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Mario Tardivo
Mi chiamo Mario Tardivo e sono nato il 4 novembre 1927 a Eraclea in provincia di
Venezia. Eravamo tre fratelli e tutti e tre eravamo effettivamente dei partigiani. Io in misura
minore, solo qualche volta li aiutavo.
Il 24 maggio del 1944 stavo in camera a studiare, erano gli ultimi giorni di scuola e dovevo
sostenere qualche esame, per cui alle cinque del mattino ero già sveglio. Ho inteso dei
rumori di macchine e motori, mi sono affacciato alla finestra della camera e ho intravisto
automezzi militari, soldati delle SS
e civili, che poi abbiamo saputo essere
collaborazionisti dei fascisti e dei Tedeschi a Trieste. Sono scesi da queste macchine e
sono entrati a casa mia. Ho chiesto ai miei fratelli se in camera nostra c’erano delle armi e
loro mi hanno tranquillizzato, che non ce n’erano. Saliti in camera col mitra spianato ci
hanno ordinato di scendere. Una volta scesi volevano prendere anche mio padre,
sennonché fortunatamente uno dei civili collaborazionisti ha detto che mio padre non
c’entrava. Ci hanno fatti salire su una camionetta e ci hanno portato lungo la strada, il viale
dove abitavamo e man mano che questa camionetta avanzava, scortata di automezzi
blindati, si fermavano e entravano dentro determinate case. Mio fratello maggiore ha
subito intuito che doveva esserci stata una spiata, perché si fermavano solo in determinate
abitazioni, quelle dei compagni che lui conosceva. Era un rastrellamento ben organizzato,
con nominativi, indirizzi e tutto. Hanno fatto questi arresti su tre zone ben distinte dove
c’era una concentrazione di collaboratori e partigiani.
Da lì ci hanno portati al Coroneo di Trieste, nelle prigioni, dove siamo rimasti alcuni giorni
senza sapere niente, la causa per cui eravamo stati presi. Il terzo, quarto giorno ci hanno
fatto scendere dai bracci dove eravamo al piano terra e ogni tanto chiamavano uno di noi
dentro una stanza. Lì abbiamo capito chi aveva fatto la spia, un partigiano che era passato
dall’altra parte. Dagli interrogatori si tornava malconci. Per noi era o la libertà o finire in
Germania. Credevamo che andando in Germania si sarebbe lavorato, come lavoratori,
non sapevamo dell’esistenza dei lager naturalmente. Così un pomeriggio hanno chiamato
dei nomi ‘questi qua domani mattina partiranno per trasporto in Germania’. Con noi furono
chiamati anche due preti che vennero con noi a Dachau. Eravamo - come dire - felici di
andare fuori dalle carceri, perché era pericoloso rimanere dentro, qualche volta ci
prelevavano come ostaggi. Prima di uscire dal carcere chiamarono il nome di otto
persone, tra cui il mio fratello maggiore. Questi dovevano rimanere al Coroneo. Al ritorno
dalla Germania abbiamo poi saputo che mio fratello e altri due erano morti alla Risiera.
Il nostro trasporto è avvenuto col solito sistema. Una mattina, usciti dal Coroneo, ci hanno
portati alla stazione di Trieste, ci hanno caricati su questi vagoni merci e siamo partiti.
Siamo arrivati a Dachau il 2 giugno, di notte, dopo tre giorni e due notti di viaggio. I
trasporti avvenivano con quei tempi fisiologici, perché dovevano dare la precedenza a tutti
gli altri treni, per cui si sostava anche delle ore sui binari morti della stazioni. Riguardo
all’arrivo di notte, credo che quello fosse proprio il sistema stabilito dalle SS per far sì che i
civili non vedessero i prigionieri. Arrivati dentro, poteva essere mezzanotte, o le undici, il
campo era tutto illuminato e noi ancora non avevamo capito. Sennonché quello che ci ha
fatto capire il tutto è stato l’indomani mattina, quando è cominciata la spoliazione, la
depilazione, la disinfezione. Ci facevano entrare in queste docce, poi quando si usciva
depilati, rasati eccetera ci davano l’abito del prigioniero, che noi vedevamo lì in giro, ma
qualcosa ancora non quadrava. Mi ricordo uno dei due preti che erano partiti con noi, il più
anziano, che tentava di nascondere le parti intime con le mani. L’unico a fare quel gesto,
gli altri no. All’uscita di questa vestizione ci chiedevano i dati e poi ci assegnavano il nostro
nuovo nome, ci battezzavano con un numero. Il mio numero era ed è per me tuttora
vigente come un nome, come una distinzione, segnava anche tra l’altro la data dell’entrata
perché man mano che aumentava il numero capivamo chi era entrato in quel mese e chi
in quell’altro. Il mio numero era 69.725, però io l’ho impresso in tedesco perché conoscere
il proprio numero in tedesco voleva dire qualche volta riuscire ad evitare certe violenze.
