Bugiarda Una volta alle elementari il pullman è morto mentre
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Bugiarda Una volta alle elementari il pullman è morto mentre
Bugiarda Una volta alle elementari il pullman è morto mentre tornavamo a casa dalla gita sulla neve. Si è spento tutto, anche il riscaldamento, e fuori nevicava e i cellulari non avevano campo. Faceva sempre più freddo ed era quasi buio, e mentre tutti piangevano e si stringevano insieme ho preso un foglietto dal blocco di Barbie e ho iniziato a scrivere. Ho scritto alla mia mamma e le ho chiesto scusa per tutte le volte che avevo detto di odiarla, scusa per essere stata una bambina cattiva e aver rotto il soprammobile di cristallo a forma di fenicottero, scusa per aver creduto che non le importasse niente di me. Le ho detto che le volevo tanto tanto bene e che non doveva dimenticarlo mai, qualunque cosa fosse successa. E poi sono venuti a recuperarci i soccorsi, due ore e mezza dopo, ci hanno dato della cioccolata calda, ci hanno detto che eravamo stati coraggiosi, ci hanno riportati nel piazzale davanti alla scuola. In mezzo a tutte quelle mamme e quei papà in lacrime con coperte di pile e borse dell’acqua calda strette in mano, lì in mezzo per me mia madre aveva mandato la governante. Quella sera ho accartocciato il foglietto del blocco di Barbie, l’ho gettato nella tazza e ho tirato l’acqua due volte. Il bar è piccolo, una tavola calda sulla statale. Il muro accanto al parcheggio è tappezzato di graffiti, Laura ti amo come non ho mai amato nessun’altra, Carlo sei l’aria che respiro l’unico posto in cui voglio stare è al tuo fianco, Terry sei la mia vita ti prego non andartene mai ti giuro morirei. Così tante bugie, così poca punteggiatura. Seduta a un tavolino di plastica rossa bruciato dalle sigarette, osservo una famiglia che scende dalla macchina. E’ una grande monovolume, vernice rossa scrostata, un grosso crocefisso di legno appeso allo specchietto. I cinque bambini sono vestiti con tessuti naturali e stanno cantando una canzone da boy-scout, qualcosa sul fare del proprio meglio e aiutare il prossimo come Dio ha aiutato noi. Il più piccolo ha in mano una gabbietta per i criceti e sta infilando un bastoncino tra le sbarre per far muovere la ruota. Ordinano panini uova e tonno, ringraziano il Signore per tutta quella roba buona, poi mi vedono e mi invitano a sedere al loro tavolo. Non c’è bisogno che mangi da sola, davvero, c’è spazio anche per me. E’ gente così garbata, così caritatevole. La madre prende un bicchiere di plastica e me lo riempie di tè caldo. «Allora, tesoro, come ti chiami? Avanti, dimmi qualcosa di te!» Sorride, appoggiando la mano sulla mia. «Sono Anna, ho ventidue anni. Non è che sia molto interessante, in realtà, frequento l’università e per ora i miei voti sono alti, ma non vorrei parlare troppo presto, la laurea è ancora lontana!» Rido appena, attorcigliando un tovagliolo di carta tra le dita. «E poi, be’, c’è il volontariato, sa, nella casa di riposo del paese, cerco di andarci ogni finesettimana, a volte non riesco perché devo studiare, ma ci provo. E’ sempre bello sapere di fare del bene, di aiutare qualcuno.» Il sorriso della donna si allarga. «Oh, sul serio? E’ meraviglioso! Davvero, non si trovano più tante ragazze come te in giro. Hai, sentito, tesoro?» Si volta verso il marito. «Volontariato! E’ come ci siamo conosciuti, ricordi? La signora Bellocchio credeva fossimo suoi nipoti!» Gli dà un bacio sulla guancia. «Allora... Anna, vero? Cosa ci fai qui tutta sola, Anna?» Mando giù un sorso di tè, pensando a come rispondere. «Vado a trovare mia nonna. Sa, abita lontano, in un paesino di campagna, non c’è nemmeno la ferrovia. Non ho la patente, quindi sto cercando di arrivarci in autostop...» Un po’ troppo