Populonia in età ellenistica

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Populonia in età ellenistica
POPULONIA IN ETÀ ELLENISTICA: NUOVI DATI DALLA NECROPOLI DELLE GROTTE
L’intervento di scavo e sistemazione parziale di un settore della necropoli
delle Grotte, condotto tra il 1997 e il 1998 per realizzare uno dei percorsi
principali all’interno del Parco Archeologico e Naturalistico di Populonia, ha
corrisposto pienamente ed in una fase largamente antesignana al modello di
gestione delle risorse finanziarie condiviso dallo Stato con gli organi regionali e
con le amministrazioni locali1. Nell’occasione infatti è stato possibile coniugare
le diverse, e non certo inscindibili, necessità legate alla conoscenza, alla tutela
e alla valorizzazione di un paesaggio culturale per certi versi unico, segnato
fortemente dall’attività di estrazione della pietra arenaria locale e utilizzato
poi come sepolcreto almeno fino alla metà del primo secolo a.C. (ROMUALDI
2003b con bibliografia).
Quella delle Grotte, come è noto, è la più significativa e la più estesa
fra le necropoli di età ellenistica che si sviluppano nel momento di massima
espansione della città, tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. (Fig. 1).
All’interno di questa necropoli si conservano due tombe dipinte che si configurano ad oggi come l’unica testimonianza conosciuta di questo tipo di
sepolture nell’Etruria settentrionale costiera. La tomba 1, detta fino ad oggi
del “corridietro” o, com’è meglio definirla, “delle onde marine”, e la tomba
2 dei “delfini”, studiate fin dal 1974 da Fabio Fedeli, sono state nuovamente
1
Per la storia del parco archeologico: ROMUALDI 1984; INSOLERA, ROMUALDI 1988; RO2003a. I risultati delle ricerche compiute nel 1997 e 1998, che qui si presentano, hanno
davvero carattere assolutamente preliminare, e questa non è la solita formula rituale! Gli scavi
furono condotti da Rosalba Settesoldi, con la collaborazione di Paolo Sorice, in condizioni
ambientali, organizzative e tecniche assai difficili: ne abbiamo affidato la memoria agli archivi
cartacei della Soprintendenza. Il lavaggio ed il restauro dei materiali, escludendo quelli del
corredo della tomba 14, esposta fino dal 1998 nel Centro di Documentazione del Parco e poi
in seguito nel museo di Cittadella, per motivi burocratici, sono iniziati solo nel marzo del 2003,
nell’ambito dell’accordo di programma Stato-Regione e sono stati ultimati solo alla fine dello
stesso anno. Dobbiamo sottolineare con forza che molto lavoro resta ancora da fare: i non
numerosi reperti in bronzo e in ferro devono essere restaurati dal Centro della Soprintendenza;
tutti i materiali recuperati all’interno delle tombe a camera cosiddette limitrofe devono essere
ancora lavati; la maggior parte dei reperti deve essere necessariamente disegnata. I materiali
restaurati da Rosalba Settesoldi sono stati catalogati dalla stessa e da Ornella Guzzi; le operazioni di lavaggio sono state effettuate da Daniela Franchi. Si è ritenuto comunque opportuno
accettare l’invito a presentare i primi risultati delle ricerche.
MUALDI
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Fig. 1 – Populonia, necropoli delle Grotte.
esaminate alla luce delle scoperte o ri-scoperte avvenute in anni recenti nell’Etruria meridionale e nella stessa Populonia, nell’ambito dei lavori di un
convegno sulla pittura etrusca organizzato nel 2002 a Sarteano da Alessandra
Minetti. Il linguaggio figurativo delle due tombe, improntato a modelli ceretani e soprattutto tarquiniesi, ma non privo di caratteri originali, rispecchia
la presenza di artigiani formatisi in ambito etrusco-meridionale ma ormai
pienamente inseriti nella realtà locale (ROMUALDI 2003b). Si tratta dunque di
tombe appartenute a famiglie di livello agiato, almeno in parte forse provenienti dall’Etruria meridionale, che hanno continuato per più generazioni e
per più di un secolo ad usufruire della tomba di famiglia: il dato potrebbe
almeno in parte contribuire a ridimensionare quantomeno l’immagine di una
società populoniese composta di individui di origine semiservile: ma questo
è un problema assai più complesso, da affrontare in futuro con l’auspicabile
prosecuzione delle ricerche anche nelle altre necropoli ellenistiche, come
quelle di Buche delle Fate e di Malassarto.
Gli scavi hanno permesso di mettere in luce 35 tombe ad ipogeo e 8
tombe a fossa ad inumazione e a cremazione (Fig. 2), ricavate nel riempimento
della cava non più attiva, formato dai residui di lavorazione della calcarenite.
Uno dei nuclei più consistenti di tombe ad ipogeo – le tombe cosiddette
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Fig. 2 – Populonia, necropoli delle
Grotte, poligonale con le tombe
cosiddette limitrofe, settori B e C
(rilievo E. Trinci, Co.IDRA).
limitrofe – è disposto sulla parete ripida del costone di roccia con le tombe
allineate su almeno sei livelli diversi che spesso si intersecano e quasi si sovrappongono tra loro. Prevale la necessità di sfruttare al massimo per le sepolture
lo spazio esistente, contribuendo così ad evidenziare il quadro dell’enorme
sviluppo demografico raggiunto dalla città in epoca ellenistica, già largamente
delineato (ROMUALDI 2003b, con bibliografia). La tipologia architettonica è in
corso di studio da parte dell’amico S. Steingraeber e dunque questo mi esime
in un certo senso dal parlarne. Quasi tutti i materiali rinvenuti nelle tombe
cosiddette limitrofe – residui di corredi largamente distrutti dai ladri – ad
un primo esame sembrano confermare l’arco cronologico di utilizzo della
necropoli fino ad oggi comunemente indicato, cioè dalla fine del IV alla metà
del II secolo a.C. (ROMUALDI 2000).
Il rapporto tra la cava e le tombe costituisce uno degli aspetti più interessanti della ricerca. Il ritrovamento di un fronte di cava esteso oltre 50 m, con
il piano di lavorazione ancora intatto, i blocchi già tagliati e pronti per essere
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Fig. 3 – Frammento di ansa di impasto decorata
ad impressione con un motivo a falsa cordicella,
dal riempimento antistante il fronte di panchina
in cui sono state scavate le tombe a camera nn.
