Il cerchio fatale, desiderio e sogno in Gabriele D

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Il cerchio fatale, desiderio e sogno in Gabriele D
Opere di D’Annunzio lette ed analizzate:
Il Piacere (P)
L’innocente (I)
Il Trionfo della Morte (TM)
Le vergini delle rocce (VR)
La città morta (CM)
Il Fuoco (FC)
Forse Che Sì Forse Che No (F)
Il libro segreto (LS)
IL CERCHIO FATALE
Desiderio e sogno in D’Annunzio
Nel cerchio del sogno
Il percorso che presentiamo è nato dalla somiglianza riscontrata in due luoghi dell’opera di Gabriele
D’Annunzio: il primo è nei primi versi di Laus Vitae in Maia («Ah, perché non è infinito/ come il
desiderio, il potere/ umano?»; il secondo nel primo libro del Trionfo della morte, laddove il
protagonista Giorgio Aurispa esclama: «Ah, perché dunque non potremmo noi rendere la nostra
esistenza conforme al nostro sogno e vivere per sempre in noi soli?».
Evidente è innanzitutto l’identità dell’incipit, ma sicuramente anche lo sconforto e la rassegnazione
che affiorano tra le righe per l’impossibilità di rispondere in maniera adeguata al desiderio. Mentre
però in Laus vitae il poeta parla di un desiderio infinito, nel romanzo la parola utilizzata è sogno.
D’altro canto, anche nel proseguo della poesia di Maia, dal desiderio presto si passa al sogno:
«Laudato sii, potere/ del sogno ond’io mi incorono/ imperialmente/ sopra le mie sorti/ e ascendo il
trono/ della mia speranza! […] Laudato sii intanto,/ o tu che apri il mio petto/ troppo angusto pel
respiro/ della mia anima!». In questi versi il sogno, subentrato al desiderio, rappresenta ciò che
eleva il respiro dell’animo oltre l’angusto spazio in cui è costretto dal petto, dunque dai limiti della
condizione umana; è ciò che eleva oltre ogni ostacolo, ogni destino imposto.
Le somiglianze e le differenze ci hanno incuriosito e ci siamo chiesti se per D’Annunzio desiderio e
sogno stessero ad indicare una medesima realtà, se insomma fossero sinonimi.
Per prima cosa è stato necessario un nostro chiarimento di idee al riguardo e la domanda che
innanzitutto ci siamo posti è stata da dove nasce il desiderio e da dove il sogno. Ci siamo trovati
d’accordo sul fatto che entrambi condividono il punto di partenza. Il desiderio ed il sogno,
nell’uomo, nascono per la mancanza ed il bisogno di qualcosa cui si aspira, qualcosa che non si
possiede, ma che si tende ad avere: questa mancanza stimola e nutre la volontà di arrivare al valore
percepito come mancante. Questo bisogno, a sua volta, è generato dall’incontro con la realtà
(naturale o umana), che ha il potere di mettere in movimento la persona, ciascuno di noi.
Abbiamo considerato, però, che desiderio e sogno hanno anche molto di diverso: se il desiderio,
infatti, mantiene nel suo percorso il contatto con la realtà, non la perde di vista, ed è per questo più
“naturale”, cioè immediato e genuino, il sogno è invece una costruzione successiva, un qualcosa di
“artificiale”, perché nutrito dalla nostra immaginazione. Il desiderio è un’apertura, è disponibilità
all’imprevisto, mentre il sogno chiude e crea una realtà diversa. Il desiderio resta in rapporto con
l’infinito, mentre il sogno perde l’infinito in favore di un proprio modello di perfezione.
L’immagine di copertina che abbiamo scelto per il nostro progetto raffigura proprio le dinamiche
del desiderio e del sogno come le abbiamo pensate. Il desiderio è rappresentato come una linea
continua che tende costantemente alla “x”, il valore percepito. L’illustrazione del sogno rimanda
invece ad una spirale, un cerchio vorticoso, in cui si perde definitivamente il contatto con la realtà
da cui si è partiti e conseguentemente anche il punto di arrivo. La linea retta del desiderio si incurva,
dunque, nel cerchio del sogno in cui si diventa man mano distanti dalla vita reale, ma sempre più
vicini ad una realtà ideale, figlia del proprio ego, che è al centro di tutto.
E’ precisamente questo, a nostro parere, il movimento che caratterizza D’Annunzio, un movimento
che può essere rappresentato con l’immagine del cerchio, perché il soggetto ritorna di continuo
sulle proprie costruzioni e si rifugia in una realtà virtuale. Da qui anche la grande attualità
dell’autore, il quale, come prometteva una fortunata campagna pubblicitaria di qualche anno fa,
inventa un felice “tutto intorno a te” del tutto illusorio e fittizio, ma apparentemente capace di
sostenere il peso e la tristezza dell’esistenza comune. Salvo poi provare un senso di angosciosa
depressione quando il sogno s’infrange e lascia soli con i propri problemi non risolti.
Il meraviglioso percorso del desiderio
L’infinità del desiderio è ciò che rende D’Annunzio vicino a tutti noi, ad ogni uomo, il quale è per
natura volto alla continua ricerca di un bene nel quale possa quietarsi l’animo. Il desiderio umano
tende verso un valore ignoto, ma intravisto nell’esperienza della realtà.
Sono numerosi i momenti nella produzione di D’Annunzio in cui troviamo le tracce di questo
desiderio infinito, che viene reso con l’espressione tendere all’alto così come, ad esempio, si
esprime Giorgio Aurispa: «E’ strano questo: come l’anima, dopo le peggiori cadute, tenda all’alto.
Quella sera io avevo una gran sete di poesia, di elevazione, di cose delicate e spirituali» (T.M, libro
primo, IV ).
Sono proprio i bisogni ad essere alti. Non ci si accontenta della realtà comune, ma si cerca qualcosa
che sia molto superiore e capace di dare serenità all’anima. Questo tipo di tensione è presente anche
in un personaggio che in altri momenti della sua vicenda sembra cinico e spietato. Parliamo di
Andrea Sperelli, specialmente all’inizio del libro II del Piacere dove, come Giorgio Aurispa reduce
dalle “peggiori cadute”, concepisce un Bene sconosciuto. Toccato quasi il fondo della depressione
in una crisi che culmina nel grido «a che vivere?», preso dal disgusto di sé e dai rimorsi, ad un certo
momento viene come risvegliato dal suono delle campane di una chiesa. La musica unita alla
meraviglia del mattino gli fa provare una “beatitudine immensa”. Si tratta di una sorta di estasi
religiosa: «Guardava, ascoltava, muto, raccolto, intenerito, lasciando entrare in sé quell’onda di vita
immortale» (P, libro secondo, I). E’ un istante molto particolare nel quale Sperelli prova un
desiderio che va oltre i suoi desideri normali: «Ora, non poteva dire il suo desiderio; non sapeva.