Cappuccetto Rosso, forse. «A proposito, ho visto che andate nella mia stessa direzione, sarebbe troppo scortese chiedervi un passaggio?» «Oh, tesoro, certo che no, non c’è problema, abbiamo giusto un posto libero in macchina, considerati nostra ospite!» Abbasso lo sguardo. «Davvero non è un disturbo? Posso sempre chiedere a qualcun altro, non ho fretta...» «Non dirlo nemmeno, se non accettassi di venire mi offenderei, dico sul serio!» Non è che mi aspettassi una festa di compleanno, davvero. Avevo dieci anni, avevo smesso da tempo di farmi illusioni. Magari un regalo, ecco, uno piccolo. O un biglietto. O degli auguri appena sveglia. Qualcosa, qualunque cosa. Quando sono scesa in cucina con il pigiama azzurro a fiorellini, mia madre era seduta al tavolo davanti a una tazza di caffè e al giornale. Ha alzato appena lo sguardo per chiedermi come mai non fossi ancora vestita e dirmi di muovermi, o sarei arrivata tardi a scuola. Ed è in quel momento che ho sperato che stesse fingendo, le feste a sorpresa funzionano così, no? Prima convinci tua figlia che oh, ti eri proprio scordata che oggi fosse il suo compleanno, e poi più tardi, o nel pomeriggio, o dopo cena, prima o poi un mucchio di gente salta fuori da dietro il divano lanciando palloncini. Ero già a letto quella sera quando mia madre è entrata nella stanza. Non c’era stata nessuna festa a sorpresa, nessun regalo, nessun biglietto. Per gli auguri appena sveglia non c’era nemmeno da discutere. E’ entrata e si è avvicinata con le braccia incrociate, e ha detto che ero una stupida, avrei dovuto ricordarle del mio compleanno, invece di farle fare la figura dell’idiota davanti a sua sorella. Ha preso il portafogli e ha posato il bancomat sul comodino, perché mi comprassi qualcosa da sola dopo la scuola. E poi è uscita sbattendo la porta, e io sono rimasta a piangere nel cuscino accartocciata sotto il piumone. Buon compleanno a me. «Allora, dolcezza... Ti chiami Denise, vero?» Annuisco nello specchietto, mentre mi sistemo il mascara. Proviene tutto dal cruscotto, e ci sono anche due matite nere per occhi, un barattolo di fondotinta, una scatola di ombretti in polvere e cinque rossetti fucsia. Più o meno l’intero reparto trucchi di un supermercato. Jessica mi lancia uno sguardo di approvazione. «Un nome adorabile, davvero adorabile, dolcezza.» Jessica dev’essere stata bella, qualcosa come vent’anni fa. Ora ha rughe intorno agli occhi che il trucco pesante non riesce a coprire, e almeno cinque centimetri di ricrescita oltre il biondo slavato dei boccoli pettinati da un lato, in un’impalcatura di forcine e lacca. L’auto è vecchia e riverniciata di rosa shocking. Fuori, una coda di quattro chilometri per un tamponamento a catena. «E così sei stata a un concorso di bellezza?» Prende un flacone di pillole dalla borsetta, e ne ingoia un paio senz’acqua. «Io ne ho visti tanti. Premio per il sorriso più bello, oh sì. Sono stata qualcuno. Sono stata splendida. Sono anche andata in televisione, sai? Un film, dirai tu. Una serie di successo. Insomma, guardami. Ma no, non pensavano che fossi... Com’è che hanno detto? All’altezza. Non pensavano che fossi all’altezza! Pubblicità. Dentifricio, carta assorbente, olio di semi di girasole. Ecco cosa. Olio di semi di girasole. Stai attenta, dolcezza, è un mondo marcio dentro.» «Oh, non me lo dica. Secondo posto. Al concorso, intendo. Ha vinto una sgualdrina che di certo è andata a letto con uno dei giudici, è l’unica spiegazione. Un’indecenza.» Schiocco le labbra rosa e inizio a ritoccare le sopraciglia con un paio di pinzette. «Una vera indecenza.» «Vedo che capisci. Ero esattamente come te, un tempo. Giovane. Bella.» Si controlla nello specchietto retrovisore, tendendo la pelle delle guance con le dita. «E’ ancora splendida, davvero. Vorrei essere come lei.» Ride, e da qualche parte nella sua bocca manca un dente. «E chi non lo vorrebbe? Voglio dire, cerco di tenermi in forma. Essere brutta è la cosa peggiore che possa succedere a una donna, non trovi?» «Naturalmente. C’è chi nasce intelligente, c’è chi è bravo in qualcosa, fotografia, disegno, nuoto agonistico. Tutte grandi qualità, sul serio. Ma la gente quando vede qualcuno non dice “oh, quella ragazza è un genio in matematica”, dice “oh, quella ragazza ha le gambe storte e troppo magre e scusa, quel pullover era di sua nonna?”