12 e 13, settore A.
cavati, con i segni perfettamente riconoscibili dei cunei di ferro, rende oggi la
zona delle grotte un polo di attrazione di eccezionale interesse, un’area unica
nell’Etruria (la necropoli del fondo Scataglini di Tarquinia non può essere
paragonata per estensione a questa), perché fa intuire lo sviluppo e la straordinaria potenza economica raggiunta da Populonia. La quantità di pietra cavata
nel corso dei secoli supera ogni immaginazione: basti pensare che in una zona
ancora più ristretta come quella che comprende il fronte della cava opposto
all’avancorpo con la tomba 14, il volume di pietra scavato è stato stimato in
maniera molto approssimativa in più di 34 mila metri cubi (ROMUALDI 2000).
L’intero piano di coltivazione è sottoposto tuttora a vari studi; si cerca tra le
altre cose di individuare l’esistenza di un’unità di misura standardizzata.
L’inizio dell’attività di estrazione della pietra, che si può far risalire ad
epoca orientalizzante, è testimoniato dalla presenza di alcuni frammenti di
impasto e di bucchero rinvenuti nel corso della campagna di scavo del 1979
e di quest’ultima: presentiamo qui un frammento di ansa di impasto decorata ad impressione con un motivo a falsa cordicella, rinvenuto negli strati
inferiori del riempimento antistante il fronte di panchina in cui sono state
scavate le tombe a camera nn. 12 e 13 (Fig. 3). Non bisogna dimenticare che
alcuni carotaggi, effettuati nel materiale di riempimento della cava a partire
dal livello del piano attuale di calpestio di fronte all’avancorpo, hanno rivelato
la presenza del bancone naturale di roccia a ben 14 m di profondità (i lavori
per la sistemazione e il restauro del fronte di cava, già previsti nell’accordo
di programma Stato-Regione del 2000, porteranno sicuramente nuovi dati).
La prosecuzione delle ricerche all’interno delle cave per individuare gli spazi
interni destinati per esempio alla rifinitura e allo stoccaggio dei blocchi oltre
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Fig. 4 – Dromos con gradini divelti, tomba 424 delle cosiddette tombe limitrofe, settore B.
che agli spazi per le maestranze, la definizione della viabilità interna per il
trasporto del materiale verso il porto o verso l’acropoli dovranno costituire
obbiettivi primari nella definizione progettuale di un piano di sviluppo e di
valorizzazione di questa necropoli. In alcuni settori quando le tombe erano
già in parte abbandonate ci fu una breve ripresa dell’attività di cava, che portò
alla distruzione di alcuni gradini dei dromoi (Fig. 4). Sempre in quest’area
altre tombe furono utilizzate come ricovero temporaneo, private del dromos:
questa fase dev’essere ascritta ad epoca postclassica, come parrebbero indicare
alcuni frammenti di maiolica raccolti nelle vicinanze.
Uno dei risultati più importanti emersi grazie al restauro e alla catalogazione dei materiali è quello relativo ad una maggiore precisione della
cronologia inferiore della necropoli: infatti la presenza all’interno della tomba a fossa a cremazione α (Fig. 5) di un kantharos a pareti sottili tipo Ricci
2/422-423=Marabini XXIX=Mayet IX (Fig. 6) indica una datazione alla
seconda metà del I secolo a.C. La tomba a fossa a inumazione γ, che annovera nel corredo tra l’altro un bicchiere di Forma Marabini 1 e una coppa a
vernice nera Campana B, tipo Lamboglia 1-Morel 2320, conferma l’utilizzo
della necropoli nel I secolo, al pari di quanto già evidenziato nella necropoli
di Buche delle Fate.
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Fig. 5 – Tomba a fossa α, al momento dello scavo.
I dati emersi dall’ultima campagna di scavo si rivelano preziosi per
iniziare lo studio relativo ai rituali funebri. Non mi soffermerò troppo sulla
tomba 14 che costituisce, al pari di altri casi attestati a Tarquinia, uno dei pochi
esempi di tomba a camera utilizzata per una sola sepoltura a cremazione: in
essa la brocca di impasto, molto vicina nella forma alla lagynos che si trovava
isolata sul letto di sinistra, quasi addossata al cuscino, doveva rivestire un significato particolare anche per il suo contenuto, quasi un viatico per l’aldilà,
connotando la defunta come seguace della religione dionisiaca (ROMUALDI
2000). La tomba µ a nicchia, maschile, scavata nel fronte est della cava,
riveste grande interesse soprattutto per la presenza dei resti della cerimonia
del rituale di chiusura della tomba: accanto a resti carbonizzati di sostanze
organiche relative ad offerte di cibo compaiono due anfore greco-italiche di
piccole dimensioni, che contenevano forse acqua lustrale, e la caratteristica
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Fig. 6 – Kantharos a pareti sottili tipo Ricci 2/422-423, dalla
tomba a fossa α.
anfora a colletto che si ripete nei corredi ellenistici di Populonia. Lo studio
del rituale di seppellimento di questa tomba – vale la pena sottolineare che
il restauro dell’intero contesto deve ancora essere ultimato – contribuirà ad
illuminare aspetti ideologici e religiosi della variegata composizione sociale
populoniese, finora assai poco indagati per la carenza di documentazione che
ha contraddistinto la storia degli scavi di Populonia. Se è vero che è giusto
“iniziare a scavare i centri abitati”, come si sente ripetere da più parti ormai
quasi meccanicamente, è altrettanto importante recuperare i contesti che si
sono salvati dall’immane saccheggio perpetrato ai danni delle necropoli di
Populonia. Vale la pena ricordare la tomba η con una deposizione collocata
direttamente sui blocchi della cava, che ha restituito alcuni frammenti ossei
appartenenti all’arto posteriore destro di un maialino di età compresa tra i 18 e
24 mesi, come hanno dimostrato le analisi di J. De Grossi Mazzorin (ROMUALDI
2000). La sepoltura di un bambino di 8-10 anni (tomba ζ), per le offerte di
cibo consistenti nei resti di una gallinella di tenera età e in alcune uova deposte
all’interno di uno skyphos, riveste un significato particolare proprio in relazione
alla religione orfica. Facevano parte del corredo anche un numero altissimo di
astragali, calcolato nell’ordine di circa un centinaio: richiami puntuali possono
essere fatti ad esempio con le necropoli della Magna Grecia.
L’edizione integrale dei complessi scavati alle Grotte e i dati che scaturiscono dall’esame del rapporto fra l’attività di cava e l’utilizzo della necropoli
permetteranno, nell’esposizione all’interno del Museo di Piombino, di arricchire e meglio definire il quadro della cultura e della società populoniese in
età ellenistica.