Ma, certo, la cosa desiderata doveva essere infinitamente soave, poiché era una soavità anche
desiderarla».
Anche l’incontro con la donna non genera sempre e soltanto un desiderio erotico, anzi, potremmo
dire che il bisogno più intenso provato dai personaggi dannunziani è più indefinito e si esprime nel
voler possedere l’anima dell’amata. Si tratta di un desiderio profondo, intenso ma soprattutto
impossibile da conseguire, che viene espresso di frequente nell’opera di D’Annunzio. E’ più che
altro un amore dell’anima. Di fronte alla donna amata sorge il desiderio di poter possedere la
totalità dell’essere, di poter abbracciare tutto di lei, nutrendosi di tutto ciò che lei rappresenta. Si
cerca una comunione totale, spirituale. Ad Andrea Sperelli non basta più l’aspetto carnale di Elena:
«Egli voleva possedere non il corpo ma l’anima, di quella donna; e possedere l’anima intera, con
tutte le tenerezze, con tutte le gioie,con tutti i timori, con tute le angosce, con tutti i sogni, con tutta
quanta insomma la vita dell’anima» (P, libro secondo, III).
Questo bisogno è espresso anche da Giorgio Aurispa, pur se in una forma negativa: «Tu mi sei
ignota. Come ogni altra creatura umana, tu chiudi dentro di te un mondo per me impenetrabile; e la
più ardente passione non mi aiuterà a penetrarlo. […] l’anima è intrasmissibile. Tu non puoi darmi
l’anima. Anche nella più alta ebrezza, noi siamo due, sempre due, separati, estranei, interiormente
solitarii» (T.M, libro primo, I). Qui è evidente come si vorrebbe penetrare completamente nell’altro
e come il vincere radicalmente la solitudine personale è sentito come un bene superiore a qualsiasi
incanto dei sensi.
Forse è questa possibilità di comunione profonda che i personaggi di D’Annunzio intendono
quando dicono di cercare un amore che sia allo stesso tempo quello di una amante e di una sorella:
«Avere un’amante, o piuttosto una sorella amante, che fosse piena di divozione» (T.M, libro primo,
III).
All’inizio dei suoi approcci con Donna Maria, Sperelli «pensò che sarebbe stato felice s’ella gli
avesse permesso di chiamarla semplicemente Maria, come una sorella» (P, libro secondo, III). In
effetti l’incontro di Sperelli con Maria eleva il suo cuore in una dimensione più alta:
«La bellezza della notte gli diede, d’improvviso, un’aspirazione vaga ma affannosa verso un Bene
sconosciuto; l’imagine di Donna Maria gli attraversò lo spirito: il cuore gli palpitò forte,come
all’urto d’un desiderio; gli balenò il pensiero di tener le mani di Donna Maria nelle sue, di piegare
sul cuor di lei la fronte e di sentirsi da lei consolare senza parole, pietosamente. Quel bisogno di
pietà, di rifugio, di compianto fu come l’ultimo tratto dell’anima che non si rassegnava a perire».
Maria fa sorgere in Andrea un forte senso di rispetto. Appare ai suoi occhi come un essere
superiore che necessita di maggiore attenzione e considerazione, tanto che egli, pur se tutto
impregnato della massima habere non haberi, sente il bisogno di donarsi e sottomettersi: «Quella
creatura così spirituale ed eletta gli inspirava un senso di devozione e di sommessione, altissimo. Se
gli avessero chiesto quale cosa sarebbe gli stata più dolce, avrebbe risposto con sincerità: Obedirla. – […] E l’ambizione sua più ardente era di riempirle il cuore».
Anche Tullio Hermil ne L’Innocente esprime la magia dell’incontro con la donna amata che fa
sprigionare il desiderio di una realtà superiore. E’ un incontro sempre possibile, una sorta di grazia
che può raggiungere tutti: «Forse tutti gli uomini, vivendo, incontrano un punto decisivo in cui ai
più sagaci è dato di comprendere quale dovrebbe essere la loro vita. Tu già ti trovasti in quel punto.
Ricòrdati dell’istante in cui la mano bianca e fedele, che portava l’amore, l’indulgenza, la pace, il
sogno, l’oblio, tutte le cose belle e tutte le cose buone, tremò nell’aria verso di te come per l’offerta
suprema» (I; III).
In D’Annunzio si trovano continuamente espressioni che rimandano ad aspirazioni confuse di
felicità, di vastità, di grandezza, di bellezza. Si cerca una creatura ideale «superiore, impeccabile,
degna di tutta l’adorazione» come quella che cerca Tullio Hermil. Si mette in contrapposizione la
“fede” e l’idealità ad una vita intesa come una «grande avventura senza scopo, alla ricerca del
godimento, dell’occasione, dell’ attimo felice», come nel Piacere. Ma soprattutto si percepisce una
radicale contrapposizione tra il bisogno di eternità che si sente nel cuore e il destino di morte che
incombe sull’uomo. «Bisogna che siamo felici» si ripetono a vicenda Giorgio e Ippolita mentre con
angoscia sentono tutta la condanna del tempo che passa inesorabile e fa scolorire la bellezza degli
istanti vissuti insieme.
Ed è proprio Giorgio Aurispa ad esprimere la suprema angoscia e il supremo desiderio: «Che cosa
mi manca? Qual è il difetto del mio organismo morale? Qual è la causa della mia impotenza? Io ho
una brama ardentissima di vivere, di svolgere in ritmo tutte le mie forze, di sentirmi completo e
armonioso. E ogni giorno invece io perisco segretamente; ogni giorno la vita mi sfugge da varchi
invisibili e innumerabili; e rimango come una vescica mezzo vuota che ad ogni movimento del
liquido sbattuto prenda una diversa deformità» (T.M, libro secondo, II). C’è come un “pugno di
ferro” misterioso e incomprensibile e che ha il potere sulla vita dell’uomo. Liberarsi da questo
potere e diventare signori della propria esistenza sarebbe il bene supremo.
L’esploratore e l’artefice solitario
Abbiamo visto che la realtà con il suo fascino mette in movimento il desiderio. Ma la realtà stessa è
di per sé problematica in quanto presenta dei limiti.