. E’ questo che conta.» «Sono felice di vedere che qualcuno dice ancora le cose come stanno. Alcune persone sostengono che la bellezza debba essere solo interiore. Di solito sono persone molto brutte, chissà perché. Oh, è un mondo molto, molto marcio. Vuoi metà della mia barretta dietetica, dolcezza?» E mentre mastico un pezzo di quello che sembra mangime per polli pressato chiudo la trousse, prendo una spazzola e inizio a pettinare i capelli da un lato. Mi servirà un’impalcatura di forcine e lacca. Ci sono ancora tre chilometri e mezzo di coda. Una mattina sono entrata in bagno per lavarmi i denti, e lui era lì. Alto, giovane, capelli scuri. Aveva l’accappatoio di mia madre addosso, quello con i bordi delle maniche in pizzo, quello che non mi lasciava mai usare perché non lo rovinassi. Forse era un molestatore, magari un serial killer. Doveva essersi introdotto in casa durante la notte, e si era messo l’accappatoio perché i suoi vestiti erano sporchi di sangue e cervello umano e tutte quelle cose che si vedono nei film. Poteva aver ucciso mia madre e avere intenzione di uccidere anche me, e poi ci avrebbe rubato un paio di soprammobili, avrebbe inscenato una rapina e sarebbe fuggito a placare la sua sete di sangue all’estero per depistare gli inquirenti. Ho urlato. Forte, fortissimo. Mia madre è uscita dalla doccia, gli ha circondato la vita da dietro, in punta di piedi, e gli ha baciato il collo con gli occhi chiusi. Poi mi ha guardata e mi ha chiesto che avessi da strillare, c’erano quattro bagni in casa, andassi a lavarmi i denti da un’altra parte. Mentre uscivo col mio spazzolino a forma di rana stretto in mano l’ho vista abbracciarlo, premuta contro le piastrelle. Ci sono stati rumori strani, tonfi, ansiti. Avevo un nuovo papà. «Sì, so perfettamente che il direttore aveva un appuntamento alle quattro, sarei la sua segretaria, o le era sfuggito? No, le sto dicendo che prima delle sei non riesce a liberarsi. Si inventi quello che le pare, non è un problema mio, credevo di avere a che fare con un professionista.» Stringo il microfono dell’auricolare tra due dita e lo avvicino di più alla bocca, pronta a sibilarci dentro di nuovo. Oggi sono Claudia, ho ventisei anni. Ho anche una laurea in economia e commercio e una radicata idiosincrasia per gli incompetenti, tra le altre cose. Oggi so persino cosa voglia dire, idiosincrasia. «Che strano, ero convinta di aver detto “non prima delle sei”, ma posso capire che suoni straordinariamente simile a “le cinque e un quarto”, è naturale.» Seduto al posto del guidatore c’è un dirigente d’azienda. Camicia di lino chiusa fino all’ultimo bottone, cravatta di seta, spilla d’oro con l’iniziale del cognome. Ricchezza e potere. Oggi sono il mio pane quotidiano. «Non mi interessa se il cliente arriva da Parigi, aspettare un paio d’ore non lo ucciderà. Gli serva un drink e lo tenga impegnato.» Dietro ci sono i figli, cinque e sette anni. Guardano lo stesso cartone animato su due lettori dvd diversi, sfasati di qualche secondo. Le cuffie sono nere e grandi e loro sono così piccoli che sembra ne vengano divorati. «Cosa vuol dire, che non sa il francese? Parlerò con chi l’ha assunta, è inconcepibile.» Il dirigente d’azienda guarda fisso