L`Arborense. 14. 35. Paolo VI

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L`Arborense. 14. 35. Paolo VI
Domenica 19 ottobre sarà beatificato Paolo VI, un papa che può essere annoverato tra i grandi
protagonisti del Novecento. I suoi meriti nel governo della Chiesa universale sono tanti, ma tra tutti
prevale di sicuro quello di aver guidato e portato a termine il Concilio Vaticano II e di averne
promosso poi l’attuazione nelle chiese particolari. Alcuni suoi gesti di valenza profetica sono
passati alla storia, come la rinuncia al simbolo del potere temporale, la tiara, che vendette a un
museo americano e il cui ricavato lo donò personalmente a Madre Teresa di Calcutta; il
pellegrinaggio in Terra Santa, per ritornare alla freschezza e all’entusiasmo missionario delle
origini; l’abbraccio con il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli Atenagora; la visita e il discorso
alle Nazioni Unite per presentare la Chiesa esperta in umanità. Altri gesti sono stati meno epocali
ma non meno significativi. Per esempio, la vendita di due appartamenti della Santa Sede nel centro
storico della città e, con il ricavato, il dono al Comune di cento appartamenti per togliere dalle
baracche numerose famiglie romane. Coloro che hanno vissuto gli anni del dibattito conciliare e i
grandi mutamenti culturali e sociali degli anni Settanta, quando si teorizzava l’immaginazione al
potere e si agitavano gli slogan del tipo: siamo realisti, vogliamo l’impossibile, non può non
apprezzare l’opera intelligente, per quanto sofferta, di Papa Montini.
Per quanto mi riguarda, io lo considero il papa del mio sacerdozio, anche perché ho maturato la mia
vocazione al sacerdozio durante il suo pontificato. In un viaggio premio a Roma, nell’agosto del
1955, avevo visto Pio XII da lontano, nel cortile di Castelgandolfo. Non ho mai incontrato, invece,
Papa Giovanni XXIII. Il primo papa cui ho potuto stringere la mano, quindi, è stato Paolo VI, di
cui, tra l’altro, ho ereditato per dieci anni l’assistenza agli universitari della Fuci. Per la prima volta
lo incontrai da studente nell’aula magna dell’Università Lateranense, quando inaugurò l’anno
accademico ed esortò le università romane a lasciare da parte le polemiche dottrinali e a lavorare
per il rinnovamento della Chiesa secondo lo spirito del Concilio in corso. Alla vigilia della mia
ordinazione sacerdotale venne nel Seminario Romano per la festa della Madonna della Fiducia e
chiese al rettore se poteva ordinare sacerdoti noi diaconi in San Pietro. Il Rettore fu colto di sorpresa
e gli disse sommessamente che ormai noi avevamo già programmato l’ordinazione ognuno nella sua
parrocchia d’origine.
Gli altri ricordi personali sono collegati a una lunga udienza con gli studenti della Fuci, nel maggio
del 1971. In quell’occasione egli mise da parte il discorso che aveva preparato e trascorse un’ora in
conversazione informale, alternando suoi ricordi a nostre domande e dandoci consigli su come
vivere e operare da cristiani nell’università. Un anno dopo fui ricevuto in udienza prima di partire
come segretario di nunziatura in Ecuador. Rispetto all’udienza con gli studenti fucini, questa era
piuttosto formale, ma si trattenne lo stesso a parlare dell’apertura della Chiesa verso i paesi
comunisti, la cosiddetta Ostpolitik del card. Casaroli, e del ruolo della diplomazia pontificia nella
difesa delle istituzioni ecclesiastiche nei paesi comunisti. Un ultimo ricordo personale è legato alla
morte di mamma. Al ritorno dalla nunziatura risiedevo nella Casa Internazionale del Clero in Via
della Scrofa. Aveva l’appartamento nella medesima Casa del Clero il Card. Opilio Rossi, primo
presidente del Pontificio Consiglio per il Laici. Un giorno, alla fine di un colloquio privato, il papa
gli chiese che cosa avrebbe fatto quella sera. Il Cardinale gli rispose che avrebbe presieduto la
concelebrazione dell’Eucaristia in die septimo della morte della mamma di un sacerdote. Lo
incaricò di portarmi la sua benedizione e l’assicurazione che si sarebbe unito in preghiera con noi.
Un gesto di grande delicatezza e sensibilità che non si può dimenticare!