Il primo di questi è contenuto nella domanda del verso di Laus Vitae: «Ah perché non può essere
infinito come il desiderio, il potere umano?». Qui D’Annunzio coglie una profonda verità e cioè che
c’è una sproporzione tra il desiderio dell’uomo che è potenzialmente infinito e la finitezza della
realtà, che quindi risulta incapace di corrispondere a quel desiderio poiché è angusta e peritura. Il
secondo limite che egli individua è nel fatto che la realtà non si fa dominare, non si lascia plasmare
e modellare e sfugge sempre al controllo dell’uomo, il quale fa dunque l’esperienza della propria
impotenza.
Di fronte a questa situazione cosa fa D’Annunzio? Invece di accettare la sfida della realtà e di
mettersi in gioco con essa, sulla base delle regole che impone, la fugge, creando un mondo che si
armonizzi con il proprio desiderio.
Nei frammenti del Libro segreto a più riprese ci illustra questa sua strategia. Iniziamo da un passo
molto significativo: «Il mondo non è del vano conquistatore ma dell’artefice solitario. Il mondo
perituro e perenne non fu creato se non per essere converso dall’arte in forme sovrane e immortali».
Se il conquistatore è colui che accetta così com’è il mondo, si pone continuamente di fronte alla
realtà e si mette in movimento per cercare di comprenderla coinvolgendosi con essa, l’artefice la
possiede nella sua perfetta solitudine facendone quello che vuole. Allora ecco che il mondo viene
converso, verbo significativo in quanto ci dà l’idea di un movimento circolare.
La volontà di sfuggire a ciò che è altro da sé risulta evidente in un altro frammento: «Ogni oggetto è
attratto in me e si dissolve in me. Io creo trasfiguro invento. Non accetto nulla di fuori. Non posso
più tollerare nulla di estraneo» (LS, Regimen hinc animi). Colpisce, per la forza con cui è espressa,
questa forma di intolleranza nei confronti di tutto ciò che non coincide con la propria costruzione. Il
mondo è accettato solo in quanto può essere trasfigurato, ricreato.
Quale vantaggio comporta questo metodo? Quello di sentirsi il padrone assoluto dell’universo che
si è creato: «Ho costruito l’intero mio universo e ne sono l’unico signore» (LS, Regimen hinc
animi). Un altro vantaggio è quello di non subire gli imprevisti della realtà, quindi di tenere tutto
sotto controllo:«Ho fatto di tutto me la mia casa e l’amo in ogni parte. Se nel mio linguaggio la
interrogo, ella mi risponde nel mio linguaggio». Questa frase esalta e allo stesso tempo rivela
l’armonia fittizia che regna in questo mondo illusorio, dove non ci sono disturbi di comunicazione,
smagliature. In un altro frammento D’Annunzio si spinge paradossalmente ad affermare che vivere
sognando rende la vita meno vaga, ribaltando così quello che è un convincimento comune: «Nel
sogno quel che nella veglia è un senso vago, un sospiro di malinconia senza signoria, mi si cangia in
una specie di struttura interna dalle linee manifeste e dai congegni esatti» (LS, Regimen hinc animi).
Ma questo è ovvio, perché il sogno di D’Annunzio è una perfetta costruzione, là dove invece i
contorni della vita sono appunto vaghi e sfumati.
Ecco allora che comprendiamo quei celebri versi di Laus Vitae: «Quel che non fu fatto/ io lo
sognai;/ e tanto era l’ardore/ che il sogno eguagliò l’atto». L’artefice può anche risparmiarsi la fatica
della conquista, poiché al sogno è attribuita la capacità di rendere vero ciò che è solo un prodotto
del pensiero.
Nel Trionfo della morte, Giorgio e Ippolita stanno pianificando una vacanza da fare insieme. Al
momento di scegliere la destinazione, la scelta cade inizialmente su Orvieto, dove Ippolita non è
mai stata. Giorgio allora le descrive con arte la cittadina e il risultato è che Orvieto viene esclusa tra
le scelte: «Poiché nel sogno noi abbiamo già assaporata la miglior parte del piacere, provando
sensazioni e sentimenti della più rara delicatezza, io penso che noi dobbiamo rinunziare
all’esperienza della realtà» (T.M, libro primo IV). Rinunziare all’esperienza della realtà in favore
del sogno: non c’è modo più esplicito di dichiarare una precisa filosofia di vita.
Il passo del Trionfo della morte è riecheggiato proprio nel Libro segreto, dove D’Annunzio parla di
una propria esperienza personale: «Viaggiare non giova. Io conoscevo la vera Grecia prima di
approdare a Patrasso e di rivivere Erme in Olimpia, prima di toccare le colonne del Partenone e le
maschere micenee di oro. Io conoscevo l’Egitto molto più veracemente che quando veleggia sul
Nilo e galoppai nei rosati verso le piramidi» (LS, Regimen hinc animi).
A questo punto l’unico obiettivo è che la realtà si lasci plasmare, che non opponga resistenza alla
volontà di dominio del creatore. A D’Annunzio piacevano le donne che apprezzavano e si
conformavano al suo desiderio. Nel Libro Segreto D’Annunzio definisce una delle sue amanti
femmina da conio, ma non in senso dispregiativo secondo l’accezione dantesca, bensì come un
apprezzamento nei suoi confronti, perché, le dice, «sei buon conio a qualsiasi delle mie impronte».
Normalmente il personaggio dei romanzi di D’Annunzio eccelle nella capacità di costruirsi una
realtà ideale e fittizia, come Giorgio Aurispa che «eccelleva nel metodo di far servire il noto a
comporre l’ignoto».
Allo stesso modo, Tullio Hermil parla di una speciale capacità alchemica: «Con quell’arte quasi
direi alchimistica che io aveva nel combinare i varii prodotti del mio spirito, analizzai la serie degli
stati d’animo speciali (...) ne trassi alcuni elementi i quali mi servirono a costrurre un nuovo stato,
fittizio, singolarmente adatto ad accrescere l’intensità di quelle sensazioni che io voleva
esperimentare» (I, I).
Il possesso di tutto il potere nel trasfigurare la realtà è più volte riconosciuto ad uno dei principali
alter-ego di D’Annunzio, Stelio Effrena, il protagonista del Fuoco. Egli infatti è l’Imaginifico che
inventa una nuova realtà. Nel corso di un dialogo con Lady Mirta, Stelio parla con entusiasmo di un
chiostro che ha appena visitato. La donna, conoscendo l’attitudine fantastica dell’amico, non è più
sicura della realtà di cui lui parla: «“Tutti i luoghi che vuoi guardate diventano vostre invenzioni,
Stelio”».