davanti a sé. I bambini sono incollati ai loro piccoli schermi. Nessuno dice niente, c’è solo silenzio e imbarazzo e il rumore della strada sotto le ruote. E io che sbraito nell’auricolare, naturalmente, ma questa è un’altra storia. «Cosa vuole che faccia, cerchi un interprete. Se non erro Susanna ha studiato lingue al liceo. Susanna, razza di idiota. Quella della contabilità.» Il padre si volta verso i figli e chiede come va la scuola, se si trovano bene con la mamma. Dice che sono quasi degli ometti, ormai. I bambini non rispondono, ma si premono le cuffie contro le orecchie. «Se Susanna è in maternità si informi sugli altri dipendenti, sono circa duecento, ci sarà qualcuno che abbia una zia in Francia o che so io. Si muova. Adesso.» Il dirigente d’azienda si gira ancora una volta e fa per dire qualcosa, ma si blocca e torna a guardare la strada. La gente non pensa mai che sia così difficile essere un buon padre, che ci voglia così poco a vedere nei propri figli degli estranei. Non pensa che li si possa perdere così in fretta. «Non mi importa se si sente ridicolo, ringrazi di non essere sbattuto fuori, le manca tanto così. Gradirei che mi costringesse a urlarle contro, grazie.» Seduta rigidamente contro lo schienale, lo sguardo perso sulle rifiniture delle portiere, mi rigiro una ciocca di capelli tra le dita e conto, uno, due, tre, finché il mio interlocutore non avrà avuto tempo di rispondere. Ascolto il silenzio dall’altra parte del filo, e penso a cosa dire. L’auricolare è collegato a una scatoletta di mentine vuota che ho trovato in una piazzola dell’autostrada. Quando sono uscita per andare a lezione di pianoforte il mio nuovo papà era in macchina, sul vialetto. Di certo stava aspettando mia madre, sarebbero andati a teatro, o al cinema, o in un ristorante lussuoso. O in un hotel, e non sarebbero tornati fino alla mattina seguente. Ma quando sono passata vicino all’auto la portiera si è aperta e il mio nuovo papà mi ha detto di salire, mi avrebbe accompagnato lui a lezione, davvero, non era un problema. Quando siamo arrivati è rimasto ad ascoltare per tutto il tempo, seduto su in un angolo. Quando siamo usciti ha detto che ero stata bravissima, che non aveva mai sentito nessuno suonare così. Mi ha offerto una cioccolata calda con panna, mi ha regalato quel paio di stivali alti di cui parlavo da giorni. E poi non ha più smesso, non si è più perso una lezione, non è più tornato da un viaggio di lavoro senza portarmi qualcosa, una borsa, un profumo, un braccialetto. Non si è più dimenticato di augurarmi la buonanotte, nemmeno una sera. Mia madre non c’era mai stata. Gare sportive, saggi di danza, spettacoli di fine anno. Mai una volta. Il mio nuovo papà era la cosa migliore che mi fosse mai capitata. L’ultima luce del sole si staglia rossa e dura contro l’orizzonte, oltre il finestrino rigato da acqua piovuta settimane, forse mesi fa. Stanotte è un camion, di quelli grandi che trasportano mobili per cucine. Stanotte è un uomo di quarant’anni che indossa una maglietta con il disegno di un boccale di birra e aloni di sudore sotto le ascelle. Accanto al volante è posato un cappellino con l’immagine di una donna e tre bambini e la scritta “Il papà migliore del mondo”. Sotto, cinque o sei foto attaccate con scotch ingiallito. Stanotte sono Maurizia, ho vent’anni e una figlia, e sto tornando da lei in autostop perché hanno annullato il mio volo. Stanotte l’uomo versa una lacrima, mentre gli dico quanto mi manchi la mia famiglia e quanto mi pesi lavorare così lontano da casa. Si asciuga la guancia con uno scatto della mano, e indica una delle foto. «Vedi lei? E’ mia moglie, Elena. E’ bellissima. L’ho conosciuta in un bar, ero ubriaco fradicio, lei lavorava come cameriera. L’ho baciata e mi ha tirato un pugno nello