ANTONELLA ROMUALDI
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I materiali
CERAMICA IBERICA
La presenza di un’olpe iberica (Fig. 7) negli strati antistanti il fronte di
cava arricchisce un nucleo già consistente di ritrovamenti, il cui numero va
ampliandosi sempre di più alla luce degli ultimi scavi effettuati nel territorio
populoniese. Alla classe dei kalathoi iberici, infatti, sono da riferire ad esempio
due frammenti recuperati durante la campagna di scavi effettuata nel 1999 in
uno spesso strato di accumulo a ridosso del poderoso muro di terrazzamento
sull’acropoli di Populonia (ALBANESI 2002, p. 34). Il vaso in esame, che insieme
a pochi altri superstiti faceva parte verosimilmente di un corredo funerario
purtroppo smembrato, risulta composto da un alto collo troncoconico decorato da tre listelli orizzontali posti a distanza regolare, un corpo a profilo
convesso e un piede anulare con parete esterna unita al ventre senza stacco.
L’esemplare presenta un’argilla piuttosto depurata di colore grigio, peculiare
della produzione ampuritana.
Il tipo, riconducibile alla forma Aranegui 4 (ARANEGUI GASCO 1987, p.
90), trova confronti diretti con esemplari provenienti rispettivamente dalla
probabile tomba 15/97 della necropoli di Castiglioncello (PALLADINO 1999, p.
146, fig. 130), inquadrabile nella prima metà del II secolo a.C., e da una tomba
di Capoliveri nell’isola d’Elba (MAGGIANI 1981, p. 183, nota 51, tav. XLVIII).
Per ciò che attiene la diffusione, questi vasi, spesso non a caso associati
in Etruria ai kalathoi sovradipinti, si trovano quasi esclusivamente lungo
Fig. 7 – Olpe iberica, da una tomba
sconvolta negli strati antistanti il fronte
di cava.
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l’intero tracciato costiero che dalla Liguria arriva sino al golfo di Napoli, con
particolare concentrazione dei ritrovamenti nell’area compresa tra gli scali
marittimi di Volterra e il distretto populoniese (BRUNI 1992, p. 39). La circolazione di tali oggetti nella zona pare collegata, secondo ipotesi formulate da
vari studiosi, alla presenza di individui di provenienza iberica sul territorio,
presenza che possiamo ovviamente giustificare con la richiesta incessante di
manodopera legata all’estrazione e alla lavorazione del ferro insieme alle
attività portuali.
CERAMICA CORSA
Agli stretti rapporti con la Corsica, già ampiamente documentati nelle
fonti antiche e largamente confermati da studi recenti, nonché alla presenza
di individui corsi sul territorio populoniese, come sta a dimostrare l’iscrizione
rinvenuta sul fondo di una ciotola che reca il nome etrusco kursike (MAGGIANI
1999, pp. 47-51), dobbiamo l’olla proveniente dalla tomba ζ, una delle sepolture a fossa con inumato, scavate nello spesso riempimento che obliterava in
origine la cava. Il vaso (Fig. 8), nel complesso assai lacunoso, mostra il labbro
svasato, corpo ovoide e fondo piano mentre la superficie appare decorata da
fasci di striature divergenti e poco incavate; l’impasto è grossolano, di colore
nerastro con inclusi scuri di dimensioni variabili cui si uniscono sporadiche
fibre d’amianto. La presenza di questo minerale nel corpo ceramico appare
fondamentale, stando ai risultati di analisi petrografiche eseguite di recente su
vasellame ritenuto corso recuperato nel distretto populoniese, per stabilirne
Fig. 8 – Olla dalla tomba a fossa ζ, settore A.
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con certezza la provenienza dalla Corsica. Le analisi archeometriche infatti,
eseguite da P. Pallecchi del Centro di Restauro della Soprintendenza ai Beni
archeologici della Toscana, hanno portato al riconoscimento, accanto ai reperti di origine sicuramente corsa, anche di un’interessante produzione locale
(PALLECCHI 2001, pp. 22-23). Tali officine, che utilizzano argille provenienti
da affioramenti situati nell’isola d’Elba o nelle vicinanze dell’abitato di San
Vincenzo, imitano integralmente le caratteristiche tecniche e il repertorio
formale della ceramica di tradizione corsa. In quest’ottica, dunque, sarebbe
auspicabile la prosecuzione di queste indagini secondo un programma comune
che prenda parimenti in esame sia la ceramica corsa rinvenuta durante gli ultimi scavi sull’acropoli (COSTANTINI 2003, pp. 57-60), sia i reperti provenienti
dai corredi tombali di Populonia, questi ultimi esclusi, al pari dei materiali
corsi provenienti dall’isola d’Elba o da Pisa, da questa prima fase di analisi
petrografiche.
Per ciò che attiene invece la cronologia, considerato che l’olla in esame
risulta associata nel corredo a due skyphoi sovradipinti di fabbrica etruscomeridionale, ad una coppa emisferica dell’Atelier des Petites Estampilles serie
Morel 2783 e ad una ciotola Morel 2621, riferibile al cosiddetto Gruppo 96,
non possiamo che confermare il dato ormai acquisito che il vasellame corso
faccia la sua apparizione nei contesti funerari del territorio populoniese ed
ugualmente di quello elbano, tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C.
Nell’ambito invece della discussione riguardo al contenuto di questi vasi,
non è da escludere che il nostro esemplare, come altri provenienti da corredi
funerari, potesse contenere in origine qualche sostanza particolare deposta
come offerta al momento della cerimonia funebre. Solo analisi più approfondite
e mirate, da effettuare specificatamente sul terreno ancora presente all’interno
del vaso stesso, potranno essere utili per incrementare i pochi dati in nostro
possesso sull’argomento. Allo stato attuale delle ricerche, l’ipotesi avanzata da
G. De Tommaso e A. Romualdi che privilegia il miele tra le sostanze plausibili,
sulla base anche di fonti letterarie e di testimonianze archeologiche, appare la
più credibile (DE TOMMASO, ROMUALDI 2001, p. 25).