Loro chiamavano il numero, e se uno non sapeva che il suo numero era quello perché non
se lo ricordava, loro o
l bastonavano, lo consideravano un sabotaggio. Il mio numero in
tedesco era neunundsechzigsiebenhundert fünfundzwanzig e per me questo numero,
anche se non ci è stato marcato sul braccio come agli ebrei e ad altri che entravano ad
Auschwitz, è comunque marcato, sempre fisso.
Siamo andati nella baracca di quarantena, non ricordo il numero, e lì abbiamo conosciuto
Gorlato, un deportato che era impiegato tecnico ai cantieri di Monfalcone. E’ ancora vivo,
ha novantadue anni, lo vado spesso a trovare. A Dachau faceva l’interprete, perché era
poliglotta, conosceva il francese, il russo e il tedesco. Ha cominciato a darci un po’ di
istruzioni su come dovevamo comportarci. Se non volevamo andare incontro a guai non
dovevamo fare questo o quello, e poi, citando Dante, ci disse “lasciate ogni speranza voi
che entrate, qui avete solo doveri e nessun diritto”. Queste istruzioni non è che poi ci siano
servite granché, perché bastava una sciocchezza e si veniva puniti. Dopo qualche giorno,
tutto il nostro gruppo è stato messo a disposizione di una specie di ufficio collocamento,
che ci destinava a seconda delle richieste dell’industria. Se servivano cento operai alla
BMW, mandavano cento operai alla BMW. Al momento della dichiarazione, loro
chiedevano che tipo di lavoro facevi quando eri a casa. Io facevo lo studente, ma siccome
mio fratello aveva dichiarato che era operaio – lavorava in un cantiere a Monfalcone – ho
detto anch’io operaio, così c’era la possibilità di stare ancora insieme. Difatti siamo rimasti
insieme per un mese circa con altri due compagni, destinati alla lavorazione meccanica
della BMW ad Allach. Da Dachau ad Allach, ogni mattina dovevamo andare a lavorare in
fabbrica e dovevamo fare un percorso di due tre chilometri su una strada recintata ai lati
dalle SS. Per una settimana si facevano dodici ore di notte, poi dodici ore di giorno, dalle
sei di mattina alle sei di sera. Lì ad Allach avevano costruito questa fabbrica all’interno di
una foresta penso, perché c’erano tanti pini altissimi ed era nascosta. La sera quando si
doveva dividere il pane in baracca, avevamo tre pagnotte da dividere in dodici. Chi
tagliava il pane cercava di farlo con estrema precisione. Tagliava in dodici parti poi si
estraevano i numeri da uno a dodici, in modo che fosse la sorte a decidere se a uno
doveva toccare un pezzetto appena un po’ più grande di un altro. Questo ci insegnava
l’esperienza di chi era dentro da qualche mese in più. Noi che eravamo freschi dall’Italia
ancora non conoscevamo bene la fame e la differenza tra un pezzettino di pane in più o in
meno. Non sono rimasto per tanto tempo. Dopo un mese io e il mio compagno Mario
Candotti, insieme a cui ho trascorso tutto il periodo, e altri compagni di Ronchi, ci hanno
trasferiti a Markirch, una località dell’Alsazia. Markirch era un sotto campo di Natzweiler e
lì mi hanno cambiato il numero. Prima dell’annessione dell’Alsazia alla Germania, questa
località si chiamava Santa Maria delle Mine, nome che ha riacquistato anche dopo. Lì
esisteva già una galleria lunga cinque o sei chilometri. Questa galleria era una strada, un
tracciato di autostrada, ma i Tedeschi l’hanno chiusa e vi hanno inserito le macchine
utensili in modo che questo reparto lavorasse indisturbato ventiquattro ore su ventiquattro.