stomaco. Le ho vomitato addosso, e mentre la aiutavo a lavarsi, be’, sai, è successo. Colpo di fulmine, amore a prima vista, quella roba lì.» Tira su col naso e passa alla foto accanto. «Loro sono Alberto e Luca. Gemelli. Elena voleva una femmina, le è venuto un colpo quando ha scoperto che erano due maschi insieme. Ma tanto poi la femmina l’ha avuta, vedi questa qui che corre nel prato con le dita sporche di fango? Non è esattamente fango. Comunque è Caterina. La mia principessa.» Accarezzo la foto. E’ di carta da fotocopie, stampata al computer. «E’ bellissima. Mi ricorda tanto la mia Aurora. Ho preso il nome da un cartone animato, mio marito continuava a dire che era stupido, ma alla fine piace anche a lui. E’ il nostro raggio di sole, quindi le si addice. Non è che l’avessimo proprio prevista, ma è stata una sorpresa meravigliosa. La mia famiglia è tutto per me.» «Lo so. Anche per me. E’ uno schifo poterli vedere così poco.» Abbassa il finestrino e sputa la gomma oltre il guardrail. «Un vero schifo. Uno schifo assoluto. Sai che mi sono perso la prima parola di Caterina? Ed era “papà”.» Appoggio i piedi sul cruscotto e apro una lattina di birra. «Io mi sono persa la prima parola, i primi passi, il primo dentino. Anche il suo primo compleanno, il mese scorso. Mi sono persa più o meno tutto.» Abbassa di nuovo il finestrino e appoggia il braccio sul bordo. Con l’altra mano sta cercando di scartare un panino alle cipolle. «E poi c’è gente che con i figli ci può stare e li ignora. Un calcio sulle palle si meriterebbero, ecco cosa. Un calcio sulle palle.» Prende il cappellino con le dita unte, se lo calca in testa e non dice più niente. Io mi appoggio al finestrino, e guardo le luci bianche e gialle di una città in lontananza. A quest’ora, da qualche parte, la mia famiglia mai esistita si sta preparando per andare a letto. Una sera il mio nuovo papà mi ha baciata. Ero appena uscita dalla doccia, e avevo addosso solo gli orecchini che mi aveva regalato mia madre per i miei diciotto anni, la settimana precedente. Diciotto anni li avevo compiuti il mese prima, ma era già meglio di niente. Il mio nuovo papà è entrato, mi ha sollevato il viso e ha premuto le labbra contro le mie. Puzzava di alcool. Ho cercato di scostarlo, ma mi ha schiacciata contro le piastrelle. Ho urlato. Forte, fortissimo, come la prima volta che l’avevo visto in quello stesso bagno e avevo creduto fosse un serial killer. Mia madre era fuori, ed era la serata libera delle domestiche. Non è venuto nessuno. Premuta addosso alla ceramica fredda, l’ho sentito entrarmi dentro con pochi colpi secchi. Mi ha fatto male. Ho pianto, ho implorato. Mi ha morso la spalla mentre veniva. Gli ho chiesto per favore, per favore, di smetterla. Gli ho detto che non era in sé. Non mi ha ascoltato. Quando ha finito mi ha chiusa in bagno, e sono rimasta a singhiozzare sulle piastrelle macchiate di sangue. La mia prima volta non me l’ero aspettata proprio così. «A sinistra, ti avevo detto di svoltare a sinistra!» «Non è colpa mia se le indicazioni non sono precise, sai?» «Ti propongo un’idea innovativa, perché, non so, non provi a darmi retta di tanto in tanto? Magari se mi avessi ascoltata non ti avrebbero nemmeno licenziato, tanto per fare un esempio, che dici?» «Dico che mi sembra molto facile parlare quando si è casalinghe da vent’anni, e dico anche che sarebbe bello vederti cercare un lavoro, invece di non fare niente!» «Oh, è naturale, io non faccio niente, perché il tuo cibo si cucina da solo e i tuoi vestiti tornano puliti per influssi divini, non è vero? Guarda, non fosse per la bambina tornerei a vivere dai miei!» La bambina, cinque mesi, sta dormendo in un seggiolino sul sedile accanto al mio, con un filino di bava che le cola sul mento. Prendo un fazzoletto