UNGUENTARIO PUNICO
Al medesimo contesto funerario della tomba ζ appartiene un unguentario
punico caratterizzato da un orlo pendulo a sezione triangolare, provvisto sul
margine superiore di un marcato gradino, quasi fosse una sorta di alloggio
per un tappo; il corpo è globulare, il piede ad anello, mentre sulla spalla
sono state dipinte con vernice rossiccia, attualmente pressoché scomparsa, tre
fasce orizzontali parallele (Fig. 9). Il tipo, anche se con dimensioni maggiori
e piede tipologicamente diverso, sembra rientrare nella forma A, serie 12.4
dei balsamari lekythoidi della recente classificazione di Camilli ed appare
particolarmente diffuso in Spagna e in ambito fenicio-punico in un arco di
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Fig. 9 – Unguentario punico dalla tomba a fossa ζ,
settore A.
tempo compreso tra la metà del IV e i primi decenni del III secolo a.C. Non
è da escludere che tali produzioni, nate in ambiente ispanico, siano state poi
recepite in ambito punico o viceversa, a giudicare dalla loro area di diffusione
(CAMILLI 1999, p. 31 e nota 75). La forma trova riscontro, infatti, in esemplari
provenienti ad esempio da Leptis Magna, da Tharros e da Ibiza (per Leptis
Magna: DE MIRO, FIORENTINI 1977, tav. XXIII, n. 13, fig. 67 b; per Tharros:
Tharros 1985, p. 52, tav. 6 25. 5/2; infine per Ibiza: FERNANDEZ 1992, V. I,
p. 87). La decorazione a fasce è attestata invece su esemplari provenienti da
Ampurias (CAMILLI 1999, p. 52) e dalla necropoli di Lilibeo in Sicilia (BECHTOLD
1999, pp. 122-128, tav. XVII, n. 168). La presenza di un balsamario del genere nel corredo della tomba ζ viene a confermare il quadro, già articolato
e composito, delineato da E.J. Shepherd nell’ambito del primo censimento
globale dei corredi funerari di epoca ellenistica recuperati a Populonia nel
secolo scorso (SHEPHERD 1992, pp. 169-171).
CERAMICA CALENA
Una considerazione particolare meritano due patere ombelicate di produzione calena, tipo Morel 2175 b1, rinvenute in una sepoltura (tomba δ),
purtroppo in gran parte manomessa, posta all’interno del friabile riempimento
del dromos della tomba 13, tagliata nel fronte di cava di panchina antistante
la cosiddetta Cava Grande. Questa classe ceramica in generale è attestata a
Populonia con una discreta quantità di esemplari, tra i quali le forme più rap185
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presentative risultano, oltre alle patere citate, le coppe coniche provviste alla
base di tre maschere teatrali, aventi la funzione di piedi (MAGGIANI 1981, p.
182, nota 24; MARTELLI 1981, p. 423 e nota 93, tav. CIV, fig. 3a-b e MORIELLO
2002, p. 75, tav. V, fig. 63).
Entrambe le patere della necropoli delle Grotte sono state ricostruite
quasi per intero, nonostante lo stato di conservazione assai precario cui si è
aggiunto, ad aggravare la situazione già di per sé critica, il danno prodotto
dall’incessante attività dei clandestini. La prima di queste (Fig. 10) presenta
sul fondo una complessa decorazione a stampo su due registri concentrici.
Partendo dal centro, è possibile ravvisare un fregio continuo che contempla
sette animali fantastici alati, con la parte inferiore del corpo desinente in un
tralcio vegetale, e una figura umana alata rappresentata di prospetto. Il fregio superiore consta invece di un gruppo figurato che si ripete per ben sette
volte; al centro vi è la protome di Helios dal corpo radiato, che sormonta
una coppia di cavalli rampanti, raffigurati di profilo e contrapposti, dei quali
è visibile solo la parte anteriore. Vicino al cavallo di destra è posto un volatile ad ali spiegate volto verso destra. L’argilla di colore nocciola chiaro e la
vernice nera coprente e aderente, con sfumature rossicce, sono quelle tipiche
della ceramica a vernice nera di produzione etrusco settentrionale. Possiamo
istituire un confronto puntuale con un esemplare proveniente dalla tomba
12/97 della necropoli di Castiglioncello, datata ai primi decenni del II secolo
a.C. (PALLADINO 1999, p. 136, n. 1, fig. 112). Il gruppo figurato con Helios
dal corpo radiato sopra una coppia di cavalli si ripete con identiche caratteristiche anche su un altro frammento di patera ombelicata proveniente dal
riempimento, anch’esso manomesso, della camera della tomba 13, sempre della
necropoli delle Grotte. Non è difficile constatare le evidenti somiglianze che
accomunano il repertorio decorativo delle due patere, attinenze che d’altro
Fig. 10 – Patera ombelicata di
produzione calena, tipo Morel
2175 b1, dalla tomba a fossa δ,
settore A.
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canto non possiamo estendere invece alle caratteristiche tecniche dell’argilla
e della vernice, che nel secondo caso appaiono decisamente diverse: di colore
nocciola molto scuro l’argilla, lucida e iridescente, di colore grigio metallico
la vernice. L’evidente diversità tra i due manufatti, entrambi pertinenti a contesti funerari non dissimili e con un identico repertorio decorativo, pone di
nuovo l’accento sulla localizzazione delle fabbriche di questa classe ceramica
e in particolare sul probabile trasferimento di maestranze locali di origine
etrusco-settentrionale in Campania, maestranze che a loro volta hanno dato
probabilmente origine ad una produzione locale d’imitazione.
Anche la seconda patera ombelicata presenta caratteristiche tecniche e
morfologiche del tutto simili al primo esemplare esaminato (Fig. 11): solo i
motivi decorativi presenti sul fondo mostrano sostanziali diversità. La decorazione, ancora una volta assai complessa ed articolata, consta di due registri
sovrapposti: il registro interno vede una coppia di delfini guizzanti stilizzati,
che alternano un esemplare di dimensioni maggiori ad uno nettamente più
piccolo. Nel registro superiore, invece, sono presenti navi ben caratterizzate,
con la prua provvista di un occhio apotropaico e rivolta verso destra, che si
alternano al gruppo del fanciullo che cavalca un delfino. Attualmente non è
stato possibile istituire confronti puntuali con altre patere, se non per singoli
gruppi. Ad esempio il motivo dei due delfini guizzanti stilizzati si ripropone
identico su una patera ombelicata proveniente dalla tomba 205 ad incinerazione entro pozzetto della necropoli di Castiglioncello (CIBECCHINI 1999, p. 113,
fig. 74), mentre le imbarcazioni compaiono con caratteristiche assai simili su
due patere conservate rispettivamente al Louvre e nel Museo di Napoli (CVA
Louvre, 15, IV.E, pp. 33-34, tav. 13, 1-2; CVA Napoli, II, IV.E, tav. 2, nn. 1-2).
Il motivo del fanciullo che cavalca il delfino farebbe pensare alla trasposizione
del mito di Dioniso rapito dai pirati etruschi.
Fig. 11 – Patera ombelicata
di produzione calena, tipo
Morel 2175 b1, dalla tomba
a fossa δ, settore A.