Una situazione simile è nel passo della tragedia La Città Morta, nelle parole che Bianca Maria
rivolge ad Alessandro: «Voi siete ebro di voi medesimo. Quel che voi vedete in me è nelle vostre
pupille. La vostra parola crea dal nulla l’imagine che voi volete amare. È in voi, è in voi tutto il
potere...». Qui è molto più esplicito il riferimento alla capacità del personaggio dannunziano di
creare un’illusione dove tutto viene nobilitato e idealizzato, lontana dalla realtà.
In moltissimi passi dell’opera di D’Annunzio si insiste sull’identità indivisibile di vita e sogno:
«La vita e il sogno erano una cosa sola» (Fc, parte prima). «Ma era la Vita? O non forse il Sogno?
“L’uno, sempre, è l’ombra dell’altra” egli pensò. “Dov’è la Vita è il Sogno; dov’è il Sogno è la
vita» (T.M., libro quarto, IV). «Noi siamo fatti della sostanza medesima di cui son fatti i nostri
sogni» (T.M., libro quarto, VI).
A questo punto l’illusione è l’unico mondo che ormai i protagonisti conoscono e nel quale vogliono
e possono vivere; il totale rifiuto della realtà li immette in una sorta di oblio che li condanna a
essere prigionieri dello stesso mondo che hanno creato, escludendoli per sempre dal mondo reale.
Questo però comporta degli effetti aberranti. Infatti se il desiderio tende verso un valore, la
traiettoria dannunziana, nel sogno, si attorciglia su se stessa, così da perdere lo scopo iniziale.
Andrea Sperelli confonde a tal punto le due amanti Elena e Maria da chiamare la prima, mentre si
trova a letto con lei, col nome dell’altra. Le due donne sono ormai state fuse per plasmarne una
terza, che rispecchia la perfezione: «Gli balenò un pensiero folle. Quella voce poteva esser per lui
l’elemento d’un’opera d’imaginazione: in virtù d’una tale affinità egli poteva fondere le due
bellezze per possederne una terza imaginaria, più complessa, più perfetta, più vera poiché
ideale…». Alla fine del romanzo le perderà tutte e due, sconfitto dai suoi stessi sogni.
Essere illuso e deluso dai propri sogni è il destino di quasi tutti i personaggi dannunziani, soffocati
da una sensazione di schiavitù e resi incapaci di rientrare in un contatto schietto e sereno con la
realtà: «Io non osavo gittare uno sguardo risoluto e profondo, perché il mio sogno di felicità mi
tratteneva, mi tirava indietro, attaccato a me tenacemente».
Ludere, illudere, deludere
A questo punto del nostro percorso possiamo meglio comprendere quella domanda di Giorgio
Aurispa già citata all’inizio: «Ah perché dunque non potremmo noi rendere la nostra esistenza
conforme al nostro sogno e vivere per sempre in noi stessi?» (TM , libro primo, I).
La tendenza di D’Annunzio a cercare infatti una via di fuga nel sogno, considerato come risposta di
fronte allo sconcerto provocato dalla banalità e mediocrità della realtà circostante, si rivela essere
una soluzione impossibile, dal momento che il sogno come tale non resiste di fronte all’aggressione
della realtà. E’ proprio questa l’esperienza che D’Annunzio fa fare, ad esempio, ad Andrea Sperelli:
«Egli aveva troppo sognato, nella notte, a occhi aperti, nuotando in una felicità senza fine (…) Ora
tutto quel mondo immaginario crollava miseramente a contatto con la realità» (P, libro primo, III).
Da questa esperienza parte anche l’avventura di Tullio Hermil e Giuliana ne L’innocente:
«Ambedue avevamo creduto al nostro sogno e avevamo proferito più d’una volta, nell’ebbrezza, le
due grandi parole illusorie: Sempre! Mai! (...) L’illusione era caduta; ogni fiamma era spenta».
Giorgio Aurispa, personaggio sempre in preda al contrasto bizzarro tra la realtà e il sogno,
continuamente teso all’idealizzazione di Ippolita, protesta, come abbiamo visto, contro
l’impossibilità di realizzare il sogno, ma anche Stelio Effrena si lamenta per il fatto che la realtà
(anche in questo caso la sua amante) non si lascia plasmare: «Perché, amica mia, non volete voi
essere la divina statua mobile del mio spirito…?» (Fc, parte seconda).
L’immersione nel sogno comporta la creazione di una realtà altra, virtuale, che genera, come
inevitabile conseguenza, un profondo senso di delusione e di frustrazione nel momento in cui,
tramite il più o meno violento ed amaro impatto con la realtà, si prende coscienza dell’illusione e
della vanità del sogno stesso. In questi momenti pare che «l’Anima rivolga alla Vita con accenti
sempre diversi una medesima domanda: Perché hai delusa la mia aspettazione?» (I, IV).
Anche nei celeberrimi versi de La pioggia nel pineto, pur in un contesto di entusiasmo e di
accumulazione di sensazioni, si indovina l’amaro retrogusto nell’apprendere che tutto quello che si
sta vivendo è in realtà solamente frutto della creazione mentale, che l’idealità ha permeato ogni cosa
e che il sogno è effimero, vago e non può conformarsi con la realtà: «Piove (…) / su la favola bella/
che ieri/ t’illuse, che oggi mi illude,/ o Ermione».
Ma se nemmeno la realtà virtuale del sogno riesce a stare in piedi, illude e delude, qual è allora la
soluzione cercata da D’Annunzio? Confrontarsi con la realtà? Accettare la sfida della realtà? No,
piuttosto passare di sogno in sogno, cercando sempre distrazioni, novità, pensieri ed esperienze
diverse e nuove, nel tentativo di sfuggire continuamente alla miseria della vita reale. Essere
multanime, come viene spiegato ne L’Innocente, significa proprio questo: avere il centro di gravità
spostato, cioè passare di continuo da una sensazione all’altra e da una costruzione mentale all’altra.
Essere contraddittori, frammentari, instabili. Può sembrare una forma di malattia e in qualche modo
lo è davvero.
Questa condizione fluida, questa dispersione nella molteplicità dei propri desideri-sogni, può essere
ricercata in due modi. Il primo è quello che passa attraverso il torpore, l’oblio. L’illusione diventa
una sorta di droga, grazie alla quale si vive ai bordi della realtà, sempre col pericolo che
quest’ultima torni ad insidiarla. Il secondo è quello che passa attraverso la sublimazione del gioco.