di carta e glielo asciugo. Oggi sono una baby-sitter, e il mio ragazzo mi ha abbandonata in una piazzola dell’autostrada perché abbiamo litigato. Oggi ho tutta l’intenzione di andare a staccargli le dita e fargliele ingoiare, e dopo potrei offrirgli un bel bicchiere di idraulico liquido, giusto per non lasciare un lavoro a metà. Oggi era impossibile che questa donna non insistesse per caricarmi in macchina. «Ci terrei a ricordarti che quando ti ho lasciato a casa da solo una sera hai rotto due piatti e tre bicchieri e ci è mancato tanto così che non accecassi nostra figlia!» «Una volta, è successo una volta!» «Certo che è successo una volta, perché non ti ho dato altre occasioni, o a questo punto sareste tutti e due in ospedale! Ma no, devi sempre avere ragione tu, non è vero? Non ti assumi mezza colpa, non mi dai mai una mano, oh, ma aspetta, sono quasi arrivata al limite, inizio davvero ad averne abbastanza!» «Inizi ad averne abbastanza? Inizi? Forse ti è sfuggito, ma sono mesi che sei inavvicinabile, non è che magari è questa cosa della bambina?» «Magari è che sono preoccupata, tu che dici? Sai com’è, abbiamo appena avuto una figlia e tu sei disoccupato, lasciami nutrire qualche dubbio su come vivremo d’ora in avanti.» «Non tirare di nuovo fuori questa storia, sai che mi hanno licenziato solo perché io ho una mia dignità professionale!» «Sì, be’, vacci a comprare il pane, con la tua dignità professionale! O i pannolini, o le medicine, o il latte in polvere, o i giochi, fai tu, hai solo l’imbarazzo della scelta!» «Magari se tu non avessi speso tutti quei soldi per la nuova lavatrice avremmo meno problemi, sai? Così, giusto per fare un’ipotesi.» «Ma certo, quella vecchia ci ha solo allagato il bagno, hai ragione, è stato stupido da parte mia volerne comprare un’altra! O pensavi che sarei andata a lavare i panni al fiume? Perché sai, in questo caso potremmo anche iniziare a vestirci con sacchi di iuta e allevare maiali, perché no?» La bambina inizia a piangere e apre gli occhi, e io li chiudo perché so che sta per arrivare un nuovo litigio su quanto stiano già rovinando la vita alla loro unica figlia dopo solo cinque mesi. Altre urla, altre lacrime, altra rabbia. Ero di nuovo in quel bagno, tre settimane dopo tutto quello che mi aveva fatto il mio nuovo papà. In piedi davanti al lavandino, con un test di gravidanza stretto in mano, guardavo l’orologio e imploravo, ti prego, ti prego, fa’ che ci sia una sola linea. Una sola linea. Ti prego, per favore, una sola linea. Per favore. Quando ho abbassato lo sguardo le linee erano due. Ho soffocato un singhiozzo nella manica della felpa. Ora potevo abortire oppure tenere il bambino, non c’era una terza opzione, nessun aiuto del pubblico, nient’altro. Ma era una scelta davvero troppo, troppo grande, quindi ho fatto quello che tutte le persone fanno davanti alle scelte troppo, troppo grandi: sono scappata. Ho buttato un paio di pantaloni e qualche maglietta in una borsa, me la sono messa a tracolla e ho preso le chiavi della macchina. Mezzora dopo ero più o meno a trenta chilometri da casa, in un bar piccolo, una tavola calda sulla statale. Il muro accanto al parcheggio era tappezzato di graffiti, Laura ti amo come non ho mai amato nessun’altra, Carlo sei l’aria che respiro l’unico posto in cui voglio stare è al tuo fianco, Terry sei la mia vita ti prego non andartene mai ti giuro morirei. Così tante bugie, così poca punteggiatura. La donna di oggi ha circa cinquant’anni, un paio di occhiali dalla montatura sottile e macchie di penna rossa sulla punta delle dita. Se me l’avesse chiesto io sarei stata Ambra, una laureanda in lettere con un amore incondizionato per le opere teatrali di Pirandello. Magari avrei avuto un paio di fratelli e avrei dato ripetizioni di latino