Bollettino Completo 1987 - Società Tarquiniese Arte e Storia
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Bollettino Completo 1987 - Società Tarquiniese Arte e Storia
LA CHIESA DI SANTA MARIA DI CASTELLO IN TARQUINIA, LA SUA STORIA E I SUOI RESTAURI Premessa Gli spunti di studio sulla chiesa di S. Maria di Castello sarebbero molteplici e di estremo interesse, ma difficilmente trattabili tutti in questa sede. L’argomento che intendo approfondire in questo lavoro e che, a mio parere, sino a oggi non è stato affrontato in modo completo ed esauriente, riguarda le vicende storiche, ma soprattutto i restauri che il monumento ha subito durante il corso dei secoli. Infatti attraverso lo studio di documenti inediti - consultati per la compilazione della mia tesi di laurea - ho avuto modo di ricostruire, almeno in parte, le modificazioni, subite nel tempo dell’edificio, che hannocontribuito a renderlo così come oggi appare. Ringrazio per la gentile collaborazione la Prof.ssa Colette Bozzo Dufour, le archiviste del Comune di Tarquinia Sig.na Piera Ceccarini e Sig.ra M.Lidia Perotti e tutti coloro che hanno favorito la realizzazione di questo lavoro. Ubicazione, funzione, dedicazione. La chiesa di s. Maria di Castello in Tarquinia è ubicata sul colle di Castello al margine nord dell’attuale abitato ed è orientata, con le absidi, verso la stessa direzione. La zona suddetta ricopre particolare interesse dal punto di vista storicoarcheologico: su tale colle, infatti, alcuni studiosi hanno ipotizzato l’esistenza, già in epoca etrusca, di un presidio o di un esiguo nucleo abitato 1) e poi in età romana, di un castrum che avrebbe servito un piccolo centro abitativo, forse con prevalenti funzioni militari 2) . L’area di Castello sarebbe ancora da considerarsi, in periodo altomedievale, come il nucleo originario da cui si sarebbe sviluppata la città di Corneto medievale e moderna 3) . E’ probabile, quindi, che sul colle di Castello, almeno sino al XII secolo, si accentrasse il potere politico dell’abitato di Corneto; non è perciò difficile presumere che, già precedentemente alla costruzione dell’attuale chiesa di s. Maria di Castello (1121-1207), esistesse un edificio religioso - si pensa di dimensioni minori rispetto all’odierno arroccato sul primo nucleo fortificato e residenziale di Corneto. La presenza di una chiesa di s. Maria anteriore a quella oggi conosciuta sembra confermata da un documento risalente al 1111 4) . Visto però lo sviluppo dell’abitato, a partire dai secoli XI-XII, in direzione sud rispetto al colle di Castello 5) , la chiesa di S. Maria, iniziata nel 1121 come monumento rappresentativo del prestigio cittadino, venne a occupare, con il passare del tempo, una posizione sempre più eccentrica rispetto alle nuove sedi del potere e ai principali percorsi viari del comune. Si arrivò così alla progressiva perdita di importanza dell’edificio culminata con la bolla di Eugenio IV, emessa nel 1435 6) , che sancì l’unione delle collegiate di s. Maria di Castello e di S. Maria Margherita, elevando quest’ultima - situata in posizione centrale rispetto all’abitato - al grado di cattedrale, mentre la prima venne ad acquisire definitivamente un ruolo secondario. In seguito a tale situazione è accettabile pensare che nel 1439 7) , venisse costruito uno sbarramento con una nuova porta fortificata - inseriti nella cinta muraria preesistente per escludere dal nucleo residenziale di Corneto la “zona di S. Maria di Castello completamente disabitata per la rovina delle mura insufficienti a sostenere l’attacco dei nemici della chiesa” 8) . 1) E. GUIDONI, 1974, p. 166 e ss.; B. BLASI, 1979, p. 11 e ss. G.C. TRAVERSI, 1985, passim; quest’ultimo suppone la presenza sul colle di Corneto, in epoca romana, di un “piccolo centro urbano” - un pagus avente prevalenti funzioni militari, esteso quanto tutta la Corneto Vecchia - servito da un castrum nello stesso luogo dove sarebbe sorto nell’alto medioevo il “castellum de Corgnito”. 3) E. GUIDONI, 1974, p. 166 e ss.; G.C. TRAVERSI, 1985, passim. A partire dall’848 esistono alcuni documenti che menzionano il Castello e sembrano identificare quest’ultimo con Corneto stessa. Vedi su tale argomento G. TIZIANI, 1985, p. 13. Di particolare interesse è un placito, svoltosi nel 1080, che viene presieduto dalla contessa Matilde di Canossa e ha luogo “in palacio intus castellum quod nominatur civitas de Corgnito” (G. DI CATINO, 1879-1914, vol.V, p. 49-50, pubblica il doc. integralmente). 4) Il doc. è citato in: F.A. TURRIOZZI, 1778, p. 49, è stato pubblicato integralmente da G. DI CATINO, 1879-1914, Vol. V, p. 49-50, pubblica il doc. integralmente). 5) G.C. TRAVERSI, 1985, passim. 6) M. POLIDORI, 1977, p. 144 e ss.; doc. originale in A.C.M.; copie: 1) in A.F., Miscellanea di Corneto, vol. II, F. f. 17; 2) in A.S.C.T. titolo X, fasc. I (copia eseguita nel 1831). 7) P. SUPINO, 1969, p. 407; doc. originale in A.S.C.T., Margarita Cornetana, 1201/1595, c. 191v, 2-4. 8) Per quanto riguarda questa teoria vedi: G. TIZIANI, 1985, passim; quest’ultimo è del parere che il torrione circolare, come mura e doppia porta, che divide l’area di Castello dal resto della città, non sarebbe stato costruito nel 1361 dal 2) S. Maria di Castello fu collegiata, retta da un capitolo di canonici presieduto da un priore 9) , sino al 1435 quando - con la Bolla di Eugenio IV sopra ricordata - si ebbe la soppressione del suddetto collegio canonicale. La chiesa è dedicata alla Vergine e riprende - pare - il titolo di un edificio religioso precedente situato anch’esso sul colle di Castello 10) . Stato attuale La facciata di s. Maria di Castello presenta alcuni rimaneggiamenti evidenti - denunciati anche dal diverso tipo di muratura - sembra avvenuti, per la maggior parte, nel XVII secolo 11) ; essi hanno contribuito a mascherarne l’originario aspetto a spioventi. Il fronte attuale si presenta di forma quadrangolare, tripartito da paraste, con un campanile a vela sulla sinistra; in esso si aprono tre luci, delle quali la centrale è una bifora di grandi dimensioni, e tre portali, dei quali quello principale è adorno di un mosaico cosmatesco (fig.1) così come la suddetta bifora. Sui due lati della facciata è presente una cornice ad archetti pensili con figure (fig.2), che corre anche lungo il restante perimetro della chiesa; il tratto di essa, visibile sulla parete della navata destra, appare notevolmente rimaneggiato. Il prospetto ovest, è spartito, lungo la parte esterna della navata sinistra, da una serie di paraste corrispondenti alle divisioni fra le campatelle laterali; sullo stesso muro si aprono frequenti luci di proporzioni disuguali che denunciano, anche in questo caso, rifacimenti. A metà circa della parete ovest, appartenente alla navata centrale, si apre un rosone il quale è collocato in una posizione inconsueta e non si esclude che originariamente fosse posto in facciata 12) . Sul prospetto nord si evidenziano tre absidi, quella centrale, scandita da paraste, è poligonale (fig. 3), quelle laterali, semicircolari; queste ultime presentano diversa cardinale Albornoz, come si è sempre creduto, bensì’ negli anni immediatamente successivi alla Bolla di Eugenio IV (1435), sopra citata, con l’intento di tagliare fuori dall’abitato l’area di Castello, difficile da proteggere contro assalti nemici, perché dotata di un circuito murario in rovina. 9) M. POLIPORI, 1977, p. 120; G.M. ALDANESI, 1882, passim. 10) F.A. TURRIOZZI, 1778, p. 49. 11) Il Porter (A.K. PORTER, 1917, vol. II, p. 349 e ss.) fa risalire al XVII secolo un rifacimento della facciata. In essa, del prospetto originale, si sarebbero salvati: la tripartizione, le luci ed i portali; sarebbero stati alzati i muri nelle zone laterali del prospetto, eliminati gli spioventi e aggiunto il campanile a vela sulla sinistra. 12) Il Porter (A.D. PORTER, 19117, vol. II, p. 349 e ss.) giudica il rosone un’aggiunta del XIII secolo, il Pardi (R. PARDI, 1959, p. 79 e ss.) lo ritiene probabilmente di reimpiego, il De Angelis D’Ossat (G. DE ANGELIS D’OSSAT, 1969, p. 15 e ss.) lo considera come originario, facendolo risalire alla fine del XII secolo circa e attribuendogli influssi pisani, con una ipotesi che trova in seguito concorde la Raspi Serra (J. RASPI SERRA, 1972, pp. 26 e ss., 44, e ss., 95 e ss.). conformazione l’una dall’altra. La zona absidale nel suo insieme mostra alcune diversità nelle cornici ad archetti pensili e difformità nel parato murario. Il prospetto est è sparito anch’esso da paraste nella zona che corrisponde alla navata destra; in quest’ultima parte è quasi completamente privo di finestre. Il tetto è a quattro spioventi e su di esso, a metà della navata centrale, si eleva un tiburio con copertura conica (fig.4). Quest’ultimo - come vedremo meglio in seguito - è stato sistemato in tale modo in occasione dei restauri del 1969, per dare un assetto definitivo al vano lasciato vuoto dal crollo della cupola, occorso nel 1819. L’interno si presenta a tre navate divise da pilastri polistili; le coperture sono a crocere costolonate su sistema alternato (figg. 5-6-7). Alla base di alcuni studi e ipotesi, durante gli anni passati, è stata l’esistenza, nella navata centrale, di una serie di semicolonne con capitelli non portanti, addossate ai pilastri deboli della suddetta; il problema della loro originaria destinazione, infatti, ha rappresentato gli studiosi - e rappresenta tuttora - un interrogativo molto stimolante 13) . I capitelli dei pilastri polistili e delle semicolonne sono scolpiti con motivi vegetali e zoomorfi (figg. 8-9-10). Nello spessore della parete esterna, appartenente alla navata destra, all’altezza dell’ottava campatella partendo da sud, è ricavata una scaletta che conduce a una terrazza posta a livelllo dei tetti. Nella stessa navata, all’altezza della terza campatella, è situato un fonte battesimale ottagono (fig.11). Addossato al settimo pilastro sinistro della navata mediana, partendo da sud, è posto un ambone cosmatesco (1208), il cui aspetto è stato notevolmente modificato - come si vedrà in seguito - da una serie di furti avvenuti negli anni’60. Nel presbiterio si trova un ciborio (1163), esso pure cosmatesco, la cui copertura, attualmente non più visibile, doveva essere a tegurium 14) Storia della chiesa dalla edificazione all’avvento dei Frati Minori Francescani 13) Già secondo il Toesca (P. TOESCA, p. 666, n. 66) queste semicolonne indicano un ripensamento dei costruttori che avevano progettato una prima fase dell’edificio, il quale avrebbe dovuto essere coperto con volte “rettangolari”, non più realizzata e sostituita dall’attuale. Anche il Krautheimer (R. KRAUTHEIMER, 1928, p. 176 e ss.) ha ipotizzato una prima fase di progettazione, svoltasi entro il 1143, in cui si sarebbe dovuta realizzare una volta a botte. Il Pardi (R. PARDI, 1975, p. 10 e ss.) accetta l’ipotesi delle due fasi di costruzione, prospettata dagli autori precedenti, supponendo però che nel primo periodo fosse stato progettato un matroneo affacciantesi alla navata centrale; per il suddetto autore le navate sarebbero state divise da pilastri a sezione cruciforme a “T”, alternati fra loro, con arconi trasversali a sostegno del tetto, nella navata maggiore, del matroneo nelle navate laterali. La testimonianza scritta più antica che si conosca, sulla chiesa di s. Maria di Castello, risale al 1111, anno in cui viene nominata la chiesa di s. Pietro posta “suptus ripam ecclesiae S. Mariae in Castello Corgnito” 15) . Questa data è antecedente di dieci anni a quella che è possibile leggere su una lapide situata all’interno dell’edificio vicino al portale maggiore e che indica il 1121 come l’anno di inizio della costruzione, sotto il priorato di Guido 16) . Sembra quindi possibile ipotizzare che doveva esistere una chiesa anteriore a quella odierna con la stessa denominazione 17) . Nel 1143, sotto il priorato di Panvino, viene eseguito il portale adorno di un mosaico cosmatesco, come risulta dall’iscrizione sull’architrave 18) , è quindi presumibile che alla stessa epoca fosse anche stata terminata la facciata. In un’iscrizione che corre lungo l’archivolto del portale, ne è pure indicato l’artefice: Pietro figlio di Ranuccio 19) . Il ciborio risale, invece, al 1168. Questa data risulta dall’iscrizione collocata lungo l’architrave del ciborio stesso e che indica - oltre all’anno di costruzione - il nome del priore Orso sotto cui viene eseguito e quello dei suoi artefici, i marmorari romani Giovanni e Guittone 20) . La consacrazione della chiesa, sotto Angelo priore, avviene quasi un secolo dopo l’inizio della sua costruzione e cioè nel 1207. Anche questo anno è testimoniato da una lapide posta all’interno della chiesa vicino al portale maggiore, che riporta anche il nome dei vescovi che vi presenziano. Essi sono in tutto dodici di cui due - quelli di Narni e Grosseto non possono partecipare e mandano il loro assenso per iscritto. Vengono inoltre concesse indulgenze per dodici anni a chi visita la chiesa nel primo anno dopo questa consacrazione 21) . Infine nel 1208, sotto il priorato del già citato Angelo, viene costruito il pulpito; questa notiza risulta scolpita nella parte anteriore del pergamo, in una epigrafe che fornisce anche il nome dell’autore stesso, cioè Giovanni figlio di Guittone romano 22) . Datata 1209, e quindi fusa non molto tempo dopo la consacrazione della chiesa, era la campana ora perduta. Essa portava un’iscrizione che l’indicava come opera di Andreotto figlio di Guidotto artista Pisano 23) . 14) G.B. DE ROSSI, 1875, p. 120. Il “tegurium” è una cupola a più ordini e piani di colonnine. F.A. TURRIOZZI, 1778, p. 49. 16) A.K. PORTER, 1917, vol. II, p. 351 e ss. 17) L. DASTI, 1878, p. 395. 18) A.K. PORTER, 1917, vol. II, p. 353. 19) A.K. PORTER, 1917, vol. II, p. 355. 20) A.K. PORTER, 1917, vol. II, p. 354. 21) A.K. PORTER, 1917, vol. II, p. 356. 15) Il 10 giugno del 1319 i chierici di Corneto con il cappellano di S. Leonardo e il canonico di S. Maria Margherita, come rettori di tutto il clero cornetano eleggono il priore della chiesa di s. Maria di Castello, Angelo, loro procuratore affinché si presenti a Angelo Tignosi, vescovo di Viterbo e Tuscania - diocesi di cui fa parte anche Corneto - e lo riconosca anche vescovo di Corneto 24) . Sembra quindi che s. Maria di Castello e il suo priore avessero a quell’epoca un ruolo preminente all’interno del comune di Corneto. In un inventario dei beni di s. Maria di Castello risalente al 1383 - compilato durante il priorato di Matteo Vannucci - risultano presenti all’interno del monumento otto altari con relativi quadri, sculture e paramenti 25) ; oggi questi altari sono completamente scomparsi. In una bolla di Eugenio IV, del 5 dicembre 1435, Corneto, che sino ad allora - come si è visto anche precedentemente - era stata soggetta alla diocesi di Viterbo e Tuscania, viene elevata al grado di città e sede vescovile. La chiesa di Castello, che sino a quel momento era stata collegiata, con la suddetta bolla viene unita alla collegiata di s. Maria Margherita e quest’ultima è elevata al titolo di cattedrale 26) . Con questo documento viene decretato per l’edificio religioso in esame un ruolo secondario. A riprova ulteriore di ciò, nel 1439, la chiesa risulta alquanto trascurata insieme al territorio circostante: infatti si ha notizia che la “zona di S. Maria di Castello” è “completamente disabitata per la rovina delle mura” - non più in grado di difendere gli abitanti da eventuali assalti nemici - e che, - in seguito a ciò viene iniziata la costruzione di una “resecata” 27) probabilmente per escludere quest’area, ormai indifendibile, dal restante abitato di Corneto 28) . L’8 aprile del 1510 viene tenuto un consiglio “super reparatione qua indiget ecclesiam Sancta Maria de Castello” 29) . Risale al maggio del 1511 l’esecuzione di lavori di consolidamento ai muri della chiesa per evitare eventuali crolli 30) . Nel maggio dell’anno successivo, inoltre, vengono “misurate” per lavori le fondamenta del muro esterno di s. Maria 31) . 22) A.K. PORTER, 1917, vol. II, p. 357. G. DE ANGELIS D’OSSAT, 1969, pp. 24-25, n. 5; doc. originale in A.F., F. f 11(3) documento privo di data. 24) P. SUPINO, 1969, p. 316; doc. originale in A.S.C.T, Margarita Cornetana 1201/1595, c. 132-132v, 2.4 doc.. del 10.VI.1319. 25) G.M. ALDANESI, 1882, passim. 26) M. POLIDORI, 1977, pp. 144-148; doc. originale in A.C.M., doc. del 5.XII.1435; copie: 1) in A.F., Miscellanea di Corneto, vol. II, F. f. 17; 2) in A.S.C.T., titolo X, fasc. I (copia del 1831). 27) P. SUPINO, 1969, p. 407; doc. originale in A.S.C.T., Margarita Cornetana, 1201/1595, c. 191v, 2.4, doc. del 5.II.1439. 28) G. TIZIANI, 1985, passim. 29) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1509/1510, cc. 127v-128r. doc. del 8.IV.1510. Inedito. 30) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1510/1511, c. 96, doc. del 25/IV/1511. Inedito. 23) Nel consiglio del 12 gennaio 1513 si decide di abbattere la torre “Titia”, posta vicino a S. Maria di Castello, a causa della mancanza di materiale edilizio per la “fabrica” di tale chiesa e che le pietre di detta torre vengano murate nello “speronem” della “fabrica” suddetta 32) . Il 31 gennaio dello stesso anno, poiché la volta del monumento religioso minaccia rovina, viene convocato un consiglio generale 33) . Due anni dopo si ha notizia della prosecuzione della “fabrica” di s. Maria di Castello 34) . Dal consiglio del 15 novembre 1534 risultano iniziati nuovi restauri all’edificio da parte di “Mastro Antonietto muratore” 35) , confermati ulteriormente il 24 dello stesso mese da un atto di appalto di lavori, per lo più alle pareti, ai tetti e alle volte, che saranno eseguiti dallo stesso “Mastro Antonietto Bernardi” di cui sopra 36) . Il 2 dicembre del medesimo anno i mastri scalpellini di Carrara si impegnano a preparare le pietre occorrenti per i lavori da eseguire sulla chiesa 37) . Nel maggio del 1535 vengono dati al presbitero Matteo bay 72 per due ceri da usare in occasione della consacrazione di s. Maria di Castello 38) . Durante lo stesso anno, in luglio, si procede alla “misurazione” dei restauri appena eseguiti da “Mastro Antonietto muratore” 39) . Probabilmente i ripristini vengono definitivamente completati due anni dopo e cioè nel dicembre del 1537 quando risulta che un certo “Farina muratore” ha terminato la “fabrica” del monumento 40) . Nel 1553 il cenobio di S. Maria di Castello, con l’annessa chiesa, è presumibilmente disabitato se i padri Serviti della Madonna di Valverde - edificio religioso situato fuori dalle mura cittadine - chiedono al Consiglio di Corneto di potervi andare ad abitare. Viene loro dato il permesso a patto che continuino a “officiare anche la chiesa di Valverde” 41) . E’ probabile, però, che i padri Serviti non siano andati a dimorare realmente in quel cenobio dato che una decina di anni dopo e precisamente il 15 luglio del 1566 essi fanno 31) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1512/1513, c. 189r-190r, doc. del 22.V.1512. Inedito. In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1512/1513, c. 114r, doc. del 12.I.1513 Inedito. 33) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1512/1513 c. 129, doc. del 31.I.1513. Inedito. 34) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1513/1514/1515, c. 159v, doc. del 9.I.1515 Inedito. 35) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1528/1536, carte non numerate, doc. del 15.XI.1535. Inedito. 36) In A.S.C.T. Registro dei Consigli 1534/1536, c. 8r e ss., doc. del 24.XI.1534. Inedito. In particolare, secondo il documento, vengono dati in appalto a Mastro Antonietto Bernardi, lombardo, lavori al palazzo comunale ed a s. Maria di Castello: “videlictet de muris, parietibus, voltis, tectis, intonacatis, mattonatis et solariis..” I lavori saranno eseguiti dietro compenso di 200 scudi. 37) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1534/1536, c. 17v e ss., doc. del 2.XII.1534. Inedito. 38) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1534/1536, c. 153r, doc. del 22.V. 1535. Inedito. 39) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1528/1536, carte non numerate, doc. del 16.VII. 1535. Inedito. 40) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1537/1538, cc. 171r, 176v, doc. del 13.XII.1537. Inedito. 41) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1552/1553, c. 70v, 71, doc. del 1553. Inedito. 32) nuovamente domanda per potervi entrare; contemporaneamente a essi presentano la stessa richiesta anche i padri Carmelitani. Alla fine il Consiglio di Corneto concederà il permesso a questi ultimi 42) . Nel settembre 1566 la chiesa viene sconsacrata in seguito a un fatto di sangue accaduto fra gli stessi padri Carmelitani. Sappiamo infatti, da documenti dell’1-2 aprile 1567, che in questi giorni il vescovo De’Grassi viene a Corneto per ribenedire la chiesa di Castello, sconsacrata nel settembre dell’anno precedente a causa del suddetto fatto di sangue 43) . I Carmelitani risultano ancora presenti nel monastero l’8 ottobre 1566, quando fanna domanda al Consiglio “che la Comunità gli rassettasse un po' quelle stanze del monastero, acciò potessero abitarle più comodamente” 44) . E’ presumibile che in seguito i Carmelitani abbiano lasciato il cenobio e l’edificio religioso, perché qualche anno dopo la chiesa risulta aperta e abbandonata. Così la trova il vescovo di Corneto durante la Visita Pastorale del marzo 1569, quando ordina che ne vengano chiuse le porte per salvaguardare la sacralità del luogo 45) . Pressappoco nelle stesse condizioni e senza “aliqua sacramenta nec alia paramenta et calicis” la vede il vescovo l’anno successivo durante la Visita Pastorale del 19 febbraio 1570 46) . La chiesa risulta ancora abbandonata nel 1572 e ci si serve di essa per alloggiare una compagnia di soldati di stanza a Corneto 47) . E’ probabile che lo stato di abbandono in cui versa l’edificio sacro, sia visto con una certa preoccupazione: infatti il 22 febbraio 1573 si decide di inviare dei cittadini dal vescovo per discutere sulla conservazione e l’officiatura della chiesa di Castello 48) Essa doveva conservare, per gli abitanti di Corneto, un significato particolare, visto che, per tradizione, vi si svolgeva la Messa in occasione della cerimonia del cambio della Magistratura cittadina che avveniva ogni tre o quattro mesi 49) ; e, forse proprio per il cattivo stato di conservazione dell’edificio religioso, si apprende che il 1 gennaio 1573 50) la funzione contrariamente al solito - viene celebrata nella cattedrale di s. Maria Margherita. 42) M. POLIDORI, 1977, p. 120; notizia reperita anche in A.S.C.T., Registro dei Consigli 1564/1565/1566, cc. 95v., 96r, doc. del 15.VII.1566. Inedito. 43) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1567/1591, c. 19v, doc. del 1.IV. 1567. Inedito. A. Pardi, M. Corteselli 1983, p. 73: notizia reperita in A.S.C.T., Registro dei Consigli 1567-1591, c. 19v, 21, doc. del 2.IV.1567. 44) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1564/1565/1566, c. 158v, doc. del 8.X.1566. Inedito. 45) L. DASTI, 1878, p. 405; doc. originale in A.C.V.T., Visita Pastorale 1569,c. 24v, doc. del 15.III.1569. Inedito. 46) In A.C.V.T., Visita Pastorale 1570, c. 16v, doc. del 19.II.1570. Inedito. 47) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1540/1573, c. 501r, doc. del 1572. Inedito. 48) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1573/1579, c. 116v, doc. del 22.II.1573. Inedito. B. TEOLI, 1648, p. 78. 50) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1573/1579, c. 1r, doc. del I.I.1573. Inedito. 49) Non risultano esplicitamente da scritti successivi le conclusioni scaturite dall’incontro del 22 febbraio: si sa solamente che il 1 maggio 1573 la Messa per il cambio della Magistratura viene nuovamente celebrata in s. Maria di Castello 51) . Nel 1576 vengono fatte estirpare le piante d’edera e di fico intorno alla chiesa e alle mura 52) , cresciute a causa delle condizioni di trascuratezza in cui versa l’edificio. Sette anni dopo - e precisamente il 25 maggio 1583 - il Vescovo Bentivoglio per cercare di porre fine allo stato di abbandono in cui si trova la chiesa, in una lettera chiede alla Magistratura di Corneto che vi vadano ad abitare i padri Francescani Conventuali 53) . Qualche anno dopo, il 17 giugno del 1585, rinnova la domanda 54) , appoggiando quella che era già stata fatta il 28 aprile dello stesso anno dai padri Conventuali 55) . E’ probabile che nel frattempo la richiesta fosse stata accolta favorevolmente dal Consiglio se il 6 giugno dello stesso anno si decide di far restaurare la “fabbrica” di s. Maria di Castello dove andranno a stare i padri Francescani. Lo stesso anno viene redatto “un pubblico strumento rogato dal notaio Vincenzo Vincenzi” per legalizzare la concessione della chiesa e del cenobio ai frati Minori 56) . Il periodo dell’insediamento francescano I frati Francescani si stabiliscono nel cenobio di S. Maria di Castello nel 1585 57) . “Il Convento è piccolo, senza chiostro, con poche comodità religiose, sebbene per la pietà dei cittadini si alimentano da sei ad otto frati” 58) . Nel 1597, quando i frati si sono già stabiliti nel monastero di Castello da qualche anno, essi chiedono che si conceda loro di fare un “choro” nella chiesa di S. Maria. Il Consiglio sembra favorevole alla richiesta, previo il consenso delle autorità ecclesiastiche alle quali si decide di chiedere la licenza 59) . 51) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1573/1575, c. 58r, doc. del 1.V.1573. Inedito. In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1573/1579, c. 336r, doc. del 1576. Inedito. 53) L. DASTI, 1878, p. 405; notizia in A.F., Memorie di Corneto, F. f. 13 (6); notizia tratta da: Filza Epistolarum ab ann. 1579 ad ann. 1592, in A.S.C.T. (tale documento non è più reperibile). 54) L. DASTI, 1878, p. 405; notizia in A.F., Memorie di Corneto, F. f. 13 (6); notizia tratta da: Filza Jur. Diversos ab ann. 1577 ad ann. 1590, in A.S.C.T. (tale documento non è più reperibile). 55) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1584/1585, c. 109r, doc. del 28.IV.1585. Inedito. 56) B. TEOLI, 1648, p. 76. 57) M. POLIDORI, 1977, p. 121. 58) B. TEOLI, 1648, p. 79. 59) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1596/1599, c.96v, doc. del 1597. Inedito. 52) Non si sa se questa notizia abbia avuto un seguito concreto. Comunque nel 1598 risultano a più riprese, dal Registro dei Consigli, informazioni su riattamenti eseguiti a s. Maria di Castello che potrebbero essere quelli del “choro” sopra nominato 60) . Il 20 maggio del 1600 viene celebrato in questa Chiesa un Capitolo Provinciale dei Padri Minori Conventuali in cui viene eletto Ministro Provinciale padre Giovannelli di Rieti 61) . Nel dicembre del 1600 i Francescani chiedono al Consiglio di Corneto di far riparare le navate della chiesa 62) . Negli anni 1603 e 1604 risultano accenni a restauri e al pagamento di un certo “Giacomo muratore” per lavori fatti alla suddetta chiesa 63) . Una lapide datata 1642, posta sulla controfacciata dell’edificio al disopra del portale maggiore 64) informa di alcuni restauri ed abbellimenti fatti fare dai frati Minori Conventuali in quell’epoca in “stile barocco” 65) . Per un ventennio non si hanno più notizie in merito a s. Maria di Castello sino a quando il 30 maggio del 1660 - i frati Francescani non presentano al Consiglio un memoriale sulle cattive condizioni della loro chiesa “dalla parte verso le mura castellane” 66) . Non risulta, all’epoca, l’esistenza di una risposta definitiva da parte del Consiglio; è documentato però che nell’aprile del 1666 un tale Domenico Passarini invia una supplica alla Sacra Congregazione del Buon Governo perché gli venga ultimato il pagamento di un debito dovutogli, per lavori fatti alla chiesa di s. Maria di Castello e alle mura castellane, una parte del quale gli era già stata saldata il 25 giugno 1561, quindi appena un anno dopo il memoriale dei frati 67) . Nel 1672 il cardinale Paluzio Altieri - vescovo di Corneto - sostituisce le colonne originali di marmo del ciborio per utilizzarle nel suo palazzo di Roma 68) . Un’altra notizia sulla chiesa è del 1674: si tratta della supplica del padre Guardiano dei frati Minori Conventuali, il quale chiede che una navata venga riparata nelle coperture dal momento che minaccia di crollare 69) . Di questa supplica non si conosce l’epilogo. 60) In A.S.C.T., Registro Speculi 1593/1599, c. 94r, doc. del 25.II.1598. Inedito. B. TEOLI, 1648, p. 79. 62) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1600/1604, c. 59v, doc. del 18.XII.1600. Inedito. 63) In A.S.C.T., Registro Speculi 1600/1607, c. 68r, doc. del 20.VIII.1603. Inedito. 64) A.K. PORTER, 1917, vol. II, p. 358. 65) A.K. PORTER, 1917, vol. II, P. 357. 66) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1657/1666, c. 49v, doc. del 30.V. 1660. Inedito. 67) In A.S.R., Sacra Congregazione del Buon Governo, serie II, busta 1385, doc. del 12.IV.1666. Inedito. 68) L. DASTI, 1878, p. 399-400; notizia reperita anche in A.F., Memorie istoriche della città di Corneto estratte dal Codice Vallesiano esistente nell’Archivio di Campidoglio (dalle origini al 1696), copia eseguita da Pietro Falzacappa (1788-1873), F. f. 4, c. 282. 69) In A.S.C.T., Registro Jura Diversa, 1674, c. 396r, doc. del 1674. Inedito. 61) In un documento del 16 maggio 1689 “Mastro Giovanni Fabriti” presenta una fattura con descrizione, molto particolareggiata, dei lavori fatti ai tetti di S. Maria di Castello 70) . Risale al 1753 un inventario dei beni della chiesa e del cenobio; da esso risultano otto altari: quello Maggiore dedicato a S. Francesco, poi quelli del SS. Sacramento, di S. Antonio da Padova, di S. Agata, della SS. Concezione, dell’Annunziata, del Crocifisso e di S. Omobono, ciascuno accompagnato dal nome della famiglia a cui appartiene 71) . E’ documentata all’anno 1788 una richiesta di contributi da parte dei frati Francescani per poter riparare la cupola dell’edificio religioso che minaccia rovina 72) . In seguito alla Visita Pastorale del vescovo di Corneto Maury - nel 1794 - vengono elencati gli altari della chiesa che risultano essere sei 73) ; nel 1800 lo stesso vescovo fa redigere l’inventario dei beni di s. Maria di Castello con il proposito di farla chiudere e sconsacrare 74) .Non si ha notizia se vi sia stato un seguito concreto nella vicenda. Nell’anno 1807 viene eletto a s. Maria l’ultimo padre guardiano dei Minori Conventuali di nome Antonio Garibaldi 75) ; ultimo perché il cenobio sarà soppresso poco tempo dopo e precisamente nel 1810 in seguito a un decreto di Napoleone datato 17 aprile 1810 76) . I padri Francescani saranno costretti ad abbandonare Corneto per tornare ai luoghi di origine e lo stesso padre Antonio Garibaldi, in un documento del 7 giugno 1810, è invitato a ritirare in Prefettura il passaporto insieme a religiosi di altri conventi 77) . Nel luglio del medesimo anno abbiamo notizia di un altro padre Francescano che lascia s. Maria in Castello per tornare a Dublino 78) . Vicende storiche e restauri durante il corso del XIX secolo. Dopo l’allontanamento dei padri Francescani dal convento di s. Maria di Castello si ha notizia di una serie di restauri - particolarmente accurati - avvenuti fra il 1811 ed il 1812. Nel dicembre 1811, infatti, viene eseguita una perizia sui tetti della chiesa e del cenobio che devono essere restaurati 79) ; in seguito - nel 1812 da parte del fabbro 80) e interventi di 70) In A.C.V.M., Fascicolo Corneto, doc. del 16.V.1669. Inedito. B. THEULI, A. COCCIA, 1967, pp. 183-184; doc. originale in A.P.P.M.C., Busta Corneto, doc. del 1753. 72) In A.S.C.T., Registro dei Consigli 1783/1790, c. 187v, doc. del 22.V. 1788. Inedito. 73) A. PARDI, M. CORTESELLI, 1983, p. 73. 74) A. PARDI, M. CORTESELLI, 1983, p. 73. 75) B. THEULI, A. COCCIA, 1967, p. 183. 76) In A.S.C.T., titolo XVII, fasc. 14, doc. del 3.V.1810. 77) In A.S.C.T., titolo XVII, fasc. 14, doc. del 27.VI.1810. Inedito. 78) In A.S.C.T., titolo XVII, fasc. 14, doc. del 31.VII.1810. Inedito. 79) In A.S.C.T., titolo XVII, fasc. 4, doc. del 16.XII.1811. Inedito. 80) In A.S.C.T., titolo XVII, fasc. 4 doc. del 1812. Inedito. 71) riverniciatura alle porte e a tutte le finestre, comprese tre piccole finestre della cupola 81) ; inoltre - nel settembre 1812 - vengono rifatte, dal muratore Lorenzo Draghi sotto la direzione dell’architetto Paolo Nardeschi, le coperture della cupola e del “cupolino” e tutti i tetti della chiesa, compreso quello situato a ponente di fianco al monastero; il tutto insieme con altri lavori di minore entità - viene descritto nel documento con dovizia di particolari 82) . Nell’ottobre dello stesso anno vengono sostituite, da un certo Egidio Alessi, tutte le vetrate, comprese due finestre e un “occhio tondo” della cupola 83) , e nel novembre viene “demolito il sito del presepio”; nello stesso mese sono ripuliti e imbiancati la facciata, le pareti delle tre navate, la cupola, il coro e la Sacrestia. In occasione della Visita Pastorale del 1814 - da parte del vescovo Bonaventura Gazola l’edificio religioso appartiene ancora ai frati Francescani Minori Conventuali i quali sperano che il vescovo provveda a farli ritornare nella chiesa e nel convento fornendoli di tutti i paramenti e le suppellettili che in essa mancano 84) . Invece - contrariamente alle loro aspettative - nel 1816 papa Pio VII concede “in perpetuo” la chiesa e il cenobio annesso all’Orfanotrofio femminile di Corneto 85) . Malgrado il nuovo affidamento, però, la chiesa di Castello rimane trascurata e mal conservata, come constata lo stesso vescovo Bonaventura Gazola durante la Visita Pastorale successiva svoltasi nel maggio del 1818 86) . Il 26 maggio 1819, in seguito a un forte terremoto, la cupola crolla sulla chiesa sottostante danneggiandone la navata centrale e, ancora più gravemente,quella di destra 87) . S. Maria di Castello rimarrà quindi abbandonata e priva di copertura nel vano lasciato vuoto dalla cupola. Solo nel 1834, per interessamento del vescovo di Corneto Velzi, il vano stesso verrà ricoperto con un tetto 88) , grazie allo stanziamento - da parte del Comune - della cifra di 200 lire 89) e l’aggiunta di un aiuto finanziario da parte di alcune corporazioni religiose. In questa occasione la chiesa verrà ribenedetta 90) . 81) In A.S.C.T., titolo XVII, fasc. 4 doc. del 1812. Inedito. In A.S.C.T., titolo XVII, fasc. 4, doc. del 18.IX.1812. Inedito. 83) In A.S.C.T., titolo XVII, fasc. 14, doc. del 28.X.1812. Inedito. 84) In A.C.V.T., Visita Pastorale 1814, p. 96, doc. del 6.VII.1814. Inedito. 85) In A.C.V.T., Busta del Conservatorio delle Orfane e di s. Maria di Castello, doc. non datato. 86) In A.C.V.T., Visita Pastorale 1818, pp.42-43, doc. del 15.V.1818. Inedito. 87) G. DE ANGELIS D’OSSAT, 1969, pp. 24-25, n. 5, tale autore pubblica un documento in cui ci è descritto il crollo della cupola, doc. originale in A.F., F. f. 11 (3), doc. non datato. 88) L. DASTI, 1878, p. 405; notizia reperita anche in A.F. Memorie di Corneto, F. f. 13 (6) doc. non datato. 89) In A.S.C.T., Registro dei Consigli Comunali 1832/1835, carte non numerate, doc. del 23.II.1834. Inedito. Nel maggio 1834 risulta il pagamento all’amministratore della chiesa di metà della somma stanziata dal Consiglio, in A.S.C.T., Registro dei Mandati 1834/1838, carte non numerate, doc. del 10.V.1834. Inedito. Risale all’ottobre 1835 il 82) Nel gennaio 1845, il cardinale Paracciani Clarelli, durante la sua Visita Pastorale a Corneto, dopo aver visitato il monumento e averne constatato le condizioni di abbandono, decide di provvedere a far sostituire i vetri rotti delle finestre e a fa restaurare tutto ciò che ne richiede immediato bisogno 91) . Nell’aprile del 1850 si è a conoscenza di una nuova perizia, eseguita dal capomastro Pietro Draghi, per il restauro dei tetti 92) . Al 1852, invece, risale una relazione manoscritta, dell’architetto Francesco Dasti, relativa a un progetto per il restauro della chiesa in esame e il suo adattamento a cattedrale 93) , progetto che non è stato mai realizzato. Nel 1857 papa Pio IX - venuto in Corneto - accoglie favorevolmente l’istanza dei rappresentanti della città e decreta che questo monumento sia restaurato e riportato al suo antico aspetto 94) . Dopo una riunione, tenuta dalla Commissione Ausiliare di Belle Arti in Civitavecchia (1860) 95) , e una perizia, decisa dal Ministero del Commercio e dei Lavori Pubblici (1861) 96) , nel 1863, il Delegato Apostolico approva la stima per i rifacimenti più urgenti - la cui spesa ammonta a 679,75 lire e indice una gara di appalto per giudicare i lavori ad artigiani competenti 97) (fig.12). Non si hanno notizie più specifiche sul genere di lavori eseguiti. Il 10 luglio 1875 il Reale Governo - dopo aver riconosciuto la chiesa di s. Maria Monumento Pubblico Nazionale - decide di assegnarle i fondi occorrenti per il completamento dei suoi restauri e per la sua conservazione. 98) Nel settembre 1876 e nell’aprile 1877 il Comune stanzia prima 200 lire 99) e poi 245 lire 100) arrivando così a partecipare ai restauri della chiesa con una somma quasi uguale a quella già predisposta dal governo. I restauri suddetti - di una certa entità - vengono compiuti nel 1878 101) ; purtroppo però mancano i documenti attestanti il genere di lavori che sono stati eseguiti all’epoca. versamento della seconda rata di 100 scudi, in A.S.C.T., Registro dei Mandati 1834/1838, carte non numerate, doc. del 28.X.1835. Inedito. 90) L. DASTI, 1878, p. 405; notizia reperita anche in A.F., Memorie di Corneto, F. f. 13 (6), doc. non datato. 91) In A.C.V.T., Visita pastorale 1845, carte non numerate, doc. del 31.I.1845. Inedito. 92) In A.S.C.T., titolo XVII, fasc. 4, doc. del 15.IV.1850. Inedito. 93) G. DE ANGELIS D’OSSAT, 1969, p. 15 e ss. 94) L. DASTI, 1878, p. 407. 95) In A.S.C.T., titolo III, fasc. 3, doc. del 1860. Inedito. 96) In A.S.C.T., titolo XVII, fasc. 4, doc. del 19.I.1816. Inedito. 97) In A.S.C.T., titolo XVII, fasc. 4 doc. del 7.IX.1863. Inedito. Manifesto per la gara di appalto in A.S.C.T., titolo XVII, fasc. 4 del 7.IX.1863. Inedito. 98) L. DASTI, 1878, p. 407. 99) L. DASTI, 1878, p. 407; notizia reperita anche in A.S.C.T., Registro dei Consigli Comunali 1876, carte non numerate, doc. del 18.IX. 1876. Piccole riparazioni sono testimoniate negli anni 1882-1883 102) 1888 103) , 1892 104) , 1893 105) . Gli anni del secondo dopoguerra Per quasi tutta la prima metà del XX secolo mancano notizie sulla chiesa di s. Maria di Castello se si eccettuano due documenti del 1910 in cui il sindaco di Tarquinia comunica che il Ministero della Pubblica Istruzione ha approvato il preventivo di 1954,22 lire per lavori di riparazione ai tetti del monumento, purché il Comune contribuisca alla spesa con 300 lire e, annualmente, con una quota per la manutenzione della chiesa, quota che il Consiglio Comunale fisserà 150 lire 106) . Solo nel marzo 1947, in conseguenza dei danni di guerra, si hanno informazioni in merito a lavori di rifacimento piuttosto importanti 107) , seguiti ad una perizia compiuta l’anno precedente 108) . Fra i suddetti lavori spicca il restauro del rosone che viene rinforzato con una nuova armatura in ferro ed a cui vengono aggiunte, nella parte inferiore, due colonnine nuove che mancavano. Viene anche sbassato il tetto della navata sinistra che nascondeva alla vista la metà inferiore del suddetto rosone e viene chiusa, mediante muratura, una tomba posta all’esterno sulla parete destra. Nella notte fra il 27 ed il 28 settembre 1962, avviene un primo furto all’interno dell’edificio, durante il quale vengono asportate quattro colonnine tortili dell’ambone cosmatesco, insieme a quattro capitelli che erano in deposito lungo la navata destra 109) . 100) L. DASTI, 1878, p. 407; notizia reperita anche in A.S.C.T., Registro dei Consigli Comunali, 1877, carte non numerate, doc. del 21.IV.1877. 101) L. DASTI, 1878, p. 407. 102) In A.S.C.T., titolo VII, fasc. 10, doc. del 15.VI.1882. Inedito. Lettera di Luigi Dasti, regio ispettore degli Scavi e Monumenti nonché sindaco, indirizzata al senatore del Regno e direttore generale delle Antichità e Belle Arti commendatore Fiorelli, in cui è riportata la lista delle persone che hanno eseguito piccoli lavori nella chiesa di S. Maria di Castello e la spesa complessiva di 9 lire, in A.S.C.T., titolo VII, fasc. 10, doc. del 7.VII.1883. Inedito. 103) Perizia eseguita dal capomastro Antonio Alfonsi in merito ad alcuni lavori di manutenzione da compiere nella chiesa, doc. in A.S.C.T., titolo VII, fasc. 10, doc. del 9.VI..1888. Inedito. Risposta del Ministero della Pubblica Istruzione in cui si autorizza il capomastro Antonio Alfonsi a eseguire i suddetti lavori di manutenzione e fra gli altri la “saldatura dei mosaici dei cosmati che adornano la facciata”, per l’importo di 600 lire, in A.S.C.T., titolo VII, fasc. 10, doc. del 17.VII.1888. Inedito. 104) Preventivo per lavori di manutenzione da eseguirsi sulla chiesa, doc. in A.S.C.T., titolo VII, fasc. 10, doc. del 4.I.1892. Inedito. 105) Lettera dell’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti delle Province di Roma, l’Aquila, Chieti, in cui si incarica il sindaco A. Falzacappa di affidare al capomastro Alfonsi il completamento di alcuni lavori di poca entità (rinnovamento della gronda e di alcuni vetri rotti), doc. in A.S.C.T., titolo VII, fasc. 10, doc. del 7.III.1983. Inedito. 106) In A.S.C.T., Registro dei Consigli, 1908/1911, carte non numerate, doc. del 8.IV.1910. Inedito. Approvazione definitiva in A.S.C.T., Registro dei Consigli 1908/1911, carte non numerate, doc. del 24.X.1910. Inedito. 107) In A.S.B.A.A.L., fasc. s. Maria di Castello doc. del 27.III.1947. Inedito. 108) In A.S.B.A.A.L., fasc. s. Maria di Castello,doc. del 14.VI.1946. Inedito. 109) In A.S.B.A.A.L., fasc. s. Maria di Castello doc. del 27-28.IX.1962. Inedito. Un secondo furto avviene il 1 dicembre 1964 quando ignoti asportano la protome di leone posta alla base del pulpito sulla destra; inoltre verso il novembre 1965, vengono rubati un paio di colonnine e altri elementi architettonici presenti nella chiesa 110) . Circa un mese dopo scompare anche la seconda protome di leone anch’essa posta alla base del pulpito, ma sulla sinistra; il furto viene scoperto in data 7 dicembre 1965 111) . Nell’aprile del 1966, quindi pochissimi mesi dopo, viene calata a terra la campana di s. Maria, firmata da due autori viterbesi e datata 1766 e viene consegnata in custodia al Museo Nazionale Tarquiniense 112) . Corre voce, infatti, di un possibile giù programmato trafugamento della campana stessa 113) Un importantissimo restauro all’edificio sacro - eseguito in due tempi dalla ditta dell’ingegner dell’Aquila viene terminato per il primo lotto di lavori il 10 giugno 1868, per il secondo il 30 ottobre 1969. Nella prima serie di lavori vengono restaurati il pavimento e i mosaici cosmateschi in alcuni tratti; si sistemano gli scavi - eseguiti in precedenza presso l’abside maggiore e nella navata destra - recintandoli con muri di contenimento e balaustre in ferro; inoltre viene smontato il pergamo con integrazione delle parti “statisticamente necessarie”, vengono poi consolidati alcuni tratti di muratura ed il campanile; infine viene smontata completamente la copertura del tiburio e sostituita con un telone provvisorio 114) . 110) In A.S.B.A.A.L., fasc. s. Maria di Castello, doc. del 10.XI.1965. Indietro. Nella relazione della Soprintendenza ai Monumenti del Lazio sono così descritte le condizioni del pergamo dopo l’asportazione della seconda protome di leone: “Nel divellere la protome, il pilastrino che rinserra ed incornicia con motivo decorativo il pergamo, al di sopra della protome di sinistra, cadeva spezzando la cornice superiore dell’accesso all’edicola. Pure sul lato destro il pilastrino di rinserro, decorato come l’uguale di sinistra con motivo a foglia e recante incisa la data 1209, veniva smontato e deposto lì presso. Questi due pezzi, abbandonati insieme ad altri frammenti caduti nell’impresa e deposti ai piedi del pergamo, dovevano probabilmente anch’esse essere asportati. Dalla manomissione risultano danneggiate, allentate e in procinto di crollare tutte le altre parti del pergamo, di cui sarebbe opportuna cosa organizzare lo smontaggio ed il trasferimento temporaneo in deposito”. I frammenti e gli elementi asportabili del pulpito, con capitelli e fusti di colonne vengono trasportati al Museo Nazionale Tarquiniense, essi sono: “1) piedritto sinistro dell’ambone 2) piedritto destro 3) frammento base edicola 4) frammento paliotto lato sinistro 5) frammento paliotto lato sinistro 6) 11 capitelli del tiburio 7) due fusti di colonne del tiburio 8) due basi relative alle predette colonne 9) sei frammenti vari” doc. in A.S.B.A.A.L., fasc. s. Maria di Castello, doc. del 9.XII. 1965. Inedito. 112) La campana presenta, nella parte superiore, un motivo a rilievo rappresentante festoni sorretti da putti volanti. “Dai festoni pendono ovali con medaglie a soggetto sacro”. Nella parte inferiore: “Madonna, Crocifisso, stemma vescovile e stemma di casa Falzacappa”, doc. in A.S.B.A.A.L., fasc. s. Maria di Castello, doc. del 30.IV.1966. Inedito. 113) In A.S.B.A.A.L., fasc. s. Maria di Castello, doc. del 3.III.1966. Inedito. 114) In A.S.B.A.A.L., fasc. s. Maria di Castello, doc. del 10.VI.1968. Inedito. 111) In un secondo tempo viene restaurato il tiburio riprendendo la muratura in varie parti sia del basamento ottagono che del tamburo cilindrico; ponendovi intorno un cerchio di ferro per contenimento; restaurando quindici colonnine già esistenti 115) e inserendo dieci capitelli originali sino a raggiungere il numero totale di quarantotto colonnine fra nuove e autentiche. La sommità del tamburo viene coperta con un tetto conico in legno, rivestito con tegole 116) . Negli ultimi anni - e precisamente nel 1978 - s. Maria di Castello viene affidata dalla Curia Vescovile - che ne è proprietaria - e dalla Soprintendenza alle Antichità - la quale ne è stata la provvisoria consegnataria - alla Società Tarquiniense di Arte e Storia che si occupa, anche attualmente, della sua manutenzione. Durante lo stesso anno tale Società provvede, oltre che a vari lavori di conservazione, anche alla costruzione di un terrazzamento esterno sul fianco destro della chiesa che si prolunga sino alla zona absidale 117) . Durante l’anno 1979 118) la stessa Società di Arte e Storia si occupa dell’esecuzione di nuovi restauri di manutenzione e così anche negli anni successivi. In particolare grossi lavori di pulitura e manutenzione sono stati compiuti nel 1987, anche in occasione della celebrazione dell’anno Mariano. Considerazioni conclusive Dall’osservazione diretta così come da disegni, planimetrie e notizie di restauri, si possono trarre una serie di annotazioni che portano a rilevare come la chiesa di s. Maria di Castello abbia subito durante i secoli modifiche e restauri anche di una certa entità. Interessantissimo il documento datato 12 gennaio 1513 in cui si menziona l’abbattimento della torre “Titia”, situata nei pressi della chiesa di s. Maria, al fine di riutilizzare il materiale edilizio, ricavato da detta torre, per lavori di restauro da eseguirsi sull’edificio religioso 119) ; non è da escludere, a questo proposito, l’ipotesi che la torre abbattuta fosse stata adibita a campanile precedentemente al periodo della distruzione. E’ noto infatti che il piccolo campanile a vela, presente sulla sinistra della facciata, risale al XVII secolo - 115) Vengono ricostruite alcune colonnine divise in 2-3 ed anche più pezzi. Vengono forniti 38 capitelli, 25 colonnine e 28 basi tutti nuovi. 116) In A.S.B.A.A.L., fasc. s. Maria di Castello, doc. del 30.X.1969. Inedito. 117) Appunti di cronaca e di informazione, 1978, p. 138-140. 118) In A.S.B.A.A.L., fasc. s. Maria di Castello, doc. del 9.VII.1979. 119) A questo proposito così si esprime il Consiglio: “Idem super quinta (proposita) de lapidibus deficientibus in fabrica Sanctae Mariae de Catello dixit et consuluit quot turris iuxta Sanctam Mariam de Castello, nominata turris Titia, debeat ruinari et de illius lapidibus murari speronem dictae fabricae..”, doc. cit. del 12.I.1513, vedi nota 32. prima metà XVIII 120) , come è evidenziato anche dalla tipologia del manufatto. Non si ha invece alcuna notizia sicura sulla dislocazione del campanile originario, di cui non sembra essere rimasta alcuna traccia visibile o documentaria, se si eccettua la notizia dell’esistenza di una campana datata 1209 e ormai perduta 121) . Un altro interessante problema riguarda la zona absidale. Diversa dall’attuale risultava la zona delle absidi nel XVIII secolo, come è evidenziato da una planimetria risalente al 1783 123) (fig.13). Il fronte terminale delle navate laterali appare, in tale planimetria, piano, mentre quello presente è sporgente all’esterno e semicircolare; inoltre l’abside centrale, anche se sempre poligonale, presenta i lati orientati in modo diverso rispetto alla odierna. E’ quindi evidente che la suddetta zona absidale ha subito rimaneggiamenti negli anni intermedi fra il 1826 c., data della pubblicazione di una planimetria simile a quella del 1783 124) , e il 1917, anno a cui risale una pianta del Porter 125) che mostra le absidi della stessa forma di quelle di oggi (fig.14). Inoltre, da osservazione diretta, si può notare che l’abside mediana presenta, lungo la parete interna, semicolonne troncate poco al di sopra delle basi 126) : esse sembrano quindi innestate sulle basi stesse in epoca successiva, forse in seguito a un ulteriore rifacimento avvenuto nel secolo scorso o in questo. Anche all’esterno sono evidenti - come ho già notato precedentemente - rimaneggiamenti nella muratura e, in particolare, nelle cornici ad archetti pensili. E’ poi da osservare che la chiesa ha subìto nel tempo un certo numero di restauri conservativi. Dai documenti si traggono notizie su lavori di consolidamento alle pareti di s. Maria di Castello, occorsi urgentemente per le minacce di crolli, forse dovute all’ubicazione dell’edificio stesso, situato al margine di un’altura, con pareti a strapiombo per quanto riguarda i lati su cui insistono la navata destra e zona absidale (fig.4). A questo proposito si possono ricordare i lavori di consolidamento ai muri della chiesa, avvenuti fra il 1511 ed il 1515, in cui si fa cenno al rafforzamento delle pareti per evitare 120) Il campanile attuale è stato sicuramente eretto dai frati Minori Francescani, fra il XVII secolo (A.K. PORTER, 1917, p. 349 e ss.) e la prima metà del XVIII; risulta infatti presente in un documento del 1753 in cui si nota che il campanile è “situato sopra la porticina laterale della chiesa” e possiede tre campane, doc. in A.P.P.M.C., busta Corneto, doc. del 1753. 121) G. DE ANGELIS D’OSSAT, 1969, pp. 24-25, n. 5, vedi nota 23. 123) In A.F. doc. del 1783. 124) J.B.L.G. SEROUX D’AGUINCOURT, 1826, TAV. LXXIII, n°48. 125) All’interno della chiesa nelle absidi centrale e laterale destra, sono stati eseguiti degli scavi verso gli anni’60. Essi mostrano nella mediana le basi delle semicolonne absidali a livello più basso rispetto al piano del pavimento attuale. 126) crolli (1511) 127) , alla misurazione delle fondamenta del “muro esterno” (1512) 128) . all’intenzione di includere nello “speronem” della fabbrica il materiale trratto dalla distrutta torre “Titia”, poiché la chiesa rischia di rovinare (1513) 129) ; e, infine, alla minaccia di crollo della volta (1513) 130) così come si può accennare ai lavori, avvenuti fra il 1660 ed il 1661 131) , per le cattive condizioni della chiesa” dalla parte verso le mura castellane”. Si spiegherebbe così, almeno parzialmente, anche il fatto che proprio la zona absidale e quella della navata destra presentano maggiori rimaneggiamenti e la parete di quest’ultima, è quasi completamente priva di finestre. Alcuni riattamenti, per lo più ai tetti e alle volte, vengono trasmessi dai documenti con indicazioni sufficientemente chiare: ad esempio quelli del 1534 ai tetti, alle pareti ed alle volte 132) , quelli del 1689 ai tetti 133) , quelli di completo restauro del 1812 134) , quelli ai tetti del 1910 135) , per giungere a quelli eseguiti nel dopoguerra, descrittici in modo molto accurato 136) . Altri restauri si deducono dalla lettura di testimonianze più generiche che forniscono vaghe notizie di lavori eseguiti sul monumento religioso. Per quanto riguarda la cupola le prime testimonianze sul manufatto risalgono alla fine del XVIII secolo. Nel 1788 è documentata una richiesta di contributi per poter riparare la cupola stessa che minaccia di crollare 137) , alla fine del XVIII secolo-inizi XIX risalgono alcuni disegni che la rappresentano 138) e, in conclusione, sono documentate al 1812 alcune relazioni riguardanti un accurato restauro di quest’ultima 139) . Nel 1819 la cupola crolla in seguito ad un terremoto. 