Questa è una parola che diventa emblematica ed assumibile come esatta definizione della vita per
d’Annunzio, considerando anche il fatto che la parola latina ludus è contenuta sia nella parola
illusione che in delusione.
In un frammento del Libro Segreto, D’Annunzio ricorda le parole di un suo amico: «Quando io
gioco sento aumentare la mia vita come non mai, tocco il limite sommo della felicità (…) Chi disse
che la vita è sogno? La vita è gioco» e si dichiara immediatamente d’accordo con lui aggiungendo
questa frase molto significativa: «Ho giocato col destino, con gli eventi, con le sorti e con le
chimere» (LS, Regimen hinc animi), in altre parole con la vita.
Del resto i personaggi stessi di D’Annunzio mostrano spesso questa attitudine al giocare, come
Andrea Sperelli, o come Stelio Effrena, di cui si dice che perseguiva perpetuamente il gioco nella
sua vita. L’eroe dannunziano gioca con se stesso e con gli altri, ma viene anche giocato, da se stesso
e dagli altri. Illusione e delusione, appunto, in un movimento folle, circolare, estenuante e senza
fine.
Ecco allora che l’illusione del sogno si svela con una doppia faccia: all’inizio sembra essere la
risposta alla tristezza della realtà, ma presto si trasforma in una catena invincibile, un anello
soffocante, un cerchio ferreo.
Il cerchio ferreo
La particolare dinamica che abbiamo fin qui delineato è rappresentata da D’annunzio attraverso
l’immagine del cerchio. È un’immagine, questa, a cui lo scrittore sembra dare molta importanza e
che, infatti, ricorre spesso nelle pagine dei romanzi che abbiamo preso in considerazione: nel Fuoco
18 volte, nel Trionfo della morte 19, ne L’innocente 9, in Forse che sì forse che no 25, ne Le vergini
delle rocce 8 ed infine anche nell’opera teatrale La città morta 3 volte. Il cerchio è la
rappresentazione grafica del genio di D’Annunzio che gira su se stesso, il simbolo perfetto della
costruzione mentale.
Riporteremo qui solo alcuni esempi per dimostrare, oltre che la presenza, anche l’ambiguità,
l’ambivalenza di questa figura. In effetti il cerchio in D’Annunzio rappresenta allo stesso tempo sia
il sogno costruito, sia la soffocante chiusura che infine si prova.
Il personaggio che entra nel cerchio inizia a dar vita a una nuova realtà di cui egli è l’artefice,
distaccandosi sempre più dal mondo reale per rifugiarsi in una creazione puramente mentale,
all’interno della quale si esalta e si sente padrone e in cui cerca di trascinare anche gli altri:
«In tale affermazione di sé egli parve ritrovare tutta la sua sicurezza e sentirsi omai signore del suo
pensiero e della sua parola, fuor del pericolo, atto a trascinar nei cerchi del suo sogno la smisurata
chimera occhiuta dal busto coperto di scaglie splendide» (Fc, parte prima). Stelio Effrena è signore
del suo pensiero, padrone, quindi, del cerchio dove cerca di trascinare, attraverso la parola, tutta la
folla che ascolterà il suo discorso. È sempre Stelio a definire Donatella Arvale «una pura forza
ideale da attrarre nel cerchio della sua impresa magnifica».
All’interno del cerchio l’uomo si sente appagato, mentre la realtà non lo soddisfa mai, non è
all’altezza delle sue aspettative: «Io ero felice, felice, indicibilmente felice; ero posseduto come da
una grande allucinazione di felicità inaspettata, insperata, che trasfigurava tutto il mio essere,
suscitava e moltiplicava quanto di buono e di giovine era ancora rimasto in me, m’isolava dal
mondo, concentrava a un tratto la mia vita nel cerchio delle mura che chiudevano quel giardino». (I,
VII). L’inadeguatezza della realtà porta Tullio a rifiutarla e ad isolarsi, alienandosi così nel suo
sogno.
La felicità del personaggio si rivela, ben presto, apparente e tanto illusoria quanto lo è il cerchio, il
sogno che ha costruito; di ciò egli è consapevole: ne La città morta Leonardo, dopo aver visto il
cadavere della sorella, di cui era innamorato, parlando di lei con Alessandro, dice: «Ella sapeva
mutare il più tenue dei sorrisi in una grande felicità… La più piccola delle mie gioie si dilatava nella
sua anima all’infinito, all’infinito, come un cerchio nell’acqua calma, sinchè mi dava l’illusione
d’una grande felicità» (CM, atto quinto, scena unica). Una piccola gioia di Leonardo, all’interno del
sogno, si ingrandisce come un cerchio nell’acqua, all’interno del quale gli sembra di immergersi
nell’infinito .
È l’amante quella che il personaggio dannunziano cerca più ardentemente di portare nel suo
cerchio, affinché ella diventi come lui vuole, una sua creatura, da lui plasmata e modellata, che lo
ami e gli doni tutta se stessa. «Era nel puro bronzo l’effige di un giovine dalla bella chioma ondosa,
dal profilo imperiale […], così perfetto che l’imaginazione non poteva rappresentarselo nella vita se
non immune da ogni decadenza e immutabile come l’artefice lo aveva chiuso nel cerchio di quel
metallo per l’eternità» (Fc, parte prima). La statua osservata da Stelio Effrena sembra una metafora
della donna che una volta entrata nel sogno, come il puro bronzo, gli appare immutabile per come
lui l’ha modellata, chiusa nel cerchio per l’eternità.
Dunque l’uomo dentro al suo sogno non è mai solo, con la donna vive momenti di appagamento e
complicità. Nel Trionfo della morte, ad esempio, i due amanti stanno per far ritorno a Roma, dopo
essere stati ad Albano, e Giorgio sente già che presto sarà ripreso dal solito male; Ippolita lo
intuisce subito e i due sembrano essere in perfetta sintonia, quasi fossero un’anima sola; lei sa il
suo male e potrebbe guarirlo con la sua presenza, andando con lui, seguendolo, continuando ad
essere la creatura del suo sogno. Giorgio Aurispa è convinto di poter star bene solo rimanendo nel
cerchio con lei accanto: «Egli soggiunge, a voce bassa, chinando la faccia sul petto di lei: -Tu sai il
mio male. Ella pareva avere indovinato il pensiero dell’amante. Domandò, quasi in segreto, quasi
restringendo con la voce sommessa il cerchio ove insieme respiravano e palpitavano: -Come ti
potrei guarire?» (TM, libro primo, VII).