alla figlia dei vicini. Siamo in un’area pic-nic al bordo della strada, ora, nulla più che un paio di tavoli smangiati dalle termiti e un cestino per l’immondizia. Abbiamo preso pollo e involtini primavera in un ristorante cinese, e li stiamo mangiando con le bacchette. Tra poco avremo finito, lei ripartirà e io resterò qui ad aspettare di essere Monica, o Serena, magari Cassandra. Si possono inventare così tante storie da non doversi fermare mai. «Allora... Non ti ho nemmeno chiesto come ti chiami, e forse ora non è più così importante, ma mi piace fare conversazione durante i pasti, quindi dimmi di te.» Alzo lo sguardo dal mio pollo alle mandorle. «Oh. Certo. Sono Ambra. Studio lettere, adoro Pirandello, ho due fratelli minori. E basta, voglio dire, nel tempo libero do ripetizioni di latino alla figlia dei vicini, ma in effetti non è più esattamente tempo libero. Non c’è altro, davvero. Non sono poi tanto interessante.» Lei mi squadra attraverso gli occhiali. Si porta alla bocca un involtino, e corruga la fronte. «Una gran bella storia, davvero ben costruita. Ora, sul serio, chi sei? Vorrei la verità, grazie. Sai, mi piace la verità. E’ solo una, non puoi sbagliarti.» Le bacchette mi cadono a terra. Il pollo si rovescia sul tavolo. La donna continua a masticare il suo involtino. E io sospiro, accartocciata sulla panchina con le ginocchia strette tra le braccia, e le dico tutto. Le dico di quella volta che il pullman è morto mentre tornavamo a casa dalla gita sulla neve. Le dico del mio decimo compleanno. Le dico di quando sono entrata in bagno e ci ho trovato un uomo, di quando mi ha accompagnata alla lezione di pianoforte, di quando mi è entrato dentro contro le piastrelle del bagno. Le dico che sono incinta, e che sto scappando da tutto, e che ho tanta, tanta paura. La donna non dice niente. Si toglie gli occhiali e li pulisce con un lembo del foulard. Controlla che non siano rimaste impronte, e se li appoggia sul naso con un dito. Mi guarda di nuovo, e congiunge le dita all’altezza del mento. «E’ strano, sai? Credevo di averti chiesto la verità.» La verità. La verità, be’, è che non è vero niente. Tutto quello che ho raccontato, il dolore, la sofferenza. Niente. Mentire è sempre stata l’unica cosa in cui sono davvero brava. A nessuno interessa nulla della figlia di un operaio e di una cassiera. Nessuno vuole sapere la sua storia, nessuno vuole sapere che non sta scappando da niente, che è in viaggio senza una meta, solo per vedere il mondo, solo per scoprire fin dove riesce ad arrivare. Nessuno vuole sapere di me, della vera me. Ma a tutti, tutti importa della povera ragazza ignorata dalla madre, stuprata dal patrigno, incinta, in fuga, terrorizzata dal proprio futuro. Mi sono soltanto resa interessante, ho solamente detto alle persone quello che vogliono sentirsi dire. Lo fanno tutti, in fondo, ma io lo faccio meglio. La donna sorride. «Oh, lo sapevo. Vedi perché mi piace la verità? Non ci si annoia mai.» Si alza, prende il cartoccio degli involtini e lo butta nell’immondizia. «E’ stato un vero piacere conoscerti, sul serio. Direi che devo proprio andare, è quasi sera, la mia coinquilina si starà chiedendo dove sono finita. Fai buon viaggio, ovunque tu stia andando!» Allunga la mano, e io gliela stringo. Cinque minuti dopo nell’area pic-nic ci siamo solo più io e l’odore del gas di scarico della sua auto. Potrei aspettare, davvero. Passerebbe di certo qualcuno, passa sempre. Oppure, be’, potrei prendere la borsa, mettermela a tracolla e iniziare a camminare. Troverei una città, prima o poi. Un treno, un pullman, qualcosa. Dopo tutti i posti che ho visto, dopo tutte le persone che ho conosciuto, dopo tutto questo magari potrei davvero tornare a casa. Dietro di me, da qualche parte, il sole sta tramontando.