L`epica latina arcaica Introduzione. Alla fine del III secolo a.c., a

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L`epica latina arcaica Introduzione. Alla fine del III secolo a.c., a
L’epica latina arcaica
Introduzione. Alla fine del III secolo a.c., a Roma nascono due generi letterari su
consapevole calco Greco: il teatro e l’epica. Anche se è destinato a una più duratura
fortuna, il genere epico mostra nella sua origine tratti analoghi a quelli con cui ha
inizio il teatro. Innanzitutto, i primi autori epici, Livio Andronico, Nevio, Ennio,
furono gli stessi che inaugurarono il genere tragico e quello comico, mostrando una
versatilità nel coltivare generi letterari diversi che si sarebbe mantenuta anche in
seguito: nessuno dei poeti epici latini successivi si dedicò soltanto all' epica. Inoltre,
come il teatro, anche l'epica latina nacque con una traduzione: Livio Andronico
tradusse uno dei poemi omerici, l' Odissea rompendo rispetto alla tradizione dei
carmina convivalia. La sua versione dell' Odissea non è una traduzione letterale, ma
una «traduzione artistica», in cui, il testo omerico veniva rielaborato alla luce di
esperienze culturali successive.
Se Livio Andronico fu il creatore di un linguaggio epico, è a Nevio che si deve la
nascita di quello che può dirsi senz'altro il contenuto più tipico dell'epica romana, che
differenzia quest'ultima dalla tradizione greca e ne fa una creazione originale: il
rapporto fra mito e storia. Il mito si precisa come mito delle origini di Roma, la storia
è la storia contemporanea.
La linea di continuità che lega Livio Andronico e Nevio si spezza con Ennio, colui
che alle generazioni successive, prima che Virgilio componesse l'Eneide, sarebbe
apparso il vero grande poeta epico nazionale. Come Nevio, Ennio sceglie come
argomento del suo poema, gli Annales, episodi di storia nazionale; ma, come indica
chiaramente il titolo, non opera una selezione di fatti da raccontare e si rifà alla
tradizione annalistica del racconto anno peranno. Nella sua epica si ebbe la
convergenza di più esigenze che egli avvertiva contemporaneamente: da un lato, il
ritorno alla grande poesia omerica, chiamata ad imprimere alla nascente epica latina il
crisma dell'ufficialità; dall'altro, la grande consapevolezza di letterato aperto alle più
varie esperienze, che lo conduceva ad aderire alla nuova poetica alessandrina; dall'
altro ancora, l'ambizione ad essere un poeta nazionale.
Livio Andronico. Poco più di 30 frammenti - una quarantina di versi – è tutto ciò che
possediamo della traduzione dell'Odissea di Omero, l'Odusia, con cui l'epica greca
entrava ufficialmente a Roma, e vi entrava nella stagione matura di una riscoperta di
Omero da parte dei poeti alessandrini. Quasi contemporaneamente a Livio Andronico,
il poeta alessandrino Apollonio Rodio cercò di riportare in vita la poesia omerica e di
restituirne non solo i temi tipici, ma anche il dialetto e il linguaggio poetico, con
evidente «arcaismo». Noi non sappiamo se Livio conoscesse direttamente le
Argonautiche di Apollonio, ma l'affinità di formazione e di gusto fra il poeta nato
nella Grecia italica e i contemporanei «poeti filologi» ellenistici è indubbia.
Andronico cercò di presentarsi ai lettori in grado di intendere (una ristretta élite) come
il corrispondente degli imitatori greci di Omero del IV e III secolo a.C. Come questi
ultimi «arcaizzavano» nel tentativo di riprodurre il linguaggio poetico omerico, così
anch'egli usò intenzionalmente vocaboli e forme già in disuso ai suoi tempi, già,
appunto, arcaiche. Questa scelta poetica portò con sé a sua volta la scelta del saturnio,
che, essendo il metro dell'antica poesia oracolare, si poneva in parallelo rispetto
all'esametro, il metro in cui erano quasi sempre scritti, in una lingua che imitava
quella omerica, gli oracoli greci.
Livio Andronico traduce Omero ‘interpretandolo’: la sua interpretazione è a sua volta
determinate dall'atteggiamento con cui egli era abituato a leggere i testi greci, che era
quello di un grammaticus, di un filologo. Per avere un'idea di cosa ciò significhi
prendiamo il verso dell' Odusia più celebre fra quelli conservati, il saturnio che
traduce la prima parte del primo esametro del poema omerico:
virum mihi, Camena, insece versutum.
cantami, o Camena [= Musa], l'uomo dall'ingegno versatile.
(nel modello greco: andra moi énnepe, Mousa, polytropon).
La corrispondenza è perfetta: lo stesso è l'ordine delle parole, a parte l'inversione fra
énnepe Mousa e Camena insece; virum mihi traduce in modo letterale andra moi
l'aggettivo versutum è staccato dal sostantivo cui si riferisce, virum, come polytropon
da andra. Versutum è ricalcato su polytropon: come l'epiteto greco deriva dal verbo
trepo (volgere), così quello latino da verto, equivalente latino di trepo.