Il cerchio, dunque, diviene anche simbolo della passione che travolge i due amanti, tanto che le
labbra stesse della donna diventano un cerchio: «Mandami un fiore lungamente baciato, segnami su
la carta un cerchio dove tu abbia premuta lungamente la bocca, fa che io possieda nell’imaginazione
una carezza tua inviatami di lontano» (TM,, libro primo, VI).
In un passo del Fuoco la passione travolge totalmente i due protagonisti, e anche i loro corpi,
inseparabili e completamente persi nel cerchio di questa passione, sembrano diventare uno solo:
«La donna gli pesava sopra con tutto il suo peso […] con una stretta che non si allentava mai,
indissolubile, come quella del cadavere quando le sue braccia s’irrigidiscono intorno al vivente.
[…] Egli sentiva nel cerchio la solidità e la tenacia delle ossa, mentre sentiva sul suo petto e lungo
le sue gambe la mollezza di quella carne che gli tremava sopra a quando a quando come trema sulla
ghiaia l’acqua corrente» (Fc, parte seconda). La donna, Foscarina, si è donata a Stelio Effrena,
come egli voleva, ma nella passione amorosa, che coinvolge i due amanti, non traspare la gioia, la
leggerezza del momento, quanto più una sensazione di pesantezza, di soffocamento, data soprattutto
dalla similitudine ricercata nel campo semantico della morte. Non è neanche finito l’amplesso, che
l’uomo già si sente soffocare nella sua stessa creazione: il sogno si brucia subito e brucia tutto.
Dunque inizialmente la parola cerchio appare quasi magica, l’equivalente di una favola bella, in cui
si sta bene, ma poi mostra un risvolto inquietante e quasi tragico, poiché questo cerchio, che
circonda le vite dei vari personaggi, finisce per soffocarle. Lo stesso artefice rimane intrappolato,
ingannato dalla sua stessa creazione: «Perciò la sua casa era un perfettissimo teatro; ed egli era un
abilissimo apparecchiatore. Ma nell’artificio quasi sempre egli metteva tutto sé, vi spendeva la
ricchezza del suo spirito largamente; vi si obliava così che non di rado rimaneva ingannato dal suo
stesso inganno, insidiato dalla sua stessa insidia, ferito dalle sue stesse armi, a somiglianza d’un
incantatore il quale fosse preso nel cerchio del suo incantesimo» (P, libro primo, I).
Il sogno finisce per perdere il suo fascino, diviene monotono, e per questo noioso e soffocante:
«Confessa che già cominciavi a sentirti esausta, perduta; perché credevi di accrescere ogni giorno il
tuo potere e lo consumavi ogni giorno, e rimanevi serrata nel cerchio medesimo del tuo maleficio,
ed eravate soffocati entrambi dall’angustia, costretti a ripetere sempre gli stessi gesti come nelle
manie» (F, libro secondo). A parlare sono le due sorelle Isabella e Vanina entrambe innamorate di
Paolo Tarsis, ma è solo la prima ad intrattenere una relazione con lui: i due amanti bloccati nel
cerchio sono “soffocati entrambi dall’angustia”, condannati alla monotonia che li consuma.
Il personaggio, che si sente ora imprigionato all’interno del cerchio, comincia a provare anche nella
sua stessa creazione le angustie della realtà che aveva fuggito: «Ma l’anima di Giorgio Aurispa,
invece, si affliggeva e si disperava del suo isolamento; e si dibatteva con mille furie cieche, come
un prigioniero in un carcere chiuso per sempre, finché cadeva estenuata. E allora si raccoglieva, si
restringeva, si ripiegava su se stessa come una gracile foglia. Nel cerchio angusto le inquietudini
sopravvivano egualmente acri e fermentavano; cagionando una irritazione sorda e profonda, un
malessere incomprensibile, una sofferenza continua, ostinata, sottile» (TM, libro terzo, VI).
Stremato da questa sofferenza, l’uomo inizia a vedere l’amante come una minaccia: è a causa sua se
il cerchio diventa angusto: «“Ella è dunque la Nemica”, pensò Giorgio. “Finché vivrà, finché potrà
esercitare sopra di me il suo impero, ella m’impedirà di porre il piede su la soglia che scorgo. E
come recupererò io la mia sostanza, se una gran parte è nelle mani di costei? Vano è aspirare a un
nuovo mondo, a una vita nuova. Finché dura l’amore, l’asse del mondo è stabilito in un solo essere
e la vita è chiusa in un cerchio angusto. Per rivivere e per conquistare, bisognerebbe che io mi
affrancassi dall’amore, che io mi disfacessi della nemica …”» (TM, libro quarto, III). Per rivivere
Giorgio Aurispa dice di doversi liberare dell’amante-nemica, quindi, è consapevole che nel sogno
non si vive: è nella realtà che si vive, e per tornare a farlo egli deve uscire dal sogno, dal cerchio
soffocante in cui ha chiuso la sua vita.
Ecco allora il bisogno espresso dal personaggio di abbandonare quel cerchio che si è tramutato in
una prigione: «L’Atto puro segna la sconfitta dell’antico Destino. L’anima nuova rompe a un tratto
il cerchio di ferro ond’è stretta, con una determinazione generata dalla follia, da un lucido delirio
che è simile all’estasi, che è come una più profonda visione della Natura» (Fc, parte seconda).
L’antico Destino è sconfitto, l’anima annienta il cerchio e ne esce.
Altrove l’immagine del cerchio va caricandosi di un significato più ampio, universale: diviene
rappresentazione del destino dell’uomo, del cosiddetto “cerchio fatale”, quello della vita che,
paganamente, è intesa come un “ex nihilo ad nihilum”: «La mia vita è chiusa in un breve cerchio,
forse per sempre. Io vi leggeva dianzi l’Antigone. Di tratto in tratto mi pareva di leggere il mio
Destino» (CM, atto primo, scena terza).
Variante dell’immagine del cerchio è la figura del labirinto, luogo al cui interno è difficile ritrovare
la via d’uscita, come è difficile per i personaggi dannunziani ritrovare la realtà una volta che si
siano persi nel proprio sogno. Emblematico l’episodio del Fuoco in cui Stelio Effrena vuole
trascinare una riluttante Foscarina all’interno di un giardino-labirinto, quasi a metafora dell’uomo
che cerca - riuscendoci- di portare all’interno del suo “cerchio”, della sua realtà, del suo sogno, la
donna e fare anche di questa una sua creatura. Una volta entrati, egli inizia a giocare con lei a una
sorta di nascondino, ma lei diventa sempre più ansiosa, sempre più spaventata, fin quando Stelio
Effrena, per chiedere aiuto e chiamare qualcuno, la lascia sola nel labirinto. Qui la donna resta
intrappolata nel cerchio in cui è stata attirata e si è lasciata attirare, mentre l’uomo trova la sua
libertà evadendo e mettendo fine ad un gioco pericoloso.