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CERAMICA A VERNICE NERA D’IMPORTAZIONE LAZIALE
Numerosi sono i vasi recuperati nella necropoli delle Grotte riferibili
all’officina dell’Atelier des Petites Estampilles, classe del resto già ampiamente
attestata sia negli scavi urbani dell’acropoli (SQUARZANTI 1994-95, pp. 343385; MORIELLO 2002, p. 74; RIZZITELLI 2003, p. 65), sia nei corredi funerari
populoniesi (ROMUALDI 1992, p. 121 ss.). Gli ultimi studi effettuati sui materiali
appartenenti a questa classe ceramica che sono stati rinvenuti sul territorio
hanno avuto come scopo primario quello di individuare i prodotti riferibili ad
una filiale populoniese dell’officina, sulla cui esistenza sono state formulate da
tempo ipotesi fondate principalmente sull’elevata concentrazione di vasellame
riferibile all’Atelier (ROMUALDI 1992, p. 121). Allo stato attuale delle ricerche
tuttavia, in assenza di una banca-dati comune a tutta l’Etruria e soprattutto di
specifiche analisi archeometriche, indispensabili per individuare le varie officine
dell’Atelier, tali ipotesi attendono ancora conferme puntuali. Le forme più ricorrenti nei corredi funerari delle Grotte sono le coppe emisferiche serie Morel
2783-2784 che, insieme ai piatti da pesce, pure ben rappresentati, fanno parte
del cosiddetto servizio da banchetto (ROMUALDI 2000, p. 188 ss.). Riguardo a
questi ultimi, un accenno particolare meritano gli esemplari della serie Morel
1124 recuperati sui gradini del dromos della tomba 4, eccezionali non solo
per le dimensioni, quanto piuttosto per la presenza su uno di essi di una lunga
iscrizione punica ancora in corso di studio da parte di M.G. Amadasi.
Ad una fabbrica con caratteristiche molto simili a quelle dell’Atelier
des Petites Estampilles possiamo ricondurre il kantharos con anse à poucier
(Fig. 12), non classificato da Morel, con corpo ovoidale allungato, piede ad
anello ed anse verticali a nastro fuse nella parte superiore ad una linguetta
Fig. 12 – Kantharos a vernice nera con
anse à poucier, dalla tomba a camera n.
12, settore A.
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Fig. 13 – Coppetta a vernice nera, serie Morel 2523,
dalla tomba a camera n. 12,
settore A.
piatta. Il tipo risulta già attestato negli scavi della necropoli delle Grotte sia
nella versione a vernice nera, sia in quella sovradipinta (ROMUALDI 1984-1985,
p. 58, n. 191, fig. 47; p. 38, n. 97, fig. 34). Le stesse caratteristiche tecniche
di pasta e vernice si ritrovano su alcune coppette serie Morel 2523 con orlo
pendulo decorato esternamente da fitte incisioni verticali, interrotte da due
riquadri simmetrici occupati da un motivo ad x con tratto verticale al centro;
sul fondo interno del vaso è presente una cavità marginata da un listello a
rilievo (Fig. 13). La coppetta è poco attestata nei contesti funerari populoniesi
e si colloca nella prima metà del III secolo a.C. Nel corredo della tomba ζ è
associata ad un’altra coppa, serie Morel 2621, riferibile probabilmente anch’essa ad ambito laziale, giacché è riconducibile al cosiddetto Gruppo 96,
una fabbrica che si articola in una o più officine localizzabili nel Lazio o nell’Etruria meridionale (MOREL 1980, p. 93 ss.), specializzata nella produzione
di una coppetta su basso piede con vasca convessa e labbro a profilo concavo,
spesso caratterizzata da una vernice di qualità mediocre con gradi diversi di
sfumature per ciò che attiene il colore. A Populonia le coppe serie Morel
2621 del Gruppo 96 sono già documentate nei corredi di tombe scavate nel
1908 a San Cerbone, sia isolate, sia associate alle kylikes serie Morel 4253 o
alle coppe serie Morel 2783-84 (ROMUALDI 1992, p. 129 ss.), come appunto
nella tomba ζ.
CERAMICA A VERNICE NERA DI PRODUZIONE VOLTERRANA
Anche la ceramica a vernice nera di produzione volterrana appare ben
documentata a Populonia. Gli esemplari dei nostri corredi presentano nella
maggior parte dei casi una pasta molto depurata di colore beige chiaro ed una
vernice nera coprente e aderente, tipica del tipo D, cioè della migliore produzione individuata da M. Pasquinucci nelle ceramiche del Museo Guarnacci di
Volterra (MONTAGNA PASQUINUCCI 1972, p. 275). I vasi sono quelli consueti:
piatti, brocche e ciotole usualmente destinate al servito da banchetto. Esula
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Fig. 14 – Kylix a vernice nera,
dalla tomba a cremazione µ,
settore A.
invece dal repertorio formale delle ceramiche volterrane attestate finora nei
contesti funerari populoniesi la kylix (Fig. 14) recuperata, insieme ad una
cospicua quantità di altri materiali, nel corredo della tomba µ, fortunatamente scampato agli scavi abusivi che per decenni hanno devastato l’intera
necropoli. Si tratta di un esemplare di ottima qualità, caratterizzato da un alto
labbro a profilo concavo, da una vasca convessa poco profonda e un ampio
piede strombato con stelo sottolineato da una serie di listelli. Il fondo risulta
decorato con una serie di palmette e fiori di loto che si alternano tra loro,
collegati da archetti; il tutto racchiuso da file di striature a rotella comprese
da cerchi incisi.
Se Morel non include la kylix nella sua classificazione, il vaso trova comunque confronti puntuali con due esemplari che provengono da una tomba a
nicchiotto della necropoli del Portone, datata ai decenni finali del IV secolo a.C.
(MAGGIANI 1985, p. 179, nn. 3-4, fig. 245. 3-4) e con altre kylikes recuperate
nella tomba A dei Marmini (CRISTOFANI 1973, p. 252, n. 66, figg. 164-176).
Altri esemplari sembrano provenire inoltre da contesti tombali dell’Appennino bolognese (PEYRE 1965, p. 32, n. 3). In genere questi vasi compaiono
comunemente in coppia nei corredi funerari; nel nostro caso, invece, la kylix
risulta isolata, anche se del corredo fanno parte altri vasi riferibili sempre alla
migliore produzione volterrana, quali la coppa Morel 2964 e l’oinochoe vicina
alla serie Morel 5351, imitante fedelmente i prototipi metallici.
CERAMICA A VERNICE NERA DI PRODUZIONE LOCALE
Dalle numerose officine locali di ceramica a vernice nera che dovettero
esistere sul territorio populoniese a partire dal III secolo a.C. provengono due
skyphoi con piede alto e sagomato, non contemplati nella tipologia di Morel
(Fig. 15), rinvenuti tra i resti del corredo della tomba δ. Entrambi appaiono
caratterizzati da una pasta di colore rossiccio, piuttosto granulosa al tatto, che
tende ad imitare le caratteristiche della ceramica a vernice nera di produzione
campana A. La forma, inquadrabile tra la metà del III e gli inizi del II secolo
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a.C., è confrontabile con un esemplare conservato nella Collezione Gasparri
e con altri skyphoi provenienti da una tomba della necropoli di Buche delle
Fate, a Populonia, e di Casa del Duca, all’Isola d’Elba (ROMUALDI 1992, p.