127) Doc. cit. del 25.V.1511, vedi nota 30. Doc. cit. del 22.V.1512, vedi nota 31. 129) Doc. cit. del 12.I.1513, vedi nota 32. 130) Doc. cit. del 31.I.1513, vedi nota 33. 131) Doc. cit. del 30.V.1660, vedi nota 66. 132) Doc. cit. del 24.XI.1534, vedi nota 36. 133) Doc. cit. del 16.V.1669, vedi nota 70. 134) Doc. cit. del 1812, vedi nota 80. Doc. cit. del 18.IX.1812, vedi nota 82. Doc. cit. del 28.X.1812, vedi nota 83. 135) Doc. cit. del 8.IV.1910, vedi nota 106. 136) Doc. cit. del 27.III.1947, vedi nota 107. Doc. cit. del 10.VI.1968, vedi nota 114. Doc. cit. del 30.X.1969, vedi nota 116. 137) Doc. cit. del 22.V.1788, vedi nota 72. 138) In A.F., disegni fine XVIII-inizi XIX secolo, pubblicati da G. DE ANGELIS D’OSSAT, 1969, p. 15 e ss. 139) Doc. cit. del 1812, vedi nota 8. 128) Risale proprio a questa data un documento in cui si accenna al fatto che la cupola di s. Maria di Castello, ormai crollata, sarebbe stata “di seconda erezione” 140) . In effetti dall’osservazione dei disegni relativi alla cupola, della fine del XVIII secolo, la tipologia del manufatto, eccetto forse la loggetta di base, non sembra medievale, ma più tarda: non è perciò da escludere che la cupola sia stata ricostruita nei secoli XVII-XVIII dai frati Minori Francescani probabilmente in seguito a un precedente crollo 141) . Dopo la rovina della cupola - avvenuta nel 1819 - il vano, sopra cui essa si elevava, viene coperto in modo precario 142) sino al 1968-1969 143) , quando se ne decide la sistemazione definitiva con l’edificazione di un tiburio nella costruzione del quale vengono reimpiegati i capitelli e le colonnine, appartenenti alla cupola stessa, ancora riutilizzabili. Sulla base delle testimonianze documentarie e dell’osservazione diretta è infine possibile ricostruire le modifiche subite dal pulpito cosmatesco firmato e datato 1208 144) . Esso ha mutato il suo aspetto originario a causa di una serie di furti avvenuti negli anni’60 145) in seguito ai quali sono state asportate le quattro colonnine tortili poste sul balconcino e due protomi di leoni situate ai lati della base. Durante il corso delle loro azioni, i ladri hanno smontato alcune parti del pergamo, abbandonandole poi nella chiesa, e, in tal modo, hanno minato la statica dell’opera stessa 146) . Dopo tali vicende è stato necessario un totale restauro dell’ambone che è avvenuto nel 1968 147) . Esso è stato rimontato con i pezzi superstiti e con l’integrazione di alcune parti “statisticamente necessarie”: in particolare si notano alcune lastre nuove, in marmo, inserite, per completamento, sul retro del manufatto. Rossana Prete 140) Doc. cit. del 26.V. 1819, vedi nota 87, il documento si esprime in questi termini: “L’antichissima chiesa di Santa Maria di Castello.... oltre la cupola di seconda erezione affatto caduta, ho sofferto in più parti e notabilissimamente in tutte quelle esposte al vento di tramontana”. 141) La cupola è stata studiata, attraverso disegni e testimonianze, dal De Angelis D’Ossat (G. DE ANGELIS D’OSSAT, 1969, p. 15 e ss.) il quale fa risalire ad un periodo che va dal 1174, anno del trattato con Pisa, al 1207, anno della consacrazione di s. Maria di Castello. Lo studioso afferma che la cupola risente di influssi pisani, bizantini, nel baldacchino sovrapposto, e islamici nell’asta con sfera terminale. La giudicano della fine del XII secolo anche il Porter (A.K. PORTER, 1917, vol. II, p. 349 e ss.), il Pardi (R. PARDI, 1959, p. 79 e ss., R. PARDI, 1975, p. 10 e ss.), la Raspi Serra (J. RASPI SERRA, 1972, pp. 26 e ss., 44 e ss., 95 e ss.). 142) Vedi L. DASTI, 1878, p.405 (vedi a. nota 89), in cui ne risulta la copertura per interessamento del cardinale Velzi, o A. MONTI, 1863, p. 387 e ss.in cui è testimoniata la presenza di una tettoia rustica. 143) Doc. cit. del 10.VI.1968, vedi nota 114. 144) A.K. PORTER, 1917, vol. II, p. 357, vedi nota 22. 145) Doc. cit. del 27-28IX.1962, vedi nota 109. 146) Doc. cit. del 9.XII.1965, vedi nota 111. SIGLA DI ABBREVIAZIONE A.C.M. = Archivio Capitolare di Montefiascone A.C.V.M. = Archivio della Curia Vescovile di Montefiascone A.C.V.T. = Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia A.F. = Archivio Falzacappa (presso Società Tarquiniense di Arte e Storia) A.P.P.M.C. = Archivio Provinciale dei Padri Minori Conventuali A.S.B.A.A.L. = Archivio della Soprintendenza ai Beni Architettonici ed Ambientali per il Lazio A.S.C.T. = Archivio Storico Comunale di Tarquinia A.S.R. = Archivio di Stato di Roma BIBLIOGRAFIA 1648 - B. TEOLI, Apparato minoritico della provincia di Roma..., Velletri, p. 76 e ss. 1178 - F.A. TURRIOZZI, Storia di Toscanella, Roma, p. 49. 1826 - J.B.L.G. SEROUX D’AGUINCOURT, Storia dell’arte dimostrata coi monumenti, dalla sua decadenza nel IV secolo fino al suo risorgimento nel XVI, Prato, tav. XLII, n. 6, tav. LXIII n. 17, tav. LXIV n. 14, tav. LXVII n. 9, tav. LXX n. 17, tav. LXXIII n. 48. 1863 - A. MONTI, Del tempio di Santa Maria in Castello di Corneto, in “Arti e Lettere”, I, p. 387 e ss. 1875 - G.B. DE ROSSI, I primitivi monumenti di Corneto-Tarquinia, in “Bollettino d’Archeologia Cristiana”, p. 82 e ss. 147) Doc. cit. del 10.VI.1968, vedi nota 114. 1875 - G.B. DE ROSSI, I primitivi monumenti di Corneto-Tarquinia, in “Bollettino d’Archeologia Cristiana”, p. 85 e ss. 1878 - L. DASTI, Notizie Storico-Archeologiche di Tarquinia e Corneto, Roma, p. 394 e ss. 1879-1914 - G. DI CATINO, Regesto di Farfa, Roma-Livorno. 1882 - G.M. ALDANESI, Inventario dei beni già appartenuti alla vetusta chiesa di S. Maria di Castello, Roma. 1917 - A. KINGSLEY PORTER, Lombard architecture, New Haven, vol. II, p. 349 e ss. 1928 - P. TOESCA, Il medioevo, Torino, pp. 440 n. 12; 666 n. 66. 1928 - R. KRAUTHEIMER, Lombardische Hallenkirchen von XII Jahr. in “Jahr. f. Kunstwissenschaft”, 176 e ss. 1959 - R. PARDI, Nuovi rilievi della chiesa di S. Maria di Castello in Tarquinia, in “Palladio”, p. 79 e ss. 1967 - B. THEULI - A. COCCIA, La provincia romana, Roma, p. 179 e ss. 1969 - G. DE ANGELIS D’OSSAT, La distrutta “cupola di Castello” a Tarquinia, in “Palladio”, XIX, fasc.I-IV, p. 15 e ss. P. SUPINO, La Margarita Cornetana, regesto dei documenti, Roma. 1972 - J. RASPI SERRA, La Tuscia Romana, Roma, pp. 26 e ss., 44 e ss., 95 e ss. 1974 - E. GUIDONI, Tarquinia, in “Quaderni di ricerca urbanologica e tecnica della pianificazione”, Roma, p. 166 e ss. 1975 - R. PARDI, La chiesa di S. 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MASS MEDIA E VITA QUOTIDIANA: INTERAZIONI E CONDIZIONAMENTI Nel suo famosissimo “Rapporto sui problemi della comunicazione nel modo”, Sean MacBride sottolineava che “motore ed espressione delle attività sociali e della civiltà, la comunicazione sorregge e anima la vita” e, a seguito dell’evoluzione dell’uomo, “essa mira a liberare l’umanità dalla miseria e dalla paura, unificandola in un sentimento di comune appartenenza e in un medesimo slancio di solidarietà e di comprensione” 1) . E’ questa, come dire?, una lettura positiva ed ottimistica della funzione della comunicazione, cui potremmo contrapporne un’altra, di segno negativo, legata soprattutto ai condizionamenti, talvolta assai gravi e pressochè irreversibili, che ribaltano le opportunità che gli strumenti della comunicazione offrono alla affermazione ed al consolidamento della libertà, cioè il valore stesso della relazione interpersonale ed intercomunitaria. Certo, ricostruendo la storia dell’umanità, sia per quanto attiene al suo miglioramento biologico, sia per ciò che riguarda i mutamenti sociali, politici, civili, non si può non riconoscere il peso determinante esercitato dalla comunicazione - nelle sue varie forme nel fissare tappe di progresso complessivo dell’uomo. Nell’era dei satelliti, fra non molto fruibili da chiunque abbia modo di dotarsi di attrezzature sofisticate ma non per questo eccessivamente costose, la comunicazione di massa offre a tutti i popoli la possibilità di vivere simultaneamente gli stessi avvenimenti, di emozionarsi tutt’assieme attorno alle medesime vicende, di avere un continuo scambio d’informazioni, di comprendersi meglio al di là delle loro specificità, di apprezzarsi attraverso le loro differenze, di fissare gli stessi obiettivi di ulteriore evoluzione. Possiamo, perciò, convenire con Amadou-Mahtar M’Bow, già direttore generale dell’Unesco, che “ovunque gli uomini sono stati portati a stringere rapporti continuativi, la natura delle reti di comunicazione stabilite, così come le forme che hanno assunto e l’efficacia raggiunta, hanno largamente facilitato l’avvicinamento o l’integrazione comunitaria, o determinato la possibilità di attenuare le tensioni o di risolvere conflitti là dove si presentavano” 2) . L’influenza della comunicazione sulla vita di relazione, ma anche e soprattutto sui comportamenti individuali, è talmente alta che oggi ci si interroga persino sui limiti da frapporre ad una invadenza spropositata dei messaggi dei mass media, specie i televisivi. George Orwell disegnò un’ipotesi di condizionamento negativo così preoccupante da 1) “Comunicazione e società oggi e domani - Il rapporto di McBride sui problemi della comunicazione nel mondo”, Eri, Roma, 1982, p. 23. 2) “Presentazione” a “Comunicazione...”, cit., p. 13. mobilitare più d’una generazione a difesa di una comunicazione libera, sottratta ad esasperazioni tecnocratiche o soltanto burocratiche delle innovazioni tecnologiche. Passati dall’ipotesi culturale alla vita quotidiana caratterizzata dalla presenza in ogni angolo del “villaggio” di McLuhan della televisione, anticipatrice e riciclatrice del messaggio, è a tutti evidente come la forza del potere della macchina proponga più d’una incognita. Forme, dimensioni, capacità di dominio del robot sono per tanti versi conosciute, analizzate, ridimensionate nelle loro potenzialità negative. E, tuttavia, l’uomo, che riesce pur sempre, con la sua intelligenza e la sua potenziale capacità di scrutare il futuro, a restare elemento centrale del mondo, è ancora alla ricerca della supermacchina, del superrobot da guidare, possibilmente senza farsene dominare, senza diventarne schiavo. C’è in questa affannosa corsa dell’uomo verso ignoto che è comunque da scrutare, una contraddizione di fondo: la grande macchina ch’egli persegue, anziché mirata ad esaltare se stesso, i livelli di civiltà dell’umanità, rischia talvolta di limitarsi a fronteggiare il prossimo suo, l’altro uomo. Anziché un ritorno a Diogene, col computer al posto della lanterna, lo scienziato sembra impegnato, non sempre inconsapevolmente, ad aggiornare tecnicamente l’homo homini lupus, il principio proprio della legge della giungla, di una giungla che ormai sconfina negli spazi aerei e siderali esponendo l’umanità al rischio di una estinzione. Anche a non volersi eccessivamente soffermare sugli ostacoli alla libertà di comunicazione frapposti da sistemi politici non democratici, non c’è chi non possa convenire sulla enorme diffusione di un processo di alienazione culturale che ha coinvolto popoli meno evoluti, ma anche quelli più avanzati e dotati di strutture di comunicazione aperte. Lo stesso “Rapporto”Mcbride è in proposito preciso: “Il progresso delle comunicazioni in questi ultimi anni, se da un lato ha collegato al mondo esterno milioni di persone che prima vivevano in comunità isolate o che erano in contatto con l’esterno solo attraverso i mezzi di comunicazione classici, ha determinato anche due grosse preoccupazioni: innanzi tutto, lo sviluppo della comunicazione mediata, oltre a una necessità tecnica e sociale, può essere una minaccia per la qualità della cultura e i valori che essa rappresenta; in secondo luogo, l’apertura indiscriminata a nuove suggestioni indotte dai mass media allontana qualche volta il pubblico dalla propria cultura”. 3) Recentessime polemiche, nelle quali sono stati coinvolti i massimi sistemi televisivi nazionali, le interpretazioni sulle radici culturali del nostro popolo, i personaggi di primo 3) “Comunicazione...”, cit., pp. 231-232. piano del video e della politica dimostrano quanto poco teoriche siano quelle affermazioni d’ordine generale e come, invece, esse vadano al cuore del problema, che è appunto quello di non cadere in stravolgimenti della funzione che i mass media sono chiamati ad assolvere in una libera comunità di individui gelosi del proprio privato. Il “Rapporto” è impietoso: “La rapidità e la forza d’urto dei mass media hanno avuto effetti dannosi. Molti hanno una visione della realtà confusa e alterata dai messaggi dei mass media. Il rapido aumento del volume d’informazione e d’intrattenimento ha determinato una certa omogeneizzazione di varie società laddove, paradossalmente, gli individui rischiano di essere tagliati fuori ancor più radicalmente dalla società in cui vivono per la penetrazione dei mass media nella loro vita. L’introduzione nelle società tradizionali di nuovi mass media, e della televisione in particolare, ha quasi sempre stravolto le abitudini secolari, le attività culturali tradizionali, i modi di vita semplici, le aspirazioni sociali e i modelli economici” 4) . Insomma, troppo spesso ed in ogni area e regime terrestri, i benefici delle comunicazioni moderne - che diffondono informazioni e spettacoli insoliti e affascinanti, prodotti nelle megalopoli e spesso su iniziative straniere - “si accompagnano ad effetti negativi, che turbano in maniera considerevole l’ordine stabilito” 5) Ora, è altrettanto evidente come qualsiasi processo di modernizzazione sia accompagnato da sconvolgimenti anche profondi e difficili a capire e digerire. E, tuttavia, il potere scaturito e che promana dai mass media rispetto al gran pubblico, spesso indifeso e comunque subalterno, è talmente alto che persino i detentori del potere formale sono costretti a subirne gli effetti, piuttosto che chiamati a guidarli. L’influenza della propaganda televisiva sulle scelte elettorali, della pubblicità sui comportamenti di consumo, dei modelli offerti dal grande e piccolo schermo alla condotta dei soggetti maggiormente suggestionabili costituiscono altrettanti nodi problematici sui quali è opportuno indirizzare la riflessione in generale, dei legislatori in particolare. La stessa comunità scientifica non è indifferente al dilagante “pericolo elettronico”, specie per quanto tocca i risvolti di ordine militare e strategico. C’è allora, da discutere su come progredire e come secondare l’evoluzione, senza, però, fare scadere la qualità della vita individuale e di quella di relazione, limitando la manipolazione della comunicazione al fine di ottenere consensi non sufficientemente ragionati ed espressi in totale libertà di spirito e di azione. Ovviamente non si tratta di stabilire - se mai vi fosse qualcuno veramente in grado di farlo - i modi per fare trionfare il bene sul Male, che costituisce l’eterna lotta che l’uomo 4) Ivi. combatte contro se stesso. Ma di vedere se e come l’uomo può correre ai ripari anche quando tutto sembra destinato ad una conclusione sicura, qualunque sia il giudizio di merito che si possa poi esprimere sull’obiettivo che l’azione presupponeva. La libertà alla quale i processi evolutivi della scienza e della tecnica fanno da cartina di tornasole, non è soltanto il Bene Supremo, la Ragione Ultima cui l’uomo tendenzialmente muove, concentrandovi tutta la sua intelligenza. Il potere telematico obbliga l’uomo a scegliere, pur nel non rifiuto del progresso e della evoluzione delle ormai sempre più frequenti generazioni robotiche, tra forza della macchina e forza dell’uomo. Impone, cioè, una attenzione prevalente per le ragioni dell’umanità rispetto alle ragioni della macchina. La scelta, all’interno di questo dilemma, fissa i livelli di civiltà dell’umanità per un periodo la cui durata non possiamo prevedere, ma che, tuttavia, possiamo considerare decisiva per le stesse sorti del consorzio umano. Esiste un vasto campo di audiences particolarmente indifese e recettive. E’ quello dei bambini e degli adolescenti, la cui esperienza televisiva è fin troppo avanzata e condizionante i loro comportamenti quotidiani e certamente superiore al loro impatto con la scuola. Nel libro “L’occhio universale”, Giovanni Sartori fa un’osservazione estremamente significativa. Nelle società in cui la massiccia ed incontrollata offerta multirete ha ormai da tempo estremizzato i termini del rapporto bambino-video, l’adolescente può pervenire alle soglie della licenza di scuola superiore avendo collezionato un numero di ore televisive, appassionate o noiose, assai maggiore (15 mila ore contro 11 mila) del tempo dedicato allo studio e all’impegno scolastico. 6) Una esperta di sociologia della comunicazione, Elisa Manna, ha calcolato che la recente, disordinata evoluzione del sistema radiotelevisivo italiano, con la pratica del non-stop da parte delle emittenti private e con l’ampliamento delle ore di trasmissione della Rai “lascia prevedere, in una dimensione diacronica, la conferma di modelli e politiche di programmazione dichiaratamente ispirati ai deprimenti palinsesti delle tv americane (tanto svago, poca informazione, cultura nulla)” 7) . Se davvero la fruizione della televisione o di mass media aculturali segnasse profondamente l’età evolutiva delle nostre prossime generazioni, le sorti dell’umanità rischierebbero di attestarsi su modelli che la nostra cultura non solo considera estranei, ma avverte come pericolosissimi per la stessa qualità della formazione dell’uomo. Non si tratta 5) Ivi. Cfr. “L’occhio universale”, Rizzoli, Milano, 1980, p. 20. 7) Elisa Manna, “Età evolutiva e televisione - Livelli di analisi e dimensioni della fruizione”, Eri, Roma, 1982, p. 12. 6) perciò di restringere il campo di libertà d’opzione delle generazioni più fresche. Si tratta, al contrario, di offrire loro un campo di scelte, di informazioni e di approfondimenti culturali molto più ampi di quelli oggi fruibili attraverso media omologati a modelli ambigui. Si tratta, se si vuole, di accrescere nella comunicazione ciò che la scuola non riesce a dare o non è, così com’è strutturata, in grado di offrire alla sensibilità e alla non refrattarietà degli adolescenti. Il condizionamento della comunicazione è vasto, tocca tutte le generazioni di un consorzio civile, espone a rischi maggiori i settori più giovani. Ma non esclude i settori più indifesi e fragili, quelli meno acculturati, quanti sono più inclini alla emozione che alla ragione. C’è, però, una sempre crescente domanda dell’opinione pubblica di nuove conoscenze, anche e soprattutto attraverso i mass media, la televisione, la radio, i giornali, le rappresentazioni, le mostre, qualunque strumento di relazione. In questo contesto, che va salutato con circospezione ma anche con grande soddisfazione a ragione appunto della domanda di maggiore e più diffusa acculturazione che promana da tutti gli angoli della società civile, il potere telematico, usato secondo i principi propri di una scienza coniugata con l’umanesimo delle idee, può diventare lo strumento di elevazione radicale dell’umanità, di abbattimento di barriere ultramillenarie, di arricchimento complessivo della società umana. Per questo occorre guardarsi dalle critiche eccessive e non ponderate all’influenza dei mass media sui processi formativi della coscienza umana. Alberto Cavallari ricordava recentemente 8) l’errore madornale di Leibniz, che nel ‘600 voleva trasformare scrittori, editori, librai in funzionari dello stato perché si scrivesse solo secondo “norme superiori” e non si seguissero “gli errori terribili dell’ispirazione”. Oggi possiamo ammettere che molta informazione, molti mass media sono malati, che l’assieme della comunicazione è corroso da un male oscuro difficile ad estirparsi, e tuttavia estirpabile e che, dunque, la malattia non si vince eliminando il malato. C’è, infatti, una libertà di scelta, di spegnere il video o di girare canale, di rifiutare un giornale e d’acquistarne un altro, di ascoltare una predica e non dar credito ai falsi profeti, agli imbonitori da palcoscenico. E’ quando tutto ciò manchi - e vi sono tante aree del mondo in cui tutto ciò effettivamente manca - che occorre preoccuparsi e lavorare perché la situazione venga ribaltata. Il potere politico non può, non deve limitare il progresso scientifico o la diffusione della comunicazione. Non può disciplinare con atto d’imperio, benché apparentemente 8) Alberto Cavallari, “Dagli al giornalista”, La repubblica, 20 novembre 1987. razionale, la demografia telematica. Il potere ha un compito più arduo, ma anche più esaltante nella società che s’avvia all’età telematica: può concorrere a creare le condizioni civili, sociali, economiche, ma soprattutto culturali perché la società di domani non sia composta da una élite di espertissimi e da una massa enorme di disoccupati o di pensionati ed, invece, sia caratterizzata dal più alto numero possibile di giovani e anziani, donne e uomini che, nella comunicazione, trovino il loro appiglio per meglio esprimersi e relazionare. Come in tutte le fasi nelle quali la libertà dell’uomo rischia d’essere compromessa, non è dal potere, che per sua natura è conservatore, che ci si devono aspettare le nuove tavole, ma dalla cultura. E’ questa, in prima istanza, il canale attraverso il quale l’opinione pubblica, cioè l’umanità, può accingersi ad entrare nel mare aperto di un futuro ignoto, ma che merita di essere rincorso e scrutato con fiducia. Ed è, appunto, alla cultura che bisogna chiedere maggiore attenzione per le mutazioni in atto sulla Terra. Giovanni Di Capua UN INFAUSTO VIAGGIO Padre Adriano Spina, passionista, ha recentemente pubblicato un libro dal titolo “Diario della deportazione in Corsica del canonico di Albano, G.B. Loberti” in cui riporta i nomi dei sacerdoti e prelati esuli per aver nutrito e manifestato sentimenti antibonapartisti. O che si erano rifiutati di giurare fedeltà all’Imperatore dei Francesi quando la stella di Napoleone stava avviandosi verso il declino. E fra quei tanti nomi, l’autore del libro cita il nome di due fratelli Falzacappa, Giovan Francesco e Giovan Vincenzo, entrambi di Corneto, canonici il primo di S. Pietro ed il secondo di S. Maria in via Lata in Roma. Erano gli anni delle lotte fra napoletani e francesi le cui truppe si scontrarono nelle zone con alterne vicende: quali poi troviamo descritte in un romanzetto storico di Luigi Dasti, sindaco di Corneto, dal titolo “La capanna del vaccaro”. Il Dasti infatti premette: “Fu bello ed onorevole fatto d’armi per le truppe italiane la ritirata che il conte Ruggiero di Damas eseguì nel 1798 da Roma sino ad Orbetello, combattuto sempre con forze francesi di gran lunga superiori in numero alle proprie. Sbarcato egli da Orbetello colla sua Divisione napoletana, forte di settemila combattenti, doveva secondo il piano dell’austriaco Mach in allora generale supremo degli eserciti napoletani, avanzare per la strada del litorale verso Civitavecchia e Viterbo - già scopertesi a furor di popolo contro i Francesi - dopo le vittorie degli austro-russi nell’alta Italia, e l’invasione degli Stati Romani da parte dell’Armata di Napoli. Ivi attendendo che il nerbo delle forze napoletane, sotto gli ordini dello stesso Mach, avesse assalita e respinta l’ala destra dell’esercito francese, la quale comandata da Mac Donald si distendeva da Terni a Monterosi, doveva operate in modo di congiungersi all’esercito principale”. Infatti le vicende storiche e politiche di quel tempo videro l’invasione dello Stato Pontificio da parte delle truppe straniere col pretesto di reprimere tumulti antifrancesi; a causa della quale il pontefice Pio VI fuggì da Roma per riparare in Toscana, ospitato dal Granduca; e dove poi venne arrestato ed esiliato in Francia dove morì il 29 agosto 1799. In quello stesso anno accadde che Giovan Francesco Falzacappa prendesse decisione di trasferirsi ad Acquapendente con un proprio “legno”. A che fare, oggi non sappiamo dire: ma stando ad una dichiarazione del pretore del Cantone di Corneto, Carlo Bocci, trovata nell’archivio della famiglia Falzacappa, sembrerebbe che quel viaggio ed i successivi avrebbero dovuto avere precisi scopi politici. Infatti l suddetto Pretore Bocci pubblicò la seguente nota, con l’intestazione “Repubblica Romana” ed ai lati il motto di “Libertà” ed “Uguaglianza”. La nota dice: “Degli individui della Commune di Corneto usciti dal Territorio della Repubblica Romana dopo la partenza delle Truppe Napoletane da Roma: Gio: Francesco Falzacappa, ex-prelato Gio: Vincenzo Falzacappa di lui, fratello, Canonico. Osservazioni Nello scaduto autunno li nominati Fratelli Falzacappa da Roma si restituirono alla Casa Paterna di Corneto. La condotta da questi tenuta in tutto il tempo della dimora in Corneto non fu certamente la più plausibile, giacché vi era fondato sospetto che essi fossero gli autori delle notizie allarmanti che spesso si sentivano per la Commune, in specie che presto sarebbe terminata la Repubblica Romana, perché era già stata venduta. Nella loro abitazione spesso si tenevano segrete adunanze colli primari Aristocratici della Commune, ed essi erano quelli che sollecitavano tutti di non pagare le contribuzioni, ma di temporeggiare perché, secondo l’idea loro, dicevano che presto doveva terminare la scena. Circa 45 giorni innanzi all’ingresso delle Truppe Napoletane a Roma partì da Corneto l’ex-prelato per Acquapendente, e si sparse la nuova per la Commune che s’era colà portato per esser pronto ad incontrare l’imbecille Pio VI, che doveva ritornare in Roma. Difatti manifestatasi in Acquapendente la controrivoluzione per l’ingresso nello Stato di dette Truppe, esso Prelato disse in pubblico ch’egli era sciente di tutto, perché avea delle segrete corrispondenze, di modo che prima di partire da Corneto, soggiunse, avea colà lasciato tutte le sue disposizioni, come dovevano contenersi quei suoi satelliti, ma che fra giorni si sarebbe restituito colà per regolar tutto. Il Commissario Cittadino Bouchard, e di lui Segretario possono attestare un tal parlare del Falzacappa, mentre essi erano in Acquapendente nel principio della Insurrezione. A Corneto parimenti vi fu dell’insorgenza: e dai Briganti furono commesse delle scelleraggini tanto contro i Francesi che contro i Patrioti. Giunto in Corneto il celebre proclama dell’eroe Napoletano, in cui si diceva di perdonare a tutti, e che le antiche Magistrature fossero ritornate nel loro esercizio, il Canonico Falzacappa si fece capo per radunare tutti li ex-Patrizii, e nell’antico palazzo Commutativo fece un insultante sproloquio contro la Repubblica e suoi Rappresentanti, e creò il governo Provvisorio. Dopo alcuni giorni fece ritorno in Corneto il suddetto ex-prelato e quasi subito partì per Roma unitamente al Fratello Canonico. Ambedue stettero in Roma sino alla partenza del Poderoso Esercito e poi andarono a Sora. Avanzandosi le truppe Francesi nello Stato Napoletano, partirono da Sora e si portarono in Napoli, dove continuando a sentir delle nuove per essi non molto soddisfacenti, s’imbarcarono per Orbetello sopra quei stessi legni che andarono ad imbarcare le fugate truppe. La loro dimora in Orbetello fu di pochi giorni, perché vedendo il caso disperato per essi, e deluse le mal fondate speranze, dopo di essersi congedati dal loro intrinseco amico ex Fiscale Barberi, si sono impunemente restituiti a Corneto, come se non fosse fatto loro. Carlo Bocci, pretore del Cantone di Corneto” Evidentemente questo inspiegabile viaggio che si concluse nel giro di un mese appena, suscitò nelle Autorità, allora costituite - naturalmente in senso laico - il sospetto che i due fratelli Falzacappa tramassero contro la Repubblica Romana e contro i Francesi che erano andati sistemandosi via via in tutto il Lazio ed oltre, per sostenere quei principi di libertà e di uguaglianza, sbandierati dalla Repubblica Francese prima, da Bonaparte poi. Cosicché i due prelati rischiarono di essere considerati decaduti dal diritto di cittadinanza e condannati all’ostracismo grazie ad una legge varata dalla stessa Repubblica Romana che considerava stranieri, perciò indesiderabili, tutti coloro che avessero dimorato per un mese consecutivo fuori della patria originaria. Ecco dunque la ragione per la quale Giovanni Francesco e Giovanni Vincenzo Falzacappa si affrettarono di ritornare in Corneto non tanto per paura di perdere quel diritto ma soprattutto per godere del grosso asse ereditario del padre Leonardo. Tanto che si iniziò una vera e propria ricerca di attestazioni che potessero sempre meglio dimostrare la loro estraneità alle mene politiche e militari di quel tempo. Il primo attestato venne rilasciato dall’Armata di Napoli il dì 12 Ventoso dell’Anno 7 al Quartier Generale di San Gordiano, territorio di Civitavecchia, in lingua francese, che dichiarava: “Armata di Napoli Al Quartiere Generale San Gordiano il 12 Ventoso Anno 7 1) Le certifico che il cittadino sacerdote Falzacappa ha fatto tutto ciò che dipendeva da lui per salvare i francesi al tempo dell’insurrezione d’Acquapendente, e che io particolarmente devo molto a lui quanto al Vescovo per avermi sottratto ai Briganti che avevano già massacrato molti Francesi. Che inoltre si è mostrato amico del buon ordine e de’ Francesi durante l’assedio di Civitavecchia; che ancora io l’ho incaricato più volte di missioni segrete e che mi ha resi sempre dei conti fedeli concernenti le manovre dei ribelli della Tolfa. In fede di che io gli ho dato il presente certificato perché gli serva in ciò che sarà di ragione. Il Generale di Brigata Comandante la spedizione di Civitavecchia Merlin” Poi occorse un ulteriore attestato, emesso a Corneto l’8 Fruttifero dell’Anno 7 della Repubblica che diceva: “Libertà Eguaglianza Repubblica Romana Noi sottoscritti per la verità attestiamo a chiunque che i Cittadini Gio: Vincenzo, Ruggero e Gio: Francesco Falzacappa, abitanti in questa Commune di Corneto, sono figli del cittadino Leonardo Falzacappa ancora vivente, il quale si ritrova viventi altrettanti figli maschi e tre femine, essendo già stato padre di dodici figli tutti viventi ad un tempo, e che inoltre il di lui primo figlio Ranieri è padre di sei figli. Deponiamo inoltre che tutti li suddetti individui sono a carico del detto padre di famiglia Leonardo, il quale amministra da per se ed in piena proprietà tutto l’asse della famiglia Falzacappa suo patrimonio, e che i suddetti figli di famiglia e nipoti sono in tutto e per tutto mantenuti dal medesimo, non avendo alcuna particolare possidenza loro propria come è a tutti noto, e risulta dai pubblici Catasti, a riserva del Canonicato di sua proprietà in via Lata di Roma goduto dal di lui figlio Gio: Vincenzo e della prelatura consistente in LL. di MM; ed un vacabile che si godeva dall’altro figlio Gio: Francesco, e finalmente di un beneficio ecclesiastico di circa scudi trenta di rendita, che si gode dal detto terzo figlio Ruggiero. Per essere tutto ciò la verità e per essere cose pubbliche e notizie, sottoscriviamo la presente e la confermiamo col nostro giuramento da ratificarsi. Corneto 8 Fruttifero Anno 7 della Repubblica 2) Firmato: Pietro Angelo Petrighi Polipori Arcangelo Lucidi, attesto quanto è retroscritto Crispino Mariani Domenico Panzani Francesco M. Bruschi Francesco Ronca.” 1) La Repubblica Romana ebbe inizio il 20 germinale, vale a dire il 9 aprile 1798, adottando il calendario modificato dai francesi dopo la rivoluzione del 1789. Constava di 12 mesi di 30 giorni ciascuno; ed ogni mese aveva preso nome dalle vicende stagionali e climatiche. Perciò il 12 ventoso dell’Anno 7 della Repubblica equivaleva al 4 marzo 1805. Dato che non ci sono memorie nella tradizione della nostra Comunità se non quella di un loro discendente, tal Pietro Falzacappa, che “mutatis mutandis” dette filo da torcere nel XIX secolo a un sindaco “papalino” del suo paese con accuse di sovvertimento per un presunto asilo a tre cardinali di Santa Romana Chiesa (del che si può avere qualche cognizione sul saggio di Adrio Adami pubblicato sul nostro Bollettino dell’anno 1986 sotto il titolo di “Repubblica Minore”), adesso, per andare in ordine cronologico, pubblichiamo via via i documenti e la corrispondenza perché il lettore, a suo giudizio, riesca a ricostruire le figure di questi due prelati in quelle tormentate vicende che precedettero la caduta di Napoleone. Il Prefetto Consolare Pancrazio Ronca dette ai suoi superiori queste informazioni: Informazione del Prefetto Consolare Patrizio Ronca. E’ verissimo che i Fratelli Falzacappa Gio: Francesco, ex Prelato, e Gio: Vincenzo, Canonico, unitamente agli altri di loro Famiglia si portarono secondo il solito nell’Ottobre dell’Anno scorso in questa loro Patria. Di quel tempo era qui comune, come altrove, la nuova purtroppo verificata dell’avvicinamento, e prossimo ingresso nel nostro Stato, delle Truppe Napoletane. Ma nonostante la vigilanza usata allora, e in appresso sopra le persone che potessero spargere delle nuove allarmanti, mai mi sono stati indicati per sospetti i detti Fratelli Falzacappa, i quali han sempre tenuta una condotta molto riguardata anche ne’ momenti stessi della seguita invasione. Che poi nella di loro casa si siano di quel tempo tenute delle segrete adunanze ad oggetto di temporeggiare il pagamento delle contribuzioni è assolutamente falso; giacché è questa una casa, in cui per non esservi donne non v’è mai unione di persone. Il fatto poi è contrario a questa imputazione, giacché portatisi qui il Cittadino Commissario Consultore Bouchard co’ suoi compagni (quasi tutti furono alloggiati in casa Falzacappa) furono pagate nei termini da Esso stabiliti, le rate di contribuzione, che di mano in mano scaddero, come potrete rilevare dai registri del Vostro V. Questore Distrettuale. Pochi giorni dopo l’ex-Prelato, si portò in Acquapendente per quel che si disse fin d’allora così d’intelligenza col suddetto Commissario Bouchard affine di trovarsi colà al di lui arrivo per combinare insieme una qualche diminuzione sull’imprestito forzato delle 2) 26 agosto 1805. 600 piastre imposto al di lui padre. Mai però nè prima, nè dopo si è vociferato da alcuno che una tal gita avesse il richiesto oggetto d’incontrare Pio VI nel ritorno, che dovesse fare in Roma. Di quel che il suddetto possa aver detto in tal luogo quando giunse colà la notizia dell’invasione Napoletana non ne posso rispondere, che non mi ci trovava presente. Posso però accennarvi due fatti, che sono sicuramente in contradizione con quanto gli viene imputato. Il primo si è che, ritornato in Patria durante ancora il Governo Provvisorio dell’ex-Re di Napoli in questa casa, ed altri luoghi anche alla mia presenza si gloriò di aver salvato dal furor Popolare il detto Cittadino Bouchard e compagni, e posti tutti in salvo nella Toscana. Anzi ultimamente venuto sul Monitore Romano un articolo contro di lui su tale oggetto disse francamente di avere un certificato del detto Bouchard, che smentiva tutto. L’altro si è la testimonianza resagli dal Generale Francese Merlin venuto qui ne’ giorni scorsi il quale in publica tavola disse che gli doveva la meta’ de’ suoi giorni per avergli salvata la vita in Acquapendente unitamente a quel Vescovo. A dir vero non veggo come si possano combinare le imputazioni dategli nel ricorso con questi fatti accaduti in un tempo in cui quasi tutti temevano di rendersi sospetti col prestare ajuto ai Patriotti e Francesi. In quanto poi al Canonico è falso assolutamente che al giungere del Proclama dell’ex Re di Napoli parlasse al popolo contro la Republica, e si erigesse in Capo degli exPatrizii per formare il Governo Provvisorio. Fu questo eretto di comun consenso della Popolazione dopo passata di qui fugendo la Guarnigione di Civitavecchia a solo oggetto di contenere il popolo, che già tumultuava senza che alcuno si erigesse in capo, o parlasse insultantemente contro la Repubblica. Che anzi il detto Canonico ringraziò varj cittadini che volevano far cadere sul di lui Padre la nomina di uno de’ Deputati al Governo Provvisorio. Esso in una parola ha tenuta sempre una condotta così ritirata che quasi puol dirsi non sapersi che sia in Corneto. In appresso ambedue i detti Fratelli si portarono in Roma, da dove fecero qui ritorno ne’ primi giorni di Gennaio per la parte di Orbitello. Per ragion del mio impiego avendoli dopo il ritorno interrogati sul loro viaggio mi esibirono i Passaporti, da’ quali risultava che avevano intrapreso il viaggio alla volta di Civitavecchia, ma che poi erano stati obbligati dal timor dell’Armate che trovavansi in quella parte, a prendere la via di Napoli per imbarcarsi, come fecero, a questa direzione. Posso finalmente a lode della verità assicurarvi che tutti gl’individui della Famiglia Falzacappa sono nel numero de’ migliori Cittadini, che si sono sempre adoprati per mantener quieta questa Popolazione ne’ momenti più critici, e che si sono molto prestati per i bisogni della vicina Armata Francese a segno che il suddetto ex Prelato fu deputato dal Generale, e dal Commissario della Repubblica, in soprintendente all’Approvigionamento dell’Armata Francese. Ma tali informazioni non dovettero essere sufficienti a creare un alibi se poi venne fatto un processo verbale sul loro viaggio, per ordine del surriferito Prefetto Consolare Ronca Pancrazio, emesso il 22 Nevoso dell’Anno 7, del seguente tenore: Libertà Eguaglianza Repubblica Romana Processo verbale fatto d’ordine ed alla presenza del Cittadino Prefetto Consolare Ronca Pancrazio alli infrascritti Cittadini Giovan Vincenzo canonico Falzacappa, Giovan Francesco Falzacappa, Ruggero Falzacappa Filippino, di Roma. Lì 22 Nevoso Anno 7 3) Presentatesi i suddetti tre Cittadini all’invito del Cittadino Prefetto Consolare di questa Commune in Municipalità; ed interrogati dal medesimo sul di loro ritorno da Roma. Risposero conformemente li suddetti tre Cittadini che li 26 Glaciale si determinarono di partire da Roma per tornare alla lor Patria Corneto e che a tale effetto ne presero in detto giorno il Passaporto da quel Governo Provvisorio; quel Passaporto da essi esibito a detto Cittadino Prefetto Consolare e letto dal medesimo per di lui ordine ne fu transuntato il tenore, conforme all’inserto foglio. Interrogati perché e come fossero venuti per la parte di Orbetello, risposero che nel giorno 12 decembre u.s. cioè 22 Glaciale Anno Settimo mentre tutto avevano preparato per partire da Roma, e per la solita strada di Civitavecchia venire in Corneto suddetto, intesero con fondamento e communemente accertata la nuova, che detta strada era ingombrata da’ Napoletani fuggiaschi ed inseguiti da una divisione Francese, e che per non esporsi al pericolo di trovarsi fra i due fuochi, si determinarono la sera di 12 decembre u.s. cioè 22 Glaciale di prendere la via di Napoli, da dove imbarcarsi per 3) 11 gennaio 1805. ritornare in Patria, facendo capo o a Civitavecchia o a Orbetello, secondo l’imbarcazione che avessero trovata. Interrogati se avevano come provare la loro assertiva, risposero di averne i respettivi passaporti dal Commandante Napoletano in Roma datata il giorno 12 Decembre 1798 per Napoli; che letti e presa copia conforme, interrogati del giorno della loro partenza da Roma e del loro arrivo in Napoli, risposero che il passaporto esibito e datato il giorno 12 Decembre u.s. cioè 22 Glaciale Anno Settimo provava la loro partenza il giorno 18 da Roma cioè 23 Glaciale Anno Settimo e che in Napoli giunsero il giorno 17 suddetto u.s. cioè ventisette Glaciale Anno Settimo. Interrogati della loro dimora in Napoli, risposero che conformemente alla loro prima idea di ritornare in Patria per la via di mare, appena giunti in Napoli domandarono i passaporti per la via di Orbetello, avendo trovato per quella volta una sicura imbarcazione. Interrogati se potevano giustificare una tale assertiva, risposero di averne i passaporti del Governo Napoletano per la via di mare ad Orbetello del giorno 22 Decembre 1789 u.s. cioè 2 Nevoso Anno 7 che da essi parimenti esibiti a detto Prefetto Consolare e letti dal medesimo per di lui ordine furono transuntati come all’inserto foglio. Interrogati se quando giungessero in Orbetello, risposero che vi giunsero il giorno 6 di Gennaro 1799 u.s. e cioè 17 Nevoso Anno 7 essendo rimasti imbarcati qualche giorno in Napoli ed avendo per ragion di vènti impiegato del tempo nella navigazione. Interrogati se prima di giungere ad Orbetello dessero fondo ad altro porto, risposero di no, ma che appena giunti il detto giorno al porto Santo Stefano, la sera si portarono ad Orbetello, da dove spedirono a Corneto per aver i cavalli che appena avuti si misero in viaggio ed arrivarono a Corneto come era a tutti noto nel giorno di ieri 21 Nevoso Anno 7. Invitati dal detto Cittadino Prefetto Consolare a sottoscrivere di propria mano il presente processo verbale, lo sottoscrissero come appresso. Giovan Francesco Canonico Falzacappa Giovan Francesco Falzacappa Ruggiero Falzacappa Filippino Ronca Prefetto Consolare Saverio Avvolta, segretario Venne anche sollecitata la testimonianza del sotto-Commissario Consolare del Dipartimento del Cimino, tale Bouchard, il quale dichiarò: Libertà Eguaglianza Repubblica Romana Io sotto come Commissario Consolare del Dipartimento del Cimino mi portai nel passato Mese Brumale 4) in Corneto, dove mi fu destinata per alloggio la Casa del cittadino Leonardo Falzacappa, ed ivi ebbi occasione per molti giorni a trattare anche famigliarmente il Cittadino Gio: Francesco, figlio di detto Leonardo, che anzi dovendomi portare in Acquapendente per continuare colà le operazioni della mia Commissione, ebbi piacere che si trovasse anche esso colà, come di fatti vi si trovò in Casa del Cittadino Giuseppe Falzacappa, di lui germano fratello, dove parimenti io abitai in compagnia del Cittadino Tizioni di Viterbo, e tanto in Corneto, che in Acquapendente il suddetto Cittadino Gio: Francesco si mostrò premuroso, perché fossero accelerate e facilitate le operazioni della mia Commissione. E siccome in tempo che mi tratteneva in Acquapendente accadde l’invasione de’ Napoletani nello Stato Romano, e quel Popolo rivoltoso voleva inveire tanto contro di me, quanto contro il Cittadino Tizioni, il detto Cittadino Gio: Francesco si mostrò premuroso, perché fossero accelerate e facilitate le operazioni della mia Commissione. E siccome in tempo che mi tratteneva in Acquapendente accadde l’invasione de’Napoletani nello Stato Romano, e quel Popolo rivoltoso voleva inveire tanto contro di me, quanto contro il Cittadino Tizioni, il detto Cittadino Gio: Francesco Falzacappa unitamente al Vescovo della città si diede una incidibile premura per liberarci dal furore popolare, e mercè la loro assistenza restammo salvi ed immuni sino al momento che potemmo collocarci in un legno, che ci condusse in Toscana. Per far costare detta verità, munisco il presente della mia sottoscrizione e tutto confermo col mio giuramento. Bouchard 4) Ottobre-novembre. E come se non bastasse tanto nero sul bianco, pure il Commissario Consolare Chiassi, presso l’Armata del Generale Merlin in Civitavecchia, sottoscrisse questa testimonianza: Libertà Eguaglianza Repubblica Romana Chiassi, Commissario Consolare presso l’Armata del Generale Merlin, in Civitavecchia Civitavecchia 10 germile anno 7 Rep. 5) Certifico io sottoscritto a chiunque spetti, qualmente ritrovandomi destinato dal Consolato della Repubblica Romana al fianco del Generale Merlin, nella spedizione della sua Armata davanti Civitavecchia, e questa non avendo presso di sé alcun agente di Sussistenze, o fornitore, assunsi, per il bene della Repubblica, l’incarico di approvisionare l’Armata delle sussistenze necessarie, per il che fui costretto spedire de’ Commissari in diverse Comuni del Dipartimento del Cimino, e fra le altre in Corneto dirigendo li medesimi particolarmente in quella Casa Falzacappa, ove tutti si prestarono a quanto gli veniva da me commesso per il bisogno dell’Armata, e questo non solo ne’ primi momenti che l’Armata si trasferì avanti Civitavecchia, ma ancora in tutto il tempo che la medesima tenne l’assedio avanti Civitavecchia, e dopo entrata la truppa in Civitavecchia, essendo particolarmente stati incaricati tutti li Fratelli, cioè Gio: Vincenzo, Canonico, Gio: Francesco ex prelato; Ruggiero e Ranieri Falzacappa dal medesimo Generale Merlin a presiedere all’importantissimo incarico di far seguire la spedizione del Pane al Mignone, in servizio della Truppa destinata a sottomettere la Tolfa; e che in tali incarichi, hanno sempre mostrato tutto il zelo di veri e buoni Repubblicani ed attaccamento all’Armata Francese per cui hanno meritato la stima e gli encomi del General Merlin. Certifico pertanto tutto ciò a chi spetta per esserne pienamente informato, e come cosa di fatto proprio. Chiassi 5) 1 aprile 1805. Nel frattempo, nonostante tante dichiarazioni, i fratelli Giovan Vincenzo e Giovan Francesco Falzacappa videro pubblicati i propri nomi in una nota di proscrizione, pubblicamente affissa: per la qual cosa vergarono una lettera indirizzata ai Cittadini Municipali in data 11 Germinale dell’Anno 7, del seguente tenore: Libertà Eguaglianza Repubblica Romana Cittadini Municipali, nella nota affissa dagli assessori del Dipartimento del Cimino si trovano segnati i nomi di noi infrascritti. Vi domandiamo quale certificato che è necessario per dimostrare l’equivoco della inserzione dei nostri nomi in detta nota; secondo le leggi tanto delli 22 fruttifero anno 6 quanto delli 20 Ventoso anno 7 non possiamo essere chiamati nè assenti nè emigrati: in prova vi esitiamo la deposizione dei testimoni e nel rammentarvi il processo verbale da Voi cittadini municipali fattoci li 22 Nevoso anno 7 ve ne rimettiamo la copia publica. Muniteci per la giustizia del noto certificato, respingetelo alla dipartimentale affinché dal Ministro di giustizia si proceda alla cassazione dei nostri nomi erroneamente posti nella nota degli assenti. Canonico Gio: Vincenzo Falzacappa Gio: Francesco Falzacappa In calce a questa lettera, i Cittadini Municipali di Corneto scrissero la seguente dichiarazione: La Municipalità di Corneto Presentatisi personalmente li cittadini Gio: Vincenzo Falzacappa e Gio: Francesco Falzacappa, ambedue di questa Comune, per essere posti erroneamente segnati nella nota pubblicata degli assenti, hanno esibito in primo luogo la testimonianza dei cittadini n. 6 che provano l’identità della loro persona, e loro permanenza nello Stato della Repubblica. Secondiariamente per provare che non hanno mai avuto animo di emigrare dalla Repubblica, e che solo una imperiosa necessità li obbligò a trattenersi per meno di un mese fuori dalla Repubblica, esibiscono una copia pubblica di un processo verbale fatto alli medesimi da questa Municipalità li 22 Nevoso Anno 7. A seconda delle istruzioni avute dal cittadino Ministro di Giustizia e Polizia abbiamo noi verificato la legittimità della riferita giustificazione ed esaminate le risultanze delle medesime le abbiamo trovate per ogni parte concludenti e legali. I detti cittadini non fanno alcun mestiere, ma vivono nella Casa Paterna, essendo ambedue figli di famiglia. In seguito di detto esame certifichiamo che li suddetti canonico Gio: Vincenzo Falzacappa e Gio: Francesco Falzacappa non possono chiamarsi emigrati nel senso delle leggi emanate il dì 27 Fruttifero Anno 6. 7) e 30 Ventoso anno 7. 8) e che per ciò sembra loro fondata la loro dimanda di essere cancellati dalla notizia pubblicata quando le autorità superiori non trovino altro ragionevole ostacolo. Dobbiamo inoltre assicurare per render giustizia alla verità che i suaccennati cittadini sono benemeriti della patria e della repubblica essendosi sempre impiegati per la publica tranquillità tanto nell’ingresso della truppa napolitana quanto ultimamente per fare approvvigionare l’armata del Generale Merlin sotto Civitavecchia avendo riportata tanto dal Commissario Generale Chiassi quanto dal Cittadino Generale Merlin della pubblica testimonianza del loro patriottismo e concorso alla causa publica. Gio: Vincenzo Falzacappa Gio: Francesco Falzacappa Ronca, Prefetto Consolare Falzacappa Presidente Saverio Avvolta Segretario. Contemporaneamente furono di supporto alle affermazioni dei fratelli Falzacappa quegli stessi Cittadini Municipali ai quali i due prelati si erano rivolti il giorno precedente. Ecco il testo emesso in data 12 Germile Anno 7. Repubblicano 9) Libertà 7) 15 settembre 1804. 21 marzo 1805. 9) 3 aprile 1805. 