La “tortura” del desiderio
Il sogno nel quale vive D’Annunzio è generato, come si è detto nei paragrafi precedenti, dal
desiderio, che a sua volta nasce dalla mancanza di qualcosa. Quando la linea del desiderio si incurva
nel cerchio del sogno, si produce una realtà immaginifica, una favola bella, di cui D’Annunzio è
creatore e signore. Ma si è visto anche che il sogno illude, essendo una realtà fittizia, frutto dei
pensieri del poeta, e delude.
Di fronte alla delusione, la tentazione è quella di incolpare il desiderio. «“Il desiderio!” pensò
Giorgio, richiamato così alla sua donna, alla corporale tristezza del suo amore. “Chi ucciderà il
desiderio?”» (TM, libro quarto, IV). Ma quando è massimo l’oblio prodotto dal sogno, questo ed il
desiderio si fondono e si confondono. E allora anche il sogno viene messo sotto accusa: «E per
mettere fine a tutti i sogni egli non doveva se non sognare di non voler più sognare» (TM, libro
quinto, III).
Ma uccidere il sogno significa uccidere se stessi, togliersi la vita, che con esso s’identifica. La
tentazione è dunque quella del suicidio, come D’Annunzio confessa apertamente nel Libro Segreto:
«M’avvenne di ricorrere cinque volte al farmaco letale, al sonno senza sogni» (LS, Via Crucis).
Il momentaneo ritorno alla realtà, a seguito della delusione dal sogno, coincide molte volte con la
“convalescenza” e la “purificazione” dei personaggi, che provano un senso di disgusto per le loro
costruzioni mentali. E’ il momento in cui ci si rende conto che giocare con se stessi, autoingannarsi,
è un gioco davvero sciocco ed inutile («Ingannare sapendo d’essere ingannato è una sciocca e
sterile fatica, è un giuoco noioso e inutile» - P, libro terzo, II). Una volta uscito dal regno del
desiderio e del sogno, dopo aver colto la futilità di ciò che l’idealità ha generato, si prende ad odiare
la costruzione mentale.
È questo lo stato d’animo di Giorgio Aurispa nel rileggere le lettere che un tempo scriveva ad
Ippolita; egli non riesce a sopportare quelle parole generate dall’attitudine di creare un mondo
fittizio, non può fare a meno di disprezzarle e di sentirle tremendamente distanti: «Non gli riusciva
di ravvicinare l’io di quel tempo all’io presente. Egli sentiva pur sempre di rimanere estraneo
all’uomo che si disperava e si accorava in quelle frasi scritte; sentiva che quelle emanazioni del suo
amore non gli appartenevano più e sentiva anche tutta la vacuità delle parole» (TM, libro primo,
VI).
Andrea Sperelli vive una situazione di questo genere all’inizio del libro secondo del Piacere,
nell’ambito di una vera crisi mistico-religiosa che potrebbe portarlo a cambiare vita. Se la realtà è
negativa, se il sogno illude, se tutto è vano, allora l’aspirazione diventa quella della dissoluzione di
sé come soggetto desiderante: «Egli non si ricordava più di nulla. Il suo spirito aveva fatto una
grande renunziazione. […] Egli riposava, poiché non desiderava più» (P, libro secondo, I).
Nelle parole e nei pensieri che D’Annunzio attribuisce a Sperelli c’è molto della filosofia orientale,
c’è molto del metodo buddhista, che all’epoca era stato diffuso tra gli intellettuali anche dalla
filosofia di Schopenhauer, teorizzatore della noluntas. Giungere allo stadio di non desiderare più, di
trascendere se stessi, di adeguarsi ad un cosmo impersonale e di sprofondarvi sembra essere la
soluzione a tutti i problemi. E infatti è proprio in quel momento del romanzo che a Sperelli vengono
in mente i precetti dei Veda indiani e in particolare la formula sanscrita “TAT TWAM ASI” (questa
cosa vivente sei tu). Ricordiamo qui, per inciso, che nelle ultime pagine del romanzo Andrea
compra all’asta di fallimento alcuni beni appartenuti al marito di Donna Maria, tra i quali c’è
proprio la statua di Buddha.
A riprova di questa attenzione di D’Annunzio per il buddhismo, almeno in un certo momento della
sua vita, c’è anche il fatto che Giorgio Aurispa incontra Ippolita Sanzio proprio in mezzo a un
gruppo di scienziati positivisti che coltivavano il buddhismo.
C’è in particolare un personaggio di D’Annunzio che rappresenta questa linea ascetica orientale,
capace di estirpare il desiderio. E’ Daniele Glauro, l’amico di Stelio Effrena. In una scena del
Fuoco si svolge un interessante dialogo tra i due. Daniele vi appare come un asceta che ha domato il
desiderio e invita Stelio a fare altrettanto: «Vivere tutta la vita vorrei, non essere soltanto cervello» dice appunto Stelio all’amico.
«Un cervello contiene il mondo».
«Ah, tu non puoi comprendere. Tu sei l’asceta; tu hai domato il desiderio» (Fc, parte seconda).
Stelio Effrena non riesce a seguire l’amico. È legato alla vita dalle sensazioni prodotte dal sogno e
per questo sente di non potere uccidere il desiderio. Ha bisogno di vivere nell’eterna bellezza del
sogno, nel piacere che esso genera, in una propria realtà. Per fare questo non può rinunciare alla
realtà comune, anche se poi questa gli serve solo per trasformarla in qualcosa d’altro.
La critica che D’Annunzio fa alla antica sapienza indiana tramite i personaggi dei suoi romanzi
risiede proprio nel fatto che non può creare sogni dopo averne negato la volontà, e non consente di
transitare da un centro all’altro del cerchio, di assaporare sempre nuove sensazioni ed
immaginazioni, dando vita ogni volta ad un nuovo sogno. Se da una parte Glauro ha intrapreso la
via dell’ascetismo, annientando il suo ego desiderante, Effrena non è in grado di smettere di
fabbricare sogni. Per questo ad Effrena non si addice il solo pensiero (egli non vuole essere “solo
cervello”), egli deve innalzarsi ad una realtà, pur sempre immaginifica, che si domina solo con il
pensiero, ma a partire dal corpo: «Per una di quelle transustanziazioni che senza miracolo compie il
mio cervello alimentato dal fuoco degli inguini, gioisco di Leila […]» (LS, Regimen Hinc Animi).