137, fig. 87).
CERAMICA A VERNICE NERA CAMPANA B
Tra le attestazioni più tarde della ceramica campana B, che in qualche
modo collocano il termine ultimo di utilizzo della necropoli delle Grotte intorno alla metà del I secolo a.C., possiamo citare due vasi presenti all’interno
del corredo della tomba a fossa γ, appartenenti rispettivamente alle serie Morel
1222 e 2323. In particolare la seconda coppa (Fig. 16), caratterizzata da una
vasca piuttosto bassa con orlo verticale, sottolineato esternamente da scanalature, e da un largo piede ad anello a profilo obliquo, è attestata a Populonia
da una discreta quantità di esemplari, gli ultimi dei quali rinvenuti negli spessi
strati di riempimento del saggio XVI sull’acropoli (MORIELLO 2002, p. 66, tav.
I) e negli strati relativi all’abbandono e al successivo crollo di strutture, sempre
sull’acropoli (RIZZITELLI 2003, p. 68).
Fig. 15 – Skyphos a vernice nera dalla
tomba a fossa δ, settore A.
Fig. 16 – Coppa vernice nera dalla
tomba a fossa γ, settore A.
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Fig. 17 – Kyathos di bronzo,
dalla tomba a cremazione µ,
settore A.
Fig. 18 – Olpe di bronzo dalla tomba a
cremazione µ, settore A.
METALLI
Assai interessante risulta il ritrovamento di due vasi in bronzo all’interno
del corredo della tomba µ, giacché la maggior parte del vasellame e degli arredi
metallici legati al banchetto rinvenuti sinora nelle tombe della necropoli delle
Grotte sembrava rientrare principalmente nelle produzioni locali in piombo. Si
tratta di due vasi assai degradati dall’ossidazione, che presentano una superficie
molto corrosa ed in parte lacunosa: il piccolo kyathos (Fig. 17), con l’attacco
inferiore dell’ansa desinente in una fogliolina cuoriforme, risulta ampiamente
attestato in Etruria, ad esempio a Volterra (FIUMI 1976, fig. 136) e nella tomba
settima di Castiglioncello (CIBECCHINI 1999, p. 86, n. 2, fig. 31), tra la fine del
IV e gli inizi del II secolo a.C. Invece l’olpe di piccole dimensioni (Fig. 18)
costituisce un elemento di grande interesse poiché finora non trova confronti
nell’ampio repertorio del vasellame metallico: la caratteristica ansa a doppia
spirale, desinente ad un’estremità in una protome di serpente, trova però largo riscontro nella ceramica a vernice nera di fabbrica volterrana (MONTAGNA
PASQUINUCCI 1972, fig. 16, n. 376).
ROSALBA SETTESOLDI
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CERAMICA CON DECORAZIONE SOVRADIPINTA
Per quanto riguarda la classe delle ceramiche con decorazione sovradipinta, si registra un discreto numero di oinochoai di forma VII, con decorazioni
a motivi floreali sul collo e sul corpo desunti dal repertorio della ceramica di
Gnathia (PIANU 1982, pp. 87-88; BRUNI 1992, p. 63). Risulta ancora difficile,
allo stato attuale, risolvere il problema del luogo, o dei luoghi di produzione
di questi vasi, a causa della generica somiglianza delle caratteristiche tecniche e
iconografiche degli esemplari noti, anche se appare probabile (BRUNI 1992, p.
63) che siano da ricondursi all’ambiente tarquiniese, dove tra l’altro due delle
oinochoai di questo gruppo trovano confronti puntuali: un esemplare con ramo
di ulivo orizzontale sulla pancia rientra infatti nel tipo C della classificazione
di G. Pianu (1982, pp. 89 ss., tavv. LXXVb-LXXVIIIa), l’altro con un fregio
ad onde è riconducibile al tipo D (PIANU 1982, p. 92, tav. LXXXVIIIb). La
sovradipintura, evanida e visibile solo in controluce, doveva essere bianca nel
primo esemplare e arancio nell’altro, come suggerisce lo stesso Pianu per l’oinochoe di Tarquinia identica alla nostra (PIANU 1982, p. 93). Oltre all’Etruria
meridionale, le oinochoai a decorazione floreale sono diffuse a Vetulonia,
Populonia, Castiglioncello, Guardistallo, Volterra e Genova (BRUNI 1992, p.
63, nota 53). I pochi contesti di rinvenimento collocano verso la fine del IV
secolo a.C. l’inizio del tipo, che deve aver avuto una certa continuità nel corso
del III secolo a.C. (BRUNI 1992, p. 64).
Un altro gruppo numeroso è costituito dagli skyphoi a palmetta del
Gruppo Ferrara T 585 meridionale. Un tipo particolarmente attestato nella
necropoli delle Grotte rientra, per la forma molto più sinuosa rispetto agli
altri skyphoi dello stesso gruppo e per la decorazione formata da una palmetta
bianca inquadrata da due lunghi petali (Fig. 19), nella variante ε della clas-
Fig. 19 – Skyphos sopradipinto, dalla
tomba a fossa δ, settore A.
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sificazione di S. Bruni (1992, p. 67, figg. 35-36). Proporre una produzione
populoniese degli skyphoi di questo gruppo sulla base del gran numero di
esemplari attestati in loco (VISMARA 1985, pp. 239 ss.) non sembra accettabile, e del resto la diffusione prevalentemente laziale di questi vasi sembra
ricondurre piuttosto ad ambiente romano (MOREL 1985, p. 176; BRUNI 1992,
p. 67). Sulla base di contesti noti laziali, si indica una datazione tra la fine del
IV e gli inizi del III secolo a.C.