Si trattava sempre della BMW. Il mio lavoro consisteva nel lavorare su una rettifica. Io di
tecnologia e di lavorazione delle macchine avevo già acquisito a scuola all’Istituto Tecnico
ed ho capito che le macchine erano già predisposte per quel tipo di lavorazione, erano
come una lavorazione a catena. Io inserivo nella macchina il pezzo che dovevo operare in
quella fase e la macchina lo passava poi alla fase successiva sino alla fine. Il pezzo
meccanico rettificava le canne, quelle che comandano le punterie dei motori, e quando era
finito andava a finire al controllo. Abbiamo fatto anche un po’ di sabotaggio, l’ho fatto io e
lo avranno fatto anche gli altri. In questa galleria c’era molta umidità perché la volta era in
pietra e, per quanto loro avevano tentato di abbassare questa umidità soffittale attraverso
tubature e immissione di acqua calda, l’umidità c’era sempre e parecchia. Allora, quando
sistemavo questi pezzi meccanici finiti dentro le cassette apposite, dovevo ungerli
completamente ma io col pennello ungevo soltanto la parte superiore. Poi partivano, non
so per dove, e andavano per tre quattrocento chilometri presso un’altra fabbrica, dove
avveniva il montaggio. Noi facevamo i particolari e l’assemblaggio avveniva da un’altra
parte.
Una notte è successo che mi sono addormentato, eravamo una squadra, stavamo
sistemando le macchine lungo questo percorso, macchine utensili pesantissime. Mi sono
appoggiato in un momento di riposo, di pausa - ci davano da mangiare di notte - sui tubi
dove passava questa acqua calda, ho disposto dei trucioli che erano lì sopra il tubo e mi
sono addormentato. Al risveglio c’era un silenzio assoluto. Per me era un silenzio
assordante, terribile in quel momento. Sono solo, gli altri sono usciti, da quanto tempo?
Allora mi sono messo a correre con gli zoccoli, puoi immaginare come si corre con gli
zoccoli infilati ai piedi senza calze, senza niente, gli zoccoli andavano per conto loro. Sono
arrivato all’uscita, o entrata a seconda, e quelli che entravano già mi dicevano nelle varie
lingue ‘sono fuori che ti aspettano per la punizione’, perché ritardavo tutto il ritmo. Difatti
fuori lungo la strada, i miei compagni erano già incolonnati e aspettavano me. Allora uno in
divisa delle SS o della Weimar, non me lo ricordo bene, mi si è scagliato contro e ha
cominciato a pestarmi. Mi sono buttato per terra, mi sono difeso a riccio, mi sono chiuso.
Tu pesta, dopo vedremo. Non ha insistito molto perché in quel momento entravano degli
operai civili, e ho immaginato che forse non voleva dare spettacolo lì in mezzo alla strada.
Comunque ha rilevato il mio numero e mi aspettavo la famosa punizione, che voleva dire
venticinque colpi sul sedere, dati con un corpo contundente che poteva essere un cavo di
corrente elettrica o un bastone, bastava picchiare. L’ho passata liscia, il numero non è
stato chiamato, è rimasto lì.
La distanza che intercorreva tra il campo e la galleria era di due tre chilometri. Noi
eravamo alloggiati in un campo di emergenza a sud, che era una vecchia fabbrica di carta,
con vasche in legno, assi con delle pulegge, una roba obsoleta, chi sa da quanto anni
abbandonata. Al momento ne hanno approfittato per mettervi un recinto e mettere dentro
noi. Dovevamo attraversare tutto il paese, e per la maggior parte questo percorso di due
tre chilometri era costituito da un lungo viale, una strada. Ai lati opposti c’erano delle case
e noi vedevano le persone che attraverso le persiane osservavano noi prigionieri. Qualche
volta sul ciglio del marciapiede era messa qualche sigaretta, io non fumavo e non mi sono
mai avvicinato, ma non ho mai visto nessuno raccogliere quello che loro mettevano. Era
sempre pericoloso con le SS.
Noi Italiani eravamo molti, uno fu anche impiccato, era uno di quei militari che i Tedeschi
avevano deportato dalle carceri. Tra i prigionieri politici, dal triangolo rosso, in realtà il
motivo della deportazione era molto vario. E infatti non è che fossimo tutti compagni con
un buon rapporto. Poi c’erano i triangoli verdi che erano delinquenti comuni, in prevalenza
tedeschi, Gli asociali, triangoli neri e i gay, triangoli rosa. Gli ebrei avevano la stella di
David e alcuni oltre alla stella anche il triangolo rosso. Un giorno un compagno nostro che
aveva funzione di interprete, un trentino ex combattente di Spagna che sapeva il francese,
lo spagnolo e naturalmente il tedesco, ci ha detto che era stato preso un italiano che
aveva tentato di fuggire, e ci ha fatto nome e cognome. Uscendo dalla galleria o dal
campo eravamo in un bel posto bellissimo, come di villeggiatura, con boschi eccetera, cioè
uno aveva la possibilità di nascondersi. Ma come poteva nascondersi uno con la Strasse,
la famosa passeggiata che facevano con la macchinetta, quando tagliavano i capelli a
zero! Comunque questo poveretto ha tentato di fuggire e lo hanno preso. “E’ stato preso
così e così e verrà impiccato” ci ha detto. Dopo però erano passati diversi giorni, “hanno
detto così per farci prendere paura, non è vero”, abbiamo pensato. Però non lo vedevamo
quel disgraziato. Una mattina in Appellplatz abbiamo visto delle luci e la forca. La forca era
sempre poggiata a un lato di una baracca e all’occorrenza era sempre pronto il piedistallo
che infilavano dentro. Così lo hanno impiccato e lui prima di morire ha detto più o meno
queste parole “sono italiano, mi chiamo così e mi uccidono perché ho tentato di fuggire,
salutate i miei”.