La fase della noluntas, dunque, non diventa una preparazione all’ascesi per D’Annunzio, quanto
una nuova consapevolezza di non poter vivere fuori dal sogno. Lo conferma proprio la vicenda di
Sperelli: «Ma questo periodo di visioni, di astrazioni, di intuizioni, di contemplazioni pure, questa
specie di misticismo buddhistico e quasi direi cosmogonico, fu brevissimo» (P, libro secondo, I).
Riassumendo, dunque, la noluntas, che implica un confronto tra soggetto e realtà, rappresenta da
una parte la presa di coscienza della delusione del sogno, dall’altra la consapevolezza del fatto che è
proprio la realtà stessa a nutrire i sogni. D’Annunzio, dopo l’amara delusione, non rinuncia a
trasformare, modellare plagi e fascini della realtà per generare un nuovo sogno: sono gli occhi, le
labbra, le espressioni delle amanti a muovere l’immaginazione, che si mette a servizio del poeta per
dare vita ad un nuovo cerchio: «Tu esalti la mia forza e la mia speranza, ogni giorno […]. Allora
nascono in me le cose che nel tempo ti meraviglieranno. Tu mi sei necessaria» (Fc, parte seconda).
Distruggere per possedere resta pur sempre il gioco preferito da D’Annunzio: diventa necessario
prendere tutto quello che la realtà può dare, succhiarne il midollo, per fabbricare il piacere di nuove
sensazioni, nuovi sogni.
La crisi mistica e religiosa di Sperelli non porta dunque ad un misticismo orientale, ma neppure in
braccio al Dio cristiano (per un breve attimo evocato dal suono di campane di una chiesa). Solo una
strada appare possibile, quella dell’Arte, come suprema illusione. Nell’Arte D’Annunzio trova il
proprio idolo cui sacrificare tutte le sue forze e il suo genio, senza bisogno di rinunciare agli stimoli
e ai piaceri dei sensi. Attraverso l’Arte il poeta non rinuncia alla costruzione, alla volontà di creare,
di dominare, di modellare, ma lo fa al di sopra della volontà stessa, dello spazio e del tempo,
trovando così la soluzione alla sintesi tanto cercata.
Con l’Arte, che si concretizza nel Verso, il poeta sperimenta, appunto, la sintesi nel sogno. «Il
Verso è tutto. Nella imitazion della Natura nessuno istrumento d’arte è più vivo, agile, acuto, vario,
moltiforme, plastico, obediente, sensibile, fedele. […] chiude il pensiero come in un cerchio preciso
che nessuna forza mai riuscirà a rompere» (P, libro secondo, I). Il cerchio perfetto lo crea il verso,
dunque, l’Arte. Dietro la massima di Andrea Sperelli si cela la poetica del Vate immaginifico, che
ha voluto rendere la sua vita conforme ad una favola bella, ad un sogno, ad un cerchio in cui poter
dominare la realtà, modellarla come si modella la cera, in cui lo spirito potesse saziarsi di sempre
nuove sensazioni e immaginazioni.
Il pensiere ha per cima la follia
Nel 1908 Gilbert Keith Chesterton, nel suo saggio Ortodossia, scriveva che tutta l’umanità
contemporanea era incamminata verso il manicomio e che il matto perfetto era quello che ragionava
troppo: «Un pazzo non è trattenuto dal senso del ridicolo o dal sentimento della carità o dalle mute
certezze dell’esperienza. Egli è tanto più logico in quanto ha perduto ogni affetto sano. […] La sua
mente si muove in un cerchio perfetto ma ristretto».
Di certo Chesterton non pensava a D’Annunzio quando scriveva queste righe, ma è certo che
D’Annunzio conferma proprio le riflessioni dello scrittore e polemista inglese quando nel Libro
segreto scrive: «Il mio genio sembra girare vertiginosamente intorno a sé come la fionda rotata
prima di lanciare il sasso o il piombo. La rotazione violenta e sempre più rapida della fionda intorno
al capo del fiondatore non è dissimile a quella de’ miei pensieri agglomerati per ostile foltezza».
Un cervello che gira intorno a se stesso, dunque, in un cerchio simile a quello del folle. E in effetti
molti personaggi dannunziani più che degli eroi sono degli inetti, anzi, dei malati.
Ma in che cosa consiste questa malattia? È la stessa domanda che si è posto Costantino Esposito a
proposito dell’inetto sveviano nel suo intervento ai Colloqui fiorentini del 2006 (Quella mia
assenza continua ch’è il mio destino. Il pensiero di Italo Svevo, in AAVV, Italo Svevo, Società
Editrice Fiorentina). La risposta che egli dà è che «la malattia di Svevo è una malattia del pensiero»
e consiste «nel fatto che il pensiero si isoli dall’esperienza, si eserciti staccato dal soggetto, non
parta più come genesi dall’esperienza […] il pensiero viene a identificarsi sempre di più con le “mie
idee”, mentre il pensiero è sempre qualcosa che, insieme, attraversa ed eccede, supera le mie idee».
Esposito continua poi dicendo che «il pensiero non permette più l’incontro con la realtà, ma in
qualche modo si configura come un’apertura che curva di nuovo in se stessa».
Dunque l’inetto sveviano, come anche il personaggio di D’Annunzio, è «un io senza pensiero», che
non riesce a vedere, che perde la realtà e se stesso e che, essendo prigioniero della propria analisi,
trova la sintesi solo nel sogno. E’ un tipo umano che vive continuamente “fuori di sé”. In questo
D’Annunzio condivide già la malattia di tutto il pensiero novecentesco.
Forse per questo lui stesso si considerava folle, come l’Ariel di Shakespeare il cui nome aveva
preso a prestito.
«Il pensiere ha per cima la follia.
E l’amore è legato al tradimento».
Il pensiero si attorciglia nel cerchio della follia. Questo movimento crea l’illusione e così la realtà,
che l’uomo ama, tradisce.
In effetti D’Annunzio è tutto qui, in questi versi che chiudono il Libro segreto.
Claudia Chiricozzi
Laura Moretti
Margherita Parlani
Fabiana Pellegrini
Luisa Sandoletti