Con questa fedeltà al modello greco Andronico si pone esplicitamente come
continuatore della tradizione più nobile dell'epica greca. Nello stesso tempo però è già
presente in questo incipit l'altra forte componente della traduzione liviana, accanto a
quella che può definirsi ellenistica e filologica: la romanizzazione, qui presente in tutti
e due gli aspetti possibili, del contenuto e della forma. AI primo tipo appartiene la
sostituzione della Musa greca con una divinità locale, la Camena, ninfa delle acque.
Nevio. Negli anni della sua vecchiaia Nevio compose il Bellum Poenicum, un poema
epico in saturni che aveva come soggetto la prima guerra punica, svoltasi dal 264 al
241 a.C., a cui aveva partecipato il poeta stesso. In origine esso non era diviso in libri:
la distribuzione in sette libri di cui parlano le fonti antiche fu opera di un filologo del
secolo successivo, Ottavi o Lampadione, il quale suddivise il poema adottando
probabilmente per ogni libro la misura scelta dai filologi alessandrini per i poemi
omerici, in media cioè fra i 600 e gli 800 versi, per cui si può immaginare che il
poema fosse di 4000-5000 versi. A noi restano circa 60 tra frammenti e testimonianze.
Come abbiamo visto, il Bellum Poenicum è il primo vero poema epico in lingua latina
con un contenuto originale rispetto alla tradizione greca: questo contenuto si precisa
come rapporto fra il mito (in questo caso, il mito delle origini di Roma) e la storia (in
questo caso, la storia contemporanea).
Il poema cominciava forse con un proemio che conteneva la classica invocazione alle
Muse, cui seguiva, in quello che per i lettori di epoca posteriore fu il primo libro, il
racconto relativo alla fase iniziale della prima guerra contro Cartagine.
Nevio poi non procedeva anno per anno, partendo dalle origini di Roma per arrivare
agli eventi contemporanei, ma cominciava dal racconto dei fatti più vicini nel tempo,
e in esso inseriva la rievocazione delle origini mitiche e storiche di Roma, che
prendevano la forma di un allontanamento dal tema principale, di una «digressione».
In ciò egli si collegava alla tradizione epica: basti pensare che nei libri IX-XII
dell'Odissea Omero inseriva la narrazione delle precedenti vicende di Ulisse
attraverso il racconto fatto da quest'ultimo alla corte di Alcinoo, re dei Feaci. Il
racconto di Nevio relativo ai tempi antichi, l’ «archeologia» costituiva dunque un
racconto secondario inserito, incorniciato nel racconto principale, secondo una tecnica
ancora una volta tipicamente alessandrina. Ai poeti alessandrini spesso l'occasione per
questa digressione era offerta dalla descrizione (in greco, ékphrasis) di un oggetto. È
probabile, anche se tutt'altro che sicuro, che anche l'archeologia di Nevio prendesse lo
spunto da una descrizione. Quale? Nel 262 a.C. i Romani assediarono Agrigento,
dove si trovava un tempio dedicato a Zeus re dell'Olimpo: la testimonianza di
Diodoro Siculo ci informa che sul frontone orientale del tempio era raffigurata una
Gigantomachia, in quello orientale la presa di Troia. Forse dopo la descrizione del
frontone orientale, di cui resterebbe un frammento, Nevio descriveva anche l'altro
frontone, passando così al racconto della presa di Troia e della fuga di Enea. Alla fine
di un viaggio avventuroso, i Troiani arrivavano nel Lazio; il racconto delle origini
doveva proseguire con la fondazione di Alba Longa, fino a Romolo e alla fondazione
di Roma.
Ennio. Ennio scrisse il dodicesimo libro degli Annales quando aveva 67 anni, come
egli stesso dice; questa circostanza dimostra che, a differenza di Nevio, egli divise il
suo poema in libri, uniformandosi a una prassi della letteratura ellenistica. Con il suo
poema Ennio continua la tradizione del poema epico di argumento storico inaugurata
dal Bellum Poenicum di Nevio; rispetto al suo predecessore però egli non opera una
selezione di fatti da narrare e si propone piuttosto di ripercorrere l'intero arco
cronologico della storia di Roma, secondo uno schema annalistico, come indica
chiaramente il titolo, Anna/es, che si rifà esplicitamente alle antiche cronache redatte
anno per anno dai pontefici. La struttura del poema può essere ricostruita nel modo
seguente:
Libri I-III: arrivo di Enea nel Lazio, fondazione di Roma, periodo della monarchia;
libri IV-VI: guerre per la conquista dell'Italia, guerra contro Pirro; libri VII-X: guerre
puniche; libri X-XII: guerra di Macedonia; libri XIII-XVI: spedizione di Fulvio
Nobiliore contro gli Etoli e vittoria di Ambracia, guerre in Siria; libri XVI-XVIII:
campagne militari più recenti, fino a poco prima del 169 a.C., anno della morte del
poeta.