Un giorno abbiamo saputo dell’attentato a Hitler. Prima di andare al lavoro abbiamo
incrociato dei Russi che ci hanno detto “Hitler caputt”. Quel giorno i militari, che tenevano
sempre il fucile in spalla, avevano la pallottola in canna, perché evidentemente temevano
una sommossa. Purtroppo, l’indomani tutto è rientrato e abbiamo capito che non era
successo niente di definitivo. Se l’attentato fosse andato a buon fine, ci sarebbero stati
molti meno morti. Nel mese di agosto, primi di settembre gli Americani procedevano
l’avanzata in territorio francese. Allora hanno ritenuto opportuno trasferire di nuovo queste
macchine e tutto il reparto di nuovo ad Allach. Ad Allach sono rimasto insieme ai miei
compagni, numerosi compagni arrestati a Ronchi. Ci hanno tenuto alcuni giorni senza
lavorare, poi ci hanno assegnato i lavori più svariati. Io ho lavorato in una grande ditta che
faceva lavori per la BMW, dove mio fratello è sempre rimasto. Lui non si è mai mosso di lì,
ha sempre lavorato dentro questi grandi bunker in cemento armato di uno spessore
rilevante. Un giorno, mentre spingevo dei carrelli, per proteggermi le mani dal freddo, le ho
avvolte con della carta, sennonché la presa non era più buona e ho rovesciato tutto il
contenuto del carrello. Immediatamente ho avuto addosso un cane della SS; molto ben
addestrato, che si è buttato sopra di me e mi ha immobilizzato. E’ arrivato l’ordine di
lasciarmi e la cosa è finita lì, anche se in seguito continuavo a temere le conseguenze.
Un’altra volta, un mio compagno non era rientrato dalla pausa per il rancio. Aveva trovato
un posto dove usciva dell'aria calda e si era addormentato. Quando l’hanno trovato gli
hanno dato venticinque frustate davanti a tutti.
Gli Americani dunque avanzavano. Un bel giorno, nuovo trasferimento, a Trostberg.
Trostberg era una località a venti chilometri circa da Monaco. Ci hanno trasferito in questo
piccolo campo, sempre con la fabbrica BMW, sempre in altri capannoni. Lì ho vissuto
un’altra avventura. Lavoravo su una dentatrice e un giorno devo aver commesso un
errore, perché l’ingranaggio, che doveva uscire con quaranta denti, essendo passato due
volte per la stessa fase è uscito con il doppio dei denti. Con mio grande piacere mi hanno
tolto la responsabilità della macchina e mi hanno messo a fare lo spazzino. Sennonché un
giorno, stanco e con la scopa in mano, mi sono appoggiato a un muro e mi sono
addormentato. Fortunatamente anche lì la cosa si è risolta solo con un ceffone che mi ha
svegliato. Questo è avvenuto a fine marzo, aprile, quando la guerra già stava per finire.
Poi di nuovo ad Allach dove ho lavorato fino alla fine della guerra. La mattina ci portavano
via da Allach alla stazione di Monaco con i treni merci e là ci mettevano in venti trenta con
la forca per tamponare i buchi dei precedenti combattimenti. Trasferimento di rotaie tutte
storte. Eravamo in trenta quaranta a trascinare queste rotaie. Un giorno, nella stazione di
Monaco, mentre noi lavoravamo, c’era un treno fermo in un binario morto, e dentro c’erano
dei giovani ragazzi in divisa, qualcuno dei quali attraverso il finestrino ci sputava addosso
perché dovevamo lavorare lì vicino. Ci hanno portato a lavorare fino al 23 o 24 aprile. La
liberazione è avvenuta il 29. Ogni giorno arrivavano compagni da altri campi, stremati
dopo chilometri a piedi, che raccontavano di queste terribili marce della morte.