8) Eguaglianza Repubblica Romana Noi sottoscritti per la verità richiesti certifichiamo a chiunque che li cittadini Gio: Vincenzo Canonico Falzacappa e Gio: Francesco Falzacappa ex-prelato da prima del giorno 8 nevoso anno 6 repubblicano sino alli 23 Glaciale del corrente anno 7. si sono senza interruzione trattenuti nel territorio della Republica Romana, parte del tempo in Roma, e parte in questa Comune; che dal giorno 23 Glaciale, in cui partirono alla volta di Napoli fecero qui ritorno per la via di mare il giorno 21 Nevoso prossimo passato, e che da detto tempo in poi non si sono mai esentati da questa Comune. Tutto ciò possiamo con certezza deporre per averli veduti, e trattati, in questa Comune, per aver ricevute e vedute le loro lettere del tempo che sono stati in Roma, e per essere cosa publica e notoria. Deponiamo di più che tanto dalle lettere scritte da essi al caro Padre, quanto dai discorsi tenuti allora dai loro Parenti in questa Comune rilevasi, ed era voce costante, che essi erano partiti da Roma a solo oggetto di restituirsi al più presto in Patria, e che dal timore dell’Armata, che di quel tempo trovavasi in queste parti, erano stati obbligati prendere la via di Napoli per imbarcarsi a questa volta. I detti Cittadini per essere figli di Famiglia sono mantenuti dal cittadino Leonardo, loro Padre. Finalmente assicuriamo che i suddetti Cittadini hanno dato continue prove tanto in publico che in privato del loro attaccamento alla Republica, e che specialmente si sono molto occupati per mantenere la quiete in questa Popolazione, non meno che per fornire di sussistenza l’Armata Francese situata avanti Civitavecchia, avendo di ciò ricevuti pubblici encomi dalli Cittadini Generali Merlin e Chiassi, Commissario della Repubblica Romana, nell’occasione che si sono qui portati. In fede di che sottoscriviamo il presente di nostro pugno e lo confermiamo col nostro giuramento da ratificarsi ogni qualvolta richiesto. In Corneto 12 Germile Anno 7 Repubblicano. F.to Francesco Ronca Francesco M. Bruschi Luigi M. Querciola Agapito Bruschi Petrighi Giovanni Crispino Mariani Agapito Avvolta Venceslao Mussa Visti inutili tanti tentativi e preoccupati per la sorte a cui sarebbero andati incontro entrambi i fratelli, Giovanni Francesco Falzacappa inviò una sua memoria al Ministro di Giustizia e Polizia in data 15 Germile dell’Anno 7 Repubblicano. Libertà Uguaglianza Repubblica Romana al cittadino Martelli, Ministro di Giustizia e Polizia. Giovan Francesco Falzacappa. Corneto 15 germile (16 aprile) Anno 7 10) Repubblicano Nella nota degli assenti dai Dipartimenti pubblicata di vostro ordine ho trovato descritto il mio nome e quello di mio fratello Gio: Vincenzo. Ho motivo di credere essere ciò accaduto per equivoco e tanto più me ne sono persuaso nel riscontro che ho fatto dalle leggi del 27 Fruttifero Anno 7. Da che ci è stata data la libertà, nè io nè alcuno di mia famiglia si è assentato; né alcuno di mia Famiglia hanno esercitato alcuna funzione durante l’usurpazione fatta in Roma dai Napoletani. Voi mi conoscete abbastanza e la nostra antica amicizia dev’essere un testimonio presso di voi per assicurarvi che non si mentiva. Se nè io nè il mio fratello Vincenzo ed altro mio fratello Ruggiero di presenza non siamo in Roma, siamo però in Patria, siamo nel Dipartimento del Cimino. Purtroppo non avrei voluto per restituirmi in patria fare un viaggio quale facemmo ed impiegare lo spazio di circa 26 giorni fuori del territorio della Repubblica per tornare in Corneto per mare. Questo allontanamento però non può farci dichiarare emigrati (e ciò senza indicare l’animo per cui si partì da Roma) ma stando solo alla lettera della Legge citata mentre a contare dal giorno della nostra partenza da Roma al giorno del nostro arrivo in patria, non sono scorsi più di ventotto giorni. Ma la legge prescrive un mese per essere dichiarati emigrati. La legge dunque, vale lo scopo che la giustizia ci favorisca per la 10) 6 aprile 1805. cassazione e l’equità non meno per cui mai si partì da Roma per emigrare, ma solo per rimpatriare in Corneto. Se scrivo a Voi Cittadino è per amicizia che avrei creduto di offendere se non vi avessi portato di proprio pugno la domanda di cassazione. Del resto a forma delle leggi ho respinto alla Cimmini, frazione dipartimentale, le opportune giustificazioni; nelle quali la verità e la giustizia parlano per me e per i mie fratelli; senza accennarvi che dalla mia condotta e di quelli di mia famiglia ne rendono testimonianza e il Generale Merlin e il Commissario Bouchard e Chiassi, e quanti altri voi ne vorrete di vostra scelta. Permettemi due altre righe di conferma della antica mia amicizia. Persuadetevi che non fuggo le leggi, ma desidereri di vivere tranquillo sotto la protezione delle medesime, le quali pur mi dovrebbero garantire da chi forse tenta così di malignare e contro di me e di mia famiglia. Ma come per amicizia non siete capace di tradire la Patria, nè per i Vostri talenti di farvi sorprendere, così per amicizia per i Vostri talenti mi dovete garantire con tutta la mia famiglia da chi che sia. Come mi dorrebbe che questa mia non vi giungesse, così Vi prego di donare un momento alla mia memoria di riscontrarmi della presente. Evidentemente la cosa stava per prendere una brutta piega se i due fratelli Falzacappa decisero di inviare un pro-memoria ai Membri del Comitato Provvisorio in Roma, per un esame più attento contro il decreto di emigrazione emesso nei loro riguardi, e per la cancellazione dei rispettivi nomi dalle liste di proscrizione. Libertà Eguaglianza Repubblica Romana Alli membri del Comitato Provisorio in Roma Pro memoria Corneto Si domanda la cessazione del decreto di emigrazione perché niuna delle leggi può applicarsi al caso di cui si tratta. Con coraggio ci presentiamo a Voi Cittadini per richiamare contro un equivoco di fatto da Voi preso nel Decreto del 21 Termidoro Anno 7 col quale ci dichiarate emigrati. Voi stessi ci dite aver così pronunziato in vista del rapporto già fatto dal Ministro di Giustizia e Polizia fin sotto li 18 Fiorile scorso. Se dunque a norma delle leggi vi dimostreremo che il rapporto è ingiusto e che risente di quali vili manovre che voi avete sempre odiato ed abborrite; l’equivoco sarà manifesto e la vostra Giustizia e Lealtà vi farà aderire all’istanza di cassazione del Decreto di Emigrazione che in nome della vostra legge vi domandiamo. Voi conoscete quello che la grande Nazione ci dette e Voi oggi la garantite. La legge delli 30 Ventoso anno 7 su cui pare si appoggi il rapporto dell’ex-Ministro, e quindi il vostro decreto delle 22 Termidoro all’art. 2 e 3 dichiara “Emigrati quelli che sortiti dal territorio della Repubblica dopo li nove Piovoso Anno 6 non rientreranno prima del prossimo trenta Fiorile se questo mese fiorile dato per termine a rientrare per non essere dichiarati emigrati è dell’Anno 6: già noi non siamo compresi dalla legge perché mai partimmo dal territorio della Repubblica durante detta epoca. Se poi il detto mese fiorile dell’anno Settimo come pare dalla legge delli 30 Ventoso Anno 7 anche in questo caso non possiamo essere dichiarati Emigrati perciò che dopo li 21 Nevoso Anno Settimo non siamo mai partiti dal territorio della Republica. Tutti questi fatti restano provati dal certificato che a nostro favore rilasciò la Municipalità li 22 Germile Anno 7 allorquando fummo messi sulla nota degli Assenti, e molto meglio restano precisate la data ed il tempo della nostra permanenza dalla testimonianza di sei testimoni su de’ quali a forma della legge la Municipalità rilasciò il detto certificato. Leggete detta testimonianza e troverete che daprima delli otto Nevoso Anno Sesto sino alli ventitrè Glaciale dell’Anno Settimo non siamo mai partiti dal territorio della Republica; e che dalli 21 Nevoso Anno Settimo in poi egualmente non siamo mai partiti dalla nostra Patria, cioè dal territorio della Repubblica. Ingiusto è dunque il rapporto dei 18 Fiorile Anno 7 fatto dal ex-Ministro, a cui per organo dell’Amministrazione dipartimentale a forma delle leggi fu tutto trasmesso; ed è chiaro l’equivoco di fatto in cui siete caduti dichiarandoci Emigrati. E’ vero che per lo spazio di ventisette giorni cioè dalli 23 Glaciale alli 21 Nevoso, amendue dell’Anno Settimo, ci siamo esentati dal territorio; ma la legge delli 27 Fruttifero Anno Sesto art. 2 per non essere dichiarati Emigrati obliga a rientrare dentro il termine di trenta giorni dalla data della legge. Ma oltre che detta legge non riguarda il caso presente, pure quando si voglia far militare contro di noi per contare la durata della nostra assenza, è chiaro che non possiamo essere dichiarati Emigrati perché appena per ventisette giorni ci siamo esentati dal territorio della Republica. Con ingenuità confessiamo la nostra assenza per soli ventisette giorni, ma con eguale onestà speriamo che vorrete ammettere l’innocenza della causa di detta Emigrazione. Fu questo un timore il quale non è mai un delitto. Leggete il processo verbale e troverete che nel partire da Roma la nostra prima intenzione fu di tornare in Patria come trova l’originale passaporto esibito in Municipalità. La sola notizia allora ben fondata e verificata dal fatto che due armate si battevano verso la nostra Patria c’innescò il giusto timore di non trovarci fra due fuochi; quindi prendemmo i Passaporti per Napoli dove giunti il giorno 21 Glaciale Anno Settimo, costanti nella determinazionale di non emigrare, il giorno due Nevoso Anno Settimo cioè dopo cinque soli giorni prendemmo il Passaporto per ritornare in Patria per la via di mare. Sono questi fatti che restano contestati da documenti autentici e dal processo verbale fattoci da questa Municipalità li 22 Nevoso Anno Settimo, cioè il giorno dopo al nostro ritorno. Da quest’epoca non siamo mai più partiti dalla Patria. Ora giudicate se mai ebbimo animo di emigrare. Giudicate se v’è legge che ci condanni e ci possa dichiarare Emigrati. Noi siamo tranquilli perché consci della nostra personale condotta; ma più tranquilli perché Voi, e non l’ex-Ministro, oggi esamini il nostro affare; esame che vi porterà a dichiarare per l’onesta vostra che le leggi non possono applicarsi al caso nostro: che è falso il rapporto dell’ex-Ministro, che alcuni calunniatori (e chi non ne ha) per sola avidità di degradare quei beni di fortuna che non abbiamo, perché figli di Famiglia avranno forse sorpreso l’ex-Ministro, e Voi cittadini cassando il decreto di Emigrazione ci conserverete quell’unico ma inestimabile Patrimonio che abbiamo, l’onore cioè e la subbordinazione alle leggi. Salute e rispetto. Ma in data 9 giugno 1810 il Prefetto di Roma, Tournon, emanò la seguente lettera circolare a tutte le città del Dipartimento di Roma, del seguente tenore: Roma 9 Giugno 1810 L’Uditore nel Consiglio di Stato PREFETTO del Dipartimento di Roma Al Sig....................... L’imperatore ha ordinato, che tutti i Canonici diano il giuramento di fedeltà già prestato dai Vescovi. Le mando quì accluse le formole del giuramento, le quali devono esser firmate da ciascun Canonico. La prego di far venire la mattina del giorno 13 corrente tutti i Canonici esistenti nella sua Commune, ma separatamente l’uno dopo dell’altro, le presenterà la formola da firmarsi, quale dovrà eseguirsi subito senza alcuna dilazione. Farà conoscere al Sig. Canonico, che questo giuramento è lo stesso, ch’è stato prestato da tutto il Clero di Francia, Piemonte, Toscana, Italia e Napoli, e approvato dal Papa nel concordato del 1801. Le farà conoscere, che questo stesso giuramento è stato prestato il giorno 25 del mese scorso da dieci Vescovi di questo Dipartimento, che non può perciò avere il più piccolo scrupolo per seguire il loro esempio. L’ottimo spirito, che anima tutti i Signori Canonici mi fa esser certo, che niuno esiterà un momento a dare questa garanzia della sua fedeltà verso il Sovrano. Niun pretesto potrebbe dar luogo al più piccolo dubbio, ed alla menoma esitazione dal canto loro. Il Governo non intende in veruna maniera esiggere cosa alcuna contraria alle leggi della religione, anzi la rispetta, e la vuol far rispettare. Devono dunque essere ben sicuri tutti i membri del Clero, e toccherà a Lei di farlo ben sentire, che la formola del giuramento non puol’essere intesa in una differente maniera. Nel caso, che qualcuno mal consigliato ricusasse di fare al Governo la promessa di fedeltà dovuta da ogni suddito, e ancor di più da ogni membro del Clero. La sicurezza dello Stato non permette, che una persona tanto male intenzionata resti nel suo impiego, e nel suo paese; e la volontà espressa dell’Imperatore è, che tutti quei, che ricusano di promettere fedeltà, siano trasportati nell’interno della Francia, però se vi fosse fra i Canonici della sua Commune qualcuno, che ricusasse di promettere fedeltà all’Imperatore, le intimerà l’ordine di partire nelle ventiquattro ore, per .................... e le darà un passaporto, nel quale spiegherà il motivo della sua partenza, e fisserà il numero de’ giorni che deve egli impiegare nel suo viaggio. Nel caso, che non partisse nel termine delle ventiquattro ore prefissole, l’ordine dell’Imperatore è, che sia arrestato, e condotto colla Gendarmeria; perciò potrà ella mettere in requisizione la Gendarmeria più vicina, o la guardia civica, o la truppa di linea, che si troverà nelle vicinanze. Subito che sarà tutto ciò eseguito, farà mettere il sequestro sopra i benefici ecclesiastici del Canonico refrattario, e mi manderà le formole firmate dai Canonici, e i nomi dei refrattarj, mi darà anche conoscere il giorno, e l’ora, in cui sono partiti. L’invito a mettere in esecuzione la più grande energia, ed attività in questo affare essendo necessario, che il giorno 13 tutti abbiano fatto il giuramento, o ricevuto l’ordine di partire per il giorno 14 dalla Comune. Conoscendo Signore .................. il suo attaccamento verso il Governo non dubito, che Ella sarà per adempiere questa commissione colla sua solita esattezza. Gradisca l’assicurazione della mia distinta considerazione. Il Prefetto di Roma Tournon Ecco il testo del giuramento che i prelati e i canonici dovevano sottoscrivere per non incorrere nella pena dell’esilio e della confisca dei propri beni: Io giuro e prometto a Iddio su i Santi Evangeli obbedienza e fedeltà all’Imperatore. Prometto ancora di non aver alcuna intelligenza, né di assistere ad alcun consiglio, né di formare alcuna legge tanto all’esterno quanto all’interno, che sia contraria alla tranquillità pubblica, e se in questa Diocesi o altrove io apprendo che si trami qualche cosa in pregiudizio dello Stato, lo farò sapere all’Imperatore. Nonostante tanti attestati, a un certo momento troviamo il prelato Giovan Francesco Falzacappa in domicilio coatto a Piacenza, poi a Genova e infine a Livorno. Di ciò fa testimonianza una serie di lettere di creditori che avevano fatto sostanziosi prestiti in denaro e chiedevano alla famiglia Falzacappa a Corneto di tener fede agli impegni contratti e sottoscritti con privati e banchieri. Dalle ricevute controfirmate e dalle lettere di richiesta, si dovette trattare di somme ragguardevoli: in scudi 2.020.95, in lire 13.650 e in franchi 1.500. Denaro che i due fratelli Falzacappa dovettero spendere durante i loro soggiorni obbligati nelle città del nord Italia. Della sua permanenza a Piacenza, riportiamo un documento sottoscritto dal Vescovo di quella città, con cui si dichiara che l’esiliato aveva tenuto una buona condotta e veniva per ciò abilitato alla celebrazione della Santa Messa. “Stefano Andrea Francesco Di Paolo FALLOT DE BEAUMONT per grazia di Dio e della Santa Sede Apostolica, Vescovo di Piacenza, Barone dell’Impero. Certifichiamo a tutti gli interessati che il signor Falzacappa Giovanni Francesco, canonico in S. Pietro di Roma, dimorante in Piacenza, dopo qualche mese è stato visto partire per l’isola di Corsica secondo le disposizioni del Governo. Certifichiamo inoltre che egli si è comportato bene durante il suo soggiorno a Piacenza e che non ci sono stati alcuni impedimenti per cui gli si è concesso di celebrare la Santa Messa. Datato a Piacenza il 13 febbraio 1811. Firma del Vescovo Il Commissario di Polizia sottoscritto certifica che il signor Falzacappa Giovanni Francesco, come sopra nominato, si è ben comportato durante il suo soggiorno in Piacenza. In fede di ciò, gli si è rilasciato il presente certificato nel caso ne dovesse aver bisogno. Piacenza 19 febbraio 1811 Poi li ritroviamo confinati, Giovan Vincenzo a Bastia in Corsica, e Giovan Francesco nell’isola di Capraia. Fra i due intercorsero numerose lettere che riportiamo in parte, ma dalle quali si evince che anche in esilio i due fratelli Falzacappa esigevano dalla famiglia in Corneto il pagamento di quei debiti contratti nei rispettivi luoghi di deportazione e di sofferenza. La prima lettera da Bastia porta la data 8 maggio 1811 ed è inviata ad Ottavio Falzacappa in Corneto. Essendo senza firma, si sarebbe dovuta trattare di una lettera di Giovan Vincenzo. C.F. al signor Ottavio Falzacappa Bastia in Corsica 8 maggio 1811 Gran cosa con queste lettere, che a motivo del mare hanno sempre un corso irregolare. Questa mattina ho ricevuta la vostra carissima in data de’ 27 aprile in cui mi dite esser privi di lettere mie, essendo l’ultima quella delli 3. Il signore Antonio Semidei ancora non è giunto a motivo del poco sicuro transito del mare, e subito che verrà, ed avrò ritirato l’involto consegnerò secondo la direzione le rispettive volte. Avete pensato benissimo in quanto alli Breviarj di S. Pietro, e vi ringrazio di tutto. Se non mi dite altro quando avrò li 50 franchi li passerò a Giannini, giacché attesa la provenienza della M.sa m’imagino siano per esso. Non è poco che alla fine Ranieri si ricordi di chi è costretto a vivere tante centinaia di miglia lontano da casa, e che solo chiede mangiare col suo. La lettera di Parma, che mi avete rivolta qui non era per me. Mi spiego. Scrive il banchiere Bartolomeo Rigo lagnandosi di Lavaggi, che gli abbia protestate le cambiali a motivo di mancargli le mie ricevute, quali dice inviargli per mezzo di Turlonia. Chiede infine che mancandogli la giustificazione della credenziale di Mille franchi dati per Corsica dal sig. Ghiglione di Genova, si parli a Lavaggi acciò compisca il rimborso anche per questa somma. A motivo di questa lettera rispondo oggi, senza aspettare a sabato a schiarire gli equivoci. Premetto che tutto questo intende Rigo di scriverlo al fratello in Roma di Mons. Falzacappa, e perciò dice di parlare con Lavaggi. Veniamo dunque a noi. Sulla prima parte non occorre altro, giacché doveva il sig. Rigo inviare la ricevuta, tosto che traeva le cambiali per il suo rimborso. Sulla seconda parte è d’avvertirsi che in Genova oltre li 1500 franchi presi da De Albertis in effettivo, ci procurò Ottavio tre lettere col mezzo del Ghiglione, ciascuna di 500 franchi una per qui, una per Calvi, e l’altra per l’isola Rossa. Su queste tre lettere non abbiamo preso un soldo, e neppure lo prenderemo in appresso. Il Rigo dunque prende due equivoci, il primo perché parla di 1000 fr. quando le tre lettere formano franchi 1500. L’altro di chiedere il rimborso di un pagamento non fatto. Le lettere dicono così “Se avrà bisogno di denaro gliene somministrerete sino a 500 franchi ritirandone ricevuta per potervene accreditare”. Dunque finché il Ghiglione non gli manda la mia ricevuta non può chiamarsi creditore di somma alcuna. Mi pare avervi schiarito bene tutto, onde potervi regolare nell’appuramento de’ conti con Lavaggi. Noi stiamo tutti benissimo, e Serlupi si è oggi unito alla nostra società. Gli ho trovata l’abbitazione nel piano inferiore al nostro, onde così avrà tutto il commodo e la libertà, per mangiare poi verrà su da noi. Egli n’è contentissimo e noi ugualmente. Sta’ bene insieme con gli altrri nuovi arrivati. Salutate Ottavio, Ranieri, Casa Faustina e tutti gli amici, specialmente Muttoni. Vi abbraccio di cuore, addio. A Rigo non rispondo. Poi c’è un salto di due anni, fino ai principi del 1813. Frattanto nel gennaio 1813, il Ministro delle Finanze invia al Prefetto di Roma una lettera con cui elenca i nomi di alcuni canonici deportati ed impartisce l’ordine di procedere alla confisca di tutti i loro beni. al signor Prefetto di Roma le 13 gennaio 1813 Ho l’onore di informarvi, Signore, che un giudizio fatto il 16 novembre ultimo, da una Commissione Militare speciale convocata a Bastia, ha privato dei loro diritti civili e politici i sacerdoti qui sotto nominati per aver rifiutato di prestare giuramento di fedeltà alla Costituzione dell’impero francese, conformemente all’art.4 del Decreto Imperiale, del 4 maggio 1812; che questo medesimo giudizio li ha condannati alla deportazione e alla confisca dei loro beni, presenti e futuri, a beneficio del Demanio dello Stato. Le persone colpite da questo giudizio sono: Benedetto Cappelletti, nato il 2 novembre 1764, a Rieti, dipartimento di Roma, canonico di S. Maria Maggiore in Roma. Francesco Tiberi, nato a Rieti, stesso Dipartimento, il 4 gennaio 1774, canonico della medesima Chiesa. Giovan Francesco Falzacappa, nato a Corneto, dipartimento del Tevere, il 7 aprile 1767, canonico di S. Pietro al Vaticano a Roma. Marco Ancojani, nato a Spoleto, dipartimento del Trasimeno, il 14 luglio 1773, canonico di S. Pietro di Roma. Filippo Colonna, nato a Roma, in aprile 1759, canonico di S. Giovanni in Laterano in Roma. In conseguenza voi dovrete, signore, ordinare il più sollecitamente possibile l’apposizione del sequestro sui beni di cui i cinque preti sopra designati potrebbero essere proprietari nel Dipartimento di Roma. Ho l’onore di salutarvi. Il Ministro delle finanze I nomi di altri sacerdoti sottoposti a deportazione e confisca rispondono a: padre Luigi Bonaguri, passionista, rettore del Convento de Il Ritiro in Corneto; padre Giacomo Latini, del Convento dei Minori Osservanti di Corneto; Giovan Vincenzo Falzacappa, canonico di S. Maria in via Lata; don Cristoforo De Cesaris, di Corneto; don Filippo Benedetti, beneficiato della Cattedrale di Corneto don Galassi Angelo; don Gaspare Erasmi, canonico della Cattedrale di Corneto; don Michele De Dom.nis di Corneto; don Francesco Garigos, canonico della cattedrale di Corneto. L’ordinanza del Ministro delle Finanze del 13 gennaio 1813 dovrebbe aver incontrato delle difficoltà burocratiche se il Ricevitore di Toscanella notificò il provvedimento di confisca dei beni del Falzacappa il 26 Novembre 1813, al loro domicilio in Corneto, in casa del padre Leonardo. Ecco la risposta del Ricevitore del Bureau di Toscanella: Io sottoscritto ricevitore al Bureau di Toscanella mi sono presentato conformemente al Decreto del sig. Prefetto di Roma del 14 settembre 1813, preso in seguito della sentenza della Commissione Militare stabilita in Bastia li 31 maggio 1813 communicatomi con lettera del sig. Deviller direttore del Dominio di Roma il dì 2 settembre 1813. Mettere sotto la mano del Demanio dello Stato gli beni sia particolari che ecclesiastici del sig Gio: Vincenzo Falzacappa di Corneto, condannato alla deportazione colla sentenza qui sopra espressa per fellonia. Andando in casa del sig. Ranieri Falzacappa situata in Parrocchia S. Leonardo ed avendogli communicato l’oggetto della mia venuta, egli mi rispose essere affittuario generale di tutti i beni di Casa Falzacappa come da Istromento fatto da lui e suoi fratelli li 15 novembre 1808, quale Istromento ha dato certa per la morte di due testimoni, come dall’attestato di morte qui annessi. Avendo esaminato tale istromento riconobbi che il sig. Gio: Vincenzo Falzacappa entrava per la quinta parte soltanto su tutti i beni descritti salvo le modificazioni espresse nell’Istromento: e che questa quinta parte era affittata al sig. Ranieri per scudi annui 300 colla diminuzione però di tutti i pesi gravanti il Patrimonio, quali pesi non si possono precisare essendo variabili sì del Governo che Communitative. Avendogli richiesto come e fino a qual tempo era stato pagato l’affitto al sig. Gio: Vincenzo, egli mi mostrò tanto il libro Mastro tenuto per semplice uso suo che quello particolare coi suoi fratelli conformi ai Rendiconti sì trimestrali che semestrali, che era il sig. Ranieri nel uso di fare coi suoi quattro fratelli. Dalle carte rivelai che a tutto il semestre maturato li 30 settembre 1813 Ranieri Falzacappa andava creditore de’ suoi quattro fratelli di scudi 951:13:4 oltre a scudi duecento somministratigli fin dalli 14 novembre corrente totale scudi 1151:13:4. Per il che per la parte di Gio: Vincenzo ammonta il suo credito a scudi 287:78. Questo conto essendo stato riconosciuto giusto, e conforme ai registri suoi, che furono da me firmati né variati. Intimai il sig. Ranieri Falzacappa di dichiararmi se li beni descritti all’Istromento, del quale presi copia erano li soli appartenenti al sig. Gio: Vincenzo suo fratello, al che egli mi rispose essere quelli soli a lui toccati in porzione esistenti in Corneto fuori che la quinta parte del bestiame, che dal medesimo Gio: Vincenzo fu venduto al suo fratello Ottavio Falzacappa e che non essere a di lui conoscenza aver fatti altri acquisti ad eccezione del suo Canonicato, già sequestrato dal Governo. Indi in vista del Decreto succennato gli ho dichiarato che prendevo possesso di tutti i beni sì mobili che stabili appartenenti al sig. Gio: Vincenzo Falzacappa, e che da qui innanzi avesse da riconoscere per padrone de’ Medesimi l’Amministrazione del Demanio, alla quale doveva render conto ogni trimestre come lo facea con il suo fratello. Fatto in doppia copia a Corneto li 26 novembre 1813. Ranieri Falzacappa dichiara di aver accetto quanto sopra Il Ricevitore, (firma illegibile) Ecco qui di seguito alcune lettere che i due fratelli Falzacappa si scambiarono: Giovan Francesco deportato nell’isola di Capraia e Giovan Vincenzo a Bastia, in Corsica. Bastia 1813 Io mi diverto a scrivere ma voi non averete il piacere di ricever lettere, se non che tutte insieme, giacché tutti li giorni pare che il tempo congiuri a non far partire la posta; pazienza, e vi perverranno le mie, quando il Signore vorrà. Le diverse robbe, che vi si spediscono, sono già caricate da vari giorni sul bastimento, e vi saranno consegnate con una lettera di Vincenzo e colla nota dell’importo, quale ancor io vi trascrivo. Vi assicuro dell’ottima mia salute, anche da Terraferma non viene la posta, e di qua non parte per la stessa raggione dei tempi contrari. Salutate tutti i vostri compagni, Gazzoli sta bene e vi saluta, vi abbraccio Addio. Fichi fr. 6 Pepe fr. Uva “ 6 Garofali Fagioli “ 2:18 Carbone mand. 5.05 Lenticchie “ 2:15 Marmitta stagn. 1.06 Ceci “ 4:04 Erbaggi Alici “ 5:12 Fornit. di cacio 11:11 Limoni “ 16 Strutto 14:08 Portogalli “ 12 Imbuto 18 Negrofume “ 10 “ 1:01 18 2 ________ Carbone e pila “ 12 37:07 _____ 29:19 29:19 67.06 In tutto fr. 67:06 Credo avervi scritto che era passato a miglior vita Carbone, e che stava male Del Sole, adesso vi dirrò che ancor questo è andato in Paradiso; gli altri infermi vanno grazie a Dio a guarire, ieri escirono Dal Tombò Testa, Antisseri e Dotti, che colla Monaca, Vitale e Gancolini avevono subita la Commissione, e sino al loro trasporto costà erano trattenuti in quelle prigioni. Vitale, Monaca e Giancolini n’erano sortiti per malattia, e stanno in una casa presa per modo di Ospedale; e l’ultimi tre vi andarono ieri sera perché si sentivano incommodati. Vitale ha bussato alle porte della morte, ma adesso sta meglio. Di nuovo vi abbraccio. --------------------------------------------a mons. Gio: Francesco Falzacappa Capraia Bastia 3 febbraio 1813 Rispondo alla Vostra del 30 decorso, quale con estremo piacere ho ricevuta questa mattina, da essa rilevo primieramente il vostro buon stato di salute; il che mi consola moltissimo, di poi vengo assicurato che vi siano stati consegnati i due plichi delle mie con varie accluse per altri, e qualche altra mia lettera semplice; e finalmente che possiate aver sbarcati i commestibili trasmessivi meno le poche droghe, l’involto della biancheria e cappello, che stavano in quarantena. Circa il segnare il costo delle robbe spedite mi regolerò come voi m’indicate. Dopo che i tempi avevano sempre più il corso di sei poste impedito qua l’arrivo della barche corriere, finalmente il dì 30 venne la desiderata posta, ed i sei corrieri mancanti ed oggi è giunto anche il settimo; da questo sin qui non ho avuto lettere dall’altri, ebbi tre lettere di casa, che vi accluderò, acciò da Voi stesso possiate rilevare il loro buon essere. Colla vostra lettera ho ricevuto anche quella di Ruggiero, ove era acclusa la cambiale di franchi 149:80 quali questa mattina stessa aveva e fatti in vigore di seconda di cambio: di questa somma franchi 20 erano per il buon Giannini a cui subito li ho trasmessi alla casa di sua detenzione, che resta sotto l’appartamento destinato per nostro ospedale, e dove convive con gli altri suoi compagni di commissione cioè Cavalletti, Staffa, Erasmi, Gandolfi e Polci: essi statto tutti bene, e lo stesso è degli altri sei che abitano di sopra come infermi, cioè Monaca, Festa, Gandini, Botti, Vitale, ed Antiseri, il penultimo di questi è ancora in convalescenza della mortale malattia sofferta, e l’ultimo cioè l’Antiseri non è fuori di pericolo, anzi questa mattina, ch’era il 14, era un pochino aggravato: il ............. dell’uno e dell’altro è lo stesso che quello del Carbone e di Del Sole. A Vinci che mi può venire in camera quasi ogni giorno, ho fatti i vostri saluti ed egli vede ogni giorno Cav....... Speravo coll’arrivo di M. Festa Fratelli Frattini ed altri Romani ed esseri meno cogniti pervenuti quasi sin dai 28 avere qualche lettera, ma niente mi recavano perché erano già da molto tempo in Civitavecchia, sin dal primo giorno e tutt’ora si trattengono al Donijon, ed oggi che siamo al cinque sussistono nella medesima situazione. Sin da ieri riscossi da Castellini per ordine del Quartara fr. 450 e siccome mi sono figurato che fossero quelli della cioccolata, così ne ho distribuiti 40 fr.: per ciascheduno ai due Rev.mi gli altri gr. 70 saranno la cioccolata vostra. Veramente mi pareva che il Questore avesse nella sua, che vi trasmisi, dato avviso che la rimessa sarebbe stata di fr. 158; ma da esso sono stati soli fr. 150 e cent. 75; io però ho creduto esiggere e tirar via. Ricevei lettere in data dei 4 dalla Marchesa; mi parla dell’ultima rimessa di fr. da me riscossi in numero di 2261:95 ma ch’essa non nomina, e soltanto parla del numero delle Messe che dovrebbero essere in numero 2381 e anche meno se credo aumentarne l’elemosina o di prevalermi del denaro a titolo di mero sussidio; e vorrebbe risposta per saperne il numero delle celebrate, io gli risponderò, ma primieramente so il casato e non il nome: in secondo luogo per una gran parte sono state celebrate le Messe a ragione di un franco, ed altre somme sono state erogate a titolo di sussidio; e finalmente non sono state celebrate in altare privilegiato, perché non era noto un tal peso; ed essa non me l’accenna, bensì me ne parlate Voi nella vostra. Vi potrò dire frattanto che di detta somma all’incirca a tutt’oggi, che siamo ai 5 di febbraio, avrò spesi franchi 1656 circa, e si saranno celebrate circa Messe 652. Capirete che i bisogni e le spese giornaliere per tanti e tanti in privato e in commune, e le molte malattie, e commissioni assorbiscono. L’articolo d’essersi dato un franco per Messa non altera punto la sostanza della volontà della Benefattrice perché questo che oltrepassa la misura dell’elemosina si ascrive a titolo di sussidio. Veniamo ora alla partita incassata prima di questa, e che giunse prima della vostra partenza per mezzo della cambiale Parenti, e che voi mi dite dover essere nella somma di fr. 2340. Io su di essa vi darò li seguenti schiarimenti a tenore del conto dei Lota. Ordine: di Lire 2785:16:8 Regolati secondo la tariffa sono fr: 2289:30 A dì 7 novemb. pagati a conto fr: 550 A dì 23 novemb. a conto come sopra fr: 550 Porto di lettere di Livorno fr: 2:80 Fido di deposito lasciata in mie mani e sottoscritta dai Lota a favore di Arezzo 340 Consegnati a me medesimo per pareggio 855:50 ------------fr: 2298:30 Le trenta Messe dell’Andreozzi sono state subito distribuite. Li franchi 20 al Concan. Pacini sono stati pagati e l’acclusa per l’ottimo Ancajani ve lo confermerà. Oggi mando un biglieto a Cecconi per aver da lui a nostro conto scudi cento, intanto ho prescelto lui perché 13 giorni sono mi fece dell’esibizioni garantite da una lettera di Filippacci. Vi accluso le ultime quattro lettere avute dai nostri, acciò da voi stesso rileviate che stanno bene ed io sin da oggi che siamo ai sei gli ho risposto con una a tutte. Oggi poi che siamo di sette chiudo la lettera e vi confermo le ottime nuove di mia salute, e di tutti gli altri specialmente Amici e conoscenti che tutti vi fanno un mondo di saluti. E voi fateli per me e per molti di essi ai vostri Compagni. Gazzoli sta bene, Albertini vi riverisce, e si pone in affetto per sbrigare le commissioni avute, ed io abbracciandovi, resto il vostro aff.mo (firma illeggibile) Capraia 11 febbraio 1813 Profitto della posta per darvi le mie recenti ottime nuove, tanto io, quanto tutti i miei compagni stiamo così bene che non vi è uno, che si possa lagnare neppure di un dolore di capo. Si seguita nel solito sistema in tutte le cose, e così si passano, o dirremo ancora s’ingannano le settimane. Ieri la posta terminò la sua quarantena; ed ebbi il cappello ma per quante ricerche siansi fatte non ho ricevuto il fagotto di panni che Voi e Vincenzo m’indicavate. Bisogna dunque che Vincenzo ne faccia ricerca a chi ne fece la consegna, affine di ricuperarlo, ed indicarmi in seguito la persona cui è stato dato. Se poi si fosse smarrito non ve ne ponete in alcuna pena, perché è già robba che serve ogni giorno da più anni, dunque la perdita sarebbe di poco memento. Col ritorno della posta si vorrebbero da Vincenzo circa 200 libbre di patate, o almeno quel che si può. Sarebbe bene che le ponesse in un cestino da posta col coperchio, altrimenti se dentro vi è carte o panni è una noja per la Quarantena. In una altro cestino poi potrete mandare erbaggi assortiti, ma senza carta per il motivo sopradetto. Datemi nuova de’ compagni che sono stati giudicati, non vedendosi qui più arrivare alcuno. Vedendo che ora vanno innanzi a forma del Jabeaux penso a voi; ma più vi penserà Iddio e la nostra SS.ma Madre Addolorata. Che fa Gazzoli? Datemi le notizie di sua salute più che potete precise. Un salutone a Parucca ed a tutti i compagni dell’olim Camerata. Altrettante a Licea che mi sa mille anni di poter prendere a bastonate, ad Albertini dicendogli che si sbrighi onninamente, a Pereira, e tre suoi compagni Curati, al Canonico Baldi, e suoi Compagni, al buon Ruspantini, in somma a tutti tutti. I miei consoci dell’una e dell’altra Camerata vi salutano senza fine ed io vi abbraccio di nuovo. Salutatemi Vincenzo e Caterina. Per non mancare di diligenza mandatemi la parte quadragesimale dell’Officio, se mai mi bisognasse, spero di no. Questa la ricevuta da Cecconi che mi pare il miglior mezzo. Il Maire mi ha dato il compimento di fr. 250 per commissione di Catoni. P.S. Non vi prendete per li denari, perché sono provveduto abbastanza per andare innanzi per tutti: solo gradirei avere una cinquantina di Messe, e anche meno, se ne avete poche, ed allora trasmettetemi per mezzo del Padrone della Posta l’elemosina, indicandomi l’applicazione. Se il soprabito di Del Sole non fosse venduto (intendo di quello buono) procurate di acquistarlo, e trasmettendolo per uno dei nostri che se ne trova in molto bisogno, e siccome non ha come pagarlo, bisognerà che segnate l’importo alla Cassa de’ sussidi. al rev.mo mons. Gio: Francesco Falzacappa - Capraia Bastia 26 febbraio 1813 Martedì giorno 23 corrente si ebbe qualche buon sentore che il Governo averebbe rilasciati, ma con cauzione, gli Ecclesiastici detenuti alle Turchine; mentre fra di noi si discorreva sul quid agendum, e che due o tre dei nostri profittavono effettivamente di questa disposizione del Governo; questi buoni Bastiesi in folla corsero dal Commandante, ed irrequisiti da noi chi per tre per sei franchi ottennero il rilascio per un gran numero di noi esibendo spontaneamente la loro mallevadoria. Difatti lo stesso giorno del martedì mi vedo comparir Lota che per me e per altri cinque mi portò la dimissione, e così per altri. Io mi trattenni tutta la sera del martedì, e vi pranzai il mercoledì, e dopo pranzato, e dopo esserne sortiti sopra un centinaio e più ancora mi determinai di partirne, e sono alloggiato in casa Mattei nell’appartamento dell’Arcivescovo insieme con Serlupi e Giannuzzi. A tutta la sera del mercoledì non erano rimasti alle Turchine che una quindicina dei nostri, i quali sono cresciuti sino al numero di 25 perché alcuni la stessa sera o ieri mattina si ritornarono per non aver dato le loro cauzioni per trascuranza, giacché non mancava gente che si esibisse. Questa sera però sento che sortiranno tutti. Anche quelli che stavono nella casa dell’Ospedale vanno sortendo nello stesso modo e fra questi l’altra sera Cavalletti, che sta in casa Negroni, e ieri sera Volci, Staffa, Erasmi e Giannini e qualchedun’altro. Così pure quelli venuti da Civitavecchia cominciano a sortire dal Donyon, e sono liberi per la cittadella, ma la sera si devono tornare a dormire, meno quelli che sono di là esciti per motivo di salute, i quali finora in numero di circa dieci dormono in varie case per la cittadella. Potrete essere persuaso che pensi a voi, e tengo impegnate varie persone acciò al primo momento favorevole ottenghino il vostro ritorno qua. Forse le lettere di domani di Ajaccio possono portare la liberazione di tutti, e per conseguenza a chi di voi costì deportati, e non si mancherà di spiare se vi è taglio di sollecitare per voi il ritorno qui in Bastia. Dicono che siasi già scritto al Generale perché autorizzi questo Lonet a dare i passaporti, e che sperano poterveli consegnare fra una quindicina di giorni. Qui girano stampati, e come estratti dal Monitore, undici articoli che si dicono firmati il dì 25 del passato fra l’Imperatore ed il Papa, nulla vi trovo che non mi oblichi a chinare il capo ai giusti giudizi di Dio, il quale sa per vie ignote a noi procedere alla sua gloria ed al bene della sua Chiesa. Molti vi sono che vogliono ancora aspettare per decidersi a sapere ed a credere quello che si è concordato. Se potrò averne una copia ve l’accluderò. Faccio consegnare al padrone di codesta Posta franchi cento cioè cinquanta sono quelli consegnatemi dal Rev.mo De Bonis. per erogarli a tenore di quanto egli vi avrà scritto nella sua lettera, che vi rimisi ultimamente. Gli altri fr: cinquanta sono per tante messe a sol: 16 di elemosina d’applicarsi in Altare privilegiato, ma colla facoltà di aumentare l’elemosina ed anche di erogarli in sussidio senza obligo di applicazione. Basterà sapere il numero delle Messe applicate per poi darne conto alla Marchesa provenendo detti franchi sei dall’ultima rimessa avuta dalla medesima, di cui io detti avviso a voi, e voi ne scriveste a me, e dopo la medesima non ho avute altre rimesse, e perciò siamo propriamente allo scolo. Vi mando le patate, l’aglio, cipolle, oglio, ed il Breviario, e credo l’erbaggi, per i quali sempre bisogna aspettare la sicurezza, che parta la posta. Di tutti questi commestibili vi segnerò il prezzo, quando l’avrò saputo. Il Padrone della Posta si è ripromesso di ritrovare costì l’involto della vostra biancheria, mi saprete dire se mantiene la parola, Vincenzo gli ha fatto contestare di averla consegnata a Lui stesso. Vi accludo li noti articoli, qualcheduno pretende che ve ne siano in giro altri e che sieno diversi; ma io non li ho veduti. Gli increduli Albertini, Ruspantini, Pereira ecc. ecc. Vi salutano. Fanno lo stesso Serlupi, Giannazzi, Baldi e tanti tanti altri, anche Gazzoli vuol essere nominato, il quale sempre più s’ingrassa, e mi pare diventato un Negoziante Olandese. Ferrari fa sapere che hanno avuto corso le lettere di Cappelleti spedite a l’estero. Niente credo che vi sia rimasto di Carboni, ma Cipriani se vi farà qualche cosa procurerà servirvi circa il soprabito. Ferrari mi ha pagato ogg fr: 42 per elemosina di 60 Messe per ordine di Landrozzi. Ricevei le vostre tre colla data degli 11, 14 e 19. Da casa non ho avute altre lettere dopo quelle poche righe che vi trasmisi con l’ultima mia. Questa sera mi s’assicura che il Padron della Posta di Capraia sia stato avvisato di recarsi domani mattina da Sciure per prendere il dispaccio della liberazione dei deportati in Capraia. Non so in quali termini ciò sarà, ma domani farò li passi opportuni per ottenere se si può il vostro ritorno qui. Forse la presente in vece della posta vi sarà recata da altra occasione, che mi si suppone che possa partir domani, dubito che ciò sia vero, e poi mi pare il tempo contrario. Sono in qualche lusinga, che mi si accordi la licenza per voi di qua ritornare, e se l’avrò mi darò pensiero di farvela giungere contemporaneamente alla presente, ma se questo non riuscisse ed avessi il desiderato permesso dopo partita la posta, allora vi spedirò a bella posta. Se nella lettera di ufficio si enunciasse che vi accordano questa licenza per veder me malato, non vi ponete in agitazione, perché poi saprete quali sono i miei abituali incommodi. al sig. Canonico Gio: Vincenzo Falzacappa Bastia Capraia 14 febbraio 1813 alle ore 9 di mattina Benedictus Deus.... totius consolationis qui consolatur nos in omni tribulatione nostra. Ho ricevuta la faustissima notizia con le due vostre comunicazioni del 10 e stiamo attendendo da un momento all’altro la partecipazione di officio. Subito che questa sarà giunta col primo mezzo sicuro verrò costì, giacché non penso di prendere altra strada, che questa che al più presto mi riunisca a voi per proseguire secondo il concertato il nostro viaggio alla volta di Civitavecchia. Potete dunque frattanto disporre tutto, come meglio credete, non contando affatto di sentir me. Io costì non ho da far nulla, e l’assesto dei conteggi si può fare in poche ore per scriverne poi alla M.sa ed altri corrispondenti a suo tempo. Dunque fate, concludete, stabilite a tutto vostro piacere che sicuramente sarà quello di essere al più presto a casa. Salutate tutti gli amici, e voi ricevete i saluti di tutti. Vi abbraccio di nuovo al Nobil Uomo il sig. Canonico Gio: Vincenzo Falzacappa Bastia Capraia 19 febbraio 1813 Carissimo Fratello, riceverete due, avendo scritta l’altra lettera già da molti giorni per la Posta, che non è mai partita. Replico questa seconda per dirvi che questa stessa mattina ho ricevuto la vostra c.ma delli 16 che mi conferma la fausta notizia del nostro ritorno. Sempre più sia lodato Iddio; e speriamo con la prima occasione sentirci posti in libertà, e venir qui un ordine consimile. Io sono decisissimo di venir subito costì a riunirmi a Voi si abbia o non si abbia a far quarantena. Lo stare insieme è un compenso senza proporzione; dunque giunta che sia la notizia officiale qui al primo tempo buono ed occasione adattata, partirò questa volta per riabbracciarvi, e poi ripartire ad loca nostra. Voi frattanto disponete tutto a pieno vostro piacere, giacché costì io non ho da far nulla, fuori che ripartire insiem con voi; ed in conseguenza fissate legno, compagni, nolo, tutto a vostro grado. Benedetti, Cappelletti e tutti i compagni vi salutano, e voi fate altrettanto a tutti. Lascio di scrivere perché parte la posta all’istante. Ad.Ad.Addio. Bastia 11 aprile 1813 Devo rispondere alla vostra del 23 e 31 scaduto, e poi dall’altra dei 2 del corrente, a cui erano aggiunte poche righe colla data dei sei; questa la ricevei il giorno susseguente e così pure questa delli 28, ma quella del 31 non prima di ieri sera, e questa mattina poi ho ricevuto l’involto, ove ho trovato li due breviarii, lenzuolo, coperta, corpetto e cerino di cui vi ringrazio. La vostra dei 31 conteneva diverse incombenze, a cui darò sfogo domani, frattanto anticipo a scrivervi per dirvi primieramente che io sto benissimo, e così è parimenti di quei di casa, come vedrete dalla loro lettera segnata alli 30 di marzo. Oltre la lettera mandatavi per il Sergente Gallina, due altre ve ne scrissi e le consegnai al figlio della nostra donna Caterina che viaggiava sulla Serena. Due altre poi antecedentemente ne avevo scritte e che mandai in diversi giorni a Cecconi, acciò le spedisse per un legno che veniva costì. Non so se tutte vi sieno pervenute, in una di queste ultime due, credo si fosse da me scritto quanto concerneva l’affare dei denari Gravina. La posta di martedì sei corrente portò dei pieghi del Ministro dei Culti diretti a Berthier, avendolo saputo tutti i nostri s’imaginarono che contenessero cose riguardanti noi. Difatti ieri mattina appena venuta la posta di Ajaccio fummo intimati per l’una dopo il mezzogiorno in Cittadella, ma poi fu variato e si andò in Prefettura, ove radunati che fummo venne il General Lonet con Sciuriè, un Uffiziale ed il Ministro di Polizia, ci lesse un decreto di S.M. col quale in vigore del Concordato di Fontainebleau, e riportandosi all’articolo decimo del medesimo, decreta che tutti gli esuli deportati dei due Dipartimenti sono rimessi in Sua grazia, saranno ripristinati nei loro beni, e potranno tornare alle loro case, purché prestino solennemente il giuramento a norma delle leggi. Si dà tempo a deliberare tutto il presente mese. Non vi si dice che quei che rifiuteranno. Tutti sentimmo la lettura con silenzio, una sola voce che richiedeva la formula ed allora il Ministro di Polizia lesse il solito giuramento presentatoci già tante altre volte. Partì il Generale; e ce ne andammo tutti per i fatti nostri, e specialmente io con i miei compagni, giacchè non si era pranzato, ed erano passate le due. Forse anche costì verrà il medesimo decreto. I nostri, che sempre vedono nero, e questi sono molti, non so se si appiglieranno al partito dei Michelini, Latini ecc.; questo per me mi sembra il partito più pericoloso, ma le fantasie altesate non sono suscettibili di raggioni. All’occasione, che ieri scrissi ad Ottavio lo avvertii di dire a Michele, che non mi stasse a scrivere con nuovi progetti di acquisti. Il tomo di Gesù penante è in ordine, così pure li due fazzoletti neri da collo sono a cucirsi, i pacchetti vostri l’ho trovati; non mi è però riescito di servirvi della commissione di un pacchetto grande commessovi da un vostro compagno; qui in Bastia in tre botteghe non ve ne sono, che tre o quattro, tutti piccoli assai. Vi manderò una parte di ordinario favoritomi dal sig. Don Carlo. Cercherò le note carte che mi richiedete, ma le lettere l’ebbi ieri sera: e finisco. Non parte più oggi l’occasione, dunque continuo a scrivervi, avvertendovi che nel rileggere la vostra del 31 passato veggo che avete ricevute le due del 24 e del 26 che sono, a mio credere, quelle inviatevi col mezzo di Cecconi. Ho rinvenute le carte richiestemi, e ne ho formato il piego, così pure del libro. Ho già cavate fuori dal baule le robbe richiestemi, cioè due camicie, un fazzoletto bianco, le calzette nere, due paia di sottocalzette, uno sciugatore, due sopracollari, due zucchetti, due fazzoletti neri per collo e tre di colore. Inoltre il soprabito di castorino, la zimarra, ed un paio di calzoni di saia, e finalmente la libra di caffé, le due di zuccaro e la bottiglia di spirito. Già vi scrissi sopra li denari di Gravina e credo sarete rimasti capacitati tanto voi che M. Cappelletti a cui non so cosa sia stato scritto, ma la lettera di Gravina a Serlupi è chiara, chiarissima, che vuole il riparto a favore di tutti i Deportati niuno eccettuato: e così si farà se verrà l’altra somma che ripromette, ma su di cui non vi è per ora alcun avviso. La volta passata e perché la somma era stata dimidiata e perché la lettera dell’Arcivescovo a Serlupi parlava degli Indigenti, si è creduto raggionevole il partito di escludere li meno Indigenti; altrimenti un riparto di fr: 2600 circa diviso in circa trecentoquaranta persone, come vedete, diveniva un oggetto di poco e niun sollievo ad una turma di miserabili: e crediate pure che non ostante il riparto in ragione di soli 10 franchi pure non sono rimasti in cassa che poco più di duecento franchi. Bisogna riflettere che gli soggetti nominati da Gravina per fare una tal distribuzione non è perché arbitrino, ma perché supponendoli in Corsica, ha creduto di ripartire in quattro o cinque persone il peso ed il pensiero della distribuzione, la quale resta però sempre ferma, che ha da essere pro eguali a tutti: e l’incaricati della distribuzione non avrebbero potuto fare altro di più. Mi lusingo che col già scritto in altra mia, e con quello che vi ho aggiunto adesso rimarrete capacitati, e che converrete con me, che li distribuenti un’altra volta non potranno pretendere altro, che la rata che gli appartiene per se e per i loro compagni, e per quel luogo ove sono deportati. Se la lettera di Gravina convenisse.......... resteressivo e voi tutti più che capacitati. Ho disposto dei fr:999 sopra Filichi, avendogliene sin da sabbato, che qui li presi, fattogliene tratta a favore dei F.lli Lota, e dandogliene avviso: gli soggiunsi che se mai la lira italiana non corrispondeva al franco in tal caso avesse fatto grazia di estinguere la cambiale, e che per il di più che avesse improntato se ne fosse rivaluto sulli alti denari, che forse aveva a vostra disposizione. E per questo non ho profittato dei tre o quattrocento franchi, che mettevate a mia disposizione per sussidi sopra lo stesso Filichi, il quale così su di essi potrà rivalersi e Noi mandare in partita di sussidi il di più, che mai si fosse ripartito adesso, se le lire italiane non corrispondono al franco. Già vi scrissi che potevate far celebrare a vostro arbitrio cento quaranta Messe con l’elemosina di un franco in Altare privilegiato. Queste Messe in numero di 1400 mi sono state passate dal canonico Fratini, ne ho mandate a Corte ed a Calvi e ne vado qui consumando la distribuzione non rimanendomene che quattrocento circa. Tengo a parte li 140 franchi per le Messe commesse a voi. A Frattini le ha mandate la Grimaldi, alla quale sin dai 27 febbraio scrissi dandole conto esatto dell’ultima partita di fr: 2261:13 e dicendole che in tutto erano state celebrate numero 1260 Messe, dandole sfogo del resto impiegato necessariamente in sussidi in quelle critiche circostanze di nostre restrizzioni: di una tal lettera non ho avuta risposta, onde voi potete su di ciò interpretarla. Altre messe non ho, ne ho avviso che possino venire, ma il Signor che vede, e conosce i bisogni provvederà in un modo o nell’altro, affinché non manchi il necessario. Oggi dopo dodici giorni si è incominciato ad alzarsi dal letto Vincenzo il quale ha sofferto un afflusso di umore in un testicolo, grazie a Dio il gonfiore comincia a svanire e la parte si ammollisce onde spererei che continuando i rimedii presto fosse in grado di poter incominciare a far qualche cosa. Ho pagati ad Aloisi per conto dell’ottimo Ancajani li fr: 20 ed ho avvisato il Pre. mezzanote per li fr: 28. Mi sembra di aver sodisfatto a tutte le vostre lettere. Riguardo a noi sin qui niente di più quanto vi ho scritto di sopra, si aggiunge oggi, che in Corte siano stati nuovamente posti in arresto quei Confratelli, ma si attribuisce ad una precauzione di quel Comandante che ha creduto prender questa misura perché uno dei nostri sieno fugiti: non intendo darvi una notizia sicura, ma racconto quello che vien riferito. Non chiuderò la lettera per sino a che non sarò assicurato della partenza della barca. Lo Spirito se non è per voi costa fr:4 e sol:4, li fazzoletti fr: tre e sol: 18 l’uno, taffettà doppio alto come il nostro qui non si trova: il zuccaro sol: 36 la libbra; il caffé fr: due la libbra. Li carciofoli e li cavolifiori e qualche altro erbaggio, perché sino a domani mattina non possono provvedersi non posso dirvi né se li avrete né quanti sieno né quanto costano. Ho fatto l’imbasciata a Pereira e ad Albertini, il primo però vi scrisse sin dai primi che voi eravate costì, ed io mi ricordo d’aver consegnata la lettera a Castellini. Vi mando due dozzine di carciofi, due cavolfiori, venti piedi di lattura, e costa in tutto fr: 9:06. Siamo a dì 14 niente di più vi so dire, né altro di novo è accaduto. Gazzoli s’ingrassa a dismisura, Vincenzo lentamente, ma guadagna qualche cosa. Il sig. Giuseppe Bottegaro colla moglie vi salutano. Esiste nell’archivio Falzacappa un altro gruppo di lettere, scambiate fra i due fratelli esiliati, fino a quando nel 1814, con la caduta di Napoleone, tutti i prelati superstiti vennero liberati ed avviati ciascuno al proprio naturale domicilio di libertà. Certamente in veste di perseguitati politici, perciò di patrioti di Santa Romana Chiesa, al punto da meritare dal Vaticano e da altri Istituti meriti e riconoscimenti. Ma la sorte fu più remunerativa verso Giovanni Francesco dacchè aveva già ottenuto da Pio VI la nomina alla prelatura romana e al Collegio degli Abbeveratori di parco maggiore; mentre il pontefice Pio VII lo beneficò, dopo il posliminio, col titolo di canonico della Basilica Vaticana, uditore civile del tribunale di A.C. e segretario della Sacra Congregazione del Buon Governo. Successivamente venne promosso arcivescovo in partibus d’Atene e segretario della Congregazione del Concilio fino a quando, nel concistoro del 10 marzo 1823, venne creato cardinale dell’ordine dei preti ed insieme Vescovo di Ancona ed Umana, conferendogli inoltre il titolo della chiesa di SS. Nereo e Achilleo. Leone XII il 24 maggio 1824 lo trasferì ad altro titolo, quello di S. Maria in Trastevere, facendolo prefetto del Tribunale Supremo della Segnatura di giustizia. Intervenne nei conclavi per l’elezione di Leone XII, Pio VIII, e Gregorio XVI. Pio VIII il 5 luglio 1830 lo destinò al Vescovado Suburbicario di Albano; Gregorio XVI lo nominò presidente del Censo. Divenuto sottodecano del Sacro Collegio, nel concistoro del 22 novembre 1839, gli venne conferita la sede suburbicaria di Porto, S. Rufina e Civitavecchia. Venne anche nominato Accademico Tiberino. Non mancò l’8 maggio 1828, di ritornare nella sua patria di Corneto, ricevuto con tutti gli onori dal cardinal Gazola, allora vescovo della nostra città, e da quant’altri lo vollero degnare di stima per tutto quel che aveva dovuto subire dai suoi avversari a ragione di quell’infausto viaggio di cui si è parlato all’inizio di questo scritto. Il cardinale Giovanni Francesco Falzacappa morì in Albano il 18 novembre 1840, all’età di 73 anni; e venne sepolto, per sua volontà testamentaria, nella chiesa di S. Marcello in Roma presso le ceneri del genitore e di altri della nobile famiglia, come benefattori dell’ordine dei Padri Cappuccini. Era figlio di Leonardo e di Teresa Guerrieri, settimo ed ultimo dei fratelli Francesco, Ranieri, Giovanni Vincenzo, Ottavio, Giuseppe e Ruggiero. Nei suoi confronti circolò in Roma una pasquinata, in occasione di un certo conclave, che recitava, forse a causa di una sua presunta prodigalità nello spendere così: Per carità, nun fate Falzacappa! Se giocherebbe Roma a cappelletto. E a li parenti sua co’ sto giochetto je ‘mparerebbe a fa: “Chi acchiappa, acchiappa”!! Tanto che anche Giuseppe Gioacchino Belli lo prese di mira con la sua satira a proposito di “La nascita de Roma” nell’aprile 1834 e nel 11835 con “Li cardinali ar Concistoro”; al punto che il Vigolo, nel suo commento ai “Sonetti”, afferma che il Falzacappa fu uno “dei non più addottrinati del Sacro Collegio”. Ma a volte quello che non può farci ottenere il merito della dottrina e della cultura, ce lo fa ottenere la politica che, coi suoi intrighi, riesce a portare agli onori della cronaca chi ne sa tentare la sorte. Come è sempre stato e come sempre sarà. Bruno Blasi S. MARIA DI VALVERDE A CORNETO (Tarquinia): una convenzione tra i servi della B. Maria Madre di Cristo, la loro fraternità Mariana e i Frati Minori L’ordine mendicante dei servi della beata Maria Madre di Cristo di Marsiglia, da distinguersi dall’ordine omonimo e quasi coevo dei servi di Santa Maria (di Monte Senario) 1) , fu inserito stabilmente nella Chiesa da Papa Alessandro IV nel 1257 2) . Nel giro di neppure due decenni quest’Ordine era riuscito ad espandersi, oltre che in Francia, in Svizzera, nei Paesi Bassi, in Spagna, in Inghilterra e in Italia 3) Ma nel 1274 il Concilio di Lione II, con la costituzione Religionum diversitatem, approvata alla sesta e ultima sessione (17-2-1274), condannò questi servi della b. Maria di Marsiglia - così come i frati della penitenza di Gesù Cristo, i frati della penitenza dei beati Martiri e i frati apostoli o apostolici di Segarelli - a un lento, ma inesorabile esaurimento: fu loro inibito l’ammissione di novizi alla professione, l’acquisto di nuovi conventi e l’alienazione dei medesimi senza licenza della Santa Sede; mentre ai singoli religiosi fu data la facoltà di scegliere o di restare nei loro conventi fino alla consumazione, o di passare a uno degli Ordini approvati. 