresti solo esibendo questo biglietto figurare nella hit parade delle persone che contano. Ma a te non potrebbe importartene di meno. Finito il turno di lavoro, messe a punto le ultime cose e sbrigate le incombenze di rito, con andatura dinoccolata e “adeguata” alla stazza ti dirigi senza indugio verso il solito bar, che fuori puzza di fumo e sforna chiacchiere oziose e banali, che sanno di aria fritta. Un bicchiere di rosso generoso bevuto in compagnia, qualche volta si scappa il tempo anche per un tressette col morto. Ma pure questa è vita. Specie per uno come te che non ha voluto metter su famiglia, preferendo al gioco roboante e rutilante della mondanità il riparo del caldo nido materno. Dentro il quale c’è sempre un posto, che aspetta solo che qualcuno lo occupi, che vi sia bisogno o no. Guai a non starci più, nel ritratto di famiglia. C’è sempre un letto e una camera ordinata e linda, che profuma di voci e radici lontane, che aspetta. Ti sei voluto adagiare sulle comode, scontate certezze, abiurando le aspre battaglie della vita, con indosso una mentalità rusticana, dietro a un ruolo che, comunque, ti scherma e preserva dai meccanismi perversi di questo mondo. La sedia del solito bar che offre asilo e protezione al tuo desiderio di tranquillità e anonimato è, se ben si riflette, un ottimo avamposto per scandagliare l’umanità, anche se non disponi momentaneamente di stetoscopio e utensili del mestiere. Una sorta di palco con vista su un microcosmo, in cui recitano la loro parte vizi privati (e pubbliche virtù), che s’impersonano in caratterialità le più disparate: dal matto del villaggio a chi 44 si crede chissà chi e cammina a un palmo da terra, dalla pia donnetta che si reca ogni sera puntuale alla messa vespertina all’impenitente energumeno bestemmiatore che non sa mettere due parole una di fila all’altra, eccettuato il turpiloquio e la sua variegata sintassi. Sì, un vero e proprio “palco all’opera”, un caleidoscopio d’umanità e d’immagini pensoso ed esilarante a un tempo. Meglio seduti qui a guardare, che starsene imbalsamati nei tanto celebrati salotti patinati delle estati VIP, all’ombra del Colosseo o lungo le chiassose frementi riviere, a recitare un copione che ti starebbe stretto, che non senti tuo perché inautentico, posticcio. Come finti e nauseabondi sono il trucco e le pose studiate ad arte dai protagonisti, i soliti noti del tubo catodico, di cui francamente non se ne può più. Chissà allora se quello che tu, professionista di livello che ha calcato i palcoscenici dell’accademia, hai scelto non sia poi il modo migliore e più vero di sentirsi vivi, e, comunque, di scrutare l’uomo nelle sue tante luci ed ombre. Imbolsito su quella sedia in canottiera e pantaloncini usu beach dai però l’idea di abulia, comunichi una sensazione di accidia, emani un che di sciatto. Sei uno fra tanti. Tuttavia, ad una riflessione più approfondita si scopre che forse proprio questa è la maniera più verace e schietta di dare un nome e un volto alle cose, di là dai tecnicismi, dalle auliche opzioni gergali e, all’opposto, dallo scadere nel pettegolezzo più trito e stucchevole. Di là, soprattutto, dalla smania immoderata e patologica di far tanto rumore per nulla, di far comunque parlare, nel bene o nel male non fa differenza, di sé, di agire e apparire protagonisti su un proscenio che, sollevato il sipario, mostra la sua squallida nudità, la sua tragica inanità. Sotto la maschera e il patetico belletto non c’è nulla, solo realtà virtuali, files (o virus?) di sistema, inanimate “icone”. Il rifugio al paterno ostello dopo tanto “bivaccare” davanti al solito bar completa allora il senso di una vita, facendosi metafora e archetipo di un’esistenza radicata a valori forti, che sa dire ancora pane al pane e vino al vino. Perché di pane e di vino si tratta, nel vero senso della parola. 45 12. Tutto ho perduto Una casa solida nel folto della boscaglia che d'estate esplode di giallo. Dentro un camino sempre acceso, la fiamma che guizza e proietta ombre sghembe sui muri. Lì dappresso l'albero adorno di festoni e palline fragili policrome di cristallo. C'è anche il presepio a dire la favola del Natale. Dentro si respira il calore e l'amore. I buoni sentimenti dominano su tutto... “Volevo che un dio m’illuminasse la strada perché non potevo pensarti senza. Desidero portarti io –Dio?dove il mare tocca il cielo la sabbia soffoca la cecità degli uomini e la pioggia ristora benigna il cardellino che cerca rifugio nel bosco frondoso. Ti porterò ancora dove il vento soffia e sospinge gagliardo il tempo dove lo sguardo che T’innamorò non ha confine al suo Amore. Ti condurrò per mano io, perché sei in me, sei il mio dolore la mia gioia i miei incancellabili dolcissimi ricordi. *** *** ...sei nel sole, nel mare nel vento. Sei nella mia anima, 46 figmento indocile dell’universo, scaglia d’oro che illumina il buio”. Una fiaba triste, struggente nella sua indicibile tenerezza. Ho voluto traghettare il ricordo di dodici anni or sono in un'isola incantata, dove la neve cade ancora bianca, e il richiamo nella bruma si smarrisce... Così poteva essere, e non è stato. Tutto ho perduto... Il focolare, laggiù, guizza ancora ombre furtive. 47 EXIT IL CANTO DELLA VITA Muoiono le cose. Morirò, moriremo… Lento, inesorabile è il disfacimento. Corpi scultorei che si crogiolano al sole, virgulti ansiosi di gemmare, la bellezza sfiorisce col tempo e si perpetua attraverso i geni. Sangue da sangue, Luce da Luce. Il mare rosicchia gli argini e scaraventa furioso i flutti sulle rocce. C’è una bottiglia nelle notti di bonaccia a dire un segreto affidato alla luna. Qualcuno – forse - troverà quel messaggio, lo leggerà e a sua volta lo consegnerà ai venti, facendone perdere ogni traccia. Qualcosa finisce, qualcosa insieme si affaccia alla vita. In orto et morte, vitae coniuncuntur... Diverremo tutti come voi, con quegli occhialoni spessi un dito, i capelli radi e il tronco piegato dalle tante primavere. Anche le cose che, mute, si fanno sentinelle discrete del nostro peregrinare, anch’esse conosceranno altre stagioni e, alla fine, foglie di un altro autunno periranno, lasciando il posto a realtà che abitano l’Eterno. …delle risa si spegnerà l’eco furtiva… Ma l’anima ha già prenotato un palco dove ardono le stelle. 48 Clausola Il respiro della brezza porta messaggi di vita, che traluce da un sorriso mesto, nel muto interrogare, in quel pudico incontro di sguardi. Ed è Luce, Bellezza. 49