1 Etnopsichiatria degli psicofarmaci∗ Piero Coppo 1. Etnopsichiatria

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1 Etnopsichiatria degli psicofarmaci∗ Piero Coppo 1. Etnopsichiatria
Etnopsichiatria degli psicofarmaci
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Piero Coppo
1. Etnopsichiatria?
2. Oggetti che curano
3. Dall’intenzione della sostanza a quella del dispositivo
4. Ciò che hanno di speciale gli psicofarmaci industriali
5. Ciò che hanno in comune i farmaci per Psiche
6. Alcuni esempi
7 Psicofarmaci e psicoterapie
1. Etnopsichiatria?
Come prima cosa occorre chiarire, cosa si intende qui per etnopsichiatria, dato che non è scontato che
con lo stesso termine si intendono spesso cose diverse, perché ci sono diversi approcci all’EP (come
d’altronde alla P), e perché in generale persistono alcuni equivoci: per esempio che l’EP sia la psichiatria
per stranieri; oppure, che l’EP e la Psichiatra Transculturale siano la stessa cosa.
L’EP alla quale mi riferisco è un modo di pensare e operare nell’ambito di ciò che le discipline della
psiche chiamano sofferenza o disturbi psichici che si situa in un ordine di pensiero e adotta un metodo
di lavoro che le è specifico, e che è altro da quello della psichiatria, della psicologia, della psicoanalisi.
L’EP cerca un punto di osservazione che sia in grado di comprendere i diversi mondi in cui evolvono i
diversi gruppi umani, in un modo diverso da quello adottato dall’universalismo corrente, quello per
esempio che ha sostenuto l’imperialismo, il colonialismo e l’imposizione a tutti i popoli del codice dei
Diritti Umani messo a punto solo da una minoranza, e mai negoziati con gli altri. Questo punto di vista
cerca di elaborare teorie e pratiche capaci da un lato di poggiare su dinamiche e funzioni genericamente
umane, che riguardino cioè la Specie nel suo complesso (i bisogni genericamente umani, le necessità e le
obbligazioni che da sempre accompagnano questa particolare Specie); dall’altro in grado di accogliere le
diversità esistenti tra i vari modi di esserci nel mondo e i vari mondi, risultati di storie e ambienti
specifici, senza scartarne o svalutarne a priori nessuno.
La prima regola, etica”, dell’EP è quindi sospendere i giudizi di verità e realtà: sospensione del giudizio
che non impedisce affatto delle prese di decisione nette e coerenti una volta, però, che sia stato fatto il
lavoro necessario per capire attraverso il dialogo radicale con l’alterità.
Questo orizzonte di pensiero e operativo originale, inizia a svilupparsi verso la metà del secolo scorso
in Europa e Africa. Tra la fine del ‘900 e l’inizio di questo secolo formalizza le sue basi epistemologiche
e operative in Francia e oggi costituisce un cantiere sempre aperto al quale concorrono clinici (il
principale innovatore e sistematizzatore è lo psicologo Tobie Nathan, fondatore del Centre Deverux
per l’aiuto psicologico alle famiglie dei migranti a Parigi; ma per le applicazioni ai servizi pubblici in
Italia si veda il lavoro di Cardamone e Inglese; per l’apertura di spazi dedicati alla psicopatologia dei
migranti per esempio il Centro Mamre e Fanon a Torino), filosofi della scienza (il riferimento principale
è Isabelle Stengers, chimica e filosofa della scienza, Gran premio dell’Accademia francese per la
filosofia nel 1993 e collaboratrice di Ilya Prigogine), sociologi della scienza (il riferimento d’obbligo è a
Bruno Latour, sociologo, antropologo e filosofo, professore e vice-presidente per la ricerca all’Istituto
di Studi Politici di Parigi), antropologi e specialisti della storia e dell’industria dei farmaci (come Philippe
Pignarre, ex-direttore della comunicazione dell’industria Synthélabo, editore di Les Empecheurs de
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Note per una lezione al “Corso di Mediazione Etnoclinica” del Centro Studi Sagara, 2013
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penser en rond/La Découverte ). Si tratta dunque di un processo che coinvolge diverse discipline che
interagiscono tra loro a partire da una intenzione comune.
I due cardini del posizionamento etico e epistemologico di questo nuovo orizzonte di pensiero in
continua costruzione essere così riassunti:
• Critica della Grande Partizione che mette da un lato la Scienza e da un altro le Credenze. Tutti i
sistemi di cura si collocano dentro delle cosmovisioni specifiche, sono coerenti, insegnabili,
dotati di tecniche che è possibile descrivere. La valutazione della validità, della complessità e
dell’efficacia di ogni sistema deve essere fatta a partire dal suo interno (prospettiva emica) e
deve partire dal riconoscimento della dignità epistemologica del sistema stesso, che va posto, da
questo punto di vista, sullo stesso piano degli altri sistemi, quelli che si riferiscono alla Scienza
compresi. La valutazione comparativa dei sistemi dove è attivo un pluralismo terapeutico (quale
consigliare, prescrivere accreditare amministrativamente) deve essere situazionale: in quel
momento e in quella situazione, quale è la risorsa migliore per quel dato problema? Il rischio di
ciarlataneria o di stregoneria nera è trasversale, e percorre i vari sistemi; non può essere
attribuito a priori a un sistema o all’altro.