4) 1. I servi della beata Maria Maria di Cristo 1) Sulle confusioni con altri Ordini e le incrostazioni di un’erudizione poco attenta ha fatto giustizia R. W. Emery, The Friars of the Blessed Mary and the Pied Friars, in Speculum 24 ( 1949) 228-238, un piccolo saggio cui ben poco hanno aggiunto i successivi interventi di E. Baratier. Le mouvement mendiant à Marseille, in Les Mendiants en payd s’Oc au XIII siècle, (Cahiers de Fanjeaux 8), Toulouse 1973, 184-186; M. de Fontette, Les Mendiants supprimés au 2me Concile de Lyon (1274). Frères Sachets et Frères Pies, ivi 193-216; F.A. Dal Pino I frati servi di S. Maria dalle origini all’approvazione (1223 ca. - 1304), I: Storiografia, fonti, storia, Louvain 1972, 672-680; A. Franchi, Beata Maria Madre di Cristo, frati o servi della-, in Dizionario degli Istituti di Perfezione, I, Roma 11974, coll. 1143-1145. 2) E’ la lettera Piis propositis del 25 (26) settembre 1257 inclusa nel testo della Litteras domini papae di Benedetto, vescovo di Marsiglia, a sua voluta inclusa nella lettera Cum a nobis di Clemente IV del 13-V-1266, ed. M. Félibien, Histoire de la ville de Paris, Paris 1725, 234, cf. inoltre A. Potthast, Regesta pontificum romanorum, II, Berlin 1875, n. 17013: 1390; n. 19630: 1585. 3) La lista fornita dall’Emery, The Friars,238, elenca 14 fondazioni: Francia (7), Inghilterra (3), Spagna (1), Svizzera (1), Paesi Bassi (1), Italia (1). A questo elenco A. Franchi, Beata Maria, col. 1144, aggiunge la fondazione di Valencia la quale con quella di Corneto fanno ascendere a 16 il numero dei conventi maschili finora accertati; si tratta tuttavia di un catalogo ben lungi dall’essere definitivo. 4) Il testo della costituzione, in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, ed. Cento di documentazione I.S.R., Bologna 1962, 303. Un ottimo quadro d’insieme sull’Ordine della Penitenza di Gesù Cristo, o Ordine di Saccati, la più illustre vittima del Lionese II, è il saggio di K. Elm, Ausbreitung, Wirksamkeit und Ende der provençalischen Sackbrüder (Fratres de Poenitentia Jesu Christi) in Deutschland und den Niederlanden. Ein Beitrag zur kurialen und konziliaren Ordenspolitik des 13, Jarhunderts, in Francia. Forschungen zur westeuropäischen Geschichte, herausgegeben vom Deutschen Historischen Institut in Paris Band I (1972), München, Wilhelm Fink Verlag, 1973, 257-324. Ben pochi i documenti sui servi della b. Maria di Marsiglia, un gruppo a quanto sembra - laico, a carattere mariano e con sede canonica in S. Maria d’Arenc, fuori le mura di Marsiglia; costoro, richiesti dall’Ordinario diocesano di Marsiglia di assumere una delle regole approvate, adottarono la regola di S. Agostino, e forse anche le costituzioni agostiniane 5) , così come in precedenza avevano fatto ad esempio i servi di s. Maria (di Monte Senario) 6) . L’appellativo Matris Christi che appare nella denominazione dei servi della b. Maria di Marsiglia sta indubbiamente ad indicare che questi frati non solo erano votati al culto della Vergine - da qui l’appellativo di servi - ma che anche si proponevano di combattere l’eresia catara la quale appunto negava la divina maternità di Maria 7) . Ora nella stessa Marsiglia era stata fondata, nell’aprile 1212, una confraternita mariana comunale dai cui statuti, approvati dal Legato papale, si evince che scopo di detta fraternità laicale mariana era la difesa della chiesa madre marsigliese, nonché delle altre chiese e delle stesse persone ecclesiastiche di quella diocesi, dall’eresia catara che allora trionfava in Linguadoca 8) . Quali che siano stati i rapporti tra la fraternità comunale di Marsiglia e i frati servi della b. Maria, sta di fatto che ambedue gli istituti marsigliesi sembrano perseguire lo stesso scopo politico-religioso, quello di prevenire, o di arginare, la penetrazione catara. 2. Insediamenti dei frati di S. Maria di Valverde in Italia Ancora di recente si è tornati a dipanare la matassa della confusione ingeneratasi a motivo dei diversi appellativi con i quali servi della b. Maria venivano localmente indicati - e in Italia, come ci conferma la documentazione allegata in appendice, per indicare detti religiosi si usavano gli appellativi di frati di S. Maria di Valverde, dal titolo dei loro conventi; o de pica, dalla foggia del loro abito che richiamava appunto l’omonimo piumaceo: termini del resto in uso anche in altre regioni europee - mentre è mancatra ancora, alla pur scarna letteratura in materia, l’occasione e soprattutto una puntuale 5) Litteras domini papae del 4-1-1258, cfr. sopra, nota 2. F.A. Dal Pino, I frati servi, 379, 799s. 7) Sulla maternità divina della Vergine e l’eresia catara cf. R. Manselli, L’eresia del male, Napoli 1963, spec. 96-333; R. Morghen, Movimenti religiosi popolari del periodo della riforma della Chiesa, in Movimenti religiosi popolari ed eresie nel Medioevo, Firenze 1955, 345. 8) Sulla confraternita comunale di Marsiglia e sulle sue finalità anticatare, G.G. Meersseman, Ordo fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, in collaborazione con G.P. Pacini I, Roma 1977, 201-204. 6) documentazione per affrontare le ragioni e i tempi della venuta in Italia di detti frati di Valverde e ancora per illustrare la loro azione pastorale 9) . La venuta in Italia dei frati di S. Maria di Valverde va con tutta probabilità assegnata agli anni 1265-68, corrispondenti al pontificato del provenzale Clemente IV, di quel papa cioè che, a poco più di un anno dalla sua elezione, con lettera Cum a nobis, spedita da Viterbo il 13 maggio 1266 e diretta “priori et fratribus b. Mariae de Areno, servis beatae Mariae matris Christi vulgariter appellatis, Ordinis S. Augustini, Massiliensis diocesis”, confermò appunto l’incipiente Ordine 10) . Incerto tuttavia se in quello stesso anno 1266 i frati della b. Maria si erano già insediati in S. Maria di Valverde a Viterbo, città dove Clemente IV rimase fino alla sua morte avvenuta il 29 novembre 1268: le notizie sui frati di S. Maria di Valverde a Viterbo fatta eccezione per la semplice menzione in un testamento del 1281, sono tardive, risalgono al 20-6-1291, allorché gli ultimi due religiosi rimasti a custodire il loro convento posto fuori le mura cittadine, lo cedettero, dietro autorizzazione del pontefice, ai benedettini di S. Croce di Sassovivo della congregazione omonima 11) . Di certo però nel 1268, cioè a neppure due anni dalla lettera Cum a nobis questi servi della b. Maria di Marsiglia avevano già aperto un altro convento, egualmente intitolato a S. Maria di Valverde, a Corneto, oggi Tarquinia, nel retroterra di Viterbo 12) . La permanenza dei religiosi di Valverde nell’alto Lazio appare pertanto coeva al soggiorno di papa Clemente IV in Viterbo; ma questo non fu probabilmente la sola ragione dell’apertura di ben due case religiose intitolate a S. Maria di Valverde in due città limitrofe a quel tempo gestite da uno stesso ordinario che era vescovo di Viterbo e vescovo di Toscanella; e Corneto dipendeva allora da quest’ultima. Noto come in quegli stessi anni era ancora operante la chiesa catara di Spoleto nella cui area di attività erano appunto comprese le città di Viterbo e Toscanella; 9) F.A. Dal Pino I frati servi, 676, dopo aver citato il convento di S. Maria di Valverde a Viterbo lo dice “fondato forse pensiamo - come punto di base per eventuali contatti con la curia romana al tempo di Clemente IV, provenzale”. Giova poi alla comprensione dei testi cornetani, che sto per illustrare, un compromesso del maggio 1272, citato dall’Emery, The Friars, 231 e registrato da Dal Pino, I frati servi, 678, con il quale venne ratificata una convenzione fra il convento dei frati della beata Maria Madre di Cristo eretto a Cambrai e l’abbazia dei canonici di S. Vittore per la celebrazione degli uffici divini e l’amministrazione dei sacramenti: dal che si evince lo stato laicale di detti Servi della b. Maria. 10) Cfr. sopra, nota 2. 11) Per il testamento dettato il 21 ottobre 1281 con un lascito “pro indumentis fratrum” della chiesa “S. Mariae de Valle Viridi”, cf. F.A. Dal Pino, I frati servi II, doc. III/184: 330; mentre il documento della cessione del 1291 è stato edito da F. Bussi, Istoria della città di Viterbo, Roma 1742, 413. La venuta dei monaci di Sassovivo a Viterbo è stata illustrata con documenti tratti dallo stesso Archivio di Sassovivo da P. La Fontaine, Uno sguardo d’addio alle mura della mia Viterbo. Di una lapide posta nella torre di S. Maria della Ginestra di Viterbo dal monaco Angelo abbate di S. Croce di Sassovivo nel secolo XIII, Viterbo 1907 dove però a p. 5, per un errore di stampa, viene riferita come data della cessione il 20 giugno 1293, anziché 20 giugno 1291, cf. inoltre E. Petrucci, in Pievi e parrocchie in Italia nel basso Medioevo (sec. XIII-XV), II, (Italia Sacra, 36), Roma 1984, 1001. 12) Cf. Appendice I. e la chiesa catara di Spoleto professava il docetismo, negava cioè l’Incarnazione 13) : in ciò va indubbiamente ricercata l’ulteriore e di certo non secondaria ragione di siffatta scelta topotetica da parte dei frati servi della beata Maria Madre di Cristo. La breve stagione di quest’Ordine mendicante, nato dopo il Concilio Lateranense IV e per questo incluso tra quelli soppressi dal Lionese II, ha favorito la dispersione degli archivi dei rispettivi conventi per cui, allo stato attuale, è problematica la stessa mappa insediativa di questi religiosi. Indubbiamente l’agiotoponimo S. Maria di Valverde, che ritrovo in varie regioni italiane, parrebbe una buona guida per iniziare lo scavo archivistico in loco alla ricerca di eventuali tracce, pur labili, lasciate da questi frati servi della b. Maria di Marsiglia 14) : è quanto sono riuscito ad ottenere ad esempio per Foligno dove ho rinvenuto tracce non solo dei frati de Pica, ma anche del loro secondo Ordine, appunto le suore di S. Maria di Valverde 15) . 3. Il convento di S. Maria di Valverde a Corneto L’interesse storiografico per S. Maria di Valverde di Corneto era finora legato al simulacro della Vergine, Madonna con bambino benedicente dipinta su tavola, immagine ivi venerata - pensiamo - sin dal tempo dei frati servi della b. Maria di Marsiglia; e al ruolo di santuario mariano cittadino che tuttora questa chiesa svolge. Ora stando appunto alla monografia del Benedetti sul santuario mariano cornetano 16) così come al saggio del 13) Sulle ramificazioni della chiesa catara della Valle Spoletana nel Viterbese, cf. Ilarino da Milano, Il dualismo cataro in Umbria al tempo di San Francesco, in Filosofia e cultura in Umbria tra Medioevo e Rinascimento, Atti del IV convegno di studi umbri, Gubbio 22-26 maggio 1966, Perugia 1967, 175-216 ss; Mariano d’Alatri, Eretici e inquisitori I, Roma 1986, 134s. 14) Da un riscontro su un recente inventario di santuari mariani di interesse almeno diocesano (cfr. D. Marcucci, Santuari mariani d’Italia. Storia, fede, arte, Roma 1982) apprendo che, oltre al santuario cornetano, compaiono sotto il titolo di S. Maria di Valverde altri tre santuari, cioè quelli di Alghero, Bovino (Fg), Iglesias e Valverde (Ct.), agiotoponimo quest’ultimo che ritrovo anche in provincia di Pavia V. Petriccione, Come nacque la provincia romana del T.O.F. francescano. Viterbo: Santa Maria della ginestra, in Anacleta T.O.R. XII/119 (1972), 561-593, 567, nota 3 oltre le fondazioni di Viterbo e di Tarquinia assegna agli eremiti di Valverde un convento anche a Forlì, dove in seguito subentrarono i terziari regolari, per il quale cenni in R. Pazzelli, Il terz’ordine regolare di S. Francesco attraverso i secoli, Roma 1958, 91. Ai frati minori passò nel 1455, invece S. Maria di Valverde a Celano, cf. L . Wadding, Annales Minorum, XII, Firenze 1932, 349 n. XCIII. 15) M. Sesni, La b. Angela nel contesto religioso folignate, in Vita e spiritualità della beata Angela da Foligno, a cura di Cl. Schmitt, Atti del Convegno di studi per il VII centenario della conversione della beata Angela da Foligno (12851985), Foligno 11-14 dicembre 1985, Perugia 1987, 39-95, spec. 57-59; a p. 57 inavvertitamente non ho correto la data 1293 fornita da P. La Fontaine, Uno sguardo, 5. A questo stesso II Ordine dei frati servi probabilmente dovette appartenere S. Maria di Valverde a Perugia cfr. A. Pantoni, Monasteri sotto la regola benedettina a Perugia e dintorni, in Benedictina 8 (1954), 249; da qui proviene l’icona di S. Maria di Valverde molto vicina all’icona cornetana, di cui appresso. 16) I. Benedetti, Tempio di Maria Santissima di Valverde, cenni storici, Corneto-Tarquinia 1904. Falzacappa un lavoro di ben altro valore, purtroppo frammentario e rimasto inedito 17) , ben poco hanno conservato gli archivi cornetani sugli inizi di S. Maria di Valverde. Vero è che ambedue ricordano come nella consegna del complesso conventuale di S. Maria di Valverde fatta nel 1502 dal comune di Corneto ai frati servi di Maria (di Monte Senario), fra la suppellettile figurava una campana con la scritta “A(nno) D(omini) MCCXI, LOTTERINGUS FILIUS BARTOLOMEI PISANI ME FEC(it) + TEMPORIBUS F(rat) RUM LEONARDI ANGELI ET SIMEONIS HEC KAMPANA FACTA FUIT”: ambedue gli storici riferiscono la campana ai frati dell’Ordine di S. Maria di Valverde; ma indubbiamente o la trascrizione della data è errata, o la campana proveniva da un’altra chiesa conventuale. Quindi, sia il Falzacappa, come il Benedetti, ritardano di circa un secolo la presa di possesso di S. Maria di Valverde di Corneto da parte dei monaci di Sassovivo, riferendo appunto un documento del 1378. Scrive così il Benedetti: “soppressa la congregazione dei frati di Valverde (1274), il monastero fu abbandonato e non si sa da chi riabitato fino al 1378, anno in cui vi troviamo i monaci benedettini di Sassovivo” 18) - E tuttavia da uno strumento di procura rogato il 17 dicembre 1333 a Corneto, nell’orto della chiesa di S. Maria di Valverde da fra Antonio, priorie sia della Chiesa di S. Maria di Valverde di Viterbo, come di S. Maria della Ginestra, egualmente di Viterbo, chiesa quest’ultima dove i monaci di Sassovivo si erano trasferiti dopo essersi insediati inizialmente in Valverde, si evince uno stretto legame fra le due chiese viterbesi di proprietà di Sassovivo e S. Maria di Valverde di Corneto, almeno nella persona del priore, forse un monaco di Sassovivo 19) E tuttavia se già in quell’anno i monaci di Sassovivo possedevano di fatto S. Maria di Valverde di Corneto, di certo non si trattava ancora di un possesso pacifico. Tanto è che, come appunto annota lo Iacobilli, “l’anno 1340 a 16 di luglio, Guglielmo di ser Fulco, priore della chiesa di S. Maria Maggiore di Toscanella, commissario di papa Giovanni XXII, sentenziò contro il capitolo di S. Maria di Corneto, diocesi di Viterbo [leggi Toscanella], a favore di questo monastero di Sassovivo, dichiarando che la chiesa di S. Maria di Valverde appresso Viterbo [leggi Corneto] era di questo monastero di Sassovivo” 20) . Il regolare acquisto dei beni viterbesi del soppresso Ordine di Valverde fu probabilmente il titolo grazie al quale i monaci di Sassovivo entrarono in possesso anche 17) [Conte Pietro] Falzacappa, Memorie storiche della chiesa di Valverde ed altre riguardanti Corneto, Ms F. d 11 alla Biblioteca della Società Tarquiniense di Arte e Storia. Excerpta, in Appendice IV. 18) I. Benedetti, Tempio 11. 19) Foligno, sez. di Archivio di Stato, Archivio Priorale 576, perg. senza segnatura. Corneto 1333 dicembre 17: “fr. Antonius prior ecclesie...... 20) L. Iacobilli, Cronica della chiesa e monastero di S. Croce di Sassovino nel territorio di Foligno, Foligno 1653, 139. del complesso conventuale di S. Maria di Valverde in Corneto; e d’altra parte le rivendicazioni del Capitolo di S. Maria, una delle due collegiate di Corneto, avrebbe avuto fondamento giuridico nell’eventualità che ci fosse stata una regolare erezione canonica del convento di Valverde con la cessione in uso di beni immobili da parte del Capitolo di S. Maria; un’eventualità tuttavia da escludersi, stante appunto la sentenza. Questo probabilmente fu uno degli ultimi conflitti per il possesso dei beni del soppresso Ordine di Valverde; la corsa al possesso dei due conventi laziali si concluse poi a vantaggio non di un Ordine mendicante, magari dei francescani, atteso il loro ruolo a Corneto, né di istituti laziali, ma di una congregazione benedettina e per di più umbra 21) . Gli appetiti per il complesso cornetano erano iniziati ben presto, come si evince dal documento riferito in appendice e datato il 27 novembre 1282, una pergamena finita non a caso fra le carte di Sassovivo 22) . Ci troviamo al termine della prima fase di un conflitto iniziato qualche tempo prima - ma non sappiamo quando - e di cui ignoriamo i successivi risvolti. Dal documento veniamo a sapere che, a dirimere la vertenza in atto, era intervenuto lo stesso vicario generale del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia, ufficio di cui era allora investito Simone vescovo di Bagnoregio. Egli, con lettera datata 13 novembre, aveva incaricato Giovanni, priore di S. Maria Margherita, l’altra collegiata di Corneto certo Andrea Licuardi, di recente promosso all’ordine del suddiaconato e appunto con il titolo di S. Maria di Valverde in Corneto. Contro questa ingiunzione si era appellato certo fra Romano de ordine sanctae Mariae Matris Christi de Valle viridi, qualificatosi all’atto come “frater et religiosus deputatus in ecclesia praedictae beatae sanctae Mariae” ilquale, anche a nome dei suoi confratelli protestò presso il vescovo di Bagnoregio poiché si era sentito onerato da quella ingiunzione ritenuta ingiusta e contemporaneamente chiese di appellarsi, per via gerarchica, al pontefice. Di tutta risposta il vescovo di Bagnoregio il 26 novembre di quello stesso anno respinse l’appello poiché fra Romano nel suo ricorso gerarchico non aveva esibito un titolo giuridico abilitante: non si era infatti dichiarato né rettore, né procuratore di S. Maria di Valverde, ma semplice “frater et religiosus deputatus”. Si trattava di una situazione giuridica anomala, una conseguenza appunto della soppressione dell’Ordine cui fra Romano era appartenuto e che indubbiamente fece buon gioco al vescovo di Bagnoregio, tanto è che dell’accaduto fece stendere un regolare documento notarile dove fra l’altro degno di nota è il fatto che i religiosi del soppresso 21) F.A. Dal Pino, I frati servi, 680, indica la destinazione di 7 dei 14 conventi elencati dall’Emery: due ai frati Predicatori e uno per ciascuno ai Premostratensi, ai Guglielmiti, ai Mercedari, ai Benedettini di Sassovivo e quello di Westminster, alla corona. 22) Spoleto, Archivio Arcivescovile, Fondo Sassovivo, perg. n. 7405, Appendice II. convento cornetano compaiono con il titolo composito di frati dell’Ordine di santa Maria Madre di Cristo di Valleverde. 4. La confraternita di S. Maria di Valverde di Corneto. Di estremo interesse un’altra carta di Sassovivo redatta, anche questa, a perpetua memoria e che narra alcune vicende statutarie della fraternità laicale mariana eretta in S. Maria di Valverde. Allo stato attuale della documentazione non si conoscono altre congregazioni mariane legate all’Ordine mendicante dei frati di S. Maria di Valverde. Dalla carta segnata Sassovivo 7399 23) veniamo a sapere che il 10 febbraio 1268 fu stipulata una convenzione fra la congregazione mariana eretta in S. Maria di Valverde di Corneto, rappresentata dai suoi quattro rettori e cioè Gemptio domini Jacobi Gemptii, Bartholomeo Langaialis, Ventura Speculi e Manente mercante, con fra Giacomo da Pisa, priore di S. Maria di Valverde di Corneto. La convenzione consta di quattro rubriche: la prima, che tratta dell’istituzione dei rettori, è preceduta da un proemio, un atto di fedeltà all’ortodossia cattolica da parte dei frati di Valverde e della sua confraternita; e veniamo così a sapere che la comunità conventuale dei frati di Valverde era costituita da un priore, originario di Pisa, e da altri tre frati, uno dei quali oriundo della Borgogna, dove appunto questo ordine mendicante si era originariamente sviluppato 24) . Quindi la prima rubrica stabilisce che, ogni anno, il 25 marzo, festa dell’Annunciazione e forse anche la solennità principale della fraternità, cui la medesima probabilmente era intitolata, si procedesse all’elezione di quattro rettori. E poiché costoro, una volta eletti, dovevano essere confermati dal priore dei frati di Valverde, si deduce che la loro elezione avveniva democraticamente in assemblea. Non ci sono noti né il numero, né l’estrazione sociale dei confratelli, ma è indicativo il fatto che il primo dei quattro rettori che stipularono la convenzione ha il titolo di dominus, mentre il quarto ha la qualifica di mercante. Ruolo dei quattro rettori era la gestione di tutte le elemosine raccolte dalla fraternità al fine di costruire il complesso conventuale, appunto “pro edificiis loci praedicti fiendis”. Un ruolo dunque, quello della fraternità, assimilabile a quello dei patroni laici, un servizio per l’Ordine mendicante di Valverde che in tal maniera poteva rinunciare al possesso dello stesso complesso conventuale. Nell’amministrazione dei beni raccolti dalla confraternita i quattro rettori dovevano poi agire di comune accordo con il priore del convento di Valverde e con i sei 23) Appendice I. consiglieri della fraternità. Dal che si evince che l’organico di questa congregazione mariana laicale comprendeva almeno dieci ufficiali: quattro priori, eletti democraticamente e sei consiglieri questi ultimi venivano eletti lo stesso giorno in cui si rinnovavano i quattro rettori, ma non dalla maggioranza dell’assemblea, bensì dai quattro rettori scaduti. E poiché non si fa menzione di un camerlengo, probabilmente la funzione di cassiere veniva svolta da uno dei quattro rettori. La seconda rubrica riguarda l’amministrazione delle questue giornaliere le quali, grazie all’accordo, vengono destinate parte ai frati di Valverde per il loro sostentamento e parte alla fraternità per la realizzazione delle opere per le quali si era impegnata. Erano riservate alla fraternità le oblazioni raccolte in occasione delle varie festività mariane e le due questue settimanali effettuate il venerdì e la domenica. Le elemosine raccolte negli altri giorni dovevano pervenire invece nelle mani dei frati di Valverde, un Ordine mendicante che per il proprio sostentamento confidava a quanto pare esclusivamente nella carità dei fedeli. Di notevole interesse, ai fini di una lettura del santuario, è l’ulteriore clausola che prevedeva la devoluzione a favore degli stessi frati delle candele, delle immagini di cera, dei monili e delle tovagliette, indubbiamente gli ex voto che i fedeli avevano cominciato ad offrire al simulacro mediante il quale i frati di Valverde avevano iniziato a propagare il culto alla Madonna, Madre di Cristo una classica odigitria, una Madonna con bambino che benedice con la destra, mentre sulla sinistra stringe il rotulo. Stando all’ulteriore clausola il culto per il simulacro della Vergine importato a Corneto dai frati di Valverde si era già notevolmente affermato: lo spazio sacro all’interno del quale si venerava l’effigie della Madonna vedeva una notevole affluenza di fedeli in occasione di tutte le festività mariane e la fraternità pertanto si obbligò a fornire ai frati, in occasione di dette feste mariane, un pranzo che doveva rispondere a due requisiti, doveva cioè essere buono e consono alla solennità; una riprova del servizio prestato per l’occasione dai frati di Valverde all’interno del santuario. E tuttavia, come si evince dalla rubrica successiva nel servizio prestato al santuario dai frati di Valverde era esclusa sia la celebrazione eucaristica, come l’amministrazione dei sacramenti; i frati di Valverde erano infatti tutti dei laici: da qui la terza rubrica che apre una problematica inedita e di estremo interesse sui rapporti tra due Ordini mendicanti, i servi della b. Maria di Marsiglia e i frati minori. Indubbiamente c’era la necessità di sacerdoti per la gestione del santuario promosso dai servi di Marsiglia; la rubrica terza, senz’altri ragguagli, si limita a disporre che a gestire il santuario siano i frati minori; se ne fissa poi il numero, siano otto; ma 24) Delfinato e Provenza costituivano allora il regno della Bassa Borgogna. nessun cenno sulle ragione di una siffatta scelta, di certo concertata tra la confraternita e i frati di Valverde; tanto è che subito dopo si esorta il priore dei servi di Maria, cui indubbiamente era stato demandato il compito di contattare i frati minori, di far sì che fra gli otto frati due siano sacerdoti, due poi siano studenti, e quindi avviati al sacerdozio, e frati laici gli altri quattro. Mentre di certo indice del travaglio all’interno dell’Ordine dei servi di Maria di Marsiglia è la clausola che l’affidamento del santuario ai frati minori non doveva ritenersi definitivo: il contratto sarebbe scaduto quando fosse terminata la costruzione del complesso conventuale per la quale si era appunto impegnata la confraternita. Decisamente modesto il corrispettivo promesso dalla confraternita ai frati minori per un servizio a termine, per di più in un santuario di un altro Ordine mendicante: solo un tetto e una coperta per ciascun frate; mentre per il sostentamento quotidiano i frati minori a loro volta avrebbero dovuto ricorrere alla questua e solo se questa non fosse stata sufficiente la fraternità era tenuta a intervenire, ma solo con un contributo proporzionato alle sue possibilità. L’ultima rubrica riassume le ragioni stesse della convenzione; e mentre si conferma ai frati minori la gestione liturgica del santuario fino alla scadere del contratto, inibendo sia ai priori di S. Maria di Valverde, come ai quattro rettori dell’annessa fraternità di affidarlo ad altri; si ribadisce l’impegno della fraternità a costruire il nuovo tempio a onore di Dio e della beata vergine Maria, a riverenza della santa Chiesa e di papa Clemente IV romano pontefice, ad onore, prosperità e pace del comune di Corneto. Nessun cenno diretto all’eresia in questa rinnovata professione di fede cattolica posta a chiusura del capitolato; e tuttavia lo spirito del formulario riecheggia una crociata anticatara. Che abbiano avuto un esito positivo gli impegni assunti sia dai frati minori, come dalla fraternità, lo si evince dalla seconda parte dello stesso documento, stilato, egualmente, a perpetua memoria. Vi si apprende infatti che, cinque anni dopo, detti patti furono rivisti e aggiornati da due frati minori del locale convento della Trinità, appunto da fra Bartolomeo, guardiano della Trinità e da fra Antonio, suo confratello. Ad affidare loro questo incarico erano stati: fra Percivallo, provinciale “dictorum fratrum” - cioè dei frati di S. Maria di Valverde, stando al dettato dei patti del 1268 - i quattro rettori e i boni homines, cioè i sei consiglieri della fraternità. L’aggiornamento, che reca la data 7 dicembre 1273, si compone di appena due rubriche le quali, più che un nuovo capitolato, sono in realtà una puntualizzazione di quanto implicitamente contenuto nei precedenti patti; dal che si evince fra l’altro che si era dato seguito alla convenzione del 1268 e tuttavia non erano mancati inconvenienti ai quali ora si intendeva porre un rimedio con questo ulteriore patto. Nella precedente convenzione, quanto all’amministrazione dei beni, ci si era limitati ad esortare i priori ad agire legaliter e de conscientia; ora, nella prima rubrica, si stabiliscono anche i termini del bilancio annuale: subito dopo l’elezione dei nuovi rettori, i quattro vecchi rettori erano tenuti a rendere ragione della loro amministrazione ai nuovi eletti; a quella riunione dovevano poi essere presenti il priore di S. Maria di Valverde e i sei consiglieri. Nulla stabiliva il precedente capitolato circa la collegialità e la non rieleggibilità dei priori; ora il nuovo patto, onde evitare probabili inconvenienti verificatesi nella passata gestione, stabilisce la collegialità delle decisioni e la non rieleggibilità dei priori; ora il nuovo patto, onde evitare probabili inconvenienti verificatesi nella passata gestione, stabilisce la collegialità delle decisioni e la non rieleggibilità dei priori uscenti: “nullus rector possit esse uno anno simul et semel”. La rubrica successiva intendeva invece regolarmentare la vendita, da parte dei frati di S. Maria di Valverde, degli ex voto pervenuti al santuario, argomento in verità trattato nella seconda rubrica del precedente capitolato e lasciato alla discrezione dei frati di Valverde; ma in materia era fin troppo facile incappare in illeciti. Così, pur nel rispetto dei precedenti patti e tuttavia onde evitare, da una parte, le censure ecclesiastiche comminate a chi aliena vasi sacri e suppellettile da altare e, dall’altra, per non incappare nel mercimonio di ex voto destinati, nelle intenzioni dei donatori, al culto, la rubrica seconda inibisce ai frati di Valverde, sia la vendita, come il pignoramento dei calici, dei paramenti sacri e delle tovaglie da altare in uso al santuario; ne consente tuttavia l’alienazione solo nel caso che detti ex voto non siano stati utilizzati per il culto e a condizione che ci sia stato l’assenso dell’organico della fraternità, cioè dei quattro rettori e dei sei consiglieri. Ai due capitolati segue la sottoscrizione del notaio Angelo Alberti il quale dichiara di aver redatto a perpetua memoria un siffatto documento che riguardava fatti accaduti in date e circostanze diverse. Quindi fa seguito una postilla con la quale lo stesso notaio ci informa che qualche giorno dopo i fatti ultimamente narrati, quindi verso la fine del dicembre 1273, o tutt’al più agli inizi dell’anno successivo, l’anno appunto che vide la soppressione dei servi della b. Maria di Marsiglia, era giunto a Corneto il ministro generale dell’Ordine dei servi della b. Maria Madre di Cristo il quale, fra l’altro, aveva preso visione dei due patti e li aveva approvati con l’ampia formula: faccio mie le decisioni della confraternita. Quali che siano state le ragioni della venuta a Corneto del ministro generale dell’Ordine dei servi di Marsiglia - la cura pastorale dei suoi frati o i negozi dell’Ordine da sbrigare presso la corte papale allora in Viterbo - sta di fatto che la postilla permette di acquisire un’ulteriore nozione e non certo secondaria, su quest’Ordine organizzato, come del resto gli altri Mendicanti, in forma piramidale, con a capo un ministro generale il quale, nel governo dei suoi frati viventi in convento, è coadiuvato da ministri provinciali; e, stando alla convenzione del 1273, l’Italia, per quella data, aveva almeno già un suo ministro provinciale nella persona appunto di fra Percivallo. Ulteriori ricerche nel fondo Sassovivo, come negli Archivi cornetani hanno avuto finora esiti purtroppo negativi. Né mi è stato possibile indagare altrove sulla scia del toponimo S. Maria di Valverde. Oscuri anche gli inizi della fraternità francescana insediatasi a Corneto. Dai patti del 1268, i quali fra l’altro anticipano di qualche anno i dati finora noti sui francescani a Corneto, parrebbe che la prima sede dei frati minori in Corneto, da distinguersi probabilmente dall’insediamento eremitico posto “apud Cornetum” e del quale fa cenno il Tractatus de miraculis di fra Tommaso da Celano 25) , fosse stato il complesso di S. Maria di Valverde, già in parte agibile; una residenza, pertanto, condivisa con i servi della B. Maria di Marsiglia; ma di lì a cinque anni i francescani, come si evince dal promeio dei patti del 1273, si erano già insediati nella chiesa della Trinità dentro Corneto, edificio sacro che il locale codice denominato Margarita ricorda la prima volta nella data topotetica di un atto rogato nel 1262, nei termini: “actum Corneti, in ecclesia SS. Trinitatis coram Bonifatio et Rainerio Mucci” 26) . Dal silenzio del documento sui frati minori parrebbe infatti lecito dedurre che costoro non si erano ancora insediati in questa che diverrà la loro chiesa conventuale intitolata, per tutto il secolo XIII, alla Trinità e successivamente, fino ai nostri giorni, a. S. Francesco 27) . 5. Il Santuario politico contra pestem Incerto se, dopo la soppressione dell’Ordine dei frati servi della b. Maria di Marsiglia i frati minori continuarono la gestione del servizio liturgico nel santuario di Valverde. La confraternita laicale di Valverde di certo, però dovette proseguire nel suo impegno, portando a termine appunto la fabbrica della chiesa, un lavoro che probabilmente si protrasse fino al calare del secolo XIII. Si ignora inoltre, come sopra è 25) Thomas de Celano, Tractatus de miraculis, in Analecta Franciscana, X, Quaracchi 1926-41, 294. Il trattato del Celano, portato a termine verso il 1252/1253, attesta almeno per questa data un insediamento eremitico francescano posto apud Cornetum, quindi fuori la cinta muraria; ma la ricerca archivistica non ha finora offerto dati utili per l’individuazione di detto sito. 26) P. Supino, La “Margarita Cornetana”. Regesto dei documenti, Roma 1969, 384. 27) Su questo insediamento cf. E. Romanelli, Itinerari della pietà e dell’arte. S. Francesco di Tarquinia, Roma 1967. Sull’architettura del convento cf. inoltre, A. De Fazi - A. Porchetti, S. Francesco in Corneto, in Bollettino della Società Tarquiniense di Arte e Storia, 1984, 5-22. stato accennato, la data in cui il complesso conventuale di Valverde passò ai monaci di Sassovivo; sappiamo però che la loro gestione durò fino all’8 dicembre 1437 allorché papa Eugenio IV donò il complesso conventuale di Valverde “con tutti li diritti, giurisdizioni e pertinenze alla mensa vescovile cornetana, privandone li prefati monaci benedettini di Sassovivo, il monastero indicato e sua rispettiva chiesa durevoli tuttavia nella medesima città di Corneto sotto lo stesso titolo di Maria Santissima di Valverde” 28) . Incerto se nel frattempo detta chiesa abbia continuato il ruolo di santuario mariano e ancora se lo abbia proseguito, una volta passata la gestione al clero secolare. Quanto poi al simulacro della Madonna di Valverde, seppure fu registrata una diminuzione del culto, tuttavia questo non dovette venir mai meno, stante la prodigiosa liberazione della città di Corneto dalla peste “asiatica”, attribuita appunto all’intercessione di S. Maria di Valverde 29) . Narra il Polidori, nelle sue Cronache, sotto l’anno 1483: “il cardinal della Rovere, vescovo di Corneto, in virtà di sua patente che si vede registrata nei Privilegi, concede alla comunità di Corneto la chiesa della Madonna di Valverde, la cui immagine cominciò a far miraculi innumerabili et perciò è grandemente frequentata dal concorso de’ fedeli, tanto di giorno quanto di notte, ad effetto di risarcirla et restaurarla, atteso che per l’antichità sia quasi disfatta et concede ancora che, per riedificarla, la comunità possa servirsi delle oblazioni fatte e da farsi a detta chiesa, con facultà di deputarvi sacerdoti seculari o regolari, con l’approvazione del vescovo, et con obligo di dar ogn’anno al vescovo una candella di [tre] libre nel giorno dell’Assunta per recognittione” 30) . Il santuario di Valverde era passato così in gestione della comunità la quale ne aveva ottenuto appunto regolare juspatronato; e nel giro di appena qualche anno quello spazio sacro consolidò il ruolo di baluardo spirituale contro la peste, divenendo pertanto, a pieno titolo, un santuario politico contra pestem 31) . La gestione del santuario politico avveniva attraverso l’istituto del santesato. Di nomina del consiglio comunale, i santesi duravano in carica un anno ed erano tenuti, oltre alla presentazione del bilancio, anche alla riconsegna per inventario dei beni mobili, in particolare degli ex voto che erano ricominciati ad affluire; da qui ad esempio, l’inventario 28) Tarquinia, Società Tarquiniense di Arte e Storia, Archivio Falzacappa. Ex Annalibus... Osservazioni, parag. 3; I. Benedetti, Tempio, 11. Diversamente dalla fondazione cornetana, S. Maria di Valverde e S. Maria della Ginestra di Viterbo continuarono a far parte del patrimonio di Sassovio e in quanto tale S. Maria della Ginestra è elencata nel registro fatto compilare dal card. G. Rusticucci nel 1586, cf. P. Lugano, Le chiese dipendenti dall’abbazia presso Foligno ed un elenco del card. G. Rusticucci (1586), in Rivista Storica Benedettina 7 (1912) 47-94, 56, 93. 29) I. Benedetti, Tempio, 3. 30) M. Polidori, Croniche di Corneto, a cura di A.R. Moschetti, Tarquinia 1977, 270. registrato nelle riformanze del comune di Corneto sotto la data 26 luglio 1489 e che riferisco in appendice 32) . Nell’elenco, fra l’altro, compaiono ben 70 magliette intessute con fili d’oro e d’argento, 22 veli da donna, 13 asciugatoi, 6 anelli d’oro e un numero imprecisato di spille e spilloni con o senza fregi, appuntati o annodati su di un cuscino; e di un altro, altri sette maspilli. Insieme alla suppellettile, quasi tutta appartenente al simulacro venerato in Valverde, compaiono anche tessuti da sagrestia; ma vengono elencati appena 6 amitti, 2 camici e 2 paramenti da altare: il che lascia supporre che quanto Giacomo Squatra, camerlengo del comune consegnò ad Antonello Coraza, suo successore, erano ex voto già indossati o meglio apposti al simulacro e usati per l’ornamento del medesimo; ma all’epoca dell’inventario non erano più esposti alla vista dei fedeli. Ben altri gli ex voto che già sin da allora dovevano adornare il sacello all’interno del quale era custodita la tavola con l’effigie di S. Maria di Valverde; tanto che il Polipori potè paragonare il sacello di Valverde a quello dell’allora già famoso santuario politico contra pestem di S. Maria della Quercia, presso Viterbo 33) . Per lo sviluppo del santuario di Valverde fu poi provvidenziale l’indulgenza plenaria elargitagli il 18 novembre 1493 da papa Alessandro VI il quale, per timore della peste, si era appunto rifugiato in Corneto; lo stesso pontefice contestualmente riconobbe alla Comunità il diritto di avvalersi dei benefici economici connessi al conseguente afflusso dei fedeli che sarebbero venuti per lucrare l’indulgenza, autorizzando il trasferimento della fiera che fino ad allora, per disposizione di Pio II, veniva celebrata in settembre, al giorno dell’indulgenza, cioè per la domenica in albis trasferiti poi alla seconda domenica di pasqua 34) . A. S. Maria di Valverde mancava soltanto l’altra coordinata che fa di uno spazio 31) Sulla problematica mi permetto di rimandare a M. Sensi, Santuari politici “contra pestem”, l’esempio di Fermo, in Miscellanea in onore di Febo Allevi, a cura di G. Paci, Agugliano 1987, 605-652. 32) Tarquinia, Archivio Storico Comunale, cod. I A 5, Riformanze (1489-94), c.49v-50; Appendice III. 33) M. Polidori, Croniche di Corneto, 119. 34) Ivi, 248-287. Alla richiesta fatta dai Magistrati cornetani il 18 novembre 1493 mentre il pontefice era a Corneto “perché a Roma non cessavono i rumori della peste” (cf. Appendice IV, nota 11) fece seguito il 6 aprile 1494 la lettera Exponi nobis con la quale il pontefice rilasciò l’indulgenza plenaria valevole per la domenica in albis di quell’anno ai fedeli che avessero visitato, secondo la forma consueta, la chiesa “B. Mariae de Belverde [!] nuncupata ad quam christifideles propter miracula Altissimi quae inibi precibus ipsius Virginis quotidie apparent devotionis causa concurrunt”. Le ricerche del Falzacappa (cf. Appendice IV) per documentare quando il giorno dell’Indulgenza fosse stato trasferito alla domenica in albis cioè alla seconda domenica di Pasqua hanno avuto, come dichiara il pur diligente ricercatore, esito negativo: scrive il Falzacappa in un passo non riferito nell’Appendice IV: “che questo giorno fosse quello dell’ottava di pasqua di resurrezione con sicurezza si apprende dalla petizione fatta dalla magistratura delli 18 novembre 1493 al pontefice Alessandro VI per l’indulgenza plenaria da doversi lucrare nella chiesa dedicata alla stessa Maria SS.ma di Valverde e per la traslazione della fiera da dover aver luogo in detto giorno appunto dell’ottava di essa pasqua di resurrezione, alla quale istanza fa analogo il sovrano assenso.... item sanctitas sua concessit dictae ecclesiae de Pulcro viridi plenariam indulgentiam in octava resurrectionis d. n. J. Chr.... necnon ad dictam diem nundimas cornetanas permutavit. Da questo atto il Polidori non poté desumere quanto all’opposto scrisse cioè... “sua Santità concede alla chiesa di S. Maria di Valverde l’indulgenza plenaria per il giorno della domenica doppo l’ottava pasqua di resurretione.... et a detto giorno concede possino permutarsi le fiere”. Lo stesso Falzacappa allega in appendice il breve Fecistis nuper del 10 maggio 1460 con il quale Pio II concedeva ai magistrati di Corneto di trasferire sacro un luogo santo di elezione a pieno titolo, appunto un pellegrinaggio istituzionalizzato mediante il voto collettivo: è quanto si verificò, stando al Falzacappa 35) , nel 1504, anno in cui, come narra il Polipori “verso il principio di maggio, si scoprì essere la peste in Corneto, dove continuò molto tempo et causò gran mortalità” 36) . La cessazione del contagio fu attribuita all’intervento prodigioso di S. Maria di Valverde e quella jerofania provocò il voto della comunità di Corneto, voto da allora in poi soddisfatto annualmente, fino ai nostri giorni, con il rito religioso-politico della festa. In appendice riporto un brano tratto dagli Annali dei servi di Maria e riferito dal Falzacappa; il testo offre una puntuale descrizione del primitivo rito 37) . Vi emerge una celebrazione polivalente con un marcato rapporto dialettico fra campagna e città. L’apertura della festa, con il rinnovo delle cariche in seno a tre arti quella dei bifolchi, quella dei vaccari e quella dei casenghi, cioè dei trasportatori e dei carrettieri, arti tipiche di una società contadina - come con la tracciatura del solco dritto una prova senza gara, da effettuarsi fra il giovedì e il venerdì per concludersi entro il sabato, vigilia della festa - risponde appunto, in questa prima fase, a una celebrazione cereale di primavera. La valenza propiziatoria si evince dalle stesse motivazioni ideologiche che nel testo degli Annali, introducono la prova del solco: “unusquisque ex hoc sulco sibi prospera augeretur”; una prova non collegata alla tracciatura concorrente di altri solchi; un solco espressamente tirano là dove c’è il più bel verde. Così come alla valenza propiziatoria rimanda la consumazione, in forma rituale, di prodotti agricoli: pane, simboleggiato da biscotti, e vino, offerti dal neo eletto signore dell’arte dei casenghi; una sequenza rituale, preceduta da un triplice giro attorno alla fontana di piazza, al termine della terza processione che conclude il contesto festivo 38) . La mancata integrazione fra il mercato che dal 1436, per concessione del Legato apostolico i cornetani erano soliti tenere il 20 maggio, giorno della dedicazione di S. Maria di Castello, al 16 settembre, ottava della festa della Madonna e da doversi iniziare comunque quattro giorni dopo il termine della fiera di Viterbo. 35) Appendice IV. Il Benedetti, Tempio, 34 acriticamente anticipa detto voto di circa venti anni: “il voto che la nostra città nel 1485 fece alla Vergine di Valverde per un beneficio specialissimo [...] appunto la liberazione dalla peste [...] ogni anno nella seconda domenica dopo pasqua di resurrezione si andava, secondo il voto fatto, processionalmente alla chiesa di Valverde ed ivi si celebrava con gran pompa la messa solenne”. 36) M. Polidori, Croniche di Corneto, 304. 37) Appendice IV. La Dissertazione del Falzacappa in quest’ultima parte è frammentaria e piena di cancellature; da qui l’omessa trascrizione nonostante l’importanza di alcuni paragrafi. 38) Scrive il Falzacappa, a commento del passo che prevede la partecipazione delle tre arti della festa: “Per quanto è sicuro che l’intervento delle dette tra arti fu un posteriore accessorio, conforme si disse (l’intervento ebbe luogo dopo il 1596), altrettanto sembra obbligatoria per li signori (ossia, li prefetti delle dette tre arti, cioè li zotici così detti signori della divisata festa che si estraggono ogni anno nel secondo giorno di pasqua di resurrezione ed altri componenti l’indicate tre arti, la di loro presenza ed assistenza alle tre messe lette che contemporaneamente alla solenne si celebrano nella ridetta chiesa di Maria SS.ma di Valverde nelle di loro altari per il fine di offrire li cerei precisati nel paragrafo antecedente, con il bacio dei manipoli sul braccio dei sacerdoti celebranti, come sempre in addietro hanno essi esattamente adempito, salutando ancora l’Altissimo all’elevazione della detta solenne messa con duplicati sventolamenti delle rispettive bandiere... Possono però dispensarsi dal cavalcare per riaccompagnare il magistrato alla contadini e artigiani vieppiù emerge il giorno della festa vera e propria. Questa ha inizio dopo i vespri del sabato che precede la seconda domenica di pasqua con una processione per la riconsacrazione della città alla Vergine, una processione cui prendeva parte la città con i suoi ceti strutturati e le sue gerarchie S. Maria di Valverde, posta com’è fuori delle mura cittadine, imponeva un percorso processionale lineare, appunto dalla cattedrale al santuario; da qui, probabilmente, il rientro processionale in cattedrale al termine delle funzioni in Valverde, quasi a surrogare il mancato periplo della città. L’indomani mattina le gerarchie cittadine di nuovo si recavano, questa volta in corteo, al santuario. Magistrato cittadino e vescovo erano preceduti dai palii (bravia): i premi che venivano offerti per le corse dei cavalli, cioè di uno degli spettacoli che si sarebbero dovuti effettuare nel pomeriggio. Seguivano i prefetti, cioè i signori della festa eletti dalle tre arti, cui faceva seguito la parata militare, un’armata di circa trecento soldati con la spada sguainata. Terminata la sfilata avevano seguito, all’interno del santuario i riti liturgici con l’offerta dei ceri votivi: ben quattro messe contemporanee - una sull’altare centrale e alla quale assisteva il magistrato cittadino e tre agli altari laterali con la partecipazione dei magistrati delle tre arti, ciascuno presso l’altare di juspatronato della rispettiva arte - cosicché all’offertorio potesse contemporaneamente avvenire la rituale consegna del cero. Questo rito che simboleggiava l’omaggio e la fedeltà alla Vergine veniva dunque celebrato all’insegna del particolarismo, indice eloquente del difficile equilibrio allora vissuto dalle varie componenti sociali di Corneto. Concludeva il rituale della festa cornetana una terza processione, dal santuario alla cattedrale, per il canto dei vespri, ma anche per riaffermare singolarmente la preminenza di questa chiesa su quella. Quindi gli associati delle tre arti - appunto dei bifolchi, dei vaccari e dei casenghi - riaccompagnano il magistrato alla sua residenza. Terminato quest’ultima incombenza i membri delle tre arti compivano tre giri attorno alla fontana della piazza maggiore e infine consumavano comunitariamente un biscotto a testa e vino “a volontà” loro offerti dai signori della festa, appunto i prefetti delle tre arti. Quest’ultimo rito, che il Falzacappa definisce “un posteriore accessorio”, è tuttavia messaggero di miti che si perdono nella notte dei tempi: mentre l’acqua richiama l’intenzione lustrale e residenza, come pure dai consueti tre giri intorno alla pubblica fontana sulla piazza maggiore, riaccompagnato il magistrato alla residenza, che per parte dei bifolchi, un mezzo secolo indietro, si eseguivono a piedi; e dal rinfresco, consistente in un biscotto e vino [a volontà] per persona da darsi dalli nuovi signori.... somministrazione proveniente dall’arte dei casenghi e resa promiscua con le altre due arti delli bifolchi e vaccari”. Quanto al rito della tiratura del solco dritto noto come il Falzacappa si limiti ad osservare che “questo solco fu un successivo accessorio per rendere più decorosa la festa”, mentre manca un vero e proprio commento. La tiratura del solco dritto e la commissione di prodotti agricoli in forma simbolica, riti comuni a molte aree dell’Italia centrale, trovano un riscontro abbastanza immediato ad purificatrice, la “corsa intorno” sembrerebbe rappresentare la volontà di sottrarre il mondo dei vivi alle forze ostili, inscrivendolo appunto entro un cerchio magico, e la consumazione comunitaria poi parrebbe rimandare a un “sacrificio di comunione”: una suggestiva e poco nota “liturgia” che, stando allo stesso Falzacappa, fu abolita intorno alla metà del sec. XIX 39) . APPENDICE I Corneto, 1268 febbraio 10-1273 dicembre 7. Copia notarile di due convenzioni eseguita dal notatio Angelo Alberti di Corneto, a perpetua memoria, dopo il 7 dicembre 1273 a seguito dell’approvazione dei due capitolati da parte del ministro generale dei frati di S. Maria di Valverde. Le due convenzioni riguardano la costruzione e la gestione del santuario di S. Maria di Valverde a Corneto; la prima stipulata il 10 febbraio 1268 fra i frati di S. Maria di Valverde e la loro fraternità mariana; la seconda fu aggiornata il 7 dicembre 1273 dai frati minori, allora residenti alla SS.ma Trinità e ai quali, nella precedente convenzione, era stata affidata l’amministrazione dei sacramenti e la celebrazione delle messe nel santuario di S. Maria di Valverde. Spoleto, Archivio arcivescovile, fondo Sassovivo (d’ora in poi, AAS, Sass.) 7399, membr. misura cm. 370x265. Sul verso, di mano del sec. XVII “capitula et ordinamenta facta per fr. Jacobum pisanum priorem ecclesie S. Marie Vallis viridis de Corneto; 1268; S. Crucis”. [S.T.] In nomine Domini amen. Hoc est exemplum cuisdam pubrici instrumenti sic dicentis et incipientis: / In nomine Domini amen. Anno a nativitate eiusdem millesimo ducentesimo sexagesimo octavo, indictione undecima, temporibus domini Clementis quarti summi pontificis, mense februarii, die. X. intrante. / Hec sunt capitula et ordinamenta facta per fratrem Iacobum pisanum, priorem ecclesie sancte Marie Vallis viridis de Corneto / una cum Gemptio olim domini Iacobi Gemptii, Bartholomeo es. nella non lontana Valentano (Vt.), cf. R. Luzi, La tiratura del solco dritto nel Ferragosto verentano, con nota introduttiva di A.M. di Nola, Viterbo 1980. 39) Per un priimo approccio interpretativo di simili riti rimando a V. Lanternari, La politica culturale della chiesa nelle campagne, in Società XI/1 (febbr. 