La Passione dell`anima di Cristo

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La Passione dell`anima di Cristo
La Passione dell’anima di Cristo
La Passione del Signore è un segreto di Dio e uno dei più abissali. Solo lo Spirito che
era in lui conosce questo segreto e nessun altro, perché la sofferenza è tale che la
conosce veramente solo colui che l’ha sofferta.
Ci affidiamo perciò allo Spirito e a lui chiediamo umilmente di farci assaporare
almeno qualche goccia del suo calice.
“Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi…Dio dimostra il suo
amore verso di noi perché mentre eravamo ancora peccatori Cristo è morto per noi”
(Rom. 5, 6-8).
I termini reali della Passione sono: Dio, il peccato e, di mezzo, Gesù. Gesù appare
come il condannato, il maledetto: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo
trattò da peccato in nostro favore” (2 Cor. 5,21). Cristo è diventato lui stesso
“maledizione per noi” (Gal. 3,13).
Queste affermazioni aprono orizzonti abissali sulla passione; c’è una passione
dell’anima di Cristo che è l’anima della passione, quella che conferisce ad essa il
valore unico e trascendente. Egli infatti “si è caricato delle nostre sofferenze, si è
addossato i nostri dolori” (Is. 53,4).
Nel Getsemani gli apostoli si trovano davanti a un Gesù irriconoscibile. Gesù
“cominciò a sentire paura e angoscia e disse ai discepoli: la mia anima è triste fino
alla morte. Restate qui e vegliate” (Mc. 14, 33).
I gesti che egli compie sono i gesti di una persona che si dibatte in un’angoscia
mortale: si getta bocconi per terra, si alza per andare dai suoi discepoli, torna a
inginocchiarsi, poi si leva di nuovo. Dalle sue labbra esce la supplica: “Abba, Padre!
tutto è possibile a te, allontana da me questo calice” (Mc.14, 36).
L’immagine del calice evoca nella Bibbia l’idea dell’ira di Dio contro il peccato.
Dice Paolo: “L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà” (Rom.1, 18). Dove
c’è il peccato, là non può non appuntarsi il giudizio di Dio contro di esso, altrimenti
verrebbe a cadere la stessa distinzione tra il bene e il male. Ora, Gesù nel Getsemani,
è l’empietà, tutta l’empietà del mondo. Egli è l’uomo “fatto peccato”.
Cristo, è scritto, “morì per gli empi”, al loro posto, non solo a loro favore. E’ contro
di lui che si rivela l’ira di Dio e questo è “bere il calice”. In altre parole i peccati
erano su di lui, li aveva addosso, perché se li era liberamente addossati. Egli “portò i
nostri peccati nel suo corpo” (1 Pt. 2,24).
Gesù entra nella “notte oscura dello spirito” che consiste nello sperimentare,
simultaneamente e in modo intollerabile, la vicinanza del peccato e, a causa di ciò, la
lontananza da Dio.
In Gesù, nel Getsemani, trovano la loro realizzazione le parole di Isaia: “schiacciato
per le nostre iniquità; il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui” (Is. 53,5).
Si avverano anche le parole di tanti Salmi, come quelle del Salmo 88: “sopra di me è
passata la tua ira, i tuoi spaventi mi hanno annientato”.
Egli è l’Agnello di Dio “che porta su di sé il peccato del mondo” (Gv. 1, 29). La vera
croce che Gesù prese sulle sue spalle, che portò fino al Calvario e alla quale fu poi
inchiodato, fu il peccato. E poiché Gesù porta il peccato, Dio è lontano; per di più,
Dio è la causa del suo maggior tormento. L’attrazione infinita che c’è tra il Padre e il
Figlio è ora attraversata da una repulsione altrettanto infinita. La somma santità di
Dio si scontra con la somma malizia del peccato, creando nell’anima del Redentore,
una tempesta indicibile: ”l’anima mia è triste fino alla morte”. E il sudore di sangue?
Gesù ha vissuto la situazione limite in assoluto.
Dio non è la causa di questa sofferenza; è vero però anche questo che è l’aspetto più
profondo della passione. La volontà di Dio, infatti, che nessuna mente umana può
definire e che è eternamente congiunta a Cristo, rivelò a lui il culmine di tutti i dolori.
Un dolore acutissimo, indescrivibile, dispensato dalla volontà divina, così intenso che
nessuna mente è così grande e capace di comprendere.
La volontà di Dio fu la fonte e l’origine di tutti i dolori che vennero in Gesù; da essa
derivarono e in essa si compirono.
E sulla croce, Gesù, ha vissuto il vero anatema, separato da Dio a vantaggio dei
fratelli: “Dio mio, Dio mio - ha gridato - perché mi hai abbandonato?” (Mt. 27, 46).
Gesù ha trasformato l’immenso “no” degli uomini in un “si”, in un “Amen” ancora
più immenso, tanto che ora attraverso lui sale a Dio il nostro Amen per la sua gloria.
Ma che cosa tutto questo ha comportato per l’anima umana del Salvatore? Nessuno
mai potrà saperlo, né descriverlo. Nessuno conosce la passione del Figlio se non il
Padre. La passione di Cristo rivela il dolore in Dio e Dio nel dolore.
“Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede
in lui non muoia ma abbia la vita eterna” (Gv. 3,16). Dio soffre sulla croce come
Padre che offre, come Figlio che si offre, come Spirito Santo che è l’amore
promanante dal loro amore sofferente. La croce è storia dell’amore trinitario di Dio
per il mondo: un amore che non subisce la sofferenza ma la sceglie.
Storia del Figlio, storia del Padre, la Croce è parimenti storia dello Spirito Santo:
“chinato il capo consegnò lo Spirito” (Gv. 19,30). Il Crocifisso consegna al Padre
nell’ora della Croce lo Spirito che il Padre gli aveva dato, e che gli sarà ridato in
pienezza nel momento della risurrezione: il Venerdì Santo, giorno della consegna che
il Figlio fa di sé al Padre e che il Padre fa del Figlio alla morte per i peccatori, è il
giorno in cui lo Spirito è consegnato dal Figlio al Padre suo, perché il Crocifisso resti
abbandonato, nella lontananza da Dio, in compagnia dei peccatori.
Gesù Crocifisso interpella la mia vita: sono disposto a leggere la mia vita nella
Croce?; so riconoscere la Croce nella mia vita?; come vivo l’esperienza della Croce?;
in che misura aiuto i fratelli, le sorelle, a portare la loro Croce?
Verona, 8 marzo 2012
Sac. Giovanni Cremon