• Superamento della presunzione di Verità universale, quindi da imporre come criterio di
validazione di tutti i sistemi conoscitivi, delle dicotomie fondanti la tradizione Occidentale e
quindi scientifica: corpo/spirito, natura/cultura, soggetto/oggetto, razionale/non razionale
(superamento che trova le sue ragioni nelle recenti acquisizioni dell’antropologia, della fisica,
della sociologia).
L’EP alla quale mi riferisco poggia cioè i piedi su una cultura (una cosmogonia, un orizzonte di
pensiero) inedita e in costruzione: le basi di un nuovo modo, di un nuovo mondo. Questo lavoro è da
alcuni considerato come una offerta di pace, dopo tutti i pretesti di guerra, che l’Occidente offre al
mondo: perché cerca di costruire una base genericamente umana sulla quale possano insistere le
diversità locali, non più costrette all’omologazione da un vertice autoritario che si autodefinisce come
portatore della unica valida Verità (scientifica). Quindi il progetto è quello di una molteplicità in
continuo dialogo radicale.
2. Oggetti che curano
Anche a proposito degli psicofarmaci, dobbiamo quindi come prima cosa cercare un punto di
osservazione di questo tipo da cui parlare. Il primo passo per un reale confronto con altri saper-fare è,
seguendo la ricetta di de Martino, interrogarci sulle categorie che noi, in questo mondo, usiamo
quotidianamente dandole per scontate, condivisibili, oggi e sempre, con tutti gli altri (anche se
recalcitrano). A partire da lì, possiamo poi occuparci di ciò che fanno gli altri; per verificare poi se
questo inziale spaesamento ci aiuti a capire quello che facciamo noi.
Psico-farmaci o farmaci neuro-tropi, o medicine usate in neuro-farmacologia: da farmakon, oggetto o
sostanza materiale che può curare ma anche avvelenare, che ha azione su psiche, forza vitale,
componente immateriale degli umani (dal greco farmacon, dal protogermanico buriù, burti, “incantare”:
farmaco, rimedio, mezzo per; farmacos è l’attore: l’avvelenatore, il mago, stergone, ma anche la vittima
sacrificale in quanto, appunto, mezzo) . Questo il senso della parola, a partire dalla loro etimologia
greca e dalle accezioni ippocratiche e omeriche, da cui origina la nostra cultura.
Per trattare degli psico-farmaci da una prospettiva etnopsichiatrica, dobbiamo prima di tutto situarli in
un orizzonte genericamente umano. Si tratta di oggetti materiali, in genere di natura composita, fatti
cioè di un insieme di atomi e molecole diversi, usati da una data etno-psichiatria, e cioè da un sistema
culturale specifico (“etnico”) legittimati da teorie e inclusi in pratiche che intendono prevalentemente
intervenire, prendendosene cura, sulla componente immateriale degli umani, e cioè sulla loro
mente/anima/spirito/psiche.
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Occorre qui, per seguire il ragionamento dell’etnopsichiatria e andare avanti, riflettere un momento
sulla questione: ammettiamo di essere anche noi i rappresentanti di un popolo, di una storia, di una
cultura, e cioè degli “etno” come tutti gli altri, rendendoci disponibili all’antropologia simmetrica di
Latour e altri? O noi siamo gli “umani universali”, e solo gli altri sono etno-, e insistiamo
nell’asimmetria accettandone le conseguenze (imperialismo, colonialismo, evoluzionismo gerarchico e
lineare)? In questo secondo caso, prima di procedere, bisognerebbe fermarsi e lavorare su queste
questioni punto, preliminare necessario all’approccio etnopsi, fino al punto in cui ci scopriamo come
soggetti storici, legati a una specifica cultura. Una volta che siamo arrivati a considerarci come dei
rappresentanti di uno specifico mondo che tende a imporsi a tutti gli altri ma che ancora coesiste con
culture altre, possiamo procedere nella prospettiva etnopsichiatrica.
Gli psico-farmaci costituiscono a volte, addirittura, la parte centrale, se non esclusiva dell’atto
terapeutico. Sono quindi oggetti che hanno un grande potere, attivi, osservabili, analizzabili nelle
diverse etno-psichiatrie.
Sono per esempio:
• i talismani da portare al collo o al braccio
• le capsule colorate comprate al mercato dal guaritore maliano, fabbricate