1955), 68-79; A. Seppilli, I ceri di Gubbio. Saggio storico-culturale su una festa folclorica, in Annali della facoltà di lettere e filosofia 8 (1970-71), Perugia 1972, 3-518. Langaialis, Ventura Speculi et Manente mercatore, rectoribus fraternitatis eiusdem / ecclesie sive loci. Imprimis quidem ad honorem Dei et beate Marie virginis et omnium sanctorum et sanctarum Dei et ad reverentiam sacro / sancte romane Ecclesie et domini Clementis summi pontificis et pacificum et bonum statum communis Corneti, pro bono pacis et concordie; nos quidem / frater Iacobus predictus, presentibus et consensientibus fratribus scilicet meis, videlicet: fratre Alberto, fratre Verano, fratre Petro de Borgundio, / cum non sint plures fratres in dicto loco et cum auctoritate et decreto dictorum rectorum dicte fraternitatis, statuimus, ordinamus / et volumus quod annuatim, in festivitate sancte Marie de martio, eligantur quatuor rectores pro dicta fraternitate conservanda, cum conscientia prioris / dicti loci ad manus quorum perveniant omnia bona ad dictam fraternitatem pertinentia pro edificiis loci predicti faciendis, prout inferius continetur; / qui legaliter faciant, conservint et expendant bona predicta de coscientia et consilio prioris ecclesie predicte et aliorum sex consili[ari]orum de frater/nitate qui per tempora eligentur a priore et rectoribus qui preherunt quando dicti rectores eligentur./ Item statuimus, ordinamus et volumus quod omnes introitus festivi tatum sancte Marie et diei fraternitatis deputati ad dictam fraternitatem,/ videlicet diei veneris et dierum dominicarum, sint ipsius fraternitatis pro edificiis dicti loci, sive ecclesie faciendis, exceptis candelis, yma/ginibus cere, filis argenteis, tovalglolis que perveniant ad manusª fratrum dicti loci et alii vero introitus aliorum dierum / sint er perveniant ad manus fratrum existentium in dicto loco pro eorum necessitatibus; qui preherunt per tempora faciant pietantiam fratribus in quali / bet festivitate sancte Marie, bene et honorifice, de bonis fraternitatis. / Item statuimus, ordinamus et volumus quod in dicto loco sive ecclesia sint. . VIII. fratres minores b. ex quibus a priore dicti loci provideatur ita si quousque dicta ecclesia sive locus augumentabitur sive sublimetur, quod tunc / providebitur prout providendum erit; et pro necessitate fratrum fraternitas emat octo copertoria et si de elemosinis fratres vivere / possint, bene; alias provideatur de introitibus sive proventibus dicte fraternitatis, sicud fraternitas tollerare poterit. b Item statuimus, ordinamus et volumus quod non liceat alicui priori dicte ecclesie sive loci, nec etiam rectoribus, qui per tempora, dictam ecclesiam sive locum sub/ mictere alicui persone sit; et ad reverentiam sacrosancte romane / Ecclesie et domini Clementis summi pontificis et pacificum et bonum statum communis Corneti et si secus factum fuerut ab aliquo predictorum priorum / talis obligatio sive concessio non teneat, nec valeat./ Hec sunt aiectiones facte per fratrem Bartholomeum guardianum fratrum minorum Trinitatis et fratrem Antonium eiusdem Ordinis qui / vocati et electi fuerunt concorditer a fratre Percivallo, provinciali dictorum fratrum et rectoribus dicte fraternitatis et aliis bonis hominibus / ad providendum et corrigendum predicta pro bono pacis et concordie habende utiusque, sub anno nativitatis Domini. MCCLXXIII., prime indictionis, temporibus domini Gregorii / decimi summi pontificis, mense decembris, diev. VII. intrante. Nos frater Bartholomeus, guardianus fratrum minorum sancte Trinitatis de Cornito et frater Antonius statuimus et ordinamus dicta nobis / licentia a predictis corrigendi predicta et addendi: quod rectores fraternitatis suis subcessoribus qui tunc eligentur in presentia prioris loci predicti et aliorum sex consiliariorum qui vocati suam redant debitam rationem et nullus rector possit esse uno anno simul et semel. / Item statuimus et ordinamus quod calices et paramenta et altarium ornamenta conserventur semper que hodie sunt et in antea esse potuerun pro usu / dicte ecclesie sive loci, nec vendantur seu alienentu vel pingnorentur pro aliquo facto, sive negotio ab aliquo fratre sine scitu, asensu et / consilio rectorum et consililariorum. / Et ego Angelus Alberti, sacri imperii notarius, predictis omnibus interfui et ad futuram memoriam scripsi et publicavi. / Quibus omnibus sic peractis veniens minister generalis totius Ordinis deinde ad paucos dies ratificavit et confimavit predicta et quiquid placet fraternitati placet et mihi. II Bagnoregio, 1282 novembre 26. Simeone, vescovo di Bagnoregio e vicario generale nel Patrimonio di S. Pietro, respinge l’appello di fra Romano, dell’Ordine di S. Maria madre di Cristo di Valle Verde, religioso deputato nella chiesa di S. Maria di Valverde a Corneto, il quale intendeva opporsi alla decisione presa dal medesimo vicario di investire del beneficio in detta chiesa di S. Maria di Valverde in Corneto il chierico Andrea Licuardi promosso all’ordine del suddiaconato. Due gli inserti: la lettera con cui il Vicario generale il 13 novembre di quell’anno incaricò il priore di S. Maria Margherita di Corneto di immettere in possesso del beneficio di S. Maria di Valverde il chierico Andrea Licuardi; l’appello al pontefice fatto da fra Romano e da trasmettere per via gerarchica. Il secondo inserto è privo di data. AAS, Sass. 7045, membr. misura cm. 380 x 175. Sul verso, di mano del sec. XVII, “appellatio interposita per fr. Romanum de Ordine S. Marie matris Christi de Valle viridi coram episcopo Balneoregien”. In nomine Domini amen. Anno eiusdem. MCCLXXXII. indictione .X., tempore domini Martini pape quarti / mense novembris, die. XXVI. In civitate Balneoregii, in palatio episcopatus, in camera infradicti / domini episcopi, presentibus Matharotia Gregorii et Iacobo Angeli clerico de Mugnano fa / miliaribus domini episcopi Balneoregii, testibus ad hec vocatis et rogatis, Constitutus frater, Romanus et de Ordine sancte Marie matris Christi de Valle viridi coram venerabili / patre domino Simeone, Dei gratia Balneoregensi episcopo in patrimonio beati Petri in Tuscia / in spiritutalibus vicario generali, appellationem in scriptis interposuit in forma inferius / annotata. Coram vobis domino Simeone, Dei gratia Balneoregii episcopo in patrimonio beati Petri / in Tuscia in spiritualibus vicario generali, cum per vestras scripseritis litteras et / dederitis in mandatis domino Iohanni priori ecclesie sancte Marie Margarite / de Corneto, quarum tenor inferius continetur, ego frater Romanus de Ordine sancte Marie matris Christi de Valle viridi, frater et religiosus deputatus in ecclesia / predicte beate sancte Marie existentis prope Cornetum, sentiens gravatam dictam / ecclesiam, me et fratres alios Ordinis predicti et eiusdem ecclesie de licteris predictis et mandato predicto per vos facto appello, nomine et pro parte dicte ecclesie, mea / et aliorum fratrum seu religiosorum eiusdem ecclesie in hiis scriptis, ad dominum papam / ab ipso mandata vestra et executionem si qua facta est per predictum commissarium vestrum / auctoritate predictarum licterarum vestrarum, contra predictam ecclesiam et fratres predicte ecclesie submic / tentes predictam ecclesiam et bona sua, me, fratresque alios ipsius ecclesie sub protectione / domini nostre pape. Forma autem predictarum licterarum hec est: / Simeon, miseratione divina Balneoregensis episcopus, patrimonii beati Petri in Tuscia in / spiritualibus vicarius generalis, discreto viro domino Johanni, priori ecclesie sancte Marie Marga / rite de Corneto, salutem in Domino. Cum Andreas Licuardi, clericus La [...]ª a pre / sentium ad titulum ecclesie sancte Marie de Valle viridi de Corneto ad subdiaco / natus ordinem fuerit promotus et, sicut asseruit in nostra presentia constitutus, / de proventibus et fructibus ipsius ecclesie nullam habuerit vel habeat portionem, nec / habeat aliud unde possit comode substentari, volumus et mandamus quod pre / fato a Lacuna per foro di tarlo. clerico de fructibus et proventibus prefate ecclesie sancte Marie faciatis, / iuxta consuetudinem vestram, prout patiuntur facultates ipsius, prout expedire / videritis provideri. Datum Balneoregii die. XIII. mensis novembris. / Ad quam vero appellationem et dicto fratri Iohanni dictus dominus episcopus et vicarius respondidit dicens: / quod cum idem frater Romanus appellet nomine dicte ecclesie sancte Marie, quod doceat utrum / sua intenssio appellare, si est rector vel procurator ipsius ecclesie, pro qua appellat, / alias autem cum etiam non exprimat causam gravaminis dicte appellationi tamquam frivole / etr frustratorie non deferebat et ipsam ut frivolam manifeste non admictebat. / Et ego Petrus, apostolice sedis auctoritate notarius et supradicti domini episcopi et vicarii scriba, / predictis omnibus interfui et, ut supra legitur, rogatus scribere et de mandato et auctoritate notarius et supradicti domini episcopi et viacarii scriba, / predictis omnibus interfui et, ut supra legitur, rogatus scribere et de mandato et auctoritate / dicti domini episcopi et vicarii scripsi et publicavi. / Signum predicti [S.T] Petri notarii. III Corneto, 1489 luglio 26. Inventario dei beni mobili di S. Maria di Valverde che Giacomo Squatra, camerlengo uscente, consegna al suo successore Antonello Coraza. Tarquinia, Archivio storico comunale, cod. I.A. 5, Riformanze (1489-94) cc. 49v-50. Infrascripte sunt res et bona spectantia beate Marie de Valle viridi, quas [s] Jacobus Squatra deponens camerariatum Antonello Coraza, novo camerario consignavit, imprimis: cammora una muliebris coloris bruschini cum manicis de pavonatio usitatis: linteamen unum novum sponsalicium cum reticulis intermediis; zona una villutata ab extra, coloris cremosini, munita argento niellato cum fibra et punctali, cum spranghis novem; zona altera abrasa, colore rubro, cum fibia duplici, punctali et spranghis novem; zona altera colore viridi et veter cum fibia, punctali et spranghis sex; / balteus unus argenteus librarum duarum; frontale unum cum roseis argenti vigintiuna; peplum unum muliebre sericum filis aureis intextum; agnus Dei unus argenteus auratus; annuli sex, videlicet quinque aurei integri et unus fractus; malliectae argenteae auratae, partim magnae, partim parvae, numero seputaginta; maspilli et argenti genera plura, quodam lineo linteolo involuti, cum quibusdam margaritis in sirico frusto ligatis, et certa sine nodo imposita, signo aquile impressa, concumulata omnia sirico quodam cervicali; ferramenta sartorum quedam uno lineo frusto alligata; esiccatoria sex ampla, quorum unum dono datum filiolae infanti beatae Virginis; gausapa duo mensalia, partim contrita et corrosa; gausape aliud medium; esiccatoria quatuor contexa sirico et textura egiptia colorum variorum; esiccatoria tria assimilia poene; cervicalia sex: duo videlicet e sirico, unum reteum, reliqua ex tela linea retibus acu factis circumsutis; paramenta altaris duo: unum viride, alterum aviculis distinctum; manipulus unus; amictus sex; camisia duo; gausape contritum unum; fasciculus scripturarum; maspilli septem pro cervicalibus; velicula muliebria ex sirico quindecim; cingula renaria muliebria duo; rubrum alterum, alterum viride; velicula sex sirica laborata; cappellae muliebres quatuor; veliculum bombicinum unum; gausapa tria nova et unum vetus manutergia; pecten unus laboratus sive trasforatus muliebris; esiccatoria duo pro altari; manicellae veteres duae cum reticulis. IV Conte [Pietro] Falzacappa, Memorie storiche della chiesa di Valverde, (exceprta). Tarquinia, Biblioteca della Società Tarquiniense di Arte e Storia, Ms F. d. 11.: un grosso fascicolo di carte rimaste allo stato di appunti. Due le redazioni del testo: la prima piena di cancellature reca la seguente intestazione: Ex Annalibus fratruum servorum beatae Mariae Virginis a suo instituto exordio, auctore fr. Arcangelo Gianio florentino. Centuria III, ann. Jesu Christi 1502, ann. Ordinis 269. Aliorum conventuum refertur origo, cap. VI. Ad eundem annum 1502 referenda pariter videtur conventum illius origo, quam in loco qui dicitur Vallis Viridis (segue spazio bianco; e, a destra, il commento del Falzacappa; sotto, il titolo) Osservazioni che illustrano ed accrescono il di contro Annali. La seconda redazione, scritta in bella copia, senza cioè cancellature e con un linguaggio più agile, non è invece affiancata dal testo degli Annali. Trascrivo integralmente la seconda redazione, quindi riferisco passi scelti della prima e concludo con l’ultima parte degli Annali notevole per i dati sulla spettacolarità della festa. Dissertazione Fu nella Fiandra una congregazione sotto il titolo di Valverde, così detta da una valle vicina a Bruxelles, ove fu eretto il principal monastero di essa, come riferisce il Maurolico. Scrive poi il Pennotto che la sua prima fondazione fu nell’anno 1349, sotto la regola di S. Agostino, essendo per l’addietro una congregazione di romiti, il superiore de’ quali fu Giovanni Rusbrochio morto nell’anno 1381. Vogliono altri che sia stata più antica e così crediamo ancor noi per l’infrascritte ragioni. Erano uniti a questa congregazione, chiamata di Valverde, altri monasteri di simili canonici regolari, come anche di monache del medesimo Ordine, fra quali era il Monastero di Cremona, quello di Messina, di Palermo, Taormina, Castelvecchio ed altri alli quali ci piace ancora di unire quelli delle città di Corneto e di Viterbo. Si vuole poi che questa congregazione mancasse del tutto nell’anno 1412 e che fosse unita a quella di Vindeseim di cui fu autore nell’anno 1380 Florenzio, discepolo del gran Gerardo; ma noi dimostreremo che prima dell’anno 1291 fu soppressa nel concilio di Lione. Detti canonici regolari di Valverde radevano il capo lasciandovi un solo giro di capelli a modo di corona. La loro veste con il cappuccio era di color nero, alla tonaca aggiungevano il rocchetto bianco e vestivano camicia di lana 1) . Che detta congregazione di canonici regolari di Valverde fosse più antica assai del 1349 e che avesse ancora li monasteri nelle città di Corneto e di Viterbo si giustifica appunto colla di lei soppressione seguita nel concilio di Lione molto prima del 1291, nel qual anno, alli 20 di giugno, la S.M. di Niccolò papa IV concesse alli monaci benedettini del monastero di Sassovivo, nella diocesi di Foligno, la chiesa e monastero sotto lo stesso titolo di S. Maria di Valverde che l’anzidetta congregazione aveva nella suddetta città di Viterbo, come consta dalla bolla del medesimo pontefice data in Orvieto il giorno, mese ed anno 1) A margine, P. Filippo Bonanni, Ordini sagri, Tom. I, num. XXXV, edizione di Roma 1738. sudetti, nella quale bolla appunto si ha la memoria del titolo e soppressione di detta congregazione seguita molto rima del ridetto anno 1291, cioè: “fratres Ordinis S. Mariae de Valle viridi qui dudum in concilio Lugdunensi novissime celebrato cum nonnullis aliis Ordinibus cassatus extitit” 2) . Un tal titolo poi di frati, dato in detta bolla alli predetti canonici regolari dallo stesso pontefice Niccolò papa IV, fratres ordinis S. Mariae de Valle viridi, ci fa strada a conoscere l’antichità della stessa congregazione e rispettiva di loro chiesa e monastero attualmente essistenti in dettà città di Corneto sotto la stessa invocazione di S. Maria di Valverde e a fissarne l’epoca nell’anno almeno 1211, atteso che in detto anno fu fatta da Lotteringo figlio di Bartolomeo di Pisa la campana maggiore che resta appesa nel campanile di detta chiesa, stanziando allora in detto monastero ed al servizio della chiesa sudetta i frati Leonardo, Angelo e Simone, in conformità dell’iscrizione che si legge all’intorno della medesima campana del seguente tenore, cioè: A.D. MCCXI LOTTERINGUS FILIUS BARTOLOMEI PISANI ME FECIT + TEMPORIBUS FRATRUM LEONARDI, ANGELI ET SIMEONIS HEC KAMPANA FACTA FUIT. E questa è una delle due campane che vedremo comprate per uso di detta chiesa nel 1581 imperciochè non è presumibile che la detta chiesa non avesse con il suo campanile ancora la sua campana. Anche però questa chiesa e monastero di S. Maria di Valverde di Corneto, dopo la soppressione della sudetta congregazione, passò nelle mani dei citati monaci benedettini del monastero di Sassovivo. Ciò si raccoglie da una bolla di Eugenio papa IV di S.M., data in Bologna li 8 dicembre 1437 con la quale costituì, assegnò e concedette a favore della mensa vescovile cornetana la chiesa e monastero sudetti di S. Maria di Valverde, con tutti i di loro diritti, giurisdizioni e pertinenze, spogliandone come alla detta bolla, i sudetti monaci benedettini di Sassovivo 3) che fino al 1378 ne erano in possesso, conforme risulta da un’assoluzione del clero secolare e regolare di detta città di Corneto dalle censure incorse per aver celebrati i divini officii nei tempi interdetti, data in Anagni li 17 settembre 1378, nella quale si legge cioè: “Angelus prior ecclesiae S. Mariae de Valle viridi extra Cornetum” 4) . Passati così in potere dei vescovi cornetani tali chiesa e monastero di S. Maria di Valverde, con tutti i di loro diritti, giurisdizioni e pertinenze universe, furono da mons. Bartolomeo Vitelleschi, vescovo di detta città di Corneto, sua patria, nel 1452 dati in 2) A margine, Bussi, Storia di Viterbo, part. I, lib. III. pag. 179 ed. appendice pag. 180. A margine, Doc. numero I, pag. (lacuna). 4) A margine, Cod. membranaceo nell’Archivio della chiesa cattedrale di Corneto, pag. 62 tergo. 3) amministrazione ai vicari perpetui di S. Fortunato, altra chiesa in Corneto già diruta e profanata 5) . Mons. Domenico, card. della Rovere, altro vescovo di Corneto, li 26 gennaio 1483 ne fece la concessione alla communità di detta città, coll’annuo perpetuo censo di una libbra di cera nella solennità dell’Assunta, nel di cui privilegio di concessione 6) si legge primieramente che “multis iam annis” indietro la medesima chiesa e monastero erano stati fabricati. Siegiono inoltre i ben dovuti encomi a Maria SS.ma denominata ancor essa di Valverde che in tabula depicta tuttavia si conserva in detta chiesa per l’innumerabili grazie incominciate da Dio ad operare a di lei intercessione superioribus diebus, per cui allora era continuo ed incredibile il concorso de’ fedeli a detta immagine così di giorno, che di notte. Vi si legge in terzo luogo essere stato questo il motivo che indusse la comunità sopradetta a supplicare detto card. vescovo della Rovere al quale per detta Eugeniana concessione si appartenevono una tal chiesa e sue rendite rispettivamente, “ad quos dictam ecclesiam pertinet et eius fructus”, perché si fosse degnato di concedere e consegnare al di lei arbitrio e disposizione “fundum, muros ac corpus omnes dictae ecclesiae” che diruta e guastata per l’antichità era da riedificarsi, ristorarsi et ripararsi con le oblazioni tanto fatte che da farsi. Siegue l’atto della concessione che a detta communità “auctoritate nostra ordinaria” fa il detto vescovo card. della Rovere, del fondo, muri e corpo intero solamente di detta chiesa: “fundum, muros ac corpus omne dumtaxat... dictae ecclesiae... concedimus etc.” e di tutte e singole le offerte, i doni e l’elemosine raccolte in detta chiesa e fatte dalla pietà de’ fedeli dal giorno che ebbero principio i sudetti miracoli, e da farsi e raccogliersi in appresso ad arbitrio e disposizione di detta comunità, da erogarsi nella riedificazione, ristaurazione, riparazione e in bonificamenti e mantenimento di detta chiesa; dal che si rileva che il detto vescovo puramente concesse il solo materiale di detta chiesa e monastero in pessimo stato e riserbò a sé e suoi successori le di loro rendite ed effetti rispettivamente, o siano beni di prima erezione, e tale doveva essere ed è certamente, atteso che tali beni e gli altri tutti che si leggono in detta bolla di Eugenio papa IV furono assegnati dallo stesso pontefice per provisione e sostentamento dei vescovi cornetani, né il detto card. della Rovere poteva privarne i di lui successori con donarli alla comunità sopradetta, conforme non ne privò i vescovi successivi e non li donò alla stessa comunità, alla quale per riedificare, riparare, ristaurare, bonificare e mantenere la detta chiesa gli concesse puramente le oblazioni, i doni e l’elemosine fatte e da farsi e gli diede ancora la facoltà e potestà di fabbricare e 5) A margine, Visita pastorale del card. Paluzzo Paluzzi Albertoni altro vescovo di Corneto fatta nell’anno 1667, pag. 55, in Cancelleria vescovile di Corneto. Intorno alla chiesa di San Fortunato ne abbiamo compilata una dissertazione particolare. ristaurare la detta chiesa, di porre, eleggere e deputare alla di lei custodia e per il di lei divino culto tanto preti che frati di qualsivoglia ordine d’approvarsi però dall’ordinario e di eleggervi almeno uno dei preti cornetani, da confermarsi come sopra, il quale con altri cittadini eletti alla cura di detta chiesa ed all’amministrazione di dette elemosine, potesse intervenire e dovesse concorrere in ogni congresso da tenersi per disporre di dette oblazioni, per evitare così ogni frode. E finalmente si legge in detto privileggio l’obbligo ingiunto a detta comunità di dover dare “in recognitionem iuri episcopatus dictae ecclesiae quotannis” a detto vescovo e suoi successori “nobis et successoribus nostris pro censu unum cereum unius librae in festo beatae Mariae de mense augusti”, il che apertamente dimostra il diritto di giurisdizione o sia juspadronato che il detto card. vescovo della Rovere per sé e suoi successori riservò sopra di detta chiesa e monastero respettivamente di S. Maria di Valverde. In simil guisa e non altrimente accadde la concessione di detta chiesa e monastero a favore della comunità sopradetta 7) . .... Non omise inoltre lo stesso Polidori di tramandare alli posteri la notizia che appena successe la concessione a favore della riferita comunità della ridetta chiesa e suo monastero di Maria SS.ma di Valverde, e precisamente nel di contro notato “anno 1484 fu trattato nel consiglio pubblico di accettare alcuni frati di S. Francesco nella chiesa della Madonna di Valverde, raccomandati dal card. della Rovere vescovo di Corneto” 8) . Mancando però in quella segreteria comunitativa l’atti consiliari appartenenti a detto anno 1484, chiarissima perciò è l’impossibilità di poter riferire la deliberazione presa sull’accettazione di detti religiosi di san Francesco all’esercizio del culto divino nella medesima chiesa la di cui concessione fu fatta nel 1502 alli religiosi dei servi di Maria, sembra bastante a far credere che essi frati di san Francesco furono provvisoriamente accettati e che la di loro accettazione non fu approvata dal consiglio. 1485. In quest’anno il medesimo cronista Polidori avvertì che “dal pubblico di Corneto fu resarcita con fabriche di tetto et altro edificio la chiesa si Valverde” 9) . Questa relazione del Polidori alla massima evidenza dimostra che la comunità diede immediatamente esecuzione all’esposta promessa di risarcire la medesima chiesa... 1488. Nei citati registri di contabilità comunitativa si notarono a credito et a debito le oblazioni di cui sopra da doversi erogare nel riconoscimento della riferita chiesa; e delle 6) A margine, Documento numero II, pag. (lacuna). Qui si interrompe la seconda redazione della Dissertazione. Seguono brani scelti della prima redazione. Le omissioni di brani meno utili alla presente indagine sono indicate con.... 8) Vedi ora Mutio Polidori, Croniche di Corneto a cura di Anna Rita Moschetti, Tarquinia 1977, 272. 9) Ed., ivi, 272. 7) quali oblazioni nel citato anno 1488, come in essi registri, era un certo Giacomo Squatra camerlengo o sia depositario. 1489. Sospeso un momento il di più da riferirsi sull’indicato restauro, non omettiamo di far conoscere che la concessione della divisata chiesa alla comunità non andò disgiunta da un contemporaneo inventario degli oggetti spettanti alla medesima chiesa e suo monastero, esclusivamente però alli fondi e frutti di essi rimasti a profitto della mensa vescovile cornetana, per esser stati donati alla comunità “dictae ecclesiae fundum, muros ac corpus omne dumtaxat”, quali oggetti inventariati “res et bona spectantes beatae Mariae de Valle viridi” li 26 luglio del contro citato anno 1489 il nominato Giacomo Squatra che nel medesimo anno ne era il camerlengo o sia depositario, lasciando questo impiego: “deponens camerariatum, Antonello Caraza novo camerario consignavit”. E ritornando alla preindicata restaurazione, questa li 20 Ottobre del ridetto di contro anno 1489: “magnifici domini priores, una cum sanctesibus ecclesiae beatae Mariae de Valleviridi”, l’accottimarono all’artefice Lorenzo di Pietrasanta, stipulante per il medesimo lo scarpellino Giovanni di Lago Maggiore il quale obbligato doveva intonacare tutta la stessa chiesa e le colonne esistenti nella parte interna della medesima; stuccare li fori che vi esistevano, munirla di mattonato in maniera da divenir piana ed eguale e piantare nei muri dei travicelli o siano modelloni di legno, con tavole sopra per adattarvi li travi, a somiglianza di quelli situati nella chiesa della Quercia in Viterbo, come venne asserito dal cronista Polidori 10) . 1490. E perché il detto cottimo non presenta la somma convenuta per detto risarcimento e per tal causa non potendola precisare, solo perciò riferiremo che li 8 aprile del di contro anno si pagarono agli artefici dal camerlengo, o sia depositario Nardo Tato li medesimi fiorini ottantuno e bolognini quattordici che li 8 dicembre dell’antecedente anno 1488 gli aveva consegnati l’altro camerlengo, o sia depositario, Giacomo Squatra per erogarsi nel predetto restauro. A raccogliere le indicate oblazioni esistevano due casse sotto le denominazioni di cassa dell’altare e di cassa della cera, quali casse aperte li 23 luglio del di contro anno 1490, il denaro che vi si rinvenne fu consegnato a Matteo Tozi camerlengo in quel tempo della chiesa surriferita. Verò è che l’indicata apertura delle dette casse apparisce fatta senza l’assistenza del magistrato, delli santesi e della persona ecclesiastica che la comunità doveva eleggere tra l’individui componenti il clero secolare cornetano, in esecuzione dell’obbligo ingiuntogli dal cardinal della Rovere nel suo diploma di concessione della riferita chiesa di Maria Santissima di Valverde... 10) Ed., ivi, 119. Erano poi li suddetti santesi, dei quali già si fece menzione fin dal 1489 quelli cittadini consiglieri che alla cura della divisata chiesa di Maria SS.ma di Valverde e all’amministrazione delle oblazioni ed elemosine così raccolte, che da raccogliersi in essa chiesa il comune eleggeva stando il costume da doversi osservare, esteso ancora al camerlengo: “de sanctesibus et camemario dive et intemerate Virginis... servandum morem antiquum et pristinum”. Dei camerlenghi si è già parlato ai propri luoghi e relativamente alli santesi altro qui non occorre di far conoscere che la di loro elezione succedeva ordinariamente nel mese di dicembre: che questi si eleggevano dalli consiglieri di ogni terziero, e che dal numero di tre nel 1490 ascesero poi costantemente sempre fino al 1509 al numero di quattro... 1493. Al suo luogo vedremo che in quest’anno, a petizione del magistrato, il pontefice Alessandro VI decorò la ridetta chiesa di Maria SS.ma di Valverde della plenaria indulgenza da lucrarsi nell’ottava della Pasqua di resurrezione; che in detto giorno potesse farsi la fiera... 11) . 1494. Come pure si osserverà al proprio luogo che al di contro anno si assegnarono alla festa della lodata Maria SS.ma di Valverde ed alla fiera preindicata la domenica seconda dopo la ridetta Pasqua di resurrezione e che fino dal 1504 dovette stabilirsi lo stesso giorno la soddifsfazione del voto in detto anno formato... 12) . 1504. Siamo al voto che positivamente in ogni anno si soddisfa in Corneto, nella riferita chiesa di Maria SS.ma di Valverde, nella seconda domenica dopo la Pasqua di resurrezione, incominciando dalli primi vesperi del sabato immediatamente antecedente. E’ tradizione nella medesima città che questo voto si formasse per annualmente ed in perpetuo ringraziare l’Altissimo di avere dal mal contagioso liberata la stessa città ad intercessione della lodata Maria SS.ma di Valverde: ed il volgo prosiegue ancora a tener per fermo che detto pestifero morbo si portasse in Corneto da una vecchia donna decisa di propagarlo per contatto e che, per l’effetto entrata in essa chiesa di Valverde, immerse 11) Nell’appendice documentaria allegata alla Dissertazione sotto l’anno 1493 si legge; “Nel detto anno 1493 perché in Roma non cessavano i rumori della peste il papa per fuggir quell’intemperie dell’aria scrive con l’infrascripto breve a’ Cornetani che ha pensiero ritirarsi a Corneto con alcuni cardinali et sua corte et dà ordine che si faccino diligenze esattamente per custodir la città et non s’ammetta nessun straniero senza licenza di Sua Santità, affine si preservi da ogni sospetto di male et ordina che si faccino provisioni di viveri”. Viene poi trascritto il breve Cum intendamus del 18 ottobre 1493. Segue questa ulteriore nota: “Dall’Atti consiliari delli 22 e 23 ottobre 2, 3, 4, 10 e 18 novembre di detto anno 1493 il citato cronista Polidori desunse quanto scrisse intorno alla venuta del sudetto Pontefice Alessandro VI in Corneto nel di 5 novembre ed alle grazie dal medesimo concesse il 18 novembre stesso 1493, fra le quali ancora le seguenti, cioè: item Sanctitas Sua concessit dictae ecclesiae de pulcro viridi plenariam indulgentiam in octava resurrectionis D.N.J. Christi triennio tantum duraturam, incipiendo anno proximo venturo et ut sequitur feliciter finiendo et finito anno iubilei proximo venturo eamdem indulgentiam ispi comunitati promisit concedere perpetuam. 12) Appendice documentaria, anno 1494: “Il medesimo Polidori non omise di notare che nell’anno 1494 il papa in esecuzione delle grazie concesse, mentre era in Corneto, con il seguente breve concede indulgenza plenaria nella chiesa di Valverde per il giorno della domenica dopo l’ottava di Pasqua”. Segue il breve Exponit nobis del 6 aprile 1494. tutto il dito medio della mano destra mano nell’acqua lustrale e l’astergesse poi nell’estremità del giro della conchiglia che la conteneva per infettarlo a danno di quelli che per li primi vi avessero accostate le mani, successivamente delle rispettive loro famiglie ed in ultimo dell’intera popolazione; ma che invece di restare spettatrice indolente dell’ideata strage essa donna sul fatto morisse lasciando nella predetta conchiglia l’impronta del dito micidiale; quale impronta tagliata e volta via dal proprio lungo lo stesso volgo tiene egualmente per fermo esser quel taglio che si osserva nella conchiglia dell’acqua lustrale nella parte che rimane incastrata nel muro situata al presente in essa chiesa di Valverde, accanto all’altare di S. Anna, verso l’epistola, in uso dei fedeli che entrano in chiesa dalla porta minore, sulla pubblica strada. Ancorché fosse vero questo fatto, siccome un prodigio avrebbe liberato al momento la città dal propinato flagello, un’altra pestilenziale desolazione deve riguardare il voto surriferito... Passando poi alle lettere patentali del nominato card. vescovo della Rovere delli 26 gennaro del riferito anno 1483, addotte in prova dallo stesso annalista, siccome in quelle non si parla di mal contagioso, né del voto al quale questo morbo avrebbe dato motivo, è fuori perciò di questione che lo stesso voto venne formato posteriormente all’indicato anno 1483. E tenendo per fermo che ne fosse la causa motrice il detto mal contagioso, opinar si potrebbe essersi il medesimo voto potuto formare nell’anno 1485 in cui il citato cronista Polidori notò che “nel detto anno 1485 in Corneto cominciò a discoprirsi la peste principiata nella contrada della Natione Corsa”, ma siccome non si hanno, conforme si disse, l’atti consiliari dal 1479 al 1488, nel quale decennio appunto rimarrebbe compreso il ridetto anno 1485, per tal causa in questa parte egualmente è chiarissima l’impossibilità di potersi stabilire la vera epoca in cui si formò il predetto voto; la vera causa che gli servì d’origine e la vera obbligazione da doversi annualmente e in perpetuo soddisfare. Non ostante, per il luogo che alla soddisfazione di esso voto hanno pure li precitati religiosi serviti, venuti in Cornto nel dicembre 1502, questa parte che detti religiosi hanno nel medesimo voto persuaderebbe essersi lo stesso voto formato dopo la di loro residenza stabilita in dettà città, essendo certo che se detto voto fosse stato antecedentemente stabilito, essi religiosi non vi avrebbero luogo, né legge alcuna vi sarebbe per obbligargli a concorrervi. E continuando a tener fermo che il medesimo voto si stabilisse a motivo del mal contagioso, questa causa motrice, nell’ipotesi della preindicata posteriore istituzione dello stesso voto non sarebbe mancata, scrivendo il Polidori all’anno 1504 che “nel detto anno 1504, verso il principio di maggio si scoprì esser la peste in Corneto dove continuò molto tempo e causò gran mortalità”; dalla qual’epoca in poi non si ha più memoria di questo morbo che tante le volte flagellò la predetta città di Corneto. Con l’appoggio pertanto del luogo che hanno li riferiti padri serviti in detto voto e del mal contagioso che nel 1504 flagellò Corneto per l’ultima volta, dal quale la tradizione ripete l’origine dello stesso voto, si è marcato in testa del presente paragrafo il riferito anno 1504, secondo della dimora in Corneto dei predetti religiosi, e primo del medesimo voto... Fu stabilito al suo luogo, in vista della parte che li religiosi or indicati dei servi di Maria hanno pur essi nel voto di cui si è parlato, che il medesimo voto si formò nell’anno 1504 e si avvertì ancora che lo stesso voto in altro non consistette che nelle tre processioni, nelli due vesperi, nella messa solenne e nel rendimento di grazie col canto dell’inno ambrosiano.... 13) . ... Feria secund dominicae resurrectionis ante meridiem Urbis huius magistratus ecclesiam hanc adit ceteroquin publicis insignibus ac solemni habitu minime indutus, ibique interest missae quae privatim celebratur, qua absoluta, praemissa Sancti Spiritus invocatione in eadem ecclesia eliguntur praefectii vel vulgo dicti i Signori trium universitatum qui cappam induunt, quarum altera est civium rusticorum, eorum civium qui terras arare vel arandas curare solent; altera, quae dicitur de’ vaccari, e civibus conflata qui vaccarum aliorumque huiusmodi animalium gregem possident. Tertia demum, quae dicitur de casenghi est gregariis hominibus conflata qui bestias possident clitellarias. Feria deinde quinta vel sexta post dominicam in albis aratores sive primae universitatis prafecti sulcum producunt per tria milliaria a principali nostrae huius ecclesiae porta per lineam rectam usque ad mare, quod ipsa respicit, quoniam vero non eadem semper viam singulis annis praecedunt, propterea quod eam semper tenent in qua viridior tritici species apparet, quae proinde vulgo dicitur il più bel verde, ne latum quidem unguem a recta linea devient, arbores etiam caedunt et si opus fuerit muros quandoque hortarum et vinearum demoliuntur, quia nullus de hac re conqueratur vel alio quocunque tritici preiudicio exinde proveniente non modo quia libera haec procedendi facultas vel ex consuetudine, vel de iure invaluerit, verum etiam, et quidem maxime, quod unusquisque ex hoc sulco sibi prospera augeretur eo quod ab immemorabili tempore comunis processerit traditio quod pars illa praeiudicium nullum in tritico subierit per quam sulcus iste productus fuerat, qui sabbatho proxime sequente absolute completus. Ipsa sabbati die, dominicam secundam post Pascha immediate praecedente, persolutis in ecclesia cathedrali vesperis, d. episcopus cum clero et magistratu, praecedente sacro laboro, ad eandam ecclesiam processionaliter egrediens cum tribus canonicis pluviali indutis ecclesiam hanc nostram adit; antequam vero ipsam subeat, clericus labarum deferens cum ipso se sistit, ubi positus ad hoc cernitur lapis, quo pariter 13) Segue l’ultimo brano tratto dal testo degli Annali a commento del quale il Falzacappa scrisse la Dissertazione in tempore patres huius coenobii labarum pariter praeferentes processionaliter obviam ipsis occurrunt et labarum ipi pariter sistunt, ubi positus alter: ad hoc cernitur lapis aliquantulum a preadicto lapide affixus. Tunc vero genua flectentibus omnibus facie versus ecclesiam conversa archidiaconus sive prima dignitas cathedralis praecinit hynnum Ave Maris stella cuius priori stropha choro absoluta, surgentes omnes ad ecclesiam procedunt, priimum sane servitae, deinde clerus et magistratus cum episcopo qui vesperis intervenit, quae solemniter ibi celebrantur, postquam clerus idem et magistratus eo subierit, quibus persolutis iterum hynnum praedictum cantantes urbem processionaliter repetunt, quia tamen ipsos ulterius associent servitae. Dominica deinde proxime sequenti clerus et magistratus cum episcopo, eodem ordine, ad hanc ecclesiam solemniter celebrat, eo tantum discrimine: quod magistratum adeuntem ecclesiam precedunt qui deferunt bravia equorum cursui ipsa die habendo decreta, qua pariter alia habentur spectacula. Magistratum deinde sequuntur praedictarum universitatum praefecti equitando, quorum alter propria singulis universitatibus vexilla defert, alter cereum trium librarum; alli vero et quidem quam plures pariter equitando, fere tercentum, evaginato gladio insequuntur. Quo tempore solemniter missa celebratur, tres etiam privatim celebrantur ad tria singula altaria, quae ad tres praedictas universitates [cioé bifolci, vaccari, casenghi] pertinent, earundem praefectis ad proprium altare missam audientibus, una cum sociis illius universitatis. Qui praefecti cereum predictum offerunt sacerdoti qui missam privatim celebrat post offertorium, singulis eiusdem universitatis sociis una cum praefecto sacerdotis manipulum osculari contendentibus, quod tam vix pauci aferentur eo quod nimia populi frequentia illuc omnes accedere prohibent. Vexillifer item civitatis cereum consimile sacerdoti offert qui missam solemniter celebrat ad aram principem b. Virginis nuncupatam in gratiarum actione eiusdem sanctissimae Dominae quod civitatem illam ab omni malo vindicavit, quem sane anime sensum vexillifer olim exprimere verbis solebat. Missa solemni completa urbem repetunt omnes eodem ordine quo supra quo pariter ad celebrandas secundas vesperas ecclesiam iterum adeunt quo ad primam processerunt hoc solum discrimine, quod post vesperas urbem repetentes hynnum concinunt non Ave maris stella, sed Te Deum laudamus, eaque ratione completur huius diei celebritas. Mario Sensi quest’ultima parte lacunosa e piena di cancellature. Questo saggio che viene pubblicato oggi su questo Bollettino, per gentile concessione dell’Istituto Storico dei Cappuccini in Roma e dell’Autore, è già apparso sulla rivista “Collectanea Franciscana”. IGIENE URBANA NELLA CORNETO DEL SETTECENTO Cambiano le forme ma alcuni problemi che assillano la civiltà attuale sono vecchi quasi quanto la civiltà stessa. Uno di questi è quello che oggi chiamiamo inquinamento: inquinamento dell’aria, del suolo e delle acque con i malanni che ne derivano. Una volta si moriva di colera per la sporcizia delle strade e delle case. Oggi si annega nella carta, nella plastica e nell’ossido di carbonio. Nei vicoli d’altri tempi, nemmeno tanto lontani, poteva pioverti in testa qualche pitaletto: però lo vedevi e, se non lo vedevi, lo sentivi. Oggi invece ti arrivano in testa i nano-Curie di Cernobil che non vedi e non senti. Insomma, in materia d’igine pubblica, sono cambiati solo gli inquinamenti ma la gente è rimasta sostanzialmente la stessa o per dirla alla cornetana: sostanzialmente “zozza”. Rovistando tra le cartelle dell’archivio STAS m’è capitato di incappare in alcuni manoscritti, datati agosto 1741, che riguardando i problemi igienici della Corneto di allora. Essi riportano il testo di un discorso che l’oratore si è fatto premura di scrivere prima di pronunciarlo, presumibilmente, davanti ai magistrati cornetani. E’ quasi un trattato di igiene ambientale: una dissertazione che, sulla base delle conoscenze di allora, elenca le magagne cornetane e suggerisce i rimedi da adottare. Ho pensato di riportarlo letteralmente compreso il testo integrale del regolamento cittadino che ne derivò. Essi appaiono come lo spiraglio d’una finestra che si apre sui vicoli di una Corneto settecentesca dove la gente conviveva con problemi che dovevano essere comuni ad una miriade di altre città dell’epoca. Adrio Adami DISCORSO TOCCANTE LA NECESSITA’ CHE HA LA CITTÀ’ DI CORNETO DELLO SPURGO DALL’IMMONDEZZE DELLE PUBLICHE STRADE PER BONIFICAMENTO DELL’ARIA ET IL REGOLAMENTO PER MANTENERE LA PULITEZZA DELLE MEDESIME La principal gelosa cura che devono avere i Prencipi, e che in fatti rigorosamente si pratica, si è la conservazione della Sanità, per quello che risguarda alle cause occasionali quali colla Loro autorità e commando possono a correggersi o del tutto rimuoversi. Non vi è diligenza benchè minima che per conservarla allor che si gode, e procurarla quando si stà in evidente pericolo di perderla, che debba credersi superflua nè vi è rigore, quantunque stimato violento, che non sia lecito, nè possa con incorrotta giustizia praticarsi. “Salus Populi suprema lex esto” 1) In fatti in quei Dominij e Repubbliche nelle quali si è usata ogni diligenza, nè si è perdonato a riguardi, si sono resi immuni dalle vicini contagioni. L’epidemia popolare che fece tanta stragge in Marsiglia l’Anno 1720, si ristrinse alla sola città et a pochi villaggi d’intorno, quando per essere un Porto di concorso di tutta l’Europa poteva infettare non solo la Francia ma anche le più rimote Provincie, e la Dio mercè, non si propagò, per le cautele non solo de’ Prencipi confinanti, ma anche più lontani. Il principale impegno che devono prendere quei che reggono il governo politico ed economico raggirarsi in tenere in buona custodia l’Aria, e l’Acqua intorno a ciò che risguarda a quei difetti che per incuria umana possono succedere. Sono questi i due elementi che perloppiù soggiacciono a varie nocive alterazioni; e siccome niuno puol essere esente dall’uso di essi, così il danno che talora apportano si fà commune. In quanto all’Aria ella è un elemento tanto necessario al nostro vivere che non possiamo dall’uso di essa dispensarcene per un solo breve momento e quando gli altri elementi operano al di fuori di noi, la sola Aria porta le sue buone o ree qualità al di dentro. Affinché l’Aria sia salubre deve aver quattro proprietà considerate da Galeno cioè: Serena, Pura, Chiara, e ben Temperata, gode questi vantaggi l’Aria allor quando è dominata da venti favorevoli, libera da vicine acque stagnanti, da aperture di terra che tramandino aliti putredinosi, da putrefazione di corpi morti, come succede doppo le sanguinose battaglie, se rimangono per qualche giorno i cadaveri insepolti; e dalle immondezze che si raddunano nelle pubbliche strade delle Città dai medesimi Abitanti senza prendersi un minimo pensiero di repurgarle. La pulitezza delle Città è un affare di tanto rilievo, che dovrebbe esser la principal cura non solo di chi per raggione d’Autorità ne tiene obligo indispensabile, ma degli Abitanti medesimi, in beneficio de’quali quest’opera tanto lodevole ridonda. Torassi celebre Medico greco liberò la Città d’Atene dalla peste col solo far gettare tutte l’immondezze, e commandar che le strade publiche fossero adacquate di vino, o d’aceto. Agamennone nel tempo che durò la contagione nel suo campo, invigilò indefesso alla visita della sua armata facendo gettare a mare, tutto ciò che d’immondo in essa si trovava. L’Imperator Commodo ritirossi a Laurento in tempo che in Roma faceva stragge un morbo popolare nè si partì mai dalla selva d’allori che per sua delizia si era fatta piantare, a fine di respirare un’aria benigna et odorosa, nè da quella partissi se non doppo cessata l’Epidemia. 1) Il bene del popolo sia la prima legge. La Città di Corneto soggiace a questo volontario incomodo d’essere in tutte le strade ripiena d’immondezze d’ogni sorta e specialmente di cumuli di stabij putrefatti, che nell’ardore estivo, e quando vengono sciolti dalle pioggie rendono un fetore insoffribile. E ciò che è più mostruoso si è che si permette che si putrefaccino affatto le Bestie morte vicino le mura della Città, e ben spesso dentro la medesima, né luoghi più appartati. Cospirano a quest’infezzione le strade medesime, molte delle quali sono di puro terreno senza essere nè selciate nè mattonate, dove il fango è così grande che non permette libero il passarvi, anzi alcune sono totalmente impratticabili. Questa incuria conferma maggiormente la falza opinione a i Forastieri che la Città di Corneto sia aria, nonché insalubre ma pessima, come purtroppo ne corre voce e concetto universale, quando per altro, a parlarne senza passione, non è tale quale vien reputata, sì per contestazione di chi vi dimora venutoci col concetto d’aria insalubre, come anche dei medesimi Abitatori di buon temperamento, di Giovani spiritosi e vivaci, di Donne feconde e di florido colore, e dalla positura eminente dibattuta da tutta sorta de venti. Se qualche infezzione dunque puol pertubar quest’aria da altro non puol provenire che dalle immondezze suddette quali imprimono in essa effluvij perniciosi valevoli a perturbare i spiriti, e la massa di tutti i fluidi; il che per ben intendersi fà d’uopo considerare che cosa sia putrefazione e i mali effetti che influisce nell’aria. E per prender la cosa da un buon principio dove in primo luogo esaminarsi ciò che sia Fermentazione, essendo che la Putrefazione altro non è che una nuova Fermentazione che si fà in un misto. La Fermentazione dunque è un’ebullizione cagionata da spiriti, che cercando esito per uscire da qualche corpo, e incontrando parti terree e grosse che gli si oppongono al loro passaggio fanno gonfiare, e rarefar la materia fintantochè non sieno distaccati, ed in questo distaccamento li spiriti dividono, sottilizzano, e separano li principij, in guisa che rendono la materia d’un’altra natura che non era prima. E più laconicamente il Willisio la descrive in questi termini: Est motus intestinus particularum seu principiorum cuius suis corporis cum tendentia ad perfectionem eiusdem corporis vel propter mutationem in aliud 2) . Presupposto per quanto basti la cognizione della Fermentazione: se la mutazione che nel misto si fà, perfezziona il corpo che si fermenta, dicesi Fermentazione perfettiva; e questa si osserva nel Mosto, il di cui bollore, o Fermentazione fà si ché si muti in buon vino, avendone da quel misto separato le parti sulfuree più grosse e tenaci nella feccia, e le saline nel tartaro. Se poi nel medesimo vino succeda una dissipazione di spirito volatile, et introducasi il tartaro nel loro luogo, fissa e intriga il rimanente di spiriti meno volatili arrestati nel vino, in guisa che non faccino più azzione veruna, questa fermentazione fà che diventando il vino acido, diminuisce molto poco e si trova pochissimo tartaro nel suo continente, et ecco una seconda Fermentazione nel medesimo vino che chiamasi Corruttiva, Ciò presupposto come infallibile. Se dall’immondezze de stabij putrefatti, de’ vegetabili corrotti, de’ Capecchi de i lini, dalle paglie inumidite, e da continui copiosi fanghi de’ quali vien sporcata la città di Corneto; si sciolgono e per un’intestina fermentazione o dalle pioggie, i sali o i solfi pingui, l’umidità che rimane, essendo più libera nel suo moto, occupa li spazij che i suddetti spiriti lasciorono, et il corpo si risolve in putredine, quindi è che li solfi più volatili portati dal movimento dell’aria feriscono ingratamente le narici, et l’organo olfattorio onde nasce il Fetore. La continua indispensabil necessità di respirare un’aria gravata da copia di effluvij putredinosi e fetenti, chi non conosce quali documenti possa apportare. In contestazione di che si vedono giornalmente effetti perniciosi provenienti dalla diversità dell’aria inspirata, e singolarmente in quei luoghi che ànno vicine le paludi, o che per raggione di situazione non sono dibattuti da venti salubri, o che siene ricoperti da i raggi del sole. E per maggior prova di ciò se si osserverà un Uomo che per lungo tempo sia stato rinchiuso in un carcere oscuro e umido, dove l’aria è gravata di particole fisse terrestri e fetenti, al sortirne poi da esso, vedesi scolorito di volto, e gonfio e quasi leucoflemmatico che quanto a dire disposto ad una idropisia anassarcica, segno manifestisissimo che i spiriti insiti del sangue ànno perduto il loro moto sì volatile come fermentativo, a causa del mal nitro-aereo inspirato, e dalla privazione della luce che è quel fuoco detto - fluens lucens et non ardens 3) - che è il primo agente a dar moto a i spiriti sì vitali che animali, dalla mala indole de’ quali si perturba il moto circolativo di tutti i fluidi. Et affinché questi miasmi putredinosi infettino i corpi che inspirando li ricevono, devono insinuarsi nella massa del sangue. Se sia verità incontrastabile che l’aria inspirata penetri, e si mescoli colla massa del sangue, è una proposizione dibattuta. Fà dubitarne, da chi lo nega, il non trovarsi vasi che portino a dirittura l’aria nel sangue, stanteché l’aria inspirata dalla trachea cola emmediatamente nelle vessighette polmonari disposte per la loro configurazione e struttura a riceverla; e con il loro gonfiamento premono i vasi 2) Esiste un movimento interno delle particelle e delle cellule di ogni corpo con tendenza alla perfezione del corpo medesimo o per la trasformazione in altro corpo. 3) Scorrevole, spelendente e non ardente; sanguiferi, e da tal pressione si spinge il sangue nel sinistro ventricolo del cuore per proseguire la sua incominciata circolazione. Si confermano in questa opinione dal vedere che l’aria che si è inspirata, doppo brevissimi momenti, si espira. Furono di questo sentimento Aristotile e Galeno, benchè il primo in altri luoghi si sia apertamente ritrattato. Si sottoscrissero a questa opinione Arvèo et Higmoro et Teofilo Bonetti sostengono la contraria sentenza molti altri Autori con evidenti ragioni. Michele Etmullero se ne dichiara apertamente asserendo “Hinc alteratio ista sanguini ab aëre impressa, constat in hoc, ut aër permisceatur sanguini et eundem vel volatiileret, vel volatilizationem eius in sinistro ventriculo ita promoveat, ut tandem in perfectum sanguinem vitalim, et spiritus vitalis summe volatilis abeat 4) .” Santorio Santori diligentissimo perscrutatore e ponderatore dell’economia animale candidamente asserisce: “Aer externus per arterias in profundum corporis penetrans potest reddere corpus levius et gravius, levius si tenuis et calidus, gravius si cassus et humidus 5) . Per altro Charleton doppo aver considerato la maravigliosa fabrica de’ Polmoni così risolve: “Hunc esse inspirati aëris usum, ipsa vasorum in pulmonibus fabrica aud obscure attestatur. Cur enim vena arteriosa, et arteria venosa tot ramulis per pulmonum disperguntur, nisi at aërem in illos per bronchia illapsum sanguis una secum in sinistrum cordis sinum deferat 6) . Ma per non arrendersi del tutto alle Autorità, fà di mestieri avvalersi di convincenti raggioni. L’approvato commune assioma nella scuola medica “In aëre est occultus vitae cibus 7) fa venire in cognizione che quella col mischiarsi nel sangue porti seco quel buon nitro-aereo che lo vivifica, essendo che la sola aria non è capace di trasmutarsi - “in substantiam aliti 8) . Per addurre una ragione incontrastabile, l’Anonimo ne’ suoi saggi anatomici in questi termini lo prova. “Tutto il sangue che passa per lo ventricolo dritto del cuore, se ne va a’ polmoni, et i polmoni ricercono l’aria esteriore dentro le loro vessichette. Dunque abbiamo luogo di pensare che quest’aria produce qualche cangiamento nel sangue. In 4) Quindi questa alterazione impressa al sangue con l’aria, consiste in questo: che l’aria si mescoli al sangue e questo o lo volatilizza oppure determina la volatilizzazione del medesimo sangue nel ventricolo sinistro in modo tale che infine nel perfetto sangue vitale scorra anche lo spirito vitale volatile al massimo. 