Una mattina ci svegliamo ad Allach e sulle torrette non c’è nessuno. Non ci sono più SS,
solo c’erano prigionieri come noi. Ci hanno poi raccontato che prima di abbandonare il
campo quelli delle SS avevano informato alcuni prigionieri politici tedeschi, che potevano
prendere possesso del campo. Praticamente hanno consegnato il campo a loro. E sono
scappati. Questo è stato un bene perché per due o tre giorni, prima dell’arrivo degli
Americani, ci siamo auto disciplinati, razionando ancora di più perché gli ultimi giorni la
pagnotta veniva divisa in dodici quattordici parti, mentre prima era in quattro parti. Un
giorno, nel pomeriggio, fuori del campo in mezzo alla campagna, arrivano le Jeep degli
Americani. Avanzavano con i fucili in mano. Gli siamo andati incontro, mi ricordo che la
Jeep aveva dietro un carretto su cui portavano le razioni. Ci hanno lasciato prendere tutto
quello che volevamo, confezioni con sigarette, cioccolato e altro, che anche ora i soldati in
Italia usano. Dopo due o tre giorni avevano installato delle grandi tende con le docce. Ci
hanno fatto fare il bagno, disinfettato e tolto i vestiti da prigionieri. Avevano sottratto ai
magazzini dei militari tedeschi delle divise. Mio fratello aveva avuto la divisa nera, io la
grigio verde. Tutti abbiamo strappato dalla divisa l’aquila tedesca e per tutto il campo
erano disseminate queste aquile. Poi ci hanno dato scarponcini nuovi di zecca. I primi
giorni gli Americani portavano dentro il campo dei grandi maiali morti presi dentro i
frigoriferi. Molti prigionieri sono morti per aver mangiato troppo. Poi hanno capito e hanno
cambiato sistema. Ci davano un po’ di pane arrostito e burro e così per quattro o cinque
giorni. Siamo stati ad aspettare di essere rimpatriati. Siamo stati divisi, gli Italiani con gli
Italiani, i Francesi coi Francesi, eccetera. Nel nostro campo si parlavano ventidue lingue.
Ogni tanto nella nostra baracca veniva a trovarci un ufficiale americano di origine italiana,
un farmacista che ci parlava in napoletano. Ci diceva di aver pazienza che ci avrebbero
portati a casa.
Io ero stato ricoverato in infermeria del campo, non ricordo neanche cosa accusavo, stavo
poco bene, loro mi hanno detto “resta qua, vediamo”. Vicino a me avevo un polacco, che
pregava tutto il giorno e anche di notte. Dopo tre giorni arriva mio fratello e mi batte alla
finestra “guarda che si parte, oggi alle undici è arrivato l’ordine che si parte”. “Allora vado a
casa anch’io’, dico. Vado in infermeria, lo dico al medico, un medico russo, e lui dice va
bene. Con l’altro mio compaesano, un certo Ferruccio Doloi, siamo usciti dall’infermeria, ci
hanno caricati in questa colonna di camioncini e siamo arrivati a Bolzano. Gli Americani
che guidavano, un po’ bianchi e un po’ neri, stavano con i piedi fuori dal finestrino e
bevevano whisky. Per fortuna siamo arrivati sani e salvi. A Bolzano c’era un centro con un
grande cortile e delle grandi stanze con letti, non so cosa poteva essere, forse una
caserma adibita per emergenza. Era un centro di raccolta, poi ognuno si arrangiava. Lì ho
incontrato altri miei compagni. Di lì mi hanno trasferito all’ospedale civile, bellissimo, di
Bolzano. Volevano fare degli accertamenti perché temevano che avessi il tifo. Mio fratello
intanto ha preso una corriera per Trieste. Rimaniamo lì io e un ragazzo di Udine, in una
camera con un bel terrazzo e un giardino favoloso. Se premevamo un bottone, ci
portavano tutto quello che volevamo. Insomma, eravamo assistiti in maniera esemplare.
Un giorno arriva il fratello di questo ragazzo. Si vede che qualcuno prima della partenza
aveva avvisato i familiari. Di dove siete voi? Di Udine. C’è un pullman, la corriera. Andiamo
a casa. Sono andato a Udine con questa corriera scassata, e lì ho incontrato dei miei
paesani che mi hanno detto di aspettare e rientrare con loro fino a Ronchi. Sono sceso
vicino all’aeroporto e lì ho incontrato un vicino di casa che mi ha caricato sulla sua
bicicletta e portato fino a casa. Quindi il mio tragitto di ritorno è stato piuttosto comodo:
camion americano, corriera, camioncino e bicicletta.