Il segno più vistoso della svolta che l'epica di Ennio voleva rappresentare rispetto alla
traduzione omerica di Livio Andronico e al Bellum Poenicum di Nevio fu senz'altro la
scelta dell'esametro in sostituzione del saturnio. Questa innovazione metrica
significava una rottura sia pur parziale con la tradizione poetica italica, adesione ai
principi e ai canoni della poesia alessandrina, ripresa della tradizione greca classica
attraverso il filtro e la mediazione della letteratura alessandrina. E proprio seguendo
uno dei canoni della poesia alessandrina, di Callimaco in particolare, Ennio presentò
nel poema questo suo programma, e per le sue dichiarazioni di poetica scelse
innanzitutto, ancora secondo un uso alessandrino, l'inizio del poema, il proemio.
Questo è probabilmente il verso iniziale degli Annales:
Musae, quae pedibus magnum pulsatis Olympum.
O Muse, che con i piedi battete il grande Olimpo.
Iniziando il suo poema con un'invocazione alle Muse, Ennio si contrapponeva a Livio
Andronico, il quale aveva tradotto Mousa del primo verso dell'Odissea con Camena,
nome di una divinità italica legato da una etimologia popolare al verbo cano
(cantare»). Ennio, anziché cercare una divinità latina che potesse corrispondere
alla Musa, divinità greca del canto poetico, «traslitterò», cioè trascrisse nel sistema
alfabetico latino il nome greco, rifacendosi direttamente a Omero.
Ma l'immagine delle Muse che danzano è tratta dal proemio della Teogonia di Esiodo:
nel giro di un solo verso dunque Ennio fonde i due grandi modelli, Omero ed Esiodo,
dell'epica greca arcaica, alla quale dichiara in questo modo di ricollegarsi; nello stesso
tempo, intrecciando fra loro due diversi modelli, rivela un gusto alessandrino. E nello
stesso tempo ancora mostra di non rinunciare all'eredità della poesia romana:
l'elemento tipicamente romano è dato dall'espressione pedibus pulsatis, non solo per
la presenza dell'allitterazione, il più tipico tratto stilistico della poesia sacrale italica e
romana, ma perché questo nesso allitterante, richiamando il ricordo di danze rituali,
come il tripudium dei sacerdoti Salii, rimandava alla tradizione sacrale in cui la poesia
latina affondava le sue più lontane radici.
Dopo l'invocazione alle Muse e prima dell'inizio della narrazione, Ennio raccontava
un sogno in cui era rappresentata simbolicamente la propria missione poetica:
... visus Homerus adesse poeta.
... mi parve che fosse lì il poeta Omero.
Esiodo all'inizio della Teogonia raccontava di aver incontrato le Muse sul monte
Elicona e di essere stato consacrato poeta da queste. Callimaco aveva ripreso
l'episodio esiodeo nel prologo della raccolta dei suoi Aitia, collocando il proprio
incontro con le Muse entro la cornice di un sogno: addormentatosi in
Libia, era stato trasportato in sogno sull'Elicona, dove le Muse lo avevano esortato a
narrare le «origini» (gli aitia, appunto) di riti, di culti ecc. Ennio dava tuttavia al
sogno un contenuto nuovo, profondamente radicato in una concezione filosofica, il
pitagorismo, a cui lo stesso Ennio aveva dedicato una trattazione nell'Epicharmus.
Omero non si limitava, per così dire, a consegnargli il testimone, «Iaureandolo» poeta
epico: gli rivelava che la sua anima si era reincarnata in lui. Ennio si presentava così
come il nuovo Omero, non sulla base di un generico orgoglio di poeta, ma fondandosi
sulla dottrina pitagorica della metempsicosi, secondo la quale l'anima, divina e
immortale, discenderebbe dal cielo nei corpi degli esseri ' viventi, in un ciclo
perpetuo.
Parafrasando la celebre frase con cui Ennio attribuiva a se stesso tre cuori, cioè tre
identità linguistiche e culturali - osca, greca e romana - possiamo dire che dalla lettura
dei frammenti degli Annales emergono tre anime di Ennio poeta epico: quella
omerica, quella alessandrina, quella romana.
1. Componente omerica. I poemi omerici furono un modello per la struttura
narrative degli Annales. Da questo grande repertorio di situazioni epiche
Ennio attinse il vero e proprio armamentario epico del suo poema: intervento
degli dei nelle azioni umane, battaglie di massa e duelli, discorsi diretti,
similitudini con aspetti del mondo della natura.Dietro ogni scena di Guerra
doveva esserci quasi sempre un modello omerico, più o meno ampio.
2. Componente alessandrina. Scelte di poetica; poeta-filologo; tendenza
all’autorappresentazione; tecnica del sogno premonitore; descrizione di
spettacoli naturali.
3. Componente romana: celebrazione dei valori romani; gusto del patetico;
sonorità descrittiva.