5) L’artia esterna penetrando attraverso le arterie nelle profondità del corpo può rendere il corpo più leggero o più pesante; più leggero se tenue e calda, più pesante se grassa e umida. 6) Che questo sia l’uso dell’aria aspirata lo attesta chiaramente la stessa conformazione dei vasi dei polmoni. Infatti poiché la vena arteriosa e l’arteria venosa si disperdono con tante ramificazioni nei polmoni, così il sangue trasporta con sé nel ventricolo sinistro del cuore l’aria immessa attraverso i bronchi. 7) Nell’aria è nascosto l’alimento della vita. 8) Nella sostanza dell’alito. effetto si osserva una gran differenza tra il sangue che entra dentro i polmoni e il sangue che ne sortisce. Quello che entra per l’arteria polmonare, è d’un colore rosso assai smorto; la dove quello che ritorna da’ polmoni al cuore per la vena polmonaria, è d’un rosso vivo e splendente. Et ecco sotto l’occhio un cangiamento che accade al sangue, nel mentre che passa per li polmoni. Questo cangiamento non si puol fare se non per mezzo dell’aria che enfia le vessichette nominate, ed in tal modo preme le picciole arterie e le picciole vene che in lui sono sparse. Questa pressione mischia più esattamente i principii del sangue e l’obliga a colare prontamente ne’ rami della vena polmonare per andarsene al ventricolo manco del cuore. Ma perché quest’esatto mischiamento de’ principii del sangue e questo passaggio dall’arterie alle vene, non è sufficiente a produrre il cangiamento che abbiamo osservato, è necessario che qualche principio dell’aria estremamente sottile si mischi con esso lui. Questo principio puol passare per li pori dell’arterie, e susseguentemente insinuarsi fra le parti del sangue. Ciò poi che rende la cosa ancor più verosimile, è, che il sangue esposto all’aria acquista una superficie assai rossa e di colore somigliante a quello del sangue che viene da’ polmoni per la vena polmonare; giacché da questo vediamo che l’aria produce nel sangue un rosso vivo e fiammante mischiandosi con esso lui. Producendo dunque l’aria quest’effetto non potiamo raggionevolmente dubitare, che il cangiamento di colore che accade nel sangue, passando per li polmoni, non vi sia cagionato dall’aria che enfia le vessicchette de’ polmoni.” L’essermi troppo dilungato nella prova che l’aria s’insinua nella massa del sangue, sembra fosse superfluo: ma se non fosse ben stabilito questo principio, non ne verrebbe in conseguenza il pregiudizio che dall’aria infetta proviene allor che si respira, nè un solo contatto (come altri ànno creduto) sarebbe capace di fare mutazioni così sensibili. Quanti e quali sieno i danni che puol apportare alla salute il respirare un aria carica di effluvy provenienti dalle immondezze e putrefazioni de’ corpi, sarebbe un impresa quanto lunga altrettanto laboriosa; potendosi dire che non vi sia sorta di mali che non possa cagionare, poiché una volta che s’introduce nel sangue un mal fermento, eccolo disposto a perturbare tutta l’animale economia. Santorio Santori in brevi parole “In aëre cenoso prohibetur perspiratio, meatus implentur, sed non densantur, fibri laxantur, sed non corroborantur, et pondus perspirabile retenti ledit, et non sentitur 9) . E l’impedita traspirazione vien reputata e provata dall’Etmullero: “Magnorum morborum leve principium. 10) .” Per rimediar dunque a tutti quei mali che dall’aria infetta possono cagionarsi nella Città di Corneto, devono quei che ne ànno la particolar precisa cura, praticar tutti quei mezzi, ancorché difficili, affinché resti la Città libera da ogni perturbazione nell’aria; quali rimedi a mio credere sarebbero li seguenti. - Per prima, selciare tutte quelle strade che sono di puro terreno, e non solamente le più frequentate, ma anche le più remote dentro la Città; essendo che in queste si fà lecito ognuno di scaricare l’immondezze. - Pulire le stalle da i staby più spesso, e portarne via lo stabio immediatamente, almeno mezzo miglio lontano dalla Città, e non permettere che si infracidi nelle pubbliche strade. - Sotterrar le bestie morte prima che si corrompono, in luogho che non possino offender l’aria col puzzore che potrebbe, anche sotterrate, evaporarne. - Proibire il getto nelle strade dell’immondezze di qualunque sorta elle sieno, come anche levare i canali de sciaqquatori che gettano nelle strade, o almeno fare che l’acque vadino sottoterra, a sfogarsi poi nelle chiaviche. - Non macellar li lini dentro la Città, e lasciarvi li capecchi che, alle volte, colla sopraggiunta della pioggia, s’infracidano e rendono un gran fetore, e macellarli lontano dalla città, sì per oviarne il rumore, che ben spesso turba il necessario riposo a qualche infermo vicino, come anche per non lasciarvi i capecchi, quali essendo lontani dalla Città possono comodamente abrugiarsi, costume assai lodevole che in altre Città si prattica. - Ordinare che si scopino le strade almeno una volta la settimana, e portarne via l’immondezze. - Repurgar spesso le fontane da quel Veglio o sia lente palustre che producono l’acque e i lavatori dalle deposizioni. - Non dar fuoco a staby e paglie putrefatte. - Dovrebbero quelle famiglie numerose e che stanno in angustie di case, attenderne a tenerle, quantoppiù possono, pulite, nè ciò si creda superfluo, e che non riguardi l’interesse comune, poiché dalle storie romane si ha che essendo cresciuto il popolo, e stando alla stretta, successe un morbo popolare sotto il Consolato di Lucio Tiburzio, e di Publio Servilio. 9) Nell’aria fetida si sconsiglia la respirazione, i meati si riempiono ma non si condensano, le fibre si rilasciano ma non si rafforzano, e il peso del respiro trattenuto danneggia e non si avverte. 10) Origine inavvertibile di grave malattie. Altri rimedj più proprj e opportuni, secondo la circostanza de tempi e de luoghi, sapranno pratticare quei che sono impiegati ad un’opera così lodevole e di tanto profitto. Mentre ridotta la Città di Corneto ad una buona pulitezza, si perfezzionerà l’aria, si renderà più bella, et il Forastiero che vi capita restarà dissuaso dall’opinione d’aria insalubre. Sarà parimenti gloria de Magistrati e Cittadini ritorrnare la loro patria allo splendore, che forse in tempi migliori, sarà stata e potrassi dire di loro ciò che dice Cicerone nel quarto delle Rettoriche: Non nobis solum, set etiam, atque a deo multo potius nati sumus Patriae 11) . Conclusione L’immondezze che si raddunano nella Città fanno, col tratto del tempo, una Fermentazione Corruttiva dalla quale ne sortiscono effluvj perniciosi e sulfurei, questi inspirati dagli abitanti s’introducono nella massa del sangue, ivi turbano gravemente il buon circolo dei fluidi, e sono cagione di molti mali come si è preteso di provare. 13 agosto 1741 ------------------------------REGOLAMENTO PER MANTENERE PULITA LA CITTÀ’ DI CORNETO Per ovviare a cotanti perniciosi disordini dobbiamo tutti ben volentieri impiegarci al riparo. Parerà a qual cheduno ardua impresa, se pone gli occhi sopra la sola superficie; meditandoci però sopra non è così malagevole come uno può figurarsi; trattandosi d’un sì grande, e comune bene, deve prontamente sì il nobile come l’ignobile, il ricco che il povero darci la sua mano per dare all’affare un felice successo. E per venire subito al metodo per tal riparo, sono di sentimento, che fatto prima da ognuno a proprie spese il generale spurgo, si stabilischino poscia due Carrettoni che debbino portar via l’immondezze ne’luoghi da assegnarsi. Vi sarà qualche scrupoloso, che subito dirà, questo è un bel sentimento, difficile però a mattersi in opera perché non vi è assegnamento da pagarli, dirrà però assai male, perché se rifletterà da qual fonte nasca il 11) Noi siamo stati generati da Dio non tanto per noi quanto più per la patria. male, da quello medesimo ritroverà il rimedio. La causa principale di tante immondezze non sono i Cavalli et i Somari? Dunque li Cavalli et i Somari devono tassarsi pro rata secondo la prudenza di chi sarà deputato così anche dovranno tassarsi li carri. Se poi il ritratto da questi non è a sufficienza, possono tassarsi anche le case particolari, poiché chi sentirà il comodo, dovrà anche sentire l’incomodo. Con tal provvedimento si otterrà l’intento, si assicurerà la Città da maligne influenze, gli abitanti goderanno più perfetta salute e i forestieri non averanno motivo di biasimar tanto la sporchezza della Città di Corneto. Si ponga in esercizio quanto si è detto e farà veder l’esperienza che saranno benedetti quelli denari che si spenderanno per tale impiego. NOTIZIE SULLA FAMIGLIA BOCCANERA Non sono a conoscenza di come si chiamasse in altri tempi Via dello Statuto, è certo però, che la conformazione di questa strada è rimasta la stessa di quella che era almeno tre secoli fa. Forse per questa via, come racconta il Curato Benedetti 1) in una Memoria manoscritta, si snodava una delle più belle processioni che, uscendo dalla chiesa di S. Francesco con la reliquia della Testa di S. Agapito, andava ad incontrarsi con l’altra metà della Processione, che allontanatasi dalla chiesa di S. Pancrazio con la reliquia del Santo Braccio del Martire, si dirigeva alla cantonata di Santa Croce dove i Fatebenefratelli, per l’occasione, avevano eretto un altare nel posto in cui la reliquia del Santo Braccio si toccava con la Santa Testa in atto di baciarsi. Oggi, percorrendo questa via, l’occhio è attratto da alcuni svettanti fabbricati che, ancora ben conservati, furono in varie epoche le dimore di alcune tra le più agiate famiglie di Corneto. Fra questi si notano, per l’imponenza e il gusto dell’esecuzione, il palazzo Ramaccini, già della famiglia Chiocca, quello con imponente ingresso del prelato Ronca, il Sei Settecentesco dei conti Falzacappa e quello degli Avvolta, goduto oggi dalla famiglia Perrini. Nella parte più alta della via si vede in bella posizione il palazzo a squadra dei Mussa, a quello dei Mussa vi è un fabbricato che, a prima vista, può sembrare moderno, ma che in effetti è ben piantato su costruzione assai antica: questo è appartenuto fino agli anni ‘20 alla famiglia Boccanera. 1) D. Giuseppe Benedetti, Annali o Memorie della Chiesa di S. Pancrazio M. Corneto, 1762-1769. Ed è proprio di questa famiglia, con particolare riferimento ai figli di Domenico Boccanera, di cui mi accingo a descrivere semplici e grandi cose, che si svolsero in Corneto e Roma durante l’arco di tutto l’Ottocento fino alle prime decadi del nostro secolo. Questa nobile famiglia 2) che abitava in un sontuoso palazzo 3) aveva alla guida di padre il Cav. Domenico Boccanera, uomo onesto e laborioso che in tempi difficilissimi ricoprì la carica di Confaloniere nel nostro Municipio e seppe trasmettere ai figli la religione ricevuta dagli antenati 4) . Ricordo il palazzo Boccanera quando, nel 1933, mio padre, per conto dei nuovi proprietari, riordinò nelle tappezzerie alcuni ambienti nei quali ancora erano ben visibili le molte e belle decorazioni che ornavano i soffitti, e le pareti del primo piano erano tutte ricoperte di stoffa, ed ogni ambiente aveva un diverso colore. Purtroppo, oggi, di tutto quello splendore non rimane quasi più nulla, fatta eccezione di un soffitto decorato a finto stucco ed alcuni centri policromi che sono stati in malomodo contornati dalla nuova tinta data ai soffitti 5) . Anche degli arredi, i quali dovevano essere adeguati allo sfarzo che si notava nell’interno della casa, è giunta a noi pochissima roba, ed in qualche caso anche in cattive condizioni. Sono state reperite alcune tele e tavole (per lo più copie) dipinte dai figli di Domenico Boccanera, Luigi e Maria e due nature morte dipinte nel 1885 dal pittore 2) Secondo quanto è annotato in un manoscritto di P. Falzacappa, la famiglia Boccanera è presente in Corneto fin dal 1743. E’ probabile che la loro provenienza, dato che le moglie prima di Benedetto poi di Domenico erano native di Orvieto, sia da ricercarsi in questa città umbra. Il 9 luglio 1835, si riunisce la Deputazione Araldica del Comune di Corneto per decidere sopra l’istanza avanzata dalla Magistratura dal Sig. Domenico Boccanera per essere ascritto al Patriziato della Città. I Signori congregati dopo aver esaminato tutti i requisiti del Sig. Boccanera, lo hanno dichiarato, ad unanimità di suffragi, meritevole di essere ascritto all’Albo dei Patrizi Cornetani,.... Domenico Boccanera diventa nobile, in “Il Procaccia”, n. 12, p. 5 (Archivio Storico Comunale). 3) Fino a qualche tempo fa un architetto del luogo possedeva un disegno, dato poi in prestito e mai più riavuto, della facciata del palazzo Boccanera datato 1870. Lo stesso architetto è ora in possesso di un altro disegno raffigurante una sezione spaccata della Nuova Scala per il Palazzo dell’Ill.mo Signor Domenico Boccanera in Corneto. Sembra che i due disegni fossero approntati dall’architetto Francesco Dasti per curare un restauro all’edificio. Al palazzo, rimasto inalterato fino al 1950, fu aggiunto un balcone centrale al primo piano, in asse con il portone d’ingresso principale. Recentemente è stata restaurata negli intonaci la facciata e sono stati fatti alcuni lavori di consolidamento lungo la scalata. Il palazzo, circa gli anni venti andò in proprietà al Signor Angelo Luzi di Vetralla, il quale nel 1932 lo rivendette per la somma di lire 120 mila al Signor Leonardo Nardi di Tarquinia, i cui eredi attualmente ne sono i proprietari. 4) Dalla lapide nel monumento a Domenico Boccanera, nella chiesa di S. Maria Addolorata (cfr. De Cesaris, Accadde a Corneto cento e più anni fa...., in “Bollettino 1977”, pp. 67/74). Il Boccanera, ebbe anche l’incarico di Montista provvisorio... solo per un breve periodo (op.cit., n. 12, p.7), ed era uno dei 16 possidenti terrieri cornetani, i quali avevano in proprietà Rubbia 2910, 12 del nostro territorio (op.cit., n. 9, p.6). Da una corrispondenza (1864-1865) fra Domenico Boccanera ed il Marchese Urbano Sacchetti si viene a conoscenza, di quanto stava a cuore al Boccanera e alla Popolazione di Corneto che la linea ferroviaria Civitavecchia Chiarone fosse passata il più vicino possibile al centro cittadino (Linea alta) (G. Sacchetti, I cornetani volevano la ferrovia più vicino alla loro città, in “Bollettino 1983”, pp. 85/91). Per uno strano fatto accaduto a Corneto nel 1848 al Confaloniere Domenico Boccanera, si rimanda: C. De Cesaris, op. cit., pp. 67/74). 5) L’intero soffitto rimasto è molto somigliante nel tratto pittorico delle decorazioni a quelle nella cappella dell’Immacolata, chiesa di S. Francesco, dipinte dal pittore romano Vincenzo Maggi nel 1832-33. Diotallevi 6) . Dei due caminetti in marmo, che si trovavano nella sala gialla e in quella rossa, se ne ritrova solamente uno, in un ambiente del palazzo Mariani. Il palazzo, nel 1860, era abitato dal capo famiglia Domenico Boccanera, dalla moglie Marianna Menicucci 7) , dai figli tutti nati a Corneto e da due domestiche. In uno Stato delle Anime, del 1860 la famiglia Boccanera, che abitava in casa propria in Corneto, è così annotata: DOMENICO BOCCANERA, fu Benedetto, Corneto (1810) possidente; MARIANNA MENICUCCI fu Domenico, Orvieto (1809) moglie; BENEDETTO di Domenico, Corneto (1836) figlio; FRANCESCO MARIA di Domenico, Corneto (1839) figlio; GIACOMO MARIA di Domenico, Corneto (1841) figlio; LUIGI MARIA di Domenico, Corneto (1845) figlio; MARIA di Domenico, Corneto (1852) figlia. Mentre da un Indice dei Battezzati in Corneto, risultano nate da Marianna e Domenico, altre due figlie: MARIA FELIX di Domenico, Corneto (1833) figlia; TERESA di Domenico, Corneto (1835) figlia. E’ probabile che Maria Felicita, già sposata nel 1860 viveva in Roma, come si presume da uno scritto della sorella Maria (ultima della famiglia) quando dice mia sorella in Roma, mentre Teresa, come è annotato in un Libro, muore nel giugno del 1836. Questa famiglia si distinse sempre per i molteplici lavori che fece eseguire a proprie spese per la conservazione, abbellimento e funzionalità delle nostre chiese; mentre qualche loro antenato aveva anche ricoperto in seno ad alcune Congregazioni, cariche che in quei tempi furono caldeggiate anche dal Vescovo Diocesano 8) . La consorte del Cav. Domenico, Marianna Menicucci, donna molto pia e piena di venerazione per la Madonna, fece fare per il marito, nella chiesa di S. Maria Addolorata, un 6) Questi due dipinti, datati e firmati N. Diotallevi, raffigurano Borsa con pesci e Papera, e secondo una memoria raccontata dal nipote, i quadri, furono dalla contessa Boccanera dati quale regalo di nozze a sua nonna Filomena Cecconi, donna di servizio presso la famiglia Boccanera. 7) Ecco come Pietro Falzacappa, in un suo manoscritto di Cronaca Cornetana, il 25 novembre 1832 annota il “Matrimonio di Domenico Boccanera”: Il giovane Domenico figlio di Benedetto Boccanera si è maritato con Marianna Menicucci di Orvieto. Questa Signorina nobile di nascita e con discreta dote dovrà molto fatigare per rendersi uguale alla sua socera egualmente Orvietana. Essa è piuttosto bella, e da questo matrimonio ci auguriamo una buona, e bella razza di figli (Questa Cronaca, in archivio S.T.A.S., è stata pubblicata a cura di M. Corteselli nei “Bollettini” 19831984. 8) Anna Maria Franci, di Orvieto, moglie di Benedetto figlio di Domenico Boccanera... fu anche Presidente delle Sorelle della Carità di S.V.D.P. nel 1858 pregata dal Vescovo Bisleti (Lapide in marmo al muro nella cappella del Terz’Ordine nella chiesa di S. Francesco; cfr. D.C. Scoponi Iscrizioni Lapidarie...., Corneto-Tarquinia, 1910, n. 51, p. 246). Archivio della S.T.A.S. eccellente monumento in marmo 9) , mentre il figlio Benedetto, per grazia ricevuta dalla Madonna del Sacro Cuore 10) , fece ripulire e decorare la cappella del Terz’Ordine: la quale prima era tutta bianca e tale lavorazione la mise a nome della madre, come si vede dalla lapide che sta a sinistra di chi entra nella cappella 11) . Benedetto, fece anche fare in Assisi quei bei candelieri con l’arme di casa Boccanera alla Madonna e che stanno sull’altare 12) . Il figlio di Domenico, allora Canonico e Parroco, Francesco Boccanera, fu veramente una pietra angolare, soprattutto per l’impegno che mise nella realizzazione del restauro che subì la nostra Cattedrale negli anni 1870. In quel tempo egli ricoprì anche la qualifica di Economo. Non sto qui a descrivere i tantissimi e costosi lavori che il Canonico fece fare a sue spese durante il restauro 13) , ma è doveroso ricordarlo anche per il rispetto e l’attaccamento che dimostrò verso un suo concittadino architetto, il quale, in una scelta di progetti riguardante la Cattedrale, scavalcato da altro qualificato professionista, fu per un certo tempo tenuto in disparte dal Capitolo della Cattedrale. Il Boccanera però, scrivendo ai membri del Capitolo nella sua veste di segretario, e vista la risoluzione capitolare d’abbandonare il progetto Vespignani 14) per l’ampliazione della Cattedrale, si disse.... lieto di non dovere andare in lontane regioni per ricercare e trovare quello che abbiamo in questa patria Città e propose ai colleghi del Capitolo che il concittadino Architetto Francesco Dasti fosse richiamato ed invitato a riassumere l’ufficio, che già gli fu commesso, ed a proporre, riassunti prima i suoi disegni, i suoi artistici 9) Il secondo monumento più modesto, ma pregevole nella sua semplicità, appartiene alla famiglia patrizia Boccanera, che lo fece costruire ad onoranza di Domenico cav. Boccanera defunto nel 1870 (L. Dasti, Notizie Storico Archeologiche di Tarquinia e Corneto, Roma 1878, p.420). 10) La Madonna del Sacro Cuore è un’Immagine che fu ripresa a mezza persona da quella che si trova nella chiesa di S. Andrea della Valle in Roma, per essere messa in venerazione nella cappella del Terz’Ordine nella chiesa di S. Francesco in Corneto, circa l’anno 1883, dalla Signora Marianna Menicucci vedova Boccanera, per grazia ricevuta dalla figlia in Roma (Memorie, inviate da Maria Boccanera al Vescovo Diocesano, Roma 1928). 11) Memorie cit., 1928. La lapide, che fu ricoperta o raschiata durante un restauro che si fece alle decorazioni della cappella nel 1965, ricordava come nell’anno 1883 il Pittore Andrea Monti Romano pitturò a spese della Signora Anna Menicucci ved. Boccanera la cappella del Terz’Ordine di S. Francesco dedicata a Nostra Signora del Sacro Cuore di Gesù (D.C. Scoponi, Iscrizioni... cit., p. 245). Il pittore Andrea Monti è lo stesso artista che nel 1880 decorò la chiesa di S. Lucia (Benedettine) in Corneto, ciò è annotato in un “Esito dei Fondi” del 1882 di lavori fatti alla chiesa di S. Lucia, dove è detto: Pitture della chiesa eseguite dall’artista Signor Monti lire 1444,95. 12) Memorie cit., 1928. I preziosi candelieri con l’arme a colori della famiglia Boccanera sono sei ed attualmente sono conservati nel convento dei PP. Francescani. 13) Oltre le belle decorazioni, le pitture nei pennacchi della cupola, gli encausti nelle pareti ed il bel quadro nell’altare della cappella del Sacramento, opere di Virgilio Monti e Rotilio Fagnani, (visita vescovile del 1934), molti altri lavori, voluti e pagati da D. Francesco, sono annotati da D. Nicola Conti a p. 11 in Omaggio del Capitolo Clero e Popolo a Giovanni Beda Cardinale, Civitavecchia, 1907. 14) Virgilio Vespignani, architetto, Roma 1808-1882. L’architetto era molto stimato a Corneto per avere nel 1858 ristrutturato con un suo disegno il palazzo Bruschi Falgari, e fatto anche altri lavori. Si crede che quando fu chiamato dal Capitolo per il restauro della Cattedrale, fosse ancora presente in Corneto,per ultimare il bel monumento eretto con suo disegno al Cardinal Angelo Quaglia, nella chiesa di S. Maria Addolorata. intendimenti. Il Boccanera aggiunge poi che il Sig. Francesco Dasti... sia da noi richiamato e dichiarato Architetto del restauro di questa Cattedrale... 15) . Oltre le molteplici cose fatte per portare a termine il restauro, il Canonico aveva dato anche una buona elargizione in denaro, ed era convinto d’intraprendere nel restauro una cosa avrebbe fatto onore alla Chiesa, al Popolo ed alla Città; infatti, quando scrive ai colleghi del Capitolo nel 1873, dice: Per queste vie, e con questi metodi di prudenza, il Signore Iddio coll’assistenza dei nostri SS. Protettori, noi giungeremo sicuramente a fare restaurare ed abbellire questo Tempio; e beati Noi, beato il Popolo, che potrà salutare il giorno del ringraziamento per la conseguita grazia 16) . Sappiamo in seguito, da una corrispondenza di Benedetto Boccanera inviata all’Arcidiacono della Cattedrale di Corneto, che il giorno 2 maggio 1899 ha cessato di vivere in Benevento, per paralisi progressiva, suo fratello D. Francesco. Nella Cattedrale di Corneto, il giorno 9 maggio, presente il Vescovo, Autorità e Popolo, viene celebrato un solenne funerale sulla salma. Benedetto Boccanera, nel ringraziare l’Arcidiacono per la dimostrazione tributata al Fratello, così scrive: Comprendo che il defunto mio fratello ha ben meritato la riconoscenza del Capitolo per l’opera eseguita a favore di questa chiesa Cattedrale 17) . Degli altri figli di Domenico Boccanera, non disponiamo di grandi notizie, fatta eccezione della già citata presenza di Giacomo in uno Stato delle Anime e di Maria Felix in un Indice dei Battezzati a Corneto, di questi, si sa solo che Maria Felicita andò sposa a Felice Pacelli e che il bambino citato alla nota 8 è frutto di questa unione 18) . Non è invece così per gli altri figli del Boccanera, Maria e Luigi, dei quali ci è dato sapere di più, specie di Luigi che lasciò alcune tele, forse dipinte in Roma 19) e che sono arrivate a noi parte in buono e parte in cattivo stato di conservazione. Quando il Signor Leonardo Nardi acquistò il palazzo Boccanera, si vedevano ancora e ben conservate, incollate agli intonaci, nelle vele di un soffitto, quattro tele rettangolari raffiguranti le stagioni 20) . Anche nel centro del soffitto dell’ampia scala del palazzo, entro 15) Lettera del Can. D. Francesco Boccanera al Capitolo della Cattedrale di Corneto, 12 luglio 1873; cfr. C. De Cesaris, La cattedrale di Corneto, in “Bollettino 1984”, p. 128. 16) Lettera, cit., 12 luglio 1873. 17) Lettere di Benedetto Boccanera all’Arcidiacono della Cattedrale di Corneto, Corneto 3-5-9-11 maggio 1899. 18) Si ringraziano i Signori marchesi Malvezzi per aver fornito notizie sulle famiglie Pacelli e Boccanera, loro parenti. 19) La tela di S. Margherita nel Duomo di Tarquinia dipinta dal Boccanera porta incollate nel rovescio del telaio alcune bollette di spedizioni effettuate per ferrovia da Roma a Corneto; sono simili a quelle che hanno nello stesso posto i quadri dipinti dai nipoti di Pietro Gagliardi per la chiesa di S. Lucia (Benedettine) in Tarquinia. Questo particolare fa supporre che il Boccanera abbia in quei tempi avuto lo studio in Roma. 20) Delle tele oggi, se ne ritrova solamente una La Primavera, rinvenuta da un parente del Nardi nella cantina del palazzo, avvolta e compressa da oggetti. La tela, probabile copia; ha dovuto subire la sola foderatura, misura cm. 83 x 113 ed è in collezione presso un nipote del Nardi. una grande cornice di stucco, era incastonata una tela raffigurante La Poesia 21) . Un’altra tela, che rappresenta L’Abbondanza, poteva essere stata messa, come le altre, nell’inserimento delle decorazioni di qualche altro soffitto della casa 22) . Data la fatiscenza dei tetti e la pioggia che aveva già danneggiato parti di questi dipinti, il Nardi appena entrato in possesso del palazzo, si premurò subito di togliere dai soffitti queste tele e molto probabilmente per l’occasione ne tolse anche delle altre. Per salvarle poi da eventuali furti, pensò bene di metterle in bella mostra in alcune pareti della sua casa (palazzo Mussa), che si trova a pochi passi da palazzo Boccanera 23) . Mons. Luigi Di Lazzari, che abitava già in un appartamento del primo piano di questo palazzo, ha sempre sostenuto verso i nuovi proprietari che le tele nei soffitti del Palazzo, erano state dipinte dal figlio di Domenico, Luigi Boccanera 24) . Nella nostra Cattedrale, sopra gli altari delle navate laterali, sono esposte alcune tele, che, stando alla documentazione ritrovata, possono assegnarsi al pittore Luigi Boccanera. Una di queste si trova nel terzo altare della navata di destra e nella pala è raffigurata la Madonna del Rosario, copia da Giovanni Battista Salvi detto il Sassoferrato. Nel rovescio di questa tela è scritto: Luigi Boccanera, cornetano fece l’anno 1884 25) . Anche la tela dipinta ad olio, rappresentante La Trasfigurazione di N.S.G.C., copia da Raffaello, secondo una Visita Vescovile, è stata dipinta dal Boccanera 26) , mentre per l’altra raffigurante La Comunione di S. Girolamo, copia da Domenico Zampieri detto Il Domenichino, non esiste documentazione, ma è probabile che anche questa tela possa attribuirsi al pittore cornetano 27) . 21) Questa tela che misura cm. 175 x 175, per molti anni è stata esposta nella casa del Nardi, è in buono stato di conservazione ed ha un buon fondo fatto a foglia d’oro. E’ copia da Raffaello e l’originale si conserva in Vaticano nella stanza della Segnatura. La pittura oggi è proprietà degli eredi di Lorenzo Nardi. 22) La pittura che ha subito la sola foderatura, misura all’incirca cm. 64 x 93, è probabilmente una copia, e si trova in collezione presso una nipote del Nardi. 23) Le tele, ancora nella casa del Nardi, furono mostrate, al noto pittore Ernesto Giorgi Rossi, il quale le definì copie fatte da buona mano e dipinte con abbastanza fedeltà. 24) Il Prof. Di Lazzari, che in quei tempi era parroco di S. Maria Addolorata chiesa dove è posto il monumento a Domenico Boccanera, sicuramente, doveva aver ben conosciuto qualche componente delle famiglie Boccanera e Pacelli. 25) Cfr. L. Balduini, La Resurrezione di Tarquinia, Tarquinia 1983, p. 47.. La pittura, che misura cm. 231 x147 si trova citata a p.7 nella Visita Vescovile fatta alla Cattedrale di Tarquinia nel 1934 ed è così trascritta dal Segretario D.C. Scoponi: di poi l’altare in muro del S. Rosario (con) dpinto del Boccanera. Il quadro è un dono fatto da D. Francesco Arcidiacono Boccanera alla chiesa Cattedrale (D.N. Conti, op.cit., 1907, p.11). 26) Il dipinto, che misura cm. 218x148, è citato nella Visita Vescovile del 1934, p.6: Vicino alla porta della Sacrestia, altare in muro con il quadro rappresentante la Trasfigurazione di N.S.G.C. opera del concittadino Boccanera. L’originale di questa tela, che oggi si trova in Roma nella Pinacoteca Vaticana, fu allogata a Raffaello nel 1517 per la cattedrale di Narbona dal cardinale Giulio de’ Medici, vescovo di quella città, ... (Raffaello, Rizzoli Editore, Milano 1966, p. 122). 27) Il dipinto, che misura cm. 225x148 è citato nella Visita del 1934, però non si ha nessuna notizia circa l’autore. Risulta da un Esito dei Fondi del 1879, che nell’agosto vengono pagati al falegname Gervasio Pasquini lire 535, per La pittura più importante però il Boccanera ha dipinto per la nostra Cattedrale è senza alcun dubbio la bella e grande tela rappresentante S. Margherita V., esposta sull’altare dedicato alla Martire nel mezzo della navata di destra. Questa cappella, eretta appositamente dal Capitolo della Cattedrale e patrocinata dall’Arcidiacono D. Francesco Boccanera, venne solennemente inaugurata nel settembre del 1879 con l’esposizione del dipinto della Titolare della Chiesa, che il Boccanera sicuramente dipinse in Roma sotto lo sguardo attento del suo Maestro Prof. Pietro Gagliardi 28) . Oltre queste opere, il Boccanera, con un suo disegno diresse la decorazione funebre in occasione della celebrazione delle esequie per l’Em.mo Card. Angelo Quaglia, che si svolsero nella Cattedrale di Corneto il 9 ottobre 1872 29) . Non sappiamo quali scuole abbia frequentato il pittore Luigi oltre quella del suo Maestro Pietro Gagliardi in Roma, sappiamo invece che nella famiglia Boccanera c’era anche la sorella Maria che non disdiceva dal fare della buona pittura. Sicuramente anche lei, per quanto ci è dato di vedere in alcuni quadretti conservati nel Monastero delle Benedettine di Tarquinia 30) , doveva aver frequentato una qualche scuola d’arte, forse in Roma. Anche l’essere ammessa a suonare l’organo nelle funzioni della Chiesa di S. Lucia 31) , dimostra come questa Signorina fosse ben disposta ed interessata a tutta la cultura che in quel tempo era quasi d’obbligo per una giovane del suo casato. Gli ultimi anni della sua vita, Maria Boccanera li trascorse nel Monastero delle Dame dell’Assunzione in Roma, Corso Italia 1, da dove il 25 gennaio 1928, inviava al Vescovo Diocesano (Mons. Cottafavi) una lettera esposto di questo tenore: Mi è stato riferito - dice la Boccanera - che l’Immagine della Madonna del Sacro Cuore di Gesù della b.m. di mia Madre, e che è stata sempre sopra l’altare della cappella del III°Ordine nella Chiesa di S. Francesco di Tarquinia è stata tolta dal suo posto, e messa sopra di un banconcino vicino all’altare, e che V.E.R. ne ha dato il permesso. La Boccanera allega alla lettera anche una Memoria dalla quale si può apprendere tutti i lavori che questa famiglia fece fare nella cappella, ed i vari miracoli che la Madonna fece ai familiari di Maria. Il vari lavori e per due cornici nei quadri di S. Girolamo e Trasfigurazione. L’originale di questa tela si trova in Roma nella Pinacoteca Vaticana ed è un’enorme pala della misura di cm. 419x256. 28) Si notifica che la sacra icona di S. Margherita V.M. fu tela dipinta dall’illustrissimo Luigi Boccanera, fu Domenico cornetano, fratello germano del Rev.mo Canonico Teologo (D. Francesco Boccanera) discepolo dell’egregio Pittore romano Pietro Gagliardi (M. Aldanesi, Atti del Capitolo della Cattedrale dal 1874 al 1879). 29) Nell’entrare la porta maggiore vedevasi nella nave di mezzo una grande mola funerea di forma quadrata, lavoro di artisti cornetani sull’eccellente disegno ed operosa direzione dell’esimio cittadino Signor Luigi Boccanera (G. Romagnoli, Elogio Funebre all’Eminentissimo Card. Angelo Quaglia, Roma 1872, p. 72, cfr. L. Balduini, op. cit., 1983, p.47). 30) Le due piccole tavole dipinte ad olio misurano cm. 35 x 28 e nel retro è scritto: Cortile dell’Abbazia di Montecassino dipinto da Maria Boccanera nel 1881, Veduta di Montecassino dipinta da Maria Boccanera nel luglio del 1880. 31) f.n. 21, Archivio del Monastero delle Benedettine. fratello Benedetto fu uno di quelli che per intercessione della Madonna del Sacro Cuore, fu guarito da una cancrena. E così racconta la sorella: Mio fratello... si ammalò con un tumore maligno, ed il puzzo della cancrena si sentiva fino al portone. Fu fatto venire il Professor Ceccarelli (medico di Leone XIII) che, appena giunto al portone al sentire quel puzzo disse: - mi chiamate per un morto?... -. Fatta l’operazione, subito gli rinvenne la nuova carne, e dopo stava meglio di prima, tanto che dopo una ventina di giorni, andò il giorno di S. Pietro a Messa a S. Francesco. L’Esposto così prosegue: Ogni fratello mio (erano 4) tutti hanno fatto un regalo alla Madonna, poiché la cappella è corredata di tutto 32) . Tra questi doni vi è il bel paliotto che il Signor Commissario ha messo su per tutti i giorni, perché a forza di stuzzicare l’altare avanti per vedere una certa pietra che diceva vi è con gli stemmi, ha dovuto mettervi quel bel paliotto, che finirà molto male. 33) La Boccanera, quasi all’inizio della sua Memoria definisce il Commissario del Terz’Ordine prepotente, e dice al Vescovo, ammonendo il Commissario, che Con la Madonna non si scherza. Questa donna, abbastanza risoluta, era rimasta molto male nell’apprendere in Roma che l’Immagine della Madonna, fatta fare cinquanta anni prima da sua madre, era stata a sua insaputa tolta dall’altare e messa in disparte. E se oggi la Signorina Maria vedesse la cappella e non più la lapide dove era ricordato il pittore esecutore degli ornati, insieme al nome della Signora Menicucci, sua madre, cosa direbbe? Si suppone che quasi tutti i figli di questa illustre famiglia abbiano preferito essere sepolti a Tarquinia, infatti, Teresa (1836) è sepolta nella chiesa dei Servi (S. Maria Addolorata), Luigi (1891), Felicita o Felicetta (1895), D. Francesco (1899) e Benedetto (1900) dovrebbero riposare nella cappella di famiglia nel Cimitero di S. Lorenzo 34) in Tarquinia. Sembra che sull’altare di questa cappella, fino a qualche decina di anni fa, fosse 32) Con ogni probabilità, la copia della Madonna del Sacro Cuore che stava nella cappella del Terz’Ordine, potrebbe essere una tela dipinta da Luigi Boccanera, uno dei quattro fratelli di Maria che fecero un regalo alla Madonna. La pittura, stando alla sede della metallica cornice-altare, doveva misurare cm. 49 x 65. Questo dipinto per quante ricerche siano state fatte, non si è più trovato, mentre la cornice-altare è in custodia dai PP. Francescani. 33) La certa pietra... con gli stemmi, dovrebbe essere quella che oggi si trova nella parete esterna di sinistra nella cappella del Terz’Ordine, e gli stemmi, secondo P.A. Daga (Il Temporale, 1972), appartengono alla famiglia del Cardinale di Corneto, Adriano Castelleschi. Lo stemma della sua famiglia si trova ancora sul lato sinistro di un fabbricato all’inizio di Via degli Archi, verso la parte di S. Pancrazio, mentre altri stemmi sono meglio visibili in una pala d’altare in marmo, trovata recentemente in alcuni scavi nella chiesa di S. Francesco... Tutt’ora, altri stemmi analoghi a quelli descritti dal Daga, si possono vedere sia all’interno che all’esterno del Palazzo dei Priori. 34) I dati sono stati ricavati in Tarquinia: nei Libri dei Morti del Cimitero, della Parrocchia di S. Giovanni, in quella di S. Leonardo, della Cattedrale e nell’anagrafe del Comune. esposto un quadro sul quale, stando a quanto racconta un parente dei Boccanera, doveva esservi raffigurato un S. Benedetto 35) . Purtroppo oggi, di quel sontuoso palazzo, di quegli uomini responsabili, di donne risolute, di bravi artisti e di magnanimi prelati, non rimane più niente. Le poche cose residue sono andate ai parenti, tutti residenti fuori Tarquinia. E dobbiamo ringraziare questi eredi se ci è dato almeno sapere che, in una collezione di famiglia del tempo si conservava una bella pittura, con l’effigie di Maria, figlia più piccola di Domenico Boccanera ed ultima ad abitare il palazzo di Tarquinia insieme al nipote Nicolino Pacelli, prima di ritirarsi in Roma, dove morì nella pace del Monastero delle Dame dell’Assunzione. Lorenzo Balduini BIBLIOGRAFIA 1764 - G. BENEDETTI La Processione di S. Agapito, in “Annali e Memorie della Chiesa di S. Pancrazio M.”, Corneto, 1762-1769. 1826 - P. FALZACAPPA, Matrimonio di Domenico Boccanera, in “Cronaca Cornetana dal 1826 al 1832”, t. 306, Archivio S.T.A.S. Tarquinia. 1844 - P. FALZACAPPA, Stemmi e provenienza di alcune famiglie cornetane ms. Archivio S.T.A.S. 1862 - Stato delle Anime dal 1844 al 1860, Tarquinia, Archivio della Parrocchia di S. Leonardo. 1862 - Indici dei Battezzati in Corneto, a cura del Can. D. Francesco Calvigioni, Corneto 1862, Archivio della Cattedrale. 1872 - G. ROMAGNOLI, Elogio funebre all’Em.mo Card. Angelo Quaglia, Roma 1872. 1873 - D.F. BOCCANERA, Lettera al Capitolo della Cattedrale, Corneto, 1873. Archivio della Cattedrale. 1874 - D.F. BOCCANERA, Esito dei Fondi dal 1874 al 1879. Arch. della Cattedrale. 1874 - M. ALDANESI, Atti del Capitolo della Cattedrale dal 1874 al 1879. Archivio della Cattedrale. 35) All’interno della cappella Boccanera, nel Cimitero di Tarquinia, è dato ancora vedere, attraverso i vetri rotti della porta di accesso, il telaio che un tempo conteneva la tela rubata dall’altare. In questo telaio si notano le solite carte di spedizioni incollate che si possono notare anche nel quadro di S. Margherita del Duomo ed in altri dell’epoca. 1878 - L. DASTI, Notizie Storico Archeologiche di Tarquinia e Corneto, Roma, 1878. 1899 - B. BOCCANERA, Lettere all’Arcidiacono della Cattedrale di Corneto, CornetoTarquinia, 1899. Archivio della Cattedrale. 1907 - N. CONTI, Omaggio del Capitolo Clero e Popolo a Giovanni Beda Cardinale, Civitavecchia, 1907. 1910 - D.C. SCOPONI, Iscrizioni Lapidarie delle chiese di Corneto-Tarquinia, CornetoTarquinia, 1910. Archivio della S.T.A.S. 1928 - M. BOCCANERA, Memorie e un poco di storia della Madonna del Sacro Cuore, Roma, 25 gennaio 1928. Archivio della Curia Vescovile. 1934 - D.C. SCOPONI, Visita Vescovile 1934, “Inventario” trascritto. Archivio della Cattedrale di Tarquinia. 1966 - P.L. DE VECCHI, Raffaello, Rizzoli Editore, Milano 1966. 1972 - P.A. DAGA, I Cardinali Cornetani Vitelleschi e Castelleschi nella letteratura, in “Il Temporale”, 1972. 1977 - C. DE CESARIS, Accadde a Corneto cento e più anni fa..., in “Bollettino 1977”, S.T.A.S.. 1983 - L. BALDUINI, La Resurrezione di Tarquinia, Tarquinia, 1983. 1983 - G. SACCHETTI, I cornetani volevano la ferrovia più vicina alla loro città, in “Bollettino 1983” S.T.A.S. 1984 - C. DE CESARIS, La Cattedrale di Corneto, in “Bollettino 1984” S.T.A.S. Notizie orali avute dalla Signora Ilva Proli Pierucci. Archivio dell’Architetto Leonardo Proli, Tarquinia. Archivio del Monastero delle Benedettine, Tarquinia. Abolizione del pascolo libero, in “Il Procaccia” n. 9, p. 6. Arch. Stor. del Comune. Domenico Boccanera diventa nobile, in “Il Procaccia” n. 12, p. 5. Notizie in breve, in “Il Procaccia” n. 12, p.7. Esito dei Fondi, (1882) chiesa di S. Lucia. Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia. MOMENTI DELLA VITA POLITICA ED ARTISTICA DI CORNETO dal sec. IX al sec. XV Che sia stata anche questa tela opera del pittore cornetano Luigi Boccanera? E’ arduo parlare brevemente del periodo medievale di Corneto, della vita e della storia di questa città, senza correre il pericolo di fare un arido excursus di date e di eventi. Corneto affonda le sue radici in un passato lontano, in cui leggenda e realtà si confondono ed integrano in qualche cosa di grande e di meraviglioso. Accenno appena a come, nel IV secolo, già fosse sede vescovile e a come fosse poi decaduta per le invasioni dei Saraceni, che la devastarono tra l’VIII e il IX secolo, e a come, decadendo da città etrusco-romana, risorgesse sul luogo dell’attuale città, con il nome di Corneto (antico Corgnitum, poi Cornetum). Nel Medio Evo, la cinta delle mura della città iniziava dal Castellum (fortilizio annesso alla città), si dilungava sui dirupi della Ripa, toccava l’attuale Porta Nova e piegava lungo la linea dell’attuale Corso, fino alla Porta della Valle (oggi Porta Firenze) e si chiudeva, tornando al Castellum. Corneto vecchia quindi si estendeva al di là del Corso, dalla porte Nord e Ovest. Le fortificazioni della parte antica si pensa rimontino al IX secolo, al tempo cioè delle incursioni dei Saraceni, cosa del resto normale in quell’epoca per tutti i Comuni. Il Castello, all’inizio, era un borgo munito, che serviva da fortezza e si crede che fosse distinto dalla città. Quel che è certo è che in esso vi era il Palazzo, residenza della Contessa Matilde (a. 1087). Delle altre mura, di quelle cioè poste a difesa della parte moderna, chiamata Castro Novo, parla Francesco Sacchi, Gonfaloniere di Corneto (1407), che le fece ristabilire, e, precedentemente, nel 1376, il cronista Gilberto, cameriere di Sua Santità il Papa Gregorio XI, il quale, parlando del ricevimento offerto al predetto papa in Corneto, ricorda che la città, verso mezzogiorno, era protetta da una doppia cinta di mura. Si pensa che in tempi remoti già esistesse il cunicolo che da Fontana Nova procede, interrotto da numeri pozzi, sotto la città ad una profondità di circa 45 metri. Tale cunicolo, scoperto e ripulito in parte nel 1866, ai nostri giorni è stato nuovamente esplorato da alcuni subarcheologi dell’Università di Pensylvania per circa 390 metri (cioè da Fontana Nova fino all’altezza del 5 pozzo). Durante tale esplorazione sono stati rinvenuti resti di secchi. Caratteristica di Corneto medievale sono le Torri. Assai numerose in origine, nel 1878 ne restavano 25, intatte o in parte dirute; di 13 solo le fondamente affioravano dal suolo. (come si può leggere nel Dasti pagg. 409-10). Tra quelle, che noi possiamo ammirare, ricordiamo: la Porta - Torre della Maddalena (detta Torre di Dante), il gruppo del Palazzo dei Priori, la torre di S. Maria in Castello, la torre di S. Martino, il torrione rotondo detto della Contessa Matilde, la torre Barucci ecc. ecc. Esse si ergono maestose e perfette nella semplicità delle forme, forti nei massi squadrati che le strutturano. Sono testimonianze della grandiosità dei costumi, delle necessità storiche e dell’opulenza di Corneto. Le Torri costituiscono per la moderna Tarquinia una magnifica particolarità e una chiara nota della potenza raggiunta nel Medio Evo, epoca corrusca di bagliori, di luci e di tragiche ombre. E’ il caso di ricordare in proposito quanto scrisse il Petrarca su Corneto: “Cornetum turritum et spectabile oppidum, gemino cinctum muro.,” Altre testimonianze notevoli del periodo medievale sono alcuni palazzi giunti a noi, celebri non solo per la loro architettura, ma anche per essere stati culla della vita e della storia del popolo cornetano. Il Castello della Contessa Matilde, tanto ricco di storia nel primo Medioevo, è oggi diruto e di difficile individuazione; così pure quello fatto costruire dal Papa Innocenzo III ed altre opere dell’epoca. I Palazzi medievali ancora esistenti e funzionali sono: il palazzo dei Priori (attualmente sede della S.T.A.S.), il Palazzo Municipale e il Palazzo Vitelleschi, fatto costruire dal Cardinale Vitelleschi a partire dal 1436 e completato nel 1439, come scrive Pier Paolo Sacchi nella sua “Cronaca di Viterbo”: “per commissione di sua Signoria Reverendissima, feci finire il palazzo suo in Corneto, di tutto punto, quel palazzo io feci far tutto, quasi da li fondamenti et dico ne hebbi particolare cura.” (1439). La facciata è di color ferrigno, a bugnato: sembrerebbe quasi una fortezza se non la ingentilissero le belle finestre, tutte disuguali, con le deliziose colonnine che le adornano. Verso destra, in alto, tra le bifore, vi è un grande stemma della famiglia Medici, mentre quello del Vitelleschi è nel timpano del portale. (il portale proviene da Palestrina, distrutta dal Cardinale). Molto interessante nel cortile interno è il loggiato che, nei vari ordini, presenta un’armonica mescolanza di stili: catalano (nel vestibolo e nel pianterreno), gotico (nel I piano) e rinascimentale (ultimo piano). Tutto il Palazzo, d’altronde, è un esempio di armoniosa colleganza tra questi stili: la parte destra è gotica, la sinistra è rinascimentale e la parte media funge da raccordo fra questi due stili. Una larga scalinata a bassi ed ampi gradini, che poteva essere salita comodamente a cavallo, conduce ai piani superiori. In alcune sale si notano camini sui quali si stagliano fregi di scuro nenfro. Molti sono i tesori artistici che racchiude il palazzo, ora sede del Museo Etrusco. Una curiosità: nel bellissimo palazzo il Vitelleschi abitò pochissimo o, forse, mai! Vi dimorarono invece, nei secoli seguenti vari pontefici (Sisto IV, Innocenzo VIII, Alessandro VI, Giulio II, Leone X ecc. ecc.). Il Palazzo Municipale, costruito non prima del XIII sec., si presenta con un pianterreno e due piani superiori a nord, un pianterreno e tre piani superiori a sud. Dall’alto della sua torre, a base quadrata, si scopre un orizzonte vastissimo. La facciata è interrotta da un grande arco, che permette il passaggio dalla piazza a Via Antica. Al centro del Palazzo vi è la sala del Teatro, ora completamente ristrutturata come Sala Consiliare. Sulla porta che immette nel Salone notiamo un’iscrizione risalente al 1478, la quale indica che in tale data fu costruita la nuova fabbrica del Palazzo, distrutto da un incendio due anni prima. Il Salone è ricco di dipinti murali; uno rappresenta un grande albero geneaologico dei re della Tuscia (da Corito, padre di Dardano, fino a Romolo, primo re di Roma), e la maggior parte degli altri, momenti della vita del Card. Vitelleschi. Importante dal punto di vista storico è l’Archivio, che contiene atti risalenti alcuni al 1100 dell’era volgare. Purtroppo vari documenti sono stati danneggiati nell’incendio del 1476, che distrusse il Palazzo dei Priori e dei Consoli. Tuttavia fra quelli a noi pervenuti, di particolare interesse sono: a) la Margarita, codice comunale che comprende 591 atti riguardanti la vita della città; b) lo Statuto, che risale al 1500; c) una quantità di lettere in pergamena, scritte da Papi, Sovrani e Principi (compresi i Dogi di Venezia) a partire dal 1298; d) Atti pubblici dei Consigli Municipali dal 1422 in poi e molteplici altri atti, libri e documenti dal 1500 in poi. Il Palazzo dei Priori, il più antico dei tre nominati, è un severo e poderoso complesso delimitano agli angoli da quattro torri quadrate, una delle quali mozzata. Una delle torri presenta ancora l’antica merlatura guelfa. Nella facciata principale, fra le due torri, ancora mantenute, è possibile notare una serie di costruzioni di epoche diverse, tra le quali i resti di una terza torre. L’insieme, pur avendo subito varie aggiunte e ferite nel corso dei secoli, mantiene intatto il suo fascino nobile e solenne. Il complesso è tornato a nuova vita, grazie alla serie di restauri attuata dalla S.T.A.S., che in esso, come ho già precisato, ha la sua prestigiosa sede. Testimonianze antichissime della vita della città sono le Chiese, di cui ricorderò solo alcune: La Chiesa di S. Maria in Castello, incorporata nelle mura castellane, è un mirabile esempio di stile romanico-lombardo dell’Italia Centrale. Iniziata nel 1121, fu ultimata e consacrata nel 1207. La sua facciata estremamente severa, presenta tre portali, corrispondenti alle tre navate interne. Quella centrale, più grande, conserva ancora tracce di decorazione musiva a tessere auree. Il pavimento della navata centrale mantiene parti di mosaico di stile cosmatesco, anche quello della navata di sinistra presenta pannelli marmorei policromi. I capitelli delle colonne sono in nenfro, con motivi zoomorfi e fitimorfi. Sopra il tamburo è possibile ammirare la cupola emisferica, che non è però quella originale, essendo questa caduta durante il terremoto del 1819. Insolita è la posizione del rosone, situato sulla facciata sinistra, anziché su quella anteriore. L’altissima torre (43 metri), ben conservata, a base quadrata, che si erge vicino al tempio, contribuisce ad accrescere la bellezza dell’insieme. La decadenza di S. Maria in Castello ebbe inizio nel 1435, quando Papa Eugenio IV le tolse la collegiata. La Chiesa di S. Pancrazio, di stile romanico-gotico, risale alla metà del XIII secolo. Si pensa anche, se si vuol dar credito a quanto scritto nel 1761 dal parroco, don Giuseppe Benedetti (e di cui potrebbe essere una prova l’impronta gotica della costruzione), che detta Chiesa sia molto più antica e risalga nelle origini al VI-VII secolo. Altri pensano ancora che fosse un tempio pagano, per un’ara di marmo, che esisteva in essa e che fu distrutta. Il suo interno, originariamente in un’unica navata, oggi si presenta suddiviso in tre parti longitudinali, e in due trasversali da tre archi a tutto sesto, appoggiati a quattro pilastri rettangolari; gli agili costoloni a vele gotiche danno slancio alla costruzione. Il campanile, addossato alla facciata, è sormontato da una cuspide conica dalla punta arrotondata, ornata da costolature rostrate. Una piccola curiosità: il poeta Gaspare Murtola, emulo e rivale del Marino, trovò sepoltura in questa Chiesa. S. Francesco: questa Chiesa, iniziata verso la metà del XII secolo, subì trasformazioni nella seconda metà del XIII sec. e seguenti. E’ un bell’esempio di stile romanico-gotico. La facciata è ingentilita da un bellissimo rosone, chiuso in una ricca cornice; nelle due parti laterali, romaniche, presenta motivi di pseudo colonnine ed archetti pensili. L’interno, in origine a tre navate, nel corso del XVI secolo ha subito l’aggiunta di una successione di cappelle, addossate alla navata destra. Le crociere, innervate da costoloni squadrati, danno agilità e movimento a tutto l’insieme. In questa Chiesa si conservano, in un pregevole busto di argento del 1502, le reliquie di S. Agapito, portate a Corneto dal Cardinal Vitelleschi dopo la distruzione di Palestrina. (1430). Ma è tempo di passare alla storia della città. Premesso che Corneto forse esisteva già come Castello a guardia del mare, quando ancora non era sta abbandonata la Tarquinia etrusco-romana, possiamo dire che nell’VIII secolo intorno a questo Castello si era già formata una civitas, stando a quanto risulta da un documento dell’archivio di Farfa. Rapidamente la civitas crebbe di importanza e ciò è attestato da placiti stipulati con alcuni conti e marchesi di Toscana. La sua posizione fra tre fiumi (Arrone, Mignone e Marta) e le risorse agricole, oltre che le saline e la presenza di una vena di ferro, la portarono ad essere in breve tempo un ricco ed attivo centro commerciale. Sul mare aveva due porti: quello alla foce del Marta e quello alla foce del Mignone. Nel primo, con il mare calmo, potevano entrare navi di media portata; nel secondo battelli e piccole navi mercantili. Lungo il suo litorale si pescava anche il corallo. La città era in continuo sviluppo e le sue condizioni di vita erano floride. Il Valesio afferma che, in tale epoca, Corneto contava, compreso il distretto, 31.900 abitanti. Dal V secolo al 1400, anno in cui il pontefice Bonifacio IX annientava il governo dei Comuni, assorbendoli nel potere temporale della Santa Sede, la città di Corneto si resse, con sue proprie leggi, a libero comune. “Nel corso del Medio Evo, dice il Dasti, essa non riconobbe che un alto dominio e un protettorato dei Papi o dei Principi regnanti o dei capi di parte, i quali, a vicenda disputaronsi di tempo in tempo il possesso di Roma e del Patrimonio del Beato Pietro.” In questo periodo il suo governo interno era simile a quello degli altri Comuni: un Senato, composto da nobili e plebei, promulgava le leggi, fra le quali era in vigore e rispettato lo Statuto Civico antichissimo (rimonta almeno al 1100). “Il potere esecutivo e la rappresentanza del governo era affidata ad un Gonfaloniere, il