Tra i materiali rinvenuti sempre nell’ultima campagna di scavo effettuata
nella necropoli delle Grotte vi sono tre vasi che possono senza difficoltà essere
definiti eccezionali nel panorama non soltanto delle ceramiche sovradipinte
attestate a Populonia, ma in quello dell’intera classe. Il primo di essi è un’olpe
decorata nel cosiddetto stile di Gnathia, rinvenuta nella tomba 14 (Fig. 20)
(ROMUALDI 2000, p. 191) che per la forma è un unicum nell’ambito di questo
tipo di ceramica. Il labbro estroflesso orizzontale, lo stretto collo, il ventre globulare baccellato e l’ansa a doppio bastoncello annodato avvicinano l’esemplare
all’olpe a vernice nera Morel 5231d. La decorazione sovradipinta, di colore
arancio, è limitata ad una fascia di girali sul ventre del vaso e, sul collo, ad una
figura di Erote inquadrata da festoni, che porta nella mano sinistra un uccello
con le ali spiegate. La decorazione figurata limitata al collo e la presenza delle
baccellature sul corpo del vaso sono caratteristiche datanti, in quanto sono
presenti su vasi degli inizi del III secolo a.C. (FORTI 1966, p. 103). Il piccolo
Erote trova confronti iconografici molto stringenti con quelli rappresentati su
Fig. 20 – Olpe dello stile di Gnathia, dalla tomba
a camera 14.
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numerosi vasi di Gnathia, per la resa del corpo un po’ grassoccio e per il gesto
che sembra di danza, di portare la gamba sinistra in alto (FORTI 1966, tavv.
XX-XXI), ma anche con i fanciulli e gli eroti dipinti sui vasi del cosiddetto
Gruppo Hesse, attribuiti ad un pittore italiota trasferitosi a Vulci (FORTI 1970,
pp. 233 ss.; CRISTOFANI 1987, pp. 48-49).
Altrettanto eccezionali, in particolar modo per la tecnica pittorica, sono
due kantharoi a poucier della serie Morel 3171 c1, rinvenuti nella tomba µ.
Sulla vernice nera e brillante, le due teste di profilo (una femminile e l’altra maschile) raffigurate sul fondo sono state disegnate con un contorno, scomparso
in seguito, e riempite da una prima stesura di colore bianco e giallo, in modo
da ottenere una silhouette. Su questa preparazione il pittore ha usato un tratteggio più scuro nelle zone di penombra e poi con il colore bianco brillante ha
ripassato le parti rilevate e luminose dei volti, come pure il motivo decorativo
a piccoli punti nella cornice del tondo. La stessa tecnica si riscontra in alcuni
eccezionali vasi a figure rosse di bottega vulcente (CRISTOFANI 1987, pp. 48-49)
e nei vasi sovradipinti del già citato Gruppo Hesse, tutti databili all’incirca
agli inizi del III secolo a.C. Colpisce subito il carattere di poca funzionalità di
questi vasi dipinti internamente con colori molto labili: si trattava evidentemente non di coppe per bere, ma di oggetti di valore puramente decorativo,
adoperati come offerta nell’ambito del rituale di deposizione. Per la vernice
e il tipo di argilla, entrambi i kantharoi sono sicuramente prodotti volterrani
e, anche se il loro studio è ancora in fase preliminare, in particolar modo
per quel che riguarda gli aspetti iconografico-stilistici, si può forse postulare
fin d’ora la presenza in una bottega volterrana di un artigiano formatosi in
ambiente vulcente.
CERAMICA ARGENTATA
Scarsa, ma particolarmente significativa la presenza di ceramica argentata nella necropoli delle Grotte. Di recente sono state isolate le tre maggiori
fabbriche produttrici di questo tipo di ceramica, ubicate rispettivamente nella
zona volsiniese, in area falisca e nel territorio volterrano e attive, a quanto
sembra tutte e tre, dalla fine del IV e per tutto il III secolo a.C. (MICHETTI
2003, p. 21). Il rivestimento argentato dei vasi, quasi sempre scomparso del
tutto, era costituito da lamine di stagno fissate sulla superficie con una sostanza
organica, forse a base d’uovo (PARODI 1994, pp. 161-162; MICHETTI 2003, pp.
107-108). Ovviamente lo scopo era ottenere a basso costo un surrogato del più
prezioso vasellame metallico, non a tutti accessibile, ed è per questo che anche
il repertorio formale trova i suoi prototipi nei coevi prodotti toreutici.
È fin troppo evidente che si ispira ad un prototipo metallico la patera
ombelicata dalla tomba δ, che un’analisi macroscopica dell’argilla – rosa e
leggermente talcosa – consente di attribuire ad una fabbrica falisca (MICHETTI
2003, pp. 237-238).
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Fig. 21 – Coppa di ceramica
argentata dalla tomba a camera 13.
È invece del tutto nuova nel panorama delle tre fabbriche note la coppa
frammentaria della tomba 13, con vasca a profilo tronco-conico e basso piede
e con decorazione interna costituita da una fascia ad archetti incisi e sul fondo
una protome gorgonica resa in forte rilievo (Fig. 21). Per la forma, e in parte
per la decorazione, trova confronti solo con coppe a vernice nera della serie
Morel 2972, che annovera un esemplare volterrano con al centro un busto
femminile a rilievo, datato al 200 a.C., e un esemplare di fabbrica incerta,
sempre datato tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C. L’argilla aranciorosata dell’esemplare populoniese non fa propendere per una produzione
volterrana, ma semmai falisca. La protome gorgonica, con due bande di capelli
scarmigliati, trova confronti con analoghe teste a rilievo su gutti etruschi di III
secolo a.C. (GILOTTA 1985, p. 15 – T 30 –, fig. 26). Non aiuta, per quel che
riguarda il discorso cronologico, il riempimento dal quale proviene la nostra
coppa, in quanto il materiale in esso contenuto risulta molto rimaneggiato dagli
scavatori clandestini. Tuttavia, per la resa della decorazione in forte rilievo,
che non appare usata all’inizio della produzione di ceramiche argentate, si
propone una datazione attorno alla metà del III secolo a.C.
CERAMICA ACROMA E D’IMPASTO
Nell’ambito della ceramica acroma e d’impasto, numerosi frammenti
appartengono ad un tipo di askos, di cui un unico esemplare, rinvenuto nella
tomba κ, è stato ricomposto quasi per intero (è privo solo del fondo). Il tipo
è caratterizzato da un corpo panciuto e ribassato su piede ad anello, bocchello
tondo imbutiforme e beccuccio conico uniti da un’ansa a nastro, a ponte. Askoi
di questa forma, che sembra ispirarsi agli otri di pelle, sono molto comuni in
Etruria – e non solo – per tutto il III secolo a.C., sia nella versione acroma
(come nel caso degli esemplari populoniesi), che in quella a vernice rossa e a
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Fig. 22 – Ciotola d’impasto
con bugne dagli strati di
riempimento antistanti il
fronte della cava.
vernice nera. Per la presenza in alcuni esemplari da Tarquinia di piccole biglie
di terracotta entro la cavità del piede, a mo’ di sonaglio, si è ipotizzato un
uso di questi recipienti come poppatoi per bambini (SERRA RIDGWAY 1996, pp.
272-273). Essi sono stati inseriti nel cosiddetto Ruvfies Group per la frequente presenza sull’ansa di un bollo con quest’iscrizione. I dati epigrafici hanno
inoltre permesso di distinguere due centri di produzione di questi oggetti,
localizzabili rispettivamente nell’Etruria settentrionale e in quella meridionale
(CRISTOFANI 1972, pp. 510 ss.). Tuttavia l’attribuzione all’uno o all’altro non
è possibile quando gli esemplari non sono bollati, come nel caso di quelli di
Populonia.
Resta per il momento un unicum all’interno della ceramica presente
nella necropoli delle Grotte la ciotola d’impasto rosato con labbro verticale,
vasca a profilo convesso e piede ad anello che presenta sotto l’orlo tre bugne
disposte orizzontalmente (Fig. 22). L’unico confronto che a oggi sembra
possibile istituire è con una ciotola di ceramica comune del tipo C 19 nella
classificazione di D. Tami (TAMI CURTI 1994-1995, pp. 427-428, fig. C 19),
proveniente dagli scavi dell’acropoli di Populonia, che presenta sotto l’orlo
lo stesso motivo decorativo delle tre bugne coniche orizzontali.
Molto attestate e di sicura produzione populoniese, vista la diffusione
quasi esclusivamente locale e il tipo di argilla utilizzata (FEDELI 1983, p. 146),
sono le olle di impasto, che possono presentare sotto l’orlo tre bugne applicate
oppure tre tratti verticali incisi. Se ne trovano molte, realizzate in un’ampia
gamma di dimensioni, che va da un minimo di 3,5 cm d’altezza a un massimo di 30, anche se la maggior parte è di misura intermedia (7-10 cm). La
presenza costante delle tre bugne e dei tre solchi ha portato a ipotizzare che
le olle costituissero una serie all’interno di un sistema di misure di peso o di
capacità. Sono stati effettuati controlli del peso del grano contenuto nei singoli
recipienti, che hanno rivelato l’esistenza di multipli di una misura base, ma
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il dato dev’essere ulteriormente controllato; non è infatti da escludere che le
bugne costituissero semplicemente un contrassegno di produzione dei vasetti
stessi, o del loro contenuto (SHEPHERD 1992, pp. 163-165, figg. 31-39).
ANFORE
Inseriamo nel breve discorso sulle anfore presenti nella necropoli delle
Grotte anche il tipo non da trasporto, cosiddetto con labbro “a rocchetto” per
la forma particolare del labbro cilindrico con pareti a profilo concavo. Quest’anfora, prodotta con un’argilla molto depurata di colore giallo e saponosa
al tatto, è ben attestata nella necropoli; nella tomba 14 ne è stato rinvenuto
un esemplare integro di cui è stato analizzato il contenuto, che consisteva
in ceneri e carboni misti ad ossa parzialmente bruciate e altre sostanze di
certo connesse alle varie fasi del rituale funebre (ROMUALDI 2000, p. 188).
La forma di questo recipiente sembra ripetere quella dell’anfora a vernice
nera da Malignano (SI), della serie Morel 3623, e delle tre a vernice rossa da
Perugia. Il numero limitato di esemplari e la diffusione in una ristretta area
rendono giustificabile l’ipotesi che ci si trovi davanti a prodotti di fabbriche
geograficamente vicine (SHEPHERD 1992, p. 154, figg. 4-5). Il tipo si data agli
inizi del III secolo a.C.
Ascrivibile al gruppo di anfore greco-italiche antiche piccole è l’esemplare integro proveniente dalla tomba 14 (ROMUALDI 2000, p. 201), con labbro
triangolare, collo cilindrico, spalla fortemente inclinata, corpo a trottola con
pareti piuttosto sottili e puntale cilindrico cavo; le anse a nastro ingrossato
sono impostate poco sotto il labbro e sulla spalla. L’argilla è rossiccia con
inclusi bianchi, neri e bruni. Per le greco-italiche antiche di Populonia è
possibile ipotizzare un’origine magnogreca, forse campana, sulla base delle
argille impiegate (SHEPHERD 1992, p. 169); per gli esemplari più tardi non è
da escludere la produzione nella stessa Etruria costiera. Questo tipo si data
agli ultimi decenni del IV secolo a.C. per i confronti con le anfore del relitto
Roghi delle Formiche di Panarea e del relitto punico di Marsala.
Abbastanza attestata è l’anfora punica di forma Maña C1, che presenta
l’orlo ingrossato sottolineato da due listelli, breve collo, spalla obliqua, corpo
cilindrico a siluro (un esemplare ricostruito proviene dalla tomba dipinta delle
Onde marine, ROMUALDI 1984-85, p. 36, n. 94, figg. 31-32). Confrontabile con
un esemplare dal relitto di Capistello a Lipari, è databile fra la seconda metà
del IV e gli inizi del III secolo a.C. Le anfore di questa forma (contenitori per
salsa da pesce o per olive) conoscono un’ampia diffusione nel Mediterraneo
occidentale; in Etruria le troviamo a Luni, Volterra, Castiglione S. Martino
(Elba), Roselle e Cosa. Per quel che riguarda il centro di produzione, l’ipotesi più accreditata colloca le fabbriche nel territorio di Cartagine o di Uzita
(SHEPHERD 1992, p. 166).
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Fig. 23 – Iscrizione etrusca graffita sul piede di una coppa in ceramica a vernice nera di
produzione etrusco-laziale, dall’esterno delle tombe κ e λ, settore A.
ISCRIZIONE
Infine presentiamo l’unica iscrizione etrusca su ceramica finora ritrovata tra i materiali della necropoli delle Grotte (Fig. 23). È graffita sul fondo
esterno di una coppa frammentaria in ceramica a vernice nera di produzione
etrusco-laziale, decorato all’interno con un cartiglio circolare con rosetta
a otto petali doppi impressa. L’iscrizione etrusca è costituita da 4 lettere in
ductus sinistrorso: vela. Si tratta di un prenome, corrispondente femminile
di Vel, attestato finora in contesti databili non prima del III secolo a.C. a
Norchia (COLONNA 1972, p. 417), a Tarquinia (CAVAGNARO VANONI 1968, p.
205), a Vulci (CIE 5298b) e a Chiusi (CIE 3089), dove però, diversamente
dal nostro caso, è sempre unito al gentilizio. La grafia sembrerebbe tipica
dell’Etruria centro-meridionale nel periodo ellenistico (MAGGIANI 1990, p.
188, tipo II, fig. 6; si rimanda alla scheda in preparazione per la «Rivista di
Epigrafia Etrusca»).
ORNELLA GUZZI
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