quale si estraeva da alcune delle principali famiglie nobili, ma che si cambiava ogni triennio. E perché meglio l’azienda pubblica dal Gonfaloniere governar si potesse, erano al medesimo addetti un Capitano di 500 soldati (dux quingentorum) e molti Consoli presi dal popolo...” (Dasti). Così governato, Corneto prosperò e la sua agricoltura rifiorì così tanto, da poter provvedere, oltre che al fabbisogno dei suoi cittadini, anche alle necessità di altri comuni. Roma la chiamava “horreum urbis” (granaio di Roma). La fertilità produttiva del suo territorio, l’ampiezza del commercio fecero sì che essa fruisse di molti privilegi concessi da Papi, imperatori e principi dei territori viciniori. Il clima di agiatezza permise a molti cittadini di dedicarsi alle scienze, agli studi umanistici ed alle armi. A tale proposito è il caso di ricordare che Firenze, con la quale la città aveva buoni rapporti, chiese nel 1422 quattro notari del suo noto e stimato collegio notarile, per i processi criminali, tanta era la serietà di studi e la perizia di questo ordine. Vediamo ora, in modo più particolareggiato, la storia della città. Dopo la morte di Carlo Magno, per le reiterate incursioni dei pirati, l’allora Corgnitum, ebbe a subire lutti e rovine e, per l’insicurezza della Sede, venne a mancare la serie dei Vescovi in Corneto. Nel 916 Corneto, al pari delle città di Roma, Terracina, Civitavecchia, stipula trattati di navigazione con Pisa, Genova, Ragusa e, più tardi, con Venezia. Nella sicurezza delle sue fortificazioni e delle torri, da cui poteva spaziare per un vasto orizzonte, essa si dedicò alla costruzione di grandiosi monumenti, le cui vestigia sono giunte fino a noi. Ma nel 1023 ci fu l’incursione dei Saraceni i quali, dopo aver devastato le città della costa e occupato Civitavecchia, si riversarono nella campagna cornetana, mettendo tutto a ferro e fuoco, senza riuscire tuttavia ad occupare la città, che si difese strenuamente dentro le sue poderose mura. In un periodo ricco di lotte fra il Papato e l’Impero, Corneto non fu sempre fedele al Papa. Ad esempio, nel 1056, su istigazione di Roberto il Guiscardo, si ribellò alla Chiesa. Nel 1080, sorgono in essa, a somiglianza degli altri Comuni dell’epoca, lotte interne tra i seguaci del Pontefice e quelli dell’impero. Una relativa pace ritorna quando, per opera della contessa Matilde, gli esuli, scacciati dai partigiani del Papa, ebbero il permesso di ritornare in patria. Questa pace non dura, però a lungo in quanto vediamo, poco dopo, i Cornetani impegnati, con i Vetrallesi, i Viterbesi, partigiani dell’imperatore, ad assediare Montefiascone e a devastarne le campagne. E’ di questo periodo il Placito della Contessa Matilde che attribuisce il possesso della Chiesa di S. Pietro, posta presso la città, alla Badia di Farfa. Passano degli anni di relativa ma non duratura tranquillità, poiché già nel 1134 i Cornetani si ribellano al vero Pontefice Innocenzo II e passano dalla parte dell’antipapa Anacleto. Innocenzo II, con l’aiuto di Lotario III, imperatore di Germania e re d’Italia, riesce a sconfiggere i ribelli e Corneto viene saccheggiata e punita come principale responsabile della sollevazione del Patrimonio intero. Però, pur tra una guerra ed un’altra, una sollevazione ed una ribellione, la città non solo si regge con leggi proprie, ma stipula trattati commerciali con le altre città marittime, fra le quali, famoso, quello concluso fra la Repubblica di Pisa e i Consoli Cornetani (1173). In questo trattato si fa esplicita menzione alla salvaguardia dei navigli dell’una città da parte dell’altra, per cui si deduce che Corneto avesse in quell’epoca, navigli per il commercio essenzialmente con Pisa e Genova. Nel 1204, nella rada dirimpetto al suo litorale, gettano gli ormeggi cinque galee aragonesi. Il re Pietro d’Aragona, sbarcato al porto, viene accolto con molti onori dai Cornetani. Il re si mostra munifico e liberale con loro, concedendo privilegi, franchigie e ricevendo in cambio l’unzione dal Vescovo Portuense e l’incoronazione a Re, dal papa Innocenzo III nella chiesa di S. Pancrazio in Roma. Intanto la ruggine, sempre latente fra Corneto e Viterbo esplode in fatti d’arme nel 1221 e nel 1230. I Cornetani vengono sconfitti dai Viterbesi che saccheggiano il territorio e fanno anche molti prigionieri. Vinta ma non domata, la città nel ventennio seguente risorge e rafforza la sua cinta di mura e le sue alleanze. Così, quando l’esercito di Federico II la cinge d’assedio (1245), resiste e non si piega nemmeno dinanzi all’impiccagione di 32 prigionieri cornetani, avvenuta sotto le sue mura. Non solo resiste, ma respinge gli assedianti. La vita nella città seguita a prosperare e la storia ad intessere le fila di quello che oggi può chiamarsi la vita operosa e gloriosa di un popolo, il quale è testimone fedele ed artefice alacre di cose costituenti la sostanza e il volto del tempo nel suo divenire. Nelle loro continue incursioni Cornetani e Viterbesi continuano ad infliggersi devastazioni e razzie; il 20 maggio 1292, però, si tendono la mano, restituendosi i beni predatisi in un clima che, osservato superficialmente, presenta caratteri di pace e comprensione, ma che non risolve in modo definitivo i loro attriti. Ma quando in una città c’è pace esteriore, quasi per alterna vicissitudine, scoppiano tumulti e lotte interne. Siamo al 1294, il popolo cornetano si solleva contro il podestà Falcone e i Priori. Ci sono uccisioni ed infine, con il ritorno ad una relativa calma, si eleggono nuovi Priori, pur restando una certa animosità interna, in quanto le famiglie nobili, fra le quali quella dei Vitelleschi, vogliono rivendicare a se stesse il privilegio della immunità e della esenzione delle gabelle. La nuova venuta della flotta aragonese con a capo il re Giacomo II (1298) nella rada antistante il porto, reca altri privilegi ai cornetani. Il re infatti concede facilitazioni di commercio, esenzioni da gabelle e sicurezza in tutti i suoi stati. Nel 1312 i Cornetani di parte guelfa, in lega con Roberto d’Angiò, re di Napoli, il duca Orsini e la Lega Toscana, sono a Roma per impedire l’incoronazione di Arrigo VII di Lussemburgo. Quattro anni dopo ci sono lotte intestine nella città fra Guelfi e Ghibellini. I Guelfi sono espulsi ma ritornano per ordine di Panello Orsini, Capitano Generale del Patrimonio (1316). La pace, ancora una volta, dura poco: qualche anno appena, giacché nel 1327, il popolo si ribella contro Matteo Vitelleschi, figlio di Bonifacio, che, con l’aiuto di Ludovico il Bavaro, si era impadronito della città, tiranneggiando i concittadini. Il tiranno ed i suoi seguaci vengono uccisi. Quando Cola di Rienzo, tribuno del popolo romano, indice a Roma grandi feste, i giostratori cornetani emergono per sontuosità di vesti e per la loro maestria. Dopo la morte di Cola, Corneto, bistrattata dai ministri ecclesiastici, si ribella al Papa e passa dalla parte del prefetto di Vico. Poco dopo il pontefice Innocenzo VI, mal sopportando la cosa, ordina all’Albornoz (1355) di scacciare il prefetto di Vico dalla città. Per le distruzioni operate nella campagna dalle truppe pontificie, il Prefetto viene ad un concordato e cede Corneto; così la quiete torna in tutti i popoli del Patrimonio. Più tardi Papa Urbano V, deliberando di lasciare la sede pontificia di Avignone e riportarla a Roma, parte da Marsiglia e approda alla rada di Corneto, scortato da 22 galee. Il Pontefice è accolto con grandi onori. Si legge in una Cronaca dell’epoca”... La spiaggia di Corneto rare volte accolse tanto popolo e tanta letizia, quanto nella mattina del 3 giugno 1367, allorché tutta la corte papale, capitani ed ufficiali delle galee, gli ambasciatori delle nazioni, i prelati, i cardinali ed il pontefice romano scendevano al lido. D’altra parte lo aspettavano in quel luogo istesso il legato pontificio Egidio cardinale d’Albornoz, tanto rinomato nella storia, e secolui le milizie papali, i nobili, i prelati delle terre e città vicine, armati ecc. ecc. Di poi il papa a cavallo sotto baldacchino fece il suo ingresso in Corneto con accompagnamento grandissimo di nobiltà e volle albergare nel convento dei Minori Osservanti, onorando in seguito la città col celebrarvi solenne Pontificale nel giorno della Pentecoste” (Dasti). Le lotte tra Guelfi e Ghibellini, che sembravano sopite, si riaccendono (1375) e, nello stesso tempo ricominciano le ostilità fra Corneto e Viterbo con alterne vicende. (1376). Essendo tornato Urbano V alla sede di Avignone, il suo successore, Gregorio XI, delibera di lasciare detta sede pontificia e di riportarla a Roma. Per questo parte da Marsiglia e, scortato da 30 galee, dopo una prima parte del viaggio alquanto fortunosa, approda alla foce del Marta. “.... Gregorio XI prostrato al suolo orò e rese grazie a Dio... indi avviossi verso Corneto.... i cittadini del luogo in gran numero e bene in arnese, su generosi destrieri precedevano il pontefice.... Il Papa nel partire colmò la città di privilegi ed esenzioni varie.” (1377) (Dal Manoscritto di Gilberto, cameriere di S. Santità, Gregorio XI). Nel 1375, Corneto aveva aderito a Roma, assumendo vari obblighi in cambio di privilegi ed onori, ma alcuni anni dopo, nel 1383, la città si ribellò, togliendo la sua devozione al papa Urbano VI che pur tanto le aveva concesso (autorizzazione a vendere i beni presi nei vari conflitti ai Viterbesi e uso del ricavato per opere di fortificazione). Urbano VI, con bolla del 28 aprile 1384, concede il perdono, ma Corneto un anno dopo (1385) si risolleva. Con atto di clemenza, il card. Pileo Prata dà, a quasi tutti i Cornetani, l’assoluzione ed il perdono. Intanto Urbano VI, per aver condotto una disgraziata politica verso il regno di Napoli, deve imbarcarsi su delle navi genovesi e approdare a Corneto ma, non potendo pagare il prezzo pattuito per le navi, cede la città ai Genovesi. Così Corneto passa temporaneamente alla repubblica di Genova (1385). Gli anni trascorrono in una alterna vicenda di vittorie e di sconfitte, di ribellioni e di nuove alleanze. La città nella sua opulenza può, nel 1405, prestare alla Camera Apostolica tremila fiorini d’oro e altri duemila, pure d’oro, nell’anno seguente, ricevendo dal Cardinal Camerlengo privilegi e garanzie. In questo periodo la città fa ancora opere di fortificazioni rinforzando e restaurando le proprie mura di cinta e ampliando, nello stesso tempo, le sue vie commerciali con Genova per cui i navigli genovesi approdano numerosi al suo porto. Con la sua rada e con il suo porto, Corneto si trovò nella situazione geografica di essere il punto di approdo dei navigli che partivano dalle repubbliche marittime italiane affacciantesi sul Tirreno e quelli partenti dalla Spagna, nonché punto di smistamento delle merci e di collegamento con l’oriente. L’anno 1420 è alquanto infausto per i Cornetani, in quanto la città è colpita dalla pestilenza, che decima gran parte dei cittadini. La pestilenza scoppia per la putrefazione, dovuta al caldo eccessivo, dei visceri insepolti, di una grande balena che si era arenata, spinta dalle onde, sulla spiaggia. Una costola del cetaceo misurava 6 metri di lunghezza e fu conservata nel Palazzo dei Magistrati per lungo tempo. Nella lotta per la supremazia a Napoli, fra la Regina Giovanna, alleata con Filippo Visconti, duca di Milano, ed il re Alfonso d’Aragona (1424), Corneto si trova, per il bene della propria pace, a dover vettovagliare sia le truppe milanesi, trasportate su 24 galee e 18 navi da trasporto genovesi, ancorate nella rada, sia, successivamente, l’armata navale aragonese, approdata al suo porto e diretta a Napoli per liberare il fratello del re Alfonso, prigioniero nel Castello dell’Ovo. Nello stesso anno, per decreto del Papa Martino V (il papa che pose fine al grande scisma e che fu eletto nel Concilio di Costanza), i Cornetani sono esentati dall’obbligo a Roma e dal mandare i giostratori ai giochi di Piazza Navona. Sorge intanto l’illustre figura del Card. Giovanni Vitelleschi da Corneto, protonotario apostolico di Martino V. Nominato da Eugenio IV prima vescovo di Recanati, poi suo commissario nella provincia del patrimonio del Beato Pietro in Tuscia (1430) e successivamente Arcivescovo di Firenze, sconfisse i baroni ribelli allo Stato della Chiesa e prese Palestrina che nel 1437, fece distruggere. Infine fu eletto Cardinale dal Pontefice in Ferrara, in riconoscimento delle sue virtù di uomo d’armi e di Chiesa, poiché aveva ricondotto al dominio della Chiesa Romana la maggior parte delle terre usurpatele dai tiranni nel tempo degli scismi e delle ribellioni. Corneto assurge a maggior grandezza quando, nel 1435, con altre Bolle del papa Eugenio IV viene dichiarata città di sede vescovile riunita a quella di Montefiascone. Il Senato romano decreta, per le benemerenze del card. G. Vitelleschi, e del popolo cornetano, il conferimento ai medesimi della cittadinanza romana. Quasi contemporaneamente, per aver il Vitelleschi aiutato Roma a superare una grande carestia, vettovagliandola, molte illustri famiglie romane vogliono la cittadinanza romana. E’ il card. Vitelleschi che concede alla città di Corneto di fare la fiera di merci e bestiame il 20 maggio, giorno della consacrazione della Chiesa di S. Maria di Castello. Nel 1439 lo stesso cardinale concede il denaro necessario per costruire le mura ed il Torrione dalla parte di detta Chiesa, essendosi ristretta l’area abitata. Il Card. Vitelleschi muore, pare, per le ferite riportate ad opera di Antonio Rido, governatore di Castel Sant’Angelo, che lo aveva arrestato a tradimento e, forse, per ordine dello stesso papa Eugenio IV. Siamo nel 1440. In Corneto intanto, c’è il nipote del card. Vitelleschi, Bartolomeo da cui il papa (Eugenio IV) vuole rigoroso rendiconto delle ricchezze lasciate dallo zio, per darle alla Camera Apostolica. Bartolomeo, però, temendo l’ira del Pontefice, se ne parte di nascosto dalla città e si reca a Basilea presso l’Antipapa Felice V, che lo accoglie calorosamente. Per questo è dichiarato scismatico da Eugenio IV ed è privato del Vescovado di Corneto-Montefiascone. Solo dopo la morte del Papa, Bartolomeo Vitelleschi fa ritorno nella sua città, riottenendo le cariche e i privilegi di cui era stato privato. Il Papa Niccolò V concede a Bartolomeo il permesso di traslare a Corneto la salma dello zio, che viene sepolta nella Cappella della Cattedrale. Nel 1461, il popolo Cornetano prospetta al pontefice Pio II, quanto sarebbe stato utile allargare il porto e attrezzarlo adeguatamente dato il crescente numero di navigli, che vi approdano per caricare grano e vettovaglie varie. Il Papa aderisce alla richiesta e già durante il suo Pontificato, sorge “la torre fondata sulle acque” (come dal Codice Valesiano). Quando nel 1476, un incendio accidentale distrugge il Palazzo dei Priori e parte degli importanti documenti che oggi si conservano nell’archivio comunale, l’allora papa Sisto VI, per aiutare il Comune nella ricostruzione del medesimo, concede ai cornetani l’uso gratuito dei Pascoli della Camera (1476). Due anni dopo (1478) scoppia nella città un morbo contagioso per cui molti muoiono ed altri lasciano il paese, cercando salvezza. Sisto IV, per risollevarla nei lavori dell’agricoltura, concede privilegi per 15 anni a coloro che fossero venuti ad abitarvi. Lo stesso Pontefice, tre anni dopo (1481), viene a visitarla e dimora per sette giorni nel palazzo, fatto costruire sontuosamente dal cardinale Giovanni Vitelleschi. Intanto Corneto aumenta sensibilmente il numero dei suoi abitanti per l’afflusso di quegli albanesi, che erano fuggiti dalla loro patria per non esser assoggettati dal governo Turco (1484). Nel 1486, per restare fedele al Papa Innocenzo VIII in guerra con il re di Napoli, subisce da parte di Nicola Orsini, conte di Pitigliano alleato del re, l’assedio e la distruzione del bestiame e delle campagne, pur resistendo eroicamente all’azione nemica. Ma le devastazioni non terminano lì, in quanto nello stesso anno, mentre Innocenzo VIII sta trattando, senza alcun serio fondamento, una pace col re di Napoli, la città subisce un assedio ancora più disastroso, da parte del duca di Calabria, alleato del re e nello stesso tempo è battuta dai colpi di cannoni della flotta del re di Napoli, che si è portata nella sua rada e martella le sue fortificazioni e la Torre. I Cornetani resistono strenuamente e respingono il nemico. Quando questi toglie l’assedio, si accingono nuovamente, con coraggio, alla risistemazione delle fortezze e alla ricostruzione parziale della Torre colpita. Segue un periodo di vigile assestamento. E’ di quest’epoca, sono trascorsi appena tre anni dall’assedio summenzionato, il ritrovamento a Pian di Spilli di un sepolcro di marmo, contenente 15 libbre di oro impuro e otto di oro puro. Si parla molto intorno a questo sepolcro, che viene denominato (non si sa perché) “Nicodemio”, e su dove situarlo. Infine, per consiglio del consultore Antonio Angelo Laurenti, viene posto nella Chiesa di Castello e si crede che con quei marmi si sia fatto il fonte battesimale. L’oro, poi viene concesso dal pontefice, alla città, per la ricostruzione dei porti sul Marta e sul Mignone, deteriorati dalle acque. (Atto Archiv. Com.le di Tarquinia, da Breve del 24 Maggio). Verso la fine del Quattrocento, siamo nel 1492, il Papa Alessandro VI, da poco eletto al soglio pontificio, per sfuggire alla peste che aveva riempito di lutti Roma, si ritira con alcuni Cardinali e la sua Corte, a Corneto, nel Palazzo Vitelleschi. I Cornetani sono generosi in munificenza verso il Papa e verso i Cardinali, ricevendone in cambio concessioni e privilegi per opera dei Vitelleschi: Vittuzio, Giulio, Mariano, Lituardo. ooooooooo ooooo Finisco qui questa mia breve esposizione di fatti, personaggi e cose costituenti la ricca storia della Corneto medievale. Mi sono soffermata sugli eventi più importanti seguendo un ordine cronologico, per presentare un quadro rigorosamente vero, vivo, di questa città che, nel fluire dei secoli ha sempre saputo lottare e vivere, nella luce della vittoria come nell’ombra della sconfitta, con tenacia e dura volontà. Corneto medievale si presenta a noi come l’immagine splendida dei Comuni dell’epoca in cui la forza si accoppiava all’astuzia e il valore delle necessità del momento. Lilia Grazia Tiberi Fonti: L. Dasti - Notizie storiche e archeologiche di Tarquinia e Corneto. M. Polidori - Croniche di Corneto B. Blasi - Le chiese nella città di Corneto G.C. Traversi - Tarquinia, relazione per una storia urbana L. Marchese - Tarquinia nel Medio Evo P. Supino - La “Margarita Cornetana” regesto dei documenti F. Guicciardini - Storia d’Italia N. Machiavelli - Istorie fiorentine Valesio - Codice Capitolino M. Ruspantini - Gli Statuti della Città di Corneto NOTE SUL “MANTELLACCIO” OPERA TEATRALE DI GIACOMO SETACCIOLI Il 12 ottobre 1893 al Teatro Drammatico Nazionale di Roma, Giacomo Setaccioli 1) esordì come autore della sua prima opera teatrale in due atti e quattro quadri “L’ultimo degli Abenceragi”, dall” “Almansor” di Heine 2) . Era l’epoca in cui, sullo scorcio del secolo morente e al sorgere del nuovo, era prevalsa nella musica teatrale la tendenza ad un clima intimistico e contenuto i cui principali elementi erano costituiti da una maggiore densità armonica e dalla fluidità melodica del linguaggio, capace di stemperare i principi dialettici delle forma classiche precedenti e scioglierne i contrasti. Questa maniera poetica crepuscolare e rarefatta di fare musica fu comune a tutti gli autori dell’epoca come Carlo 1) Nato a Tarquinia l’8 dicembre del 1868 da Filippo e Angela Leonardi, nella casa posta in via Soderini, ora intitolata al suo nome. 2) Altre opere teatrali di Setaccioli furono: “La sorella di Mark”, idillio drammatico in tre atti di E. Golisciani su soggetto di Gemma Belliincioni, rappresentato nel 1896 al teatro Costanzi di Roma e l” Adriana Lecouvreur”, opera in tre atti su libretto di E. Golisciani. L’opera era stata già mandata alla Casa Ricordi nel 1904 ma Setaccioli la ritirò dopo che fu giunta alla ribalta l “Adriana Lecouvreur” di Cilea. Queste tre opere sono andate smarrite anche se le prime due avevano raccolto ampi consensi di critica e di pubblico. Andreoli, Giovanni Rinaldi, Giuseppe Buonamici, Antonio Savasta ecc. tra i quali riesce difficile individuare personalità musicali spiccate, capaci di conseguire una decisa autonomia stilistica. Fu quello che invece riuscì a Giacomo Setaccioli il quale condensò motivi estetici e decadenti in un modo di fare musica più sentito e raffinato, manifestando tentativi di novità sintattico-armoniche particolarmente evidenti nella sua opera di compositore, quella che definisce più di ogni altra la personalità del Setaccioli musicista. Personalità che, ponendosi in una posizione oscillante tra il classicismo brahmasiano e il preziosissimo timbrico impressionista, avrebbe dovuto essere meglio approndita dalla critica posteriore, cosa che non è potuta avvenire a causa della dispersione, anzi del naufragio, dell’opera del musicista. Chi ha studiato con Setaccioli (Carlo Zecchi, Vittorio Gui, Mario Rossi ed altri) lo ricorda modesto, mite e generoso come uomo ma battagliero e polemico come artista, pronto a difendere a spada tratta le idee altrui che gli sembrassero giuste ed a tenere in ombra le proprie. Dotato di grande sensibilità artistica, aperto ai problemi di estetica musicale, fu critico preparato e pungente, ricettivo alle sollecitazioni che gli venivano anche dal mondo dell’arte e della cultura. Formatosi in un clima in cui il melodramma era la forma che assorbiva quasi del tutto l’interesse dei compositori e del pubblico italiano, è naturale che egli dedicasse tutti i suoi sforzi al teatro musicale nel quale dimostrò una piena maturità artistica. Il destino ingiusto (oltreché una morte precoce 3) si accanì contro questo musicista travolgendo anche l’opera alla quale egli teneva di più: “Il mantellaccio” che, pur possedendo notevoli ed evidenti valori costruttivi, non venne mai rappresentata durante la vita dell’autore. L’idea dell’opera era venuta a Setaccioli nel 1914 dalla lettura dell’omonima tragedia di Sem Benelli 4) con il quale il musicista si era accordato per apportare alcune modifiche al testo, operazione che fu compiuta nel 1924. In precedenza anche Italo Montemezzi, formatosi nel clima dell’opera italiana di gusto verista, con “L’amore dei tre re” presentata alla Scala nel 1913, si era accostato ad un testo di Benelli, autore di un tipo di teatro carico di drammatica passionalità, verboso e nuovo per l’uso costante delli endecasillabo che aumentava la sonorità del linguaggio. Temperamento lirico ed insieme robusto e ricco di immaginazione, Sem Benelli amò creare una serie di personaggi-eroi attraverso la produzione di drammi in costume attinti alle vicende della storia e della novellistica italiana 5) . 3) Morì a Siena il 5 dicembre 1925 mentre presenziava un concerto di beneficenza all’Accademia Chigiana, nel quale figuravano due suoi lavori eseguiti dal Sestetto di Firenze. 4) Prato 1877 - Zoagli 1949. Nella sua opera l’eterno conflitto tra il Bene e il Male di cui egli sente intimamente le grandi sofferenze e l’inutilità dell’esistenza, che suggerisce ai personaggi una desolata ma rassegnata rinuncia finale, sono le costanti che determinano anche la figura principale del “Mantellaccio”, il Novizio. Per questo personaggio Setaccioli aveva contattato nel 1923 Beniamino Gigli il quale gli aveva risposto affermativamente da New York: “Per l’arte italiana.... sarò lieto di contribuire al successo cantando alto il nuovo canto del Suo Novizio nel Mantellaccio” 6) . Delle quattro opere teatrali di Setaccioli questa è l’unica che si è salvata dalla dispersione e di cui esiste la partitura e lo spartito per canto e pianoforte. Particolarmente ricca di significati, essa è elaborata con una sapiente orchestrazione ed offre aspetti molto diversi nel corso del suo svolgimento. In pieno accordo con la personalità artistica del compositore, lo stile dell’opera, seppure fervido e intenso, è frenato da un gusto sicuro che equilibra naturalmente i vari elementi espressivi attraverso un fine lavoro di saldatura tra vecchio e nuovo mondo armonico. L’opera è divisa in tre atti e quattro quadri, ora brillanti ora drammatici, e ci presenta all’inizio una Firenze cinquecentesca aurea e preziosa, impregnata fortemente di petrarchismo; la Firenze delle Accademie umanistiche. L’azione dell’episodio introduttivo si svolge infatti nell’Accademia degli Intemerati dove si raccolgono solenni e gravi eruditi, fanatici devoti del culto del Petrarca, carichi di una cultura tanto vuota quanto inutili. Quali siano gli scopi dell’Accademia lo dice uno dei presenti: “... studiare e ristudiare a dire in rima, in bel modo garbato..., saper raffinare in puro stile il bello immaginare e quand’occorre spaziar nella storia e nel commento dei poeti più eletti....”. Ad inizio della seduta l’Illuminato ha appena preso la parola quando si ode un allegro vociare ed un bussare alla porta e la scena si illumina di allegrezza; entra uno stuolo di gentildonne mascherate che rappresentano il Trionfo delle Pietre Preziose. Esse si dichiarano ammiratrici degli Accademici e domandano di poter assistere alla gara poetica che avrà luogo fra non molto. Il loro canto è trasparente, venato di melodie di grande freschezza e spontaneità; il tremolo e l’arpeggio dei violini accompagnano il cambiamento di scena fino all’intervento dello Smeraldo che guida il corteo e, ilare e sorridente, promette che darà come premio al vincitore della gara poetica una fronda d’alloro e gli mostrerà in casa sua il proprio volto che ora è nascosto da una maschera; il Rubino premierà il secondo. Al coro si uniscono il Topazio, l’Ametista, lo Zaffiro e il Diamante mentre l’orchestra avvolge le voci in contrappunti di colore. 5) L’opera più giustamente applaudita di Benelli fu “La cena delle beffe” che ha un vibrante, felicissimo piglio teatrale. Nella realtà lo Smeraldo è Silvia, moglie di Piero de’ Benci, Consolo dell’Accademia e il Rubino sua cugina Lisa. L’adunata accademica, rallegrata dalla presenza delle giovani donne, è interrotta dall’irruzione iimprovvisa in sala di una brigata plebea di geniali straccioni che entra rumorosamente creando lo scompiglio. E’la Compagnia del Mantellaccio i cui emblemi sono i mantelli rattoppati dei soci. Gli uomini che la compongono sono popolani che indossano vesti lacere, dormono all’aperto, amano il gioco e il vino ma hanno la lingua schietta e sincera; sono insomma l’esatto contrario dei severi spiriti degli Intemerati. Il capo brigata prende la parola: “Siamo gente” egli dice “siamo poeti cui piace il godere e il cantare” (mentre la musica si colora di ritmica vivacità) e finisce dichiarando che non se ne andranno finché non saranno ammessi anche loro alla gara. Da ciò nasce un alterco con l’Ardente (il battagliero Altoviti che ha riconosciuto nello Smeraldo la donna di cui è segretamente innamorato) che il Mantellaccio, come capo dei contendenti, placa in breve tempo poiché la Compagnia è chiassosa ma mite e ben educata. Lo Smeraldo pone fine alle questioni; sarà un giudice imparziale e la gara ha inizio. Si fa avanti l’Ardente che fallisce la prova per il suo verseggiare ampolloso e vuoto che la donna respinge con un cenno del capo; allora, dalle file di quelli del Mantellaccio contenti della sconfitta dell’avversario, si fa avanti l’ultimo accolto, il Novizio, che chiede di poter cantare. Nessuna sa chi sia e come si chiami ma la richiesta è fatta con tale accento di verità e di sofferta speranza che viene esaudita. Ed il Novizio intona con tutta la passione del cuore un canto che è un inno alla bellezza, alla libertà, al dolore e alla carità d’amore. Lo Smeraldo lo proclama vincitore e poeta. La Compagnia del Mantellaccio grida al trionfo; l’Ardente, indispettito e rabbioso, vorrebbe smascherare la donna. Nasce un tumulto durante il quale le Pietre Preziose vengono condotte in salvo dalla Compagnia plebea. Si chiude così il primo atto che si presenta come il più interessante per quella pregevole pagina musicale che è la Canzone del Novizio in cui il canto nasce spontaneo da un sentimento d’intima malinconia ed il suono musicale si identifica ed aderisce perfettamente al suono delle parole. La voce del Novizio, venata di una commozione trepida che non scade mai nel sentimentalismo, esprime un’alternanza di affetti tra il desiderio e il rimpiianto, una Sehnsucht 7) pacata, senza tormento. Questa Canzone meriterebbe in pieno di essere riscattata dal silenzio, come del resto tutta l’opera. Nel secondo e nel terzo atto si sviluppa e si compie il dramma; i personaggi hanno tolto le maschere e compaiono come veramente sono, nella loro schietta umanità fatta di 6) La morte di Seteccioli impedì la rappresentazione dell’opera con Gigli come interprete. L’eterna irrequietezza romantica contrapposta alla Stille, la quiete profonda, l’imperturbabile serenità dell’animo dalla quale sgorga la poesia spontanea e aurorale. 7) affetti e di passioni. La musica è determinante e complementare dell’azione scenica anche nei momenti meno significativi. Silvia (lo Smeraldo) è triste e angosciata per la solitudine in cui vive; il marito la trascura da molto tempo preso dalle divagazioni poetiche e dalle avventure femminili. La malinconia le invade l’animo all’annuncio dell’ennesimo impegno del Consolo, uscito il quale si presentaa lei il timido e turbato Novizio che vuole conoscere il volto di colei che l’ha premiato. L’animo sensibile della donna alla vista del giovane si colma di tenerezza per il nascente sentimento di cui lei non vuole confessare l’esistenza neanche a se stessa. Il Novizio le va incontro; nasce un dialogo che sfocia in idillio tra la giovane donna, delusa dal matrimonio e il poeta dall’animo puro. Egli è innamorato ma, schivo, com’è, non avrà il coraggio di esternare il suo sentimento a Silvia; quest’incontro tra due anime così somiglianti è musicato in modo tale da costituire l’aspetto più originale del “Mantellaccio” che si presenta, nel suo svolgimento, poco teatrale e lontano dalla melodrammaticità e dal convenzionalismo tanto usuali nelle opere del primo novecento. A spezzare l’incanto tra Silvia e il Novizio che si sta congedando da lei dopo averle baciato teneramente la mano, è l’Ardente che, pazzo di gelosia perché la donna lo ha rifiutato, rincorre il giovane e lo uccide. Le pagine musicali che segnano la fine del terzo atto, coerenti nello sviluppo ed interessanti per le soluzioni armoniche e strumentali, sono anche quelle che più esaltano la poesia istintiva e la morte del poeta puro il cui corpo verrà posto dai compagni, coperto dal mantello dei poveri, presso l’Arno perché possa udire perennemente “l’acqua che parla il linguaggio più schietto”. Il significato dell’opera è tutto raccolto nella nascita e nella morte di questo poeta della strada che il caso ha portato nelle fredde e dorate sale di un’Accademia in cui un gioco di Carnevale lo ha scoperto e premiato poeta ma ne ha anche segnato il tremendo destino. La morte prematura del Novizio somiglia un po' a quella del Maestro Setaccioli, tarquiniese di nascita, morto dinanzi al suo pubblico mentre dirigeva un concerto senza aver avuto il tempo di portare a termine il rinnovamento di un certo tipo di linguaggio musicale cui tanto teneva. Del “Mantellaccio” è stata trasmessa soltanto una selezione l’atto primo e il finale del terzo atto - curata dalla Radio Italiana nell’aprile del 1954; troppo poco per una personalità musicale notevole per forza inventiva e singolarità di stile. Maria Laura Santi BIBLIOGRAFIA Enciclopedia dello Spettacolo, Roma 1958. Enciclopedia della Musica Garzanti, Milano 1983. S. D’Amico: Storia del teatro drammatico, Milano 1968. C. Lari: Sem Benelli, il suo teatro, la sua Compagnia; Milano 1928. F. Palazzi, Sem Benedelli, Ancona 1913. Per l’opera “Il Mantellaccio” di Giacomo Setaccioli ci siamo rifatti a saggi critici di Guido Pannain, Renzo Bianchi, Alba Maria Setaccioli e alle note sul Zecchi, Francesco Santoliquido, Mario Rossi, Oliviero de Maestro di: Carlo Fabritiis. CENTENARIO DELLA NASCITA DI VINCENZO CARDARELLI Concorso bandito dalla STAS per gli studenti delle Scuole Secondarie di II grado di Tarquinia. In occasione delle iniziative fatte per celebrare il centenario della nascita di V. Cardarelli, la Società Tarquiniense d’Arte e Storia ha pensato di proporre un concorso riservato ai ragazzi che frequentano gli Istituti Superiori della nostra cittadina. Questo concorso è stato bandito nell’Aprile del 1987; gli studenti dovevano trattare questi argomenti: “Confronto tra Cardarelli e Leopardi” e “Cardarelli e Tarquinia”. Indire un concorso per le scuole, secondo l’intenzione della STAS, significava anche cercare di interessare i giovani a questo nostro poeta, per alcuni versi ancora poco conosciuto. Non tutti gli istituti hanno risposto a questo invito. Soltanto nell’Istituto Tecnico Commerciale, che porta il nome del poeta, c’è stata una rispondenza, infatti hanno partecipato studenti delle sezioni A e B Comm.le Ciò è avvenuto per l’interesse e l’azione delle professoresse Lilia Grazia Tiberi e Carla Valdi, insegnanti di Lettere di quelle sezioni. Mentre il triennio della sez. A ha partecipato con elaborati fatti da singoli ragazzi e da gruppi, la sez. B ha presentato un “numero unico”, approntato dalla II B, dedicato all’opera ed alla vita del poeta. Gli elaborati sono stati esaminati da una commissione presieduta da Bruno Blasi ed il verdetto è stato unanime: 1. classificato Guido Tessitore ( 3 A) 2. classificato Bruna Daniela Durante (5 A) 3. classificato il gruppo formato da: Marzia De Alexandris Maria Ortenzi Sandra Sposetti Elisabetta Di Giovanni Massimiliano Medei (tutti della 5 A) Un premio speciale alla II B per il “numero unico” dedicato al poeta. La premiazione è avvenuta nei locali dell’Istituto Tecnico il giorno 31 ottobre 1987. Erano presenti il Preside prof. Luigi Rosa, il Presidente dei Lions ing. Alcetta, il Vice Presidente della STAS ing. Cesare De Cesaris, l’addetto culturale della STAS sig. Bruno Blasi e le professoresse Lilia Grazia Tiberi, Carla Valdi e Maria Grazia Cocco. I ragazzi erano emozionati e felici, quando avevano aderito all’invito di partecipazione lo avevano fatto senza avere eccessive speranze sulla conclusione. Nella scuola si fanno tanti concorsi, troppi forse, e la maggior parte di questi non ha alcun seguito. Vedere premiata la loro fatica li ha riempiti di soddisfazione. Ad ognuno dei primi classificati sono stati dati diplomi e libri di e su Cardarelli. Alla classe II B è andato un diploma cumulativo e libri. Tutti poi hanno partecipato al viaggio premio a Pollenza e Recanati. Questo premio, così diverso dalle solite coppe o targhe, è risultato particolarmente gradito ai ragazzi, che, in questo modo, hanno potuto unire l’utile al dilettevole. Visitando il paese originario della famiglia di Cardarelli, Pollenza, hanno riscoperto il filo che unisce due luoghi apparentemente lontani: la Maremma e le Marche. Infatti a Tarquinia sono molte le famiglie che hanno un’origine marchigiana. Li hanno accompagnati in questo giro l’ing. De Cesaris, Bruno Blasi e le prof.sse Tiberi, Valdi e Cocco. Molto calorosa è stata l’accoglienza che i nostri ragazzi hanno ricevuto a Pollenza: il Sindaco, il Consiglio Comunale e i maggiori rappresentanti della cultura locale insieme a un folto gruppo di giovani studenti pollentini, li hanno accolti in Comune dove è avvenuto uno scambio di saluti e di doni. Il sindaco di Pollenza ha fatto dono al Comune di Tarquinia di un quadro di un artista locale, ed ha inviato all’Istituto Tecnico Comm.le libri e pubblicazioni sulla sua cittadina. A sua volta Bruno Blasi ha fatto dono al Comune di Pollenza di una copia del “Nuovo Epistolario di Cardarelli”, ancora fresca di stampa. La giovane Marzia De Alexandris ha quindi ringraziato, a nome dei ragazzi tarquiniesi, il Sindaco e la Comunità pollentina per le belle parole e per l’accoglienza ricevuta. Tutti quanti poi sono stati invitati a far onore al piccolo rinfresco preparato per loro. Molto interessante è stata la visita alla biblioteca (in allestimento), che possiede incunaboli e libri di grande interesse tra i quali quelli di Paolo di Castro (1500) perfettamente restaurati. Nello stesso palazzo, che ospita la biblioteca, sta prendendo posto un piccolo museo, che raccoglie quanto di meglio è stato possibile recuperare del passato più antico e di quello più recente. Tutto messo con ordine ed attenzione. Non c’è che dire: sanno valorizzare quello che hanno. Dopo aver ammirato l’Abbazia di Rambona ed aver consumato un lauto pranzo in un ristorante del luogo, il viaggio è proseguito verso Recanati, la città di Leopardi. La visita all’austero palazzo Leopardi, il “paterno ostello”, è stata fonte di commozione. Infatti vedendo e osservando i libri su cui il poeta passò tanta parte della sua giovinezza (.... “gli studi leggiadri... e.... le sudate carte - ove il tempio mio primo - e di me si spendea la miglior parte....”), la culla, i manoscritti di alcune sue opere, e inoltrandosi nel silenzio del “borgo” spazzato dal vento, i nostri ragazzi si sono sintonizzati con lo spirito del poeta e più chiara è apparsa loro la condizione di solitudine e di tristezza che lo ha accompagnato in tutta la sua vita. Questo viaggio premio, dunque, oltre che a far passare piacevolmente una giornata, è servito anche ad arricchire spiritualmente i nostri studenti che, con sempliicità e naturalezza hanno avvertito il diverso fascino dei luoghi che hanno visitato. Il ricordo di tutto ciò resterà in loro, dando così testimonianza della positività dell’iniziativa della S.T.A.S. Lilia Grazia Tiberi UNA RISPOSTA DOVUTA di Lorenzo Balduini Chi mi conosce sa bene che la polemica non fa per me. Amo svolgere il mio lavoro con umiltà e pazienza dando il mio contributo, forse modesto (lascio agli altri giudicarlo), ma senza dubbio serio e attento alla migliore conoscenza delle bellezze artistiche della nostra Città. Per questo, quando ho letto l’articolo “DIPINTI DEL SEI E SETTECENTO A TARQUINIA” del Prof. G. Tiziani apparso sul bollettino S.T.A.S. n. 15 anno 1986 (edizione 1987), come prima reazione ho pensato di non rispondere affatto ai precisi attacchi (per altri versi sarebbe meglio dire imprecisi) che mi venivano mossi da quelle pagine; ciò forse a causa di quella pazienza che è ormai entrata a far parte della mia natura e che per me è esercizio quotidiano e necessario per il lavoro che amo svolgere. Ma poi ho dovuto considerare che quegli attacchi non erano una normale polemica a livello artistico e critico ma potevano fornire una immagine distorta del mio lavoro non sotto il profilo professionale (tutti possiamo sbagliare) ma proprio sotto l’aspetto cui tengo maggiormente cioè la serietà dell’indagine e l’amore per tali ricerche. E allor ho pensato di non poter tacere e ho voluto rispondere punto per punto alle note che il Tiziani mi dedica copiosamente nel suo articolo. Qui di seguito, per ciascuna delle schede citate dal prof. Tiziani, riporto un mio breve commento corredato solo dalle essenziali note bibliografiche. Tutto ciò mi si creda, non per amore di polemica ma solo come atto dovuto. Risposta a G. Tiziani, Dipinti del Sei e Settecento a Tarquinia, in Bollettino 1986, edizione 1987, p. 137. Cito testualmente quanto il Tiziani dice: “La tela è probabilmente da attribuire a quello stesso Vincenzo Basti (“Vincentius Bastius de Vigevano”) che si firma nel dipinto con “S. Michele Arcangelo”, presso la Chiesa di S. Martino. Chissà perché Lorenzo Balduini che riproduce quest’ultima opera senza alcun commento ma riportando l’iscrizione con il nome del pittore, la dice di anonimo, forse confuso da quell’ “invenit”...” ---------------------------------------Nella didascalia 1) che ho messo sopra la riproduzione del quadro di S. Michele Arcangelo, ho solamente riportato, oltre la provenienza del dipinto, quanto è scritto nella parte bassa della tela. 1) L. Balduini, Il pittore Monaldo civis cornetanus, Tarquinia 1985, p. 202, fig.89. Conoscevo già questo quadro per aver letto le due Memorie 2) scritte dal Curato cornetano D. Giuseppe Benedetti, quando questi era Rettore della Chiesa di S. Martino V., e nelle quali si parlava del dipinto di S. Michele in questo modo: ....vedendosi nell’Altare del suddetto S. Arcangelo compresse da piedi al quadro le seguenti parole = EX DEVOTIONE R.D. JOANNIS TESTA S. MARTINI RECTORIS ANNO DOM. MDCXXIIII = e di poi in mezzo ad esso quadro = VINCENTIUS BASTUS BORIOLUS DE VIGLEVANO INVENIT = nome del Pittore, che lo dipinse.... Nel rettorato di D. Giovanni Testa, nella Serie dei R.R. Rettori della Ven. Chiesa di S. Martino di questa Città di Corneto, inserita nelle Memorie del Benedetti, si dice che, sotto detto Rettore al tempo della visita della B.M. di Laudisio Zacchia vescovo nell’anno 1612, fu profanata la sopradetta chiesa di S. Angelo e le immagini di S. Angelo e S. Isidoro Agricola furono trasportate nella nostra parrocchia. Quanto viene detto nella S. Visita predetta, nell’altra del 1629 si riscontra senza nessuna eccezione. Un netto contrasto di date c’è tra quanto si apprende dalla scritta nella base del quadro, e quello che invece è scritto nella Visita Zacchia del 1612. Nella scritta contenuta nel quadro, si dice che la tela fu fatta fare per devozione del Testa nel 1623, (il Benedetti scrive 1624), mentre dalla Visita del 1612 sappiamo che il quadro, già in quel tempo, esisteva nella chiesa di S. Angelo del Massaro in Corneto. Leggendo questi scritti, si potrebbe anche supporre che il quadro fosse esistito già prima del 1623, e che questa data, non si riferisca alla sua esecuzione, bensì all’anno in cui fu messo nel nuovo altare che il Testa le fece fare dopo la sua traslazione nella chiesa di S. Martino. Inoltre, le scritte che si vedono nella parte bassa di questa tela, (senza scartare completamente la sua originalità), potrebbero essere una possibile aggiunta fatta al quadro in epoca più tarda e probabilmente ricavate da documenti che forse, non furono riportati molto bene. Le considerazioni da me fatte sulle notizie sopradescritte, sono i motivi che mi hanno indotto a classificare la tela di S. Michele Arcangelo di Anonimo, anche se conoscevo benissimo, attraverso gli scritti del Benedetti prima, e da quell’INVENIT poi, il nome del presunto pittore che la dipinse. Risposta a op.cit., p. 142. Pier Francesco Mola, ....... 2) 1772, G. BENEDETTI, Memorie ed altri scritti, ms. rifatto per la seconda volta. (Arch. S. Martino). “Qualcuno ha ritenuto recentemente contro ogni elemento di credibilità, che una tela, da lui detta “Madonna di Cibona”, una Madonna col Bambino, che si conserva presso la curia vescovile di Tarquinia, sarebbe opera dello stesso artista 1) ” L. Balduini, Monaldo Trofi civis cornetanus, Tarquinia, 1985, p. 228, fig. 101. ------------------------------------Dal raffronto che ho fatto tra alcune vecchie incisioni ed il quadro esposto nella Curia Vescovile di Tarquinia, si può affermare che la Madonna col Bambino in detto raffigurata, è l’effigie venerata come Madonna di Cibona. Per quanto concerne poi l’attribuzione del dipinto, che nella mia didascalia assegno con dubbio al Mola, (dubbio che il Tiziani ignora nel suo scritto) ecco quanto è riportato ne Gli eremi dei Servi di Maria nel Lazio in Studi Storici OSM, XXIX (1979) p. 375; cfr. Arch. Gener. OSM., Provinciae et Conventus, serie II., Giornale e ricordi (di Cibona), f. 11v.: (1647) A di 11 maggio venne a visitare la SS. Vergine l’em.mo sig. card. Palotto, e condusse l’Architetto sig. Domenico Castelli et il sig. Pietro Francesco Mola pittore, acciò ritraesse la nostra SS.ma Vergine giusto come stà, per averne la copia in ogni caso che patisse nel levarla dal suo luogo e trasferirla alla nuova chiesa, per essere la muraglia molto male in ordine. Sembra, secondo esperti dell’Ordine dei Servi di Maria, che molti arredi delle chiese di Tolfa ed Allumiere, vennero trasferiti nel Monastero degli Agostiniani Eremitani O.S.A. di Corneto. La seicentesca tela della Madonna di Cibona della Curia Vescovile, che il Tiziani definisce “copia ottocentesca, o addirittura del primo novecento” 2) , porta segini evidenti di una rintelatura, oltre la sostituzione del vecchio telaio con altro di tipo rigido ed un piccolo intervento nella parte pittorica 3) . Pertanto, la vecchia tela, che è ben visibile sul retro del quadro della Curia, avvalora maggiormente l’ipotesi che il Mola possa averla dipinta dopo la sua visita a Cibona nel 1647, quando, in compagnia del Cardinal Palotto e dell’Architetto Castelli, visionò l’affresco nell’edicola, dove ancora si vedeva raffigurata l’immagine della Madonna di Cibona. Il Mola (sempre che sia lui l’autore del dipinto), non fece altro che riprodurre nella tela quell’affresco, che altro artista del XVI secolo su incarico di Agostino Chigi aveva 1) Op. cit., Bollettino 1986 (1987), p. 142. Ibidem. 3) Questo lavoro di restauro potrebbe essere stato fatto alla tela nel 1928, sotto il vescovato di mons. Emilio Maria Cottafavi, quando questi, in occasione del restauro generale che fece fare al Palazzo vescovile, s’interessò anche di far restaurare alcune tele “di buona fattura” di pertinenza dell’Episcopio (Archivio della Curia Vescovile di Tarquinia). 2) dipinto nell’edicola nei pressi di Cibona. Ciò può spiegare come non si avvertano evidenti riscontri con la S. Brigida del convento di S. Francesco, anche se, a parer mio, nella Madonna della Curia si nota, qualcosa che, pur vagamente, ricorda quel dipinto. Risposta a op.cit., p. 143-45. l’Angelo Custode, ........ “Il dipinto sconosciuto alla critica è stato recentemente dato ad Anonimo del Settecento 1) ....”. -----------------------------------Sono chiamato in causa da quella nota (1) che si riferisce alla mia pubblicazione la Resurrezione di Tarquinia pp. 171-172 (note 7-9). La Resurrezione di Tarquinia, come il titolo chiaramente attesta, non ha certo per oggetto l’analisi critica o scientifica di opere pittoriche e la mia nota voleva solo dimostrare, con qualche notizia storica, quali arredi possedessero in un dato periodo storico la Chiesa e il convento dell’Addolorata. Poco male quindi se la datazione del quadro dell’Angelo Custode è abbondante per qualche decina di anni; anche perché il lettore attento poteva trarre dalle mie note tutti gli elementi per una più precisa datazione. In effetti per la datazione sarebbe sufficiente la citazione della provenienza del quadro dalla chiesa dell’Angelo Custode, chiesa che nella metà del secolo XVII era in piena efficienza e forse con il quadro già sull’altare 2) . Risposta a op.cit., pp. 147-48. Giovan Francesco Romanelli..., “S. Sebastiano”,.... “Questa tela era assolutamente inedita fino al settembre 1985, quando chi scrive ne diede notizia su un giornale locale con queste stesse indicazioni critiche... Nello stesso mese il Balduini diede anch’esso notizia dell’opera... seppure senza valutazioni critiche o stilistiche, nel dubbio poi che la sua assegnazione al Romanelli fosse inesatta poco oltre la dà come dubitativa, ma sempre in modo apodittico”. ----------------------------------1) L. Balduini, La Resurrezione di Tarquinia, Tarquinia 1983, p. 172, nota 9. Secondo le “Memorie di Corneto”, nella chiesa del Santo Angelo Custode, già dei Padri Serviti, Il quadro dell’unico altare dedicato al S. Angelo Custode, si osserva, ora, nella chiesa dell’Addolorata, appartenente alli stessi Religiosi (9). (9) Memorie di Corneto, Archivio Famiglia Falzacappa, tomo XXXI, S. Angelo Custode. 2) Memorie di Corneto cit. E’ singolare che il Tiziani parli d’inedito a proposito di quest’opera: molti ne parlarono indicandone l’Autore nel Romanelli e nel 1726 il quadro era già a lui attribuito 1) ; poco vanto per me per averlo quindi individuato in epoca recente e citato in articoli e scritti nel 1983, 1984 e successivamente nel giugno del 1985 2) . Quanto poi alla assegnazione dubitativa (in concreto un punto interrogativo nella didascalia del quadro sulla mia pubblicazione Il Pittore Monaldo...) essa fu suggerita da considerazioni su di uno scritto (noto al Tiziani perché lo cita) nel quale si afferma che sopra l’altare dedicato al Santo nella Cattedrale di Corneto era posta una statua di S. Sebastiano, opera del Romanelli. Ho forse sbagliato a esprimere un dubbio? Direi di no: resto dell’idea che è preferibile l’umiltà del dubbio a una certezza mal sicura. Non mi sembra proprio che il mio sia un modo apodittico di procedere, ma anzi un modo attento secondo il quale le certezze vanno dimostrate e i dubbi quando ci sono, espressi senza timore e reticenze. Risposta a op.cit., p. 151. Giovan Francesco Romanelli, “S. Lucia” databile al secondo decennio del sec. XVII... Ecco quanto il Tiziani scrive a proposito della tela di S. Lucia. La figura della Santa “abbigliata all’antica, risente dei modi di Guido Reni, tanto che localmente se ne sostenne l’appartenenza alla scuola dell’artista bolognese...”. “Questa attribuzione fu originata dalla perizia di restauro del 1975”. Ed io” senza dichiarare le fonti” nei miei scritti, mi sarei attenuto a quella indicazione. ------------------------------------Scuola Bolognese del XVII secolo e probabile scuola reniana è la definizione che ho dato al quadro di S. Lucia, nel mio scritto e in una didascalia. Per poter dare questa attribuzione, mi sono servito dei rapporti che a suo tempo furono redatti dai vari ispettori della Soprintendenza, restauratori, storici, luminari della 1) Visita fatta alla Cattedrale di Corneto dal vescovo Pompilio Bonaventura nel 1726 (altare di S. Sebastiano). ...L’Altare è di stucco bianco con l’immagine di detto santo pittura del Romanelli. (Arch. Curia Vesc. di Tarquinia); cfr. Valesio (Falgari) Memorie Istoriche della Città di Corneto, Chiesa di S. Maria e Margherita, pp. 272-277; P. Falzacappa, Memoria Istorica della Città di Corneto (1844?), pp. 48-49 (Arch. Falzacappa) (S.T.A.S.). Visita fatta alla Cattedrale di Tarquinia dal Vescovo Luigi Drago nel 1934. Vi è poi un quadro rappresentante S. Sebastiano M. opera dello stesso autore il quale dipinse in Viterbo nella Cattedrale S. Lorenzo M. (Arch. della Cattedrale). materia storico artistica delle provincie di Roma e Viterbo e di altri scritti trovati nelle Cronache del Monastero di S. Lucia, oltre a Pieghevoli, Inventari e Guide Turistiche. Principalmente però, la mia attribuzione si è basata sui convincenti raffronti fatti con l’opera Guido Reni (Rizzoli Milano 1971), consultando le illustrazioni alle pagine 55, 102 e seguenti; raffronti che già in precedenza, alla pagina 220, avenvo puntualmente citati nel mio libro Il Pittore Monaldo... Tuttavia, dobbiamo solo notare che se, come asserisce il prof. Tiziani, l’opera è del Romanelli 1) ed è databile al secondo decennio del secolo XVII 2) , l’autore l’avrebbe dipinta alla tenera età di circa dieci anni. E’ vero tuttavia, che successivamente lo stesso annota un’altra datazione, che, a parer mio, è da ritenersi per logica più valida della prima. Risposta a op.cit., p. 165-66. Angelo Campanella...., La vergine col bambino e i santi Caterina d’Antiochia e S. Secondiano (II Sacro Cuore), 1796, .... “La raffigurazione della città di Corneto, sul fondo, per la quale intercede il santo protettore è una immagine completamente d’invenzione, non vi si rileva infatti alcun pur minimo riferimento ad aspetti reali o topografici della città. Non si capisce quindi come faccia il Balduini a supporre che il Campanella (che eseguì certamente la tela nel suo laboratorio romano) abbia potuto riprodurre “la città... prima che il vescovo Bartolomeo Vitelleschi voltasse l’entrata della cattedrale a mezzogiorno”(4), modifica apportata nel sec. XV, né il motivo di tale interesse “filologico”, sicuramente estraneo al pittore romano”. (4) L. Balduini, “Monaldo Trofi civis cornetanus”, Tarquinia 1985, fig. 2, p. 5. -----------------------------La città che si vede nel centro del dipinto (ignorata in precedente scritto dal Tiziani) 1) , sulla base della documentazione ritrovata, è quella di Corneto. Ciò si può dedurre da quanto segue. Dalla Cronotassi dei Vescovi della Città di Corneto, di G.M. Aldanesi, pp. 35-36, Viterbo 1868, sappiamo che il dipinto raffigurante il nostro Protettore S. Secondiano, e S. 2) L. Balduini, Due opere di Giacinto Brandi tornano nella cattedrale, in Pro Tarquinia, n.°11, ottobre 1983, p.3.; cfr. L. Balduini, La Cattedrale, in “Nel segno della speranza”, Civitavecchia febbraio 1984, pp. 4-5; L. Balduini, op.cit., Tarquinia giugno 1985, pp. 70-192, nota 61, tav. XIII. 1) Romanelli Giovanni Francesco (Viterbo 1610 ca. - 1662). 2) Op. cit., p. 151 1) G. Tiziani, Un dipinto del Mola e due minori “barocchi” inediti, in “Pro Tarquinia” n. 7, luglio 1985, p.3. Margherita V.M. Titolare di questa Chiesa di Corneto, fu commissionato dall’allora Vescovo di Corneto Card. Sifredo Maury, per essere esposto sull’Altare Maggiore nell’Abside della nostra Cattedrale. Le molte torri che sono raffigurate nel particolare del quadro (e delle quali una è molto simile per forma e per posizione a quella che oggi è detta di Barucci) suggeriscono in modo evidente l’immagine di Corneto mentre in una cupola rotonda assai bella e nobile della città rappresentata potrebbe individuarsi quella della chiesa di S. Martino Giaculatore che, stando al Falzacappa, restava dietro alla Cattedrale (Chiese, tomo 38, Arch. Falzacappa; cfr. M. Polidori, Croniche, p.110; Valesio (Falgari), Memorie, p. 274). La Visita Pastorale fatta alla Cattedrale di Corneto nel 1856 da mons. Camillo dei Marchesi Bisleti (Arch. della Curia Vescovile di Tarquinia) è così descritta: .... L’Altare maggiore dedicato, come risulta dalla lapide surriferita, all’Assunzione e Visitazione di M.V., e a S. Lituardo conf. Il quadro di questo Altare rappresenta la SS. Vergine col Bambino Gesù: a destra di esso si vede in figura più che al naturale il Protettore S. Secondiano Martire in atto d’implorare grazie e benedizioni sulla Città di Corneto, che pure si vede delineata nel quadro: a sinistra S. Margherita V.M. Titolare di questa Chiesa. L’obbligo della manutenzione di questo Altare spetta al Rmo Capitolo, essendone il patrono. Il Campanella, nella tela, commissionatagli dal vescovo di Corneto, quale altra città se non Corneto medesima poteva raffigurare tra S. Secondiano M. Protettore della Città e S. Margherita V.M., Titolare della Chiesa Cattedrale, chiesa peraltro ben individuabile nel dipinto sopramenzionato? Bene ha fatto il pittore, che, forse, immaginando o riprendendo da vecchie incisioni la Città, l’ha riportata, nella tela, giustamente, nell’aspetto che aveva prima della ristrutturazione che la chiesa Cattedrale subì nel XV secolo. In quell’epoca, infatti, cominciò ad accentuarsi il culto verso questa Santa (Margherita), anche nella Cattedrale di Corneto..., quando ancora la denominazione della chiesa era quella di S. Maria e Margherita (P.A. Daga, Il Temporale, anno 1971). Attualmente la stessa Santa è mostrata anche in un’altra tela, sopra un altare della chiesa Cattedrale, bella opera del pittore cornetano Luigi Boccanera, che la eseguì in Roma nel 1879 c. (Reg. Cap. 1879, p. 62, Arch. della Cattedrale). Ma, l’impegno critico del Tiziani non si limita a questo, bensì è largamente superato dall’evidente intenzione di attribuirmi un ennesimo e più grossolano errore di valutazione, cioè quello di farmi supporre “che il Campanella abbia potuto riprodurre la città.... prima che il vescovo Bartolomeo Vitelleschi voltasse l’entrata della cattedrale a mezzogiorno”. E’ bene precisare che nel mio scritto 2) non ho mai asserito, come è ovvio, che il Campanella abbia “riprodotto” la città bensì che possa averla “immaginata” come era prima della modifica apportata alla nostra Cattedrale nel XV secolo. Perché il Tiziani trasforma il mio la città forse è immaginata in “abbia potuto riprodurre la città”, alterando in modo evidente il senso delle mie parole? Per concludere, dirò che in questa tela (anni fa nei parlai in uno scritto) 3) , la Santa che è raffigurata nel quadro del Campanella, è denominata dal Tiziani (sia in uno scritto del 1985 che nel citato Bollettino), S. Caterina d’Antiochia o. S. Caterina. Stando alla ampia documentazione qui presentata, mi sembra giusto che la denominazione da attribuire a detta Santa sia quella di S. Margherita V.M. Titolare della Chiesa Cattedrale di Corneto 4) . Inoltre il titolo della mia opera Il Pittore Monaldo civis cornetanus, del quale il Prof. Tiziani si è servito per farmi i vari rilievi, è stato, il più delle volte, citato erroneamente. Risposta a op.cit., pp. 171-73. Scuola di Vincenzo Camuccini, Compianto sul corpo di Cristo,.... “Questa tela, sconosciuta dalla critica, è stata divulgata recentemente ma priva di ogni definizione stilistica, cronologica, nè è stato definito l’ambito culturale (3) (3) L. Balduini, op.cit. Tarquinia 1985, p. 217, fig. 98. ----------------------------------Il mio scopo non era quello di illustrare la tela con “definizione stilistica, cronologica”, anche se nella didascalia ne riporto l’ubicazione, l’altare dove era posta e fino a quando vi restò 1) . Il mio scopo era quello di dimostrare che la tela del Deposto fu la seconda Deposizione, in ordine di tempo, che ebbe la chiesa di S. Lucia, dopo quella di Monaldo e prima di quella fatta dal Pittore romano Pietro Gagliardi 2) . 2) L. Balduini, Il Pittore Monaldo civis cornetanus, Tarquinia, 1985, p.5 fig.2. 2. Angelo Campanella: particolare del quadro raffigurante Madonna con Bambino e i Santi Secondiano e Margherita e la Città di Corneto (1796). Tarquinia, Duomo. La città, forse, è immaginata dal pittore prima che il Vescovo Bartolomeo Vitelleschi voltasse l’entrata della Cattedrale a mezzogiorno. 3) L. Balduini, Due opere di Giacinto Brandi tornano nella Cattedrale in “Pro Tarquinia 1983”, n°11, p.3. 4) Enciclopedia Cattolica, vol. VIII, p. 66, Santa Margherita, Città del Vaticano, Sansoni Ed. Firenze; cfr. Martirologio Romano, p. 189, Città del Vaticano 1931. 1) L. Balduini, op.cit., Tarquinia 1985, p. 217, fig.98. Anonimo: Gesù deposto in grembo alla Madre con i Santi Maria Maddalena e Giovanni Evangelista. Tarquinia, Monastero delle Monache Benedettina. Fino al 1880 nella chiesa di S. Lucia (altare della Maddalena). Lorenzo Balduini DETTI E GIOCHI DEL PASSATO SUI RITMI DELLA CANZONE POPOLARE Il dialetto, secondo un mio modo di immaginare, non è che una forma idiomatica di liberazione dal linguaggio comune od aulico: o meglio una forma poetica, scaturita dalla fantasia, con cui l’uomo ha cercato d’inventare un proprio modo di esprimersi secondo motivi ed occasioni rintracciabili nella tradizione dei costumi, nella musicalità dell’eloquio, nei suoni che spesso vengono alla memoria per imitazione della natura. Per cui, considerando che gli uomini più prossimi di noi alla primitività della vita sociale non facevano che aggrupparsi per fenomeni di simpatia, di richiamo fisiologico, di scelta libera da ogni pressione o minaccia, poteva di conseguenza accadere che due esseri umani, pur di convivere, abbandonavano i propri nuclei, stando anche a quel che si legge sul più antico libro del mondo, la Bibbia, che annuncia questa realtà: “l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due saranno una sola carne”, che sarà stato pure un modo per sfuggire all’incesto. E si potrebbe pure aggiungere, una sola casa, un solo linguaggio, un unico modo d’intendersi. Per quanto sia affascinante la ricerca delle origini semantiche (il che mi devierebbe dalla materia che mi sono proposto di trattare) pur tuttavia mi limiterò a considerare la tradizioni popolari, abbinate al nostro dialetto, relativamente alle abitudini dei nostri progenitori; tradizioni che hanno radici assai lontane e che sono da rintracciare nelle ricorrenze delle festività religiose e civili, nelle invenzioni ludiche proprie dell’infanzia, nei modi espressivi degli adulti per ironizzare intorno ai vari avvenimenti e ai vari personaggi di ogni epoca. Siccome la nostra civiltà ha origini contadine, atteso che il nostro territorio, riscattato e dedito all’agricoltura e alla pastorizia, abbraccia vastità considerevoli di superficie, comincerò a trascrivere quelle forme poetiche, o meglio rimate, dei fatti rimasti più impressi nella memoria per una trasmissione orale delle nostre tradizioni. Infatti sui ritmi di queste ricorrenze, i nostri progenitori eseguivano tutto quanto era indispensabile 2) Cfr. L. Balduini, op.cit., 1985, p. 215. alla sopravvivenza della vita fisica perché, come si diceva una volta, nella “màttera” 1) non mancasse mai il pane che era derivato della loro fatica agricola. Questa forma indigena della madia, non è che sia troppo campata in aria se si considera che da “màttera” deriva matterello e che questa parola si trova anche in parecchi cognomi sparsi qua e là per l’Italia. Facendo riferimento all’agricoltura possiamo vedere come siano a volte uniti simbioticamente il periodo stagionale e il frutto che la natura stimola a mantenere: A Settembre l’uva è fatta e il fico pende Per san Martino ogni mosto è diventato vino Per san Clemente leva ‘l bovo da le semente Se piove per santa Bibbiana piove quaranta giorni e ‘na settimana Santa Lucia la giornata più corta che ce sia Chi non fa la novena de Natale fa la morte come ‘n cane Pe l’Innocentini so’ finite le feste e li quatrini Pasqua Epifania tutte le feste se le porta via, ma risponne sant’Antogno: “piano piano chè c’è la mia”. Febbraro, febbraretto corto e maledetto Pe’ la Candelora da l’inverno semo fora ma se piove o tira vento dell’inverno semo drento Marzo pazzerello esce il sole, pija l’ombrello. San Giuseppe vecchierello mette l’foco nel mantello pe’ scaldà, nostro Signore, allenta l’acqua ed esce ‘l sole. San Giuseppe frittellaro San Giovanni lumacaro. Aprile ogni goccia, ‘n barile. Quattro aprilanti trenta dì duranti Bono maggio quann’è fresco. Maggio ortolano tanta pajja e poco grano. 1) Madia. Da matterello che prende origine dalla parola greca MAKTRON che era il luogo dove si intrideva la farina col lievito e s’impastava il pane. Nella madia infatti s’impasta il pane e sul coperchio la lasagna mediante il matterello. Ecco perciò l’affinità linguistica di mattera e matterello. Giugno la farcia in pugno. Pe’ san Giovanne verde o secco tajjame le gamme. Se piove pe’l’Ascensione ogni spiga perde ‘n cantone. San Pitocco cornetano col bicchiere ne la mano co’ li fiaschi su la testa San Pitocco è ‘na gran festa. Riguardo a San Pitocco, c’è da dire che questa festività era nata in contrapposizione alle feste religiose, dato che a Corneto, per essere parte del patrimonio di San Pietro perciò della Chiesa - si rafforzava per tradizione un forte spirito anticlericale. La manifestazione popolare si teneva nella piazza Soderini tutta agghindata con bandierine di carta colorata e con molte zucche “lardare” 2) svuotate dei semi, traforate con lineamenti paurosi, all’interno delle quali si accendevano dei mozziconi di candele perché, nell’oscurità della notte, spaventassero i bambini. Al centro della piazzetta, veniva collocato il busto di legno di san Pitocco, con un bicchiere colmo di vino in mano e per aureola tanti fiaschetti di vino, per simboleggiare una ricorrenza pagana e godereccia. E le sbornie non si contavano. Poi c’erano le filastrocche sul mese di dicembre, mese che costringeva la famiglia a stare attorno al fuoco del camino, a raccontare storie e favole, a recitare poesie popolari che facevano riferimento alle ricorrenze dei Santi del calendario. Il 2 è santa Bibbiana il 4 è santa Barbara beata il 6 san Nicolò che va per via l’8 la Concezione de la Vergine Maria il 12 ci convien di digiunare che il 13 abbiam Santa Lucia il 21 san Tomasso canta il 24 la nascita santa il 21 san Tomasso strilla il 25 s’ammazza la billa. 3) Poi ci sono le invocazioni ai santi, specie nei momenti del pericolo o della paura: santa Barbara e santa Elisabetta liberatece dal tono e da la saetta. A Natale c’era la tradizione del cenone, della letterina ai genitori, del presepio e della recita dei sermoni. E’ Natale l’acquavite mi fa male ma ‘n pezzetto de torrone ecco detto ‘l mio sermone. Bone feste e bon Natale dateme la mancia se ve pare io non vojjo nè oro nè argento d’un piccolo soldino me contento. Poi c’erano le promesse per l’anno nuovo che dicevano: A voi cari mi presento 2) Zucca lardara è la zucca gialla che viene usata per far minestroni. Essendo spessa, prende il nome di “lardara” dal latino “lardarius” che viene riferito a cose che hanno nel colore e nella forma affinità con il lardo. 3) Tacchino. Forse una derivazione da dindia. vojjo favve ‘n complimento vojjo davve ‘l core mio questo è’l voto che fo a Dio. L’anno novo, o genitori porti a voi li più belli fiori porti gioia, pace e amor ogni bene del Signor. Io vi amo tanto tanto vi prometto dal mi’canto d’esse bono ed obbediente e d’ammavve eternamente. Con il Carnevale, a parte gli scherzi e le mascherate sia in pubblico che in privato, c’era l’usanza di burlarsi anche di un tipo di mortorio, quello del Carnevale che se ne stava andando. Quattro giovani mascherati si mettevano sulle spalle una cassa da morto, preceduti da altri che agitavano lunghe lenze a cui erano appese delle aringhe, per sbatterle in faccia alla gente che si accalcava per vedere e sentire questa lamentazione: Carnevale è morto annàmelo a sotterrà. Accennete li moccoletti Carnevale se ne va. Si nun è morto bene che lo possin’ammazzà. A mezza quaresima c’era il carro della Vecchia Mora. Si trattava di un fantoccio di paglia, rivestito da donna e con la faccia tinta di nero. Probabile raffigurazione di qualche vecchia megera oppure un lontano ricordo di quando i Saraceni, sbarcati a Civitavecchia, razziarono su tutto il nostro territorio. Il carro usciva dal cortile della Commenda, in piazza San Giovanni, poi proseguiva lungo il Corso. A metà tragitto, s’inseriva nel corteo una carrozza su cui era salito un tipo di cerusico in palandrana e tuba, con in mano il clistere usato per curare le bestie da traino. Con questo arnese, fingeva di curare la Vecchia Mora. All’altezza del crocicchio dell’Alberata Dante Alighieri, di via di Porta Tarquinia di piazza del Comune e della salita dell’Orfanotrofio, il carro si fermava e si dava fuoco alla Vecchia Mora, mentre la gente e i ragazzi, attorno al rogo, ballavano, gridavano e si divertivano. In tutt’altra atmosfera, con l’approssimarsi della Pasqua, si celebravano le pubbliche lamentazioni su questi ritmi: Piagnemo da piccolini piagnemo da granni ch’è morto nostro Signore a trentatrè anni. Fu battuto da verghe nere il sangue lo spargeva da le vene. La su’Madre lo stava a vedere. “Madre mia che ne sarà di me?” Andateme a chiamare le bone cristiane che queste piaghe vengano a vedere.” Chi per tre volte al giorno dirà questa nel cielo sarà scritto pe’na messa; e chi la dice e chi la potrà ridire di mala morte non potrà morire. Un’altra preghiera, a guisa di filastrocca, si recitava per la Settimana Santa: Sia benedetto il nome del Signore che in questo mondo ci hafatto venire; ci apporta e ci ha portato tanto amore pe’ noi in croce ha voluto morire. Ci aricomprò col su’prezzioso sangue e se a gran prezzo disse e a gran valore fate, Signore, che nun ve sia ingrata. Sempre pensando e la vostra passione col core e co’la mente in cor levate gran forza ch’avrà questa orazzione. Dillo ‘na volta al giorno e dillo sempre che lo possa imparà tutta la gente. Chi tre volte il venerdì Santo lo dirrà chieda una grazzia a Dio che gliela dà. Chi per tre volte il venerdì Santo l’avrà ditto in Paradiso se troverà scritto: scamperà da le pene de l’inferno annerà ‘n paradiso per l’eterno. Infine, fra le tante preghiere e invocazioni, si recitava pure: Sia benedetto chi l’ha fatto ‘l mondo e chi l’ha fatto, l’ha saputo fare. Ha fatto il mare e non ha fatto il fondo ha fatto la barca per poterci andare. Ha fatto la barca, ha fatto il bastimento ha fatto l’omo per andarci dentro ha fatto la barca, ha fatto il barcaiolo ha fatto la donna che consuma l’omo. Poi c’erano le canzoni che la gente cantava per far rabbia ai vicini o per comunicare agli altri i propri amori e le proprie passioni; venivano cantate da finestra a finestra, oppure urlate durante i lavori stagionali nelle campagne. Una delle più famose, cantata nelle ore canicolari, e sonnolenti delle giornate estive, rispondeva a queste parole: E lo mio damo fa lo massaro la mazzarella jè diventi d’oro d’oro e d’argento la spiga del grano. Oppure: E lo mi’amore se chiama Luiggi quanno monta a cavallo pe’ li poggi me pare ‘n figurino de Pariggi. O meglio ancora: E lo mi’amore se chiama, se chiama...., nun ve lo posso dì che me se logra; e lo mi’amore se chiama Nicola. Oppure: E lo mi’amore se chiama Donato, me l’ha donato ‘l core a poco a poco po’va dicenno che jè l’ho rubbato. Per la Fiera di Maggio si correva lungo il Corso la “cajjera” 4) , una corsa di cavalli barberi, vale a dire senza fantino, che venivano sospinti fra due ali di popolo che li aizzava a galoppare, fazionando fra urla e scudisciate, come in una sagra rusticana, memore del detto locale “Omo a cavallo / sepoltura aperta”. Un tipo di corsa che ancora si usa a Ronciglione l’ultimo giorno di Carnevale. Per la quale “cajjera” Angelo Falzacappa, nobile cornetano, aveva composto questo sonetto: Bella fregna a vedella chi ce stava: un fantino a levante, uno a ponente; uno a fà sarti e l’antro che sterzava a fa la scarda 5) , p’acciaccà la gente. Diputato e bannista 6) biasimava: “Dajje! Currite! Sì, manco pe’gnente. Hae vojja! Manco Cristo ce la fava 7) a fa curra, je pijji n’accidente! E un prubbico fottuto ha da sta lline 8) a guardà pe’du’ore la cajjera quel sine e none 9) ; a fa le burattine! 4) Cajjera, corsa veloce di cavalli barberi senza fantino, a gran carriera, che si faceva in passato lungo il corso della città. 5) Scarto, ossia deviazione brusca di un cavallo sulla linea di partenza, come intralcio al regolare avvio di una gara o di un qualsiasi altro gioco. 6) Banditore. 7) Sta per faceva, in forma contratta, per esigenza di rima. 8) Sta per avverbio di luogo, “lì”. 9) Sta per sì e no; avverbi di affermazione e negazione. Per me, so annato a beve da Moscone! Se la pijjino in culo le fantine er Municipio e la Diputazzione! Questo sonetto dev’essere nato su di un motivo popolare a mo’di stornello che diceva: Me sa mill’anne che viene la Fiera pe’metteme da capo a la fontana pe’vede chi la vince la cajjera. Ma le cantate più lunghe erano quelle dei bambini e dei ragazzi che drammatizzavano all’interno dei cortili e dei giardini pubblici antichissimi motivi che erano di pretesto per stare insieme e passare ore e ore a saltare e a cantare per quel bisogno lucido che oggi, purtroppo, non esiste più; o meglio esiste, ma in forma collettiva o di massa, come il foot-ball ed altro. Già si diceva, per eliminare equivoci e malintesi: A chi dà e chi leva il Signore manda in galera, per cui si cominciava, fin dai più piccoli, a trascorrere il tempo in modi diversi, a seconda del numero dei partecipanti. Se il numero era ristretto a due, allora ci si metteva uno a fianco dell’altro, con le braccia incrociate, facendo avanti e indietro, cantilenando Mamma ch’orè latte e caffé pizza, ricotta Oreste, bum! Se il gioco doveva servire a tranquilizzare uno o più piccolo, l’altro più grande metteva il primo sulle ginocchia e presolo per le mani, lo faceva dondolare dicendo: Seta, setòla al babbo la braciola a la mamma la polpetta e a fijja la merda secca! Oppure: Seta, setòla il bimbo va a la scola se porta il canestrino con la pappa e col cacino la maestra je fa la festa e lo butta da la finestra. Oppure: Dindolò de la catena dijje al babbo che venga a cena e si nun ce vò venì pijjalo pel naso e portalo qui. Se poi qualcuno piangeva troppo spesso, gli si diceva per burla: Piagnè, piagne moccolò che la mamma te fa li gnocchi cor sapò piagne, piagne moccolò. Se poi c’era da far muovere i primi passi a un infante, si ritmava l’incedere con questa cantilena: “Annamo, annamo a spasso a l’orto de San Tomasso a cogliere l’ortica che il Signore ce benedica!” Poi c’erano i giochi di gruppo a girotondo, che diceva: Giro giro tondo il pane nel forno il vino nel boccale dà da beve al cardinale il cardinale nun lo vò dà da beve a Nicolò Nicolò lo butta via gnau gnau frusta via. Oppure: Gira gira tata la mamma s’è ‘nguattata ha fatto buco buco le scarpe de velluto le calzette a la romana butta giù la cappellana. E al termine dell’ultimo verso, tutti si accovacciavano in terra, per poi ricominciare. Se a giocare si era in pochi e in luogo chiuso per le avversità stagionali, un bambino veniva piegato sulle ginocchia di un altro che gli serrava le mani sugli occhi. A turno poi si bussava sulle di lui spalle con questo dire: “Tu tu la bussoletta quante corna ha la capretta?” E si faceva un numero con le dita della mano. Se il numero non veniva indovinato, si diceva allora: “Se tu dicevi quattro (ad esempio) la cavalla la vincevi tu tu tu quante corna stan quassù?”. Se il numero veniva indovinato, si provvedeva allora alla sostituzione. Non si deve dimenticare poi una filastrocca che ha origini assai lontane, ma che ha subito, di paese in paese, di regione in regione, parecchie modificazioni. Diceva: O Maria Giulia donde sei venuta alza gli occhi al cielo fai la penitenza fai la riverenza ora in su, ora in giù da’ un bacino a chi vuoi tu. Un’altra ballata da cantare in circolo, diceva: Ballate, ballate vergini che l’angelo vi sona se Nina s’arivoltasse e l’angelo la chiamasse piena di rose, piena di fiori bella donzella rivoltete un’pò oh, oh! Poi c’erano i giuochi a squadre, una da un lato, l’altra dal lato opposto, in numero diverso, ma sempre una più grande e una molto più piccola, fino a quando s’invertiva il numero. 1° gruppo: Ohi bel castello marondino, ndino ndino ohi bel castello marondino, ndino ndà. 2° gruppo: Il nostro è più bello marondino, ndino ndino il nostro è più bello marondino, ndino ndà. 1° gruppo: Noi ci abbiamo una pietra marondino, ndino ndino noi ci abbiamo una pietra marondino, ndino ndà. 2° gruppo: Quale sarà, ‘sta pietra marondino, ndino ndino quale sarà, ‘sta pietra marondino, ndino ndà. 1°gruppo: la più bella della città che Teresa venga qua. Così che la bambina invocata, lasciava il suo gruppo per unirsi all’altro. Un altro gioco a squadre veniva eseguito da un gruppo numeroso da un lato, e di due isolati; uno dei quali rappresentava un angelo, dal lato opposto, l’altro al centro che rappresentava il demonio con una palla in mano da gettare contro un bambino per colpirlo. Il primo bambino diceva: Angelo, mio bell’angelo perché non vièn da me? Uno del gruppo, rispondeva: C’è il diavolo che mi tenta. L’angelo ripeteva: Alza l’ali e vien da me. Il bambino si staccava cercando di cambiare campo senza essere colpito dalla palla. Se passava indenne, non subiva nè scorno nè penitenza. Coloro che invece venivano colpiti, andavano ad aumentare il gruppo del demonio. Quando il giuoco finiva, tutti i bambini indenni si rivolgevano verso gli altri, facendo le corna e gridando a mo’ di scorno: Tappo di cacatore! Tappo di cacatore!! Se il giuoco richiedeva parecchi ragazzi, allora si esigeva un minimo di organizzazione e un principio di drammatizzazione. Si faceva un gran cerchio che girava in un senso, mentre un ragazzo isolato, girando in senso contrario, diceva: La mi’nonna è ‘na pollaiola quanti polli ha al suo pollaio! Quelli del cerchio più grande rispondevano: Io ce n’ho quante mi pare me le tengo ricche e buone. L’altro di rimando: Dammene una, dammene due che non vada sola che non vada sola. Il gruppo: Piglia piglia quale ti pare la più bella lasciala stare. L’altro: Lapiù bella la prenderemo la più brutta la lasceremo. Girerò, girerò la più bella mi caperò la più bella che ce sia ma la vojjo portà via. Ho girato, ho girato la più bella mi son capato la più bella che c’è stata me la so’portata a casa. E il bambino, toccato sul dorso, usciva dal girotondo: e così si seguitava assottigliando il cerchio, mentre se ne formava un altro all’esterno. Un altro giuoco collettivo veniva eseguito su questa filastrocca: Ecco il gioco dell’ajetto ecco il gioco de la rosa entri pure signora sposa non si faccia più pregà. A rifallo lo giro giro (bis) e qui la bambina entrava nel mezzo del cerchio, mentre le altre cantavano ancora: Quando passa il capitano dajje la mano (bis) quando passa il colonnello dajje l’anello (bis) quando passa il muratore facce l’amore (bis). Nei momenti di stasi, tutti si mettevano a sedere su di un muricciolo: uno allora si metteva a cantare, toccando via via, mediante un piccolo bastone, i piedi di ognuno. Il giuoco si manifestava in due modi: La scatola del mare su bellino va’ a giocare va’ a giocare co’la fijja del re fa uno, fa due, fa tre, tira su’l piede che tocca a te. Oppure Piso, pisello colore così bello saltamartino 10) la bella molinara che sta su la scala la scala e ‘l piccione la penna del pavone uno, due e tre tirà su’l piede che tocca a te. A volte, nella scelta di chi dovesse avere un ruolo più importante nel giuoco, ci si metteva qualcosa nel pugno di una mano e si cantava: Pero e melo dimme ‘l vero dimme la santa verità dove sta o qui o qua? E qui si compitava: La merda del zi’frate cappuccino che magnava le pere cotte je sapevono d’acetino povero zi’frate cappuccino! Se il tempo fuori era proibitivo, allora ci si organizzava all’interno dei portoni o lungo i corridoi delle scale e si giocava cantando: Oggi è festa 10) Saltamartino sta per cavalletta, detta anche saltapicchio. la pupa sta in finestra l’orso ballava la scimmia cucinava. C’erano tre sorelle che facevano le frittelle: gliene chiesi una mi seppe tanto bona me ne dette un’altra mi cascò sotto la panca sotto la panca c’era il lupo il lupo era vecchio non sapeva rifà ‘l letto la gatta in camicia che scoppiava da le risa il topo sopra ‘l tetto che sonava il ciuffoletto la gallina su la via recitava l’ave Maria il gatto nel fossaccio che sonava ‘l campanaccio il cane giù al portone che menava col bastone. Poi veniva il giuoco del nascondino o del tingolo: uno si appoggiava ad un muro o a un albero con la faccia fra le mani per non vedere, mentre gli altri s’affrettavano a trovare un nascondiglio; e recitava cantinelando: Mia Nena, mia Nena ‘sto core sta ‘n catena ‘ncatena, ‘ncatenato ve sete ‘nguattato? 11) 11) E’ forma volgarizzata di “acquattare” cioè nascondere. Un’altra canzone che generalmente veniva fatta dalle femmine, prendeva spunto dalla romanza finale di Amina, nella “Sonnambula” di Vincenzo Bellini. Si diceva girando in cerchio: Quann’è tempo de le ciliege la villanella, la villanella, le andiamo a cogliere col canestrino dicendo è frutto del mio giardino. (poi ci si fermava e con le mani sui fianchi) Il mio busto mi sta giusto la mia sottana mi sta a campana (e qui si faceva un giro più forte per far sollevare la sottana) gli stivaletti mi stanno stretti (e ci si ripiegava su se stessi) e tutte insieme cantiam così: (e qui si mettevano in ginocchio come usavano le lavandaie in riva al fiume e strofinando le mani sulle ginocchia, dicevano) la bella lavanderina che lava li fazzoletti la scuffia co’ i merletti e poi ti pagherò. Non hai da dir di no (bis) facciamo quatro zompi (e qui si levavano per saltare come fa il canguro). e poi ti pagherò. Poi c’erano le nenie per far dormire i bambini piccoli e che invitavano al sonno. Dicevano: Fate la ninna, oh che mo’viene papà ve porta la bombò 12) fate la ninna, oh. Oppure: Fate la ninna fate la nanna questo è fijjo de la su’mamma. Oppure: Ninna oh, ninna oh, questo fijjo chi lo vò? Lo daremo a la Befana che lo tenga ‘na settimana: lo daremo al lupo nero che lo tenga ‘n mese intero: ninna oh, ninna oh, questo fijjo chi lo vò? Poi c’erano le tiritere relative al tempo. Quando pioveva troppo si diceva: Piove, pioviccica 13) la carta s’appiccica s’appiccica su pe’l muro sona ‘l tamburo! convinti che il suono del tamburo potesse allontanare la pioggia così come i grandi credevano che facendo suonare le campane a stormo si potesse allontanare la tempesta. 12) Sta per bon bon. E si recitava ancora: Piove e c’è’l sole vedi le vecchie che fanno l’amore; piove e c’è l’acqua tutte le vecchie fanno la cacca! Dopo le piogge, si andava per i prati a raccogliere le lumache. Prima che si cucinassero, si lasciavano qualche giorno in un sacco a “spurgare” ossia a svuotarsi degli escrementi. Siccome alcune si rinchiudevano nel guscio e non sortivano, allora ci si metteva a recitare questa cantilena, convinti che esse venissero fuori prima di gettarle nel pentolone dell’acqua bollente. E si diceva: Lumaca, lumaca tira fori le braca 14) le braca e le corna lumaca carogna. Con l’approssimarsi del Natale, si usava, come tuttora si usa, “acciaccare” le mandorle, le nocciòle e le noci con un martello cui faceva da contraccolpo un mattone che si teneva sulle ginocchia. E nel ritmo di quei colpi, nelle lunghe sere d’inverno, si usava canticchiare: Giovanne, Giovanne che batte le castagne le batte troppo forte che fa venì la morte, perché pestando troppo forte, il gheriglio delle noci o la polpa delle mandorle poteva frantumarsi. Era il periodo felice e atteso del Natale che portava il dolce del pampepato, dei biscottini e delle fette, impastate di farina, di pepe e di miele. Poi c’erano i giuochi della buona stagione che si drammatizzava all’aperto in grandi comitive. Veri e propri spettacoli al centro dei quali alcuni ragazzi, fra i più bravi, 13) Voce verbale di piovigginare. recitavano delle azioni allegre o drammatiche a seconda del momento; perché anche i giuochi avevano la loro “moda”, un loro tempo. Uno dei più rappresentati era il seguente: una bambina faceva la mestra, una la scolara e le altre la scolaresca. Si cantava: Maestra: Adalinda, viene o cara (tris) vieni a legger le vocal. Adalinda: Coro: A, e, i, o, u. Adalinda la vò la pappa (tris) e la pappa gli si darà Adalinda: Signora maestra mi canzonano (tris) io non voglio legger più. Maestra: Dimmi pure chi è stata (tris) che in ginocchio la metterò. Adalinda: Il primo banco mi ha canzonato, il secondo lo stesso, il terzo quasi quasi, il quarto così così. Maestra: Impertinenti le mie bambine (bis) in ginocchio per un’ora in ginocchio per du’ora in ginocchio per tre ora in ginocchio per tutto il dì. Coro: Signora maestra ci perdoni (tris) non lo faremo più. Maestra: Per questa volta vi perdono (tris) un’altra volta mai più. Allora tutte le bambine si mettevano una dietro l’altra in fila con la maestra in testa per cantare insieme e camminando e muovendo il braccio come lo stantuffo del treno, dicevano: Tutte allegre le mie bambine (bis) 14) Sta per barca in quanto la lumaca, chiusa nel guscio, sta come riservata nelle brache. anderemo a la stazione a vedere il treno passar che fa: ciuff, ciuff, ciuff, ciuff. Per le più grandi, c’era la storia della bella Fantina. I personaggi erano due: il cavaliere, un maschio, e Fantina, una femmina, con una grossa pietra in testa, a mo’di brocca, con cui fingeva di attingere acqua ad una fontana. La incontra il cavaliere che aveva, all’altezza della cintola, uno stecco o un piccolo bastone a guida di spadino. Iniziava il cavaliere che, non potendo disporre di un cavallo, teneva fra le cosce un manico di scopa o qualcosa di simile, dato che nel giuoco si usava galoppare con un bastone che, a volte, portava sul davanti la testa di un cavallo di cartapesta. Il tutto naturalmente si recitava in canto: Cavaliere: Dove vai, dove vai bella Fantina? (bis) Fantina: Vado a prender l’acqua per bere e cucinar (bis) Cavaliere: Mi daresti, mi daresti un bicchier d’acqua? (bis) Fantina: Non ho tazza nè chicca nè bicchier per dar da bere a lei, bel cavalier. Cavaliere: Mi attaccherò, mi attaccherò alla tua brocchella (bis) Fantina: Si attacchi pure signor cavaliere se si attacca mi fa un gran piacere. Cavaliere: (dopo aver bevuto) Fantina, mia Fantina devi venir con me, viene alla fontanina dove la mamma non c’è. Fantina: Se fossi un po' più grande l’amor con te farei, son troppo piccolina l’amor no n so cos’è. Cavaliere: Fantina, mia Fantina devi venir con me monta sul mio cavallo ti condurrò al castel. Fantina: (facendo finta di salire, è impacciata dal suo busto) Accidenti a ‘sto bustaccio non mi si vuol slacciar prestami il tuo spadino che mi si slaccerà. (avuto lo spadino, Fantina si trafigge il cuore e cade a terra. Allora il cavaliere finge di scendere dal cavallo per cantarle). Cavaliere: Fantina, mia Fantina sei morta per amor io ti farò una lapide piena di rose e fior. La gente che qui passa diranno: Oh, che bel fior! Fantina, mia Fantina sei morta per amor. Alla fine del gioco, tutti gettavano un fiore di campo sul corpo di Fantina steso a terra. E qui allora si faceva una gara fra chi sapesse meglio interpretare il ruolo di Fantina e del suo cavaliere. Poi c’era un gioco collettivo fra molti ragazzi che, tenendosi per mano, formavano un grosso cerchio. Al centro, si metteva uno bendato. Si sceglieva chi dovesse a un dato momento staccarsi dal cerchio per andardi a nascondere. E si cantava, girando in senso delle sfere dell’orologio: Siamo tutti raccolti che vogliamo giocare a sinistra siam volti ora a destra, ora a destra noi giriam. (e si cambiava il verso del girotondo) (frattanto uno usciva per nascondersi) Indovina se sai chi il suo posto lasciò indovina se sai chi lontano, chi lontano se ne andò. Se il bambino bendato indovinava il nome, s’inseriva nel cerchio mentre l’altro si metteva al centro per ricominciare il gioco. Infine c’erano le canzoni per quei giovani che, per essere entrati nella fase adolescenziale, facevano le prime apparizioni all’osteria dove si cantava in gruppo, a giustificazione di quelle prime imprese che a lungo andare si risolvevano a coltellate, vere e proprie canzoni che dicevano: l’acqua fa male il vino fa cantare il sugo della cresta fa girar la testa Oppure: Evviva Noé, il gran patriarca salvato dall’arca sapete il perché? Perché fu l’inventore d’un simil liquore che rider ci fa (bis). Poi uno gridava: Bevevano i nostri padri? Coro: Sì! Lo stesso seguitava: Bevevano le nostre madri? Coro: Sì: E noi che figli siamo beviam, beviam, beviamo. (bis). A volte c’era la sfida all’osteria, quando rifiutare un bicchiere di vino suonava come offesa che si doveva lavare col sangue: E si cantava: Bevè, bevè, compagno si no t’ammazzerò! Nun m’ammazza compagno, che adesso beverò. C’era poi una tiritera che si diceva dietro le ragazze un po' chiacchierate o che non avevano corrisposto alle profferte d’amore di un giovane. E si diceva: La ciovetta 15) sul barzolo 16) fa l’amore col pizzicarolo il pizzicarolo je dà ‘n bacio la ciovetta puzza de cacio. Fra i detti proverbiali, ne citiamo alcuni fra i più saporosi: Pagnotte e croci ndove vai, le trovi. Me sò fatta le molle 15) Sta per civetta. pe’ nun scottamme le dita. La processione da ‘ndo esce, entra. Gnè, gnè, gnè frega Cristo e Domminè. Quanno la vedova se rimarita se vede che la su’pianeta nun l’ha finita. E per chiudere, ci sono le stornellate che le donne si cantavano da finestra a finestra, oppure durante i lavori della mondarella, della mietitura, della raccolta dei covoni, della spigolatura e della vendemmia. Senza escludere le sfide a botta e risposta che le ragazze e le donne maritate cantavano nel mettere in ordine la casa, per far dispetto alle vicine o per far sapere a popolo e comune le vicende amorose, i tradimenti: oppure le risposte dei garzoni interessati. Di ciò devo render testimonianza al lavoro fatto prima di me dalla professoressa Giacinta De Angelis che di questa materia ha fatto l’argomento della sua tesi di laurea. Eccoli: Garofolo piantato a la lindiera 17) vorrei parlà co la tu’mamma ‘n’ora, con te carina, ‘na giornata ‘ntiera. Drento Corneto ce canta l’alocco dico che pijja mojje er i’regazzo potesse campà ‘n’ora e dico troppo. E di stornelli ne conosco tanti ce n’ho da caricà sei bastimenti, chi ne sa più de me, se faccia avanti. 16) Balzuolo, posatoio, proprio degli uccelli in gabbia. Mi madre è stata nove mesi e po’me fece mamma me fece e vo’me consumate. Fiore d’argento per un amore ho sospirato e pianto povere passe mie buttate ar vento. Fior de ginestra dove c’è stato lo foco ‘na vorta sempre ‘n po’ de cenere ce resta. Fior d’insalata tutta de bianco te ne vae vestita pari ‘na stella dal cielo calata. Quanto sei bella meritereste ‘na rosa ‘nsu la spalla ‘n mezzo ar petto ‘na lucente stella. Fior de granato ce fuggono le donne dar marito pe’le bellezze de padre Onorato 18) . Fiore de gelo si t’ho d’amà, io ho da esso solo come la luna che va pe’lo cielo. Fior d’amaranto nun lo pijjate, bella, per affronto è l’urtimo stornello che ve canto. Fiore de viola me lo potevi dì la prima sera 17) Sta per ringhiera. che n’era ‘n giovinotto de parola. A lo mio amore je s’è ritirato tutto quer vestitino de velluto perché da novo n’è stato bagnato. Quanto s’è brutta la portatura l’hae de ‘na cornacchia te manca ‘l becco e l’ala e po’ se’tutta. Quante che ce ne fate, ce ne fate pe’quello straccio d’abito ch’avete se passa lo stracciaro je lo date. E statte zitta pezzo d’unto vecchio brutto scartaccio de pizzicheria la bava che te cola giù pe’l petto l’acqua der mare te la mandi via. Fiore de nocchia se so’seccate le legna su a la macchia così se seccherà la lingua vostra. Fiore de viole e prima nun sapeva lacrimare e adesso lacrima e piagne de core. Brutta ciovetta te mette a fa l’amore con chi passa n’è passato uno brutto e te ce se’messa. Brutta de fuga diche che t’ha struppiato la mammana 18) Era il nome di un frate che, secondo alcune storie locali, era talmente bello da far innamorare le donne sposate. ‘nvece sei proprio brutta de natura. Fiore de fave quanno ‘l mi padre m’ha spezzato el core ora so’morta e nun te posso amare. Fior de gaggìa s’io so felice co’voiartre due al monno nun ce sta chi v’assomijja. Fiore de gnente vojjo rifà la pace col mi’amante quanno che lo lassai, era innocente. Ciavete le riccette fatte a molla ‘nder mezzo er pidocchietto ve ce balla la cimicetta ce fa capoccella. Ciavete le riccette lunghe ‘n dito ‘nder mezzo ce n’avete uno indorato beato chi sarà vostro marito. Fior d’albicocca li baci vanno dati su la bocca perché nel viso nun ce senti n’acca. Fiore de pero l’amor de baci nun dev’esse avaro bacianno sentirai l’amore vero. Fiore de nocchia se te ritrovo sola pe’la macchia te fo fa er sarto che fa la ranocchia. Fior de ginestra tutta s’infiora la campagna nostra quanno s’affaccia Rosa a la finestra. Quanto te vojjo ben socera mia come si fosse la mi’madre bona, se ciavessi er velen te lo daria. Te vojjo dà nder cor ‘na cortellata te la vojjo fa fonna la ferita si nun mantenghe la parola data. Ciavete l’occhi neri de ‘na fata l’amanti le tirate a calamita e pe’famme morì vo’ sete nata. Bella che sete nata giù pe’’n fosso e battezzata co’ l’ojjo de sasso puzzate come ‘n cavallaccio morto. Fior de cipresso el primo amore l’ho mannato a spasso perché me piace più quello d’adesso. Fiore de fragola ma quante ce ne fa questa pettegola me pare ‘na gattina quanno miagola. Quanti fioretti fa la capomilla 19) tanti saluti manno a la mi’mamma quante vorte dirrà povera fijja. Te lo vorrebbe dà se tu lo vòi ‘n gomitoletto che non finisce mae 19) Sta per camomilla. pe’fa pedali quante tu ne vòi. Me pari proprio la sora Camilla nella stanzetta tua er sole ce balla er sole ce balla e la luna ce brilla. Fior de patate se’stata a fa la fila da le prete mo te ce manca quella da le frate. A brutto rospo viene a la stalla mia, te levo er raspo te levo la pellaccia che cihae addosso. E lo mio amore se chiama Nicola morto lo vorrei vedé sopra ‘na bara co’ l’occhi aperti e la lingua de fora. Ma guarda quanto è stupida la donna porta le mele in petto e nun le magna quanno che pijja marito je le consegna. Se lo mi’amore m’ha detto sciapita me vojjo annà a bagnà a l’acqua salata quanno ritornerò, son saporita. Fiore de cardi è mejjo te ne scordi, te ne scordi mo’ so finiti l’amorosi sguardi. Ciavevo ‘na compagna e me fidavo tutti li mi’segreti jè dicevo doppo du’mesi socia la chiamavo. Fiore de menta vojjo strappà la radica a la pianta chi scappa dal mi’core più nun v’entra. Fiore de grano sei troppo piccolina per un omo me pare na ranocchia de pantano. Io me so’innamorato e quella vojjo credessi de magnà ‘l pane co’ l’ajjo la panzanella senza aceto e l’ojjo. Fiore de pepe de pepe ve ne do quanto pesate de cojjonella quanta ne volete. Fior de mentuccia me s’è ‘ntostato el pane a la saccoccia annamo al fontanil, famo la zuppa. Fior de cipresso co’ ‘na mano ve scrivo e l’altra scasso ma nun te vojjo bene, lo confesso. Fior d’amaranto perché sei bella le vòi tutte vinte io me vergogno d’essere ‘l tu’amante. Ho pianto tanto che ho piena ‘na brocca vado strillanno chi vò l’acqua fresca so’lacrime d’amor, caro me costa. Ciavete l’occhi neri come er pepe le guance rosse come du’cerase che più ve guardo e più carina sete. Fior de cipresso padrona nun so più de mova ‘n passo che ci ho ‘sto biferone 20) sempre appresso. Fiore d’oriolo a chi lo date er dorce e a chi l’amaro a me m’avete dato er vetriolo. Amore mio nu’le pijjà li fiori da nessuno pijja le rose che te dono io. Amore pensa le cose che te dissi ‘n quella stanza quanno con te la presi confidenza. Fior de giacinto nun te fida dell’omo che fa er santo chè la donna è sincera e l’omo finto. Quann’aveve quindici anni eri più bella mo che n’hae ventun sembri ‘na balla me sembri ‘na cavalla senza sella. Io te lo vojjo dì quanto sei bella si lo sa er nostro re, te viene a pijja pe’fa la razza de gente morella. La piazza de Corneto è su in salita da capo a piedi che c’è l’arborata in mezzo ce sei te, palma fiorita. La piazza de Corneto è fatta a esse vo’me vorreste canzonà, regazza, de canzonamme a me nun ve riesce. La torre de Castello giù cascasse tutte le cartierante le colpisse solo che lo mio amore lo lasciasse. M’affaccio a la finestra e vedo er mare tutte le barche le vedo venire quello de lo mi’amor nun viene mae. M’affaccio a la finestra e vedo er treno all’urtimo vagone c’è il mio damo l’ho conosciuto dar cappello nero. E lo mi’amore se chiama Giuseppe è er capo giocatore de le carte pijja sto core e giocalo a tressette. Me parete la fijja der dio Giove capelli ricciarelli fatte a nove ch’ogni piccolo vento ve li move. Fiore de mela viene a la fonte che te do parola e lì se spezzerà la gran catena. Quanto sei bella, Dio te benedica, pare t’ha benedetto santo Luca e santo Luca e santa Margherita. Lo vojjo comprà ‘n sòrdo de ricotta la butto ‘n faccia a questa giallaccia 20) Accrescitivo di bifera che in dialetto sta al posto di naso lungo e grosso. Alterazione di bifera nel senso che le due che quanno vede a me sempre borbotta. Fior d’amaranto te vengo a riverì stella d’argento che fra le stelle ce stae bene tanto. Me parete la fijja d’Adamo quanno ch’annate a spasso pel giardino fate tremà l’esercito romano. Quann’eri piccolina ne le fasce sempre pregavo Dio che amor crescesse e mo’che sei cresciuta, amor me lasce. Er core l’ho donato a ‘n pecoraro tutta la notte lo tiene ar sereno e l’arimette quanno è giorno chiaro. Monteromano che sta ‘n cima a un fico nun c’è donna che sa ‘nfilà l’ago ma tutte vanno in cerca de marito. Fiore de canna chi vo la canna vada a lo canneto chi vo la fijja vada da la mamma. Regazzette ch’annate a monnarella pe’tutto er giorno la pennazza è molla da colazzione fino a la merenna. So ita a la marina a pijjà l’acqua er marinaro m’ha rotto la brocca io pe’dispetto j’ho rotto la barca. aperture nasali, viste dal basso in alto, assumono l’aspetto di una bifora. La madre del mi’amor è na’gran donna si’l su’fijjo me dà, la chiamo mamma se no, la chiamo scellerata donna. Brutta sciapita cor latte e cor caffé te sei lavata pe’fa l’amor con me te sei proferita. Facioli neri 21) c’era na vorta che te li capavi mo’te tocca pijja chi nun volevi. Fiorin fiorello ch’avete amore mio che sete giallo v’ha fatto male l’aria de Castello? Te vojjo venì a fa ‘na serenata col lansagnolo 22) e co’la raschia nera col mascolino de la farinata. Fior de limone la limonare te sei messa a fare perché nun hai fortuna ne l’amore. Nell’orticello tuo ce so le zucche ce so le pommidore verde e fatte sei ‘na ciovetta che dae retta a tutte. Fior de limone agro il limone co’le fojje amare come so amare le pene d’amore. 21) Sta per fagioli. Oh Dio quanto me pizzica un pidocchio, ma si l’ammazzo la camicia macchio damme ‘na spilla che je cavo ‘n’occhio. Fior di nerella più cresce er fiume e più ‘l legno va a galla più te fae granne e più diventi bella. Angelo d’oro tu canti li stornelli ed io l’imparo tu spasime pe’me e io pe’te moro. Quanno sarò davanti ar camposanto nun me lo dite più core contento è morto chi m’amava tanto tanto. Ve do la bona sera e vado al letto se no viè er gatto e me lo fa er rapporto me manna a Regina Celi cor diretto. Ve do la bona sera se volete si no la butto pe’ ste cantonate e domattina la riccojierete. Dentro Regina Celi c’è un canale ce corre l’acqua e nun ce batte er sole quello se po’chiamà bagno penale. Dentro Regina Celi c’è na’ campana possi morì ammazzato a chi la sona quanno la sono di forza, te chiama. Dentro Regina Celi c’è ‘na branda 22) Matterello, bastone per far lasagna. vieni Ninetta mia, famo la ninna e lì la canterem la ninna nanna. Dentro Regina Celi c’è ‘no scalino chi non salisce quello n’è romano nun è romano nè trasteverino. E me ne vojjo annà verso Livorno ndove ce so le donne che la danno prima la bona sera e po’il bon giorno. Quanno Regina Celi anniede in fiamme li poliziotti in mezzo a le faville l’ommini boni ne le ardenti fiamme. Fior d’accipresso 23) padrona nun so più de fare un passo che ci ho sto leccalume sempre appresso. Fiore de mare a sedici anni m’hai fatto invaghire di babbo e mamma m’hai fatto scordare. Amore, amore, nun me ne fa tante son piccolina e me le tengo a mente ma un giorno me le paghi tutte quante. Giù pe’ sto vicoletto c’è ‘n gran vento c’è na’ragazza che me piace tanto quer bojja der su padre n’è contento. Quant’è arta la torre de Castello tant’è brutta la fijja de Mecaccio 23) Sta per cipresso. ci ha ‘na gobba peggio d’un pajaccio. Fiorin fiorello chi vo bene a le donne è un pappagallo oppuramente scemo de ciarvello 24) . Ve chiamate Teresa, che bel nome perchè n’annate in cielo a riposare che state in terra a fa penà ‘sto core. Finestra che de giorno sei serrata la notte t’apri pe’famme morire e pe’famme morir, bella, sei nata. E’ benedetta l’erba corallina quella che fa nel campanil de Siena quella che porta in petto è Nena mia. C’è n’impiegato a cento lire al mese la mojje veste in abbito de raso porta er cappello co le piume tese. E io vojjo annà di là dar lago se ce trovo le donne ce le lego e le fò lavorà, po’nun le pago. Me trovo fra l’incudine e er martello e di due amori non so quale amarlo l’amerò tutte e due che sarà mejjo. E che m’emporta si nun so cantare ‘l mi’padre nun è stato cantatore e manco a scola sò stato a ‘mparare. 24) Sta per cervello. Corneto è bello Corneto è fatto a ferro de cavallo ma le donne ce sò senza ciarvello. E lo mio amore me l’ha detto mora e io j’ho detto scartaccio de leva; ma quanto jè tufata ‘sta parola! Credevo che l’amore fosse ‘n gioco con te carina lo vojjo provare er core me s’accese come er foco e pe’smorzallo l’acqua der mare. Fior de limone quanto ve sete accompagnata bene a la migragna e a la disperazione. Ma quante ce ne fa sta pomporella tira li carci come ‘na cavalla manco se fosse ‘na gran donna bella. Amalo er bifolchetto, è un gran birbone che fantasia nun ha de lavorare appena sciorto, se ne va al macchione. Bella nd’annate? ‘nsegnateme la via de le romite che lo mi’amore s’è annato a fà frate. Fiore de menta l’amore nun se fa si nun se monta si nun se mette in corpo la sementa hae vojja de cantà, fiore de menta. Bruno Blasi APPENDICE AL GLOSSARIO CORNETANO 1) A. Accuccàre (v.)-Ripiegarsi della persona su se stessa fino a sedersi sulle calcagna per una sosta. Alterazione di accoccare. Affionnàre (v.) - Vedi fionnare. C. Cacarella (s.) - Cacaiola, dissenteria, diarrea. In senso figurato vuol significare anche paura. Còcere (v.) - Cuocere. In senso traslato, vuol dire anche manifestazione di insopportabilità, specie nella forma riflessiva, verso certe verità che scottano. Cotògnona (s.)- La parola, in simbiosi con il sostantivo mela, sta a significare un tipo di mela il cui uso è quello di farne marmellate; oppure di mettere nella biancheria per profumarla; oppure di far bollire dentro il mosto per produrre il “cotto” che serve a dare più forza e robustezza al vino. Alterazione di cotogna. F. Fionnàre (v.) - Alterazione di fiondare, ovverossia tirare un sasso con la fionda. In senso figurato vuol dire pure colpire con la satira una persona per esporla al ridicolo; oppure portare a termine favorevolmente una avventura amorosa. G. 1) Vedi i precedenti glossari nel Bollettino degli anni 1983, 1984 e 1986. Gregna (s.) - A proposito di questa parola, ne abbiamo parlato sufficientemente sul primo glossario. C’è da aggiungere però che sul quotidiano “Il Tempo Sette” n°26 del luglio 1987, si leggeva che a Minturno, nel Lazio meridionale, si celebra la “sagra delle regne”. Le regne sono i covoni che si fanno sfilare lungo le strade su carri votivi con donne che indossano il costume tradizionale ciociaro su cui spicca un grosso grembiule (in latino “gremium”) e distribuiscono auguralmente del pane, dopo la battitura dei covoni (regne) con il “viglio”, strumento di legno simile al correggiato. E’ evidentissima la relazione fra gregna e regna. I. Imbòcco (s.) - Apertura, alquanto stretta, attraverso la quale uno deve transitare. Derivazione da bocca. Ingàppa (s.) - Crollo. Far l’ingappa significa venir giù, crollare. Probabile alterazione della parola “cappio” che veniva messo per catturare o far cadere alcuno. L. Leppa Leppa (l.a.) - Viene usato per significare che una certa operazione o azione si è potuta fare nei più stretti limiti del possibile, senza subire abrasioni nè sulla persona nè sulle cose. Dal verbo arcaico toscano “leppare” che significa togliere, levar via, portar via la pelle o la corteccia. M. Melarùzza (s.) - Tipo di mela pressochè selvatica, dal colore scuro come di ruggine che, in dialetto, vien detta “ruzzine”. Meno probabile la derivazione di mela rozza. Merènna (s.)- Merenda Mùsolo o Musòla (s.) - Tessuto di lana o di cotone. Deformazione del sostantivo mussolo o mussola. P. Pallòso (ag.).- Noioso, seccatore, insopportabile. Derivazione dal detto “che palle!”, a significare che la scocciatura è fino ai testicoli o. per essere più in termini, arrivata che ha fatto scendere il latte fino alle ginocchia. Posatòra (ag.) - Si usa nel detto “quercia posatora” vale a dire una di quelle querce solitarie che si trovano in Maremma e dove si vanno a posare gli uccelli per riposare o riparare. Da posatoio che è lo stecco su cui riposano gli uccelli all’interno delle gabbie. R. Ricìmolo (s.) - Alterazione di racimolo. Rinturcinare (v.) - Attorcigliare di nuovo. Alterazione del verbo attorcere. Rosicarèlla (s.) - Stizza interiore per cui una persona si sente rodere o rosicare dentro. S. Scandrija (ap.) - Apposizione della parola dialettale “persica” che è un tipo di pesca gialla, dalla polpa dura, tipica di una cittadina del reatino, Scandriglia, di cui ha preso Sciapito (a.) il nome. - Sciapido, poco saporito, senza sapore, più riferito a persona. Scofanàre (v.) - Vedi cofana che in vernacolo è la coffa o la secchia con cui il muratore trasporta la malta. Perciò scofanare vuol dire porta fuori dalla coffa. Sgargarettàre (v.) - Piangere disperato dei bambini fino a lesionare le corde vocali o il “gargarozzo”. E’alterazione di sgargarizzare. Strusciàta (s.) - In senso figurato significa sottoporre qualcuno a violenta critica o ad un’azione fortemente sfottoria. Alterazione di strisciata. V. Va ‘n po’ (l.a.) - Detto sincopato delle parole “guarda un poco”. Siccome si usa dire, in dialetto, la forma “varda” per guarda, si spiega il detto molto in uso, specie fra i giovani e i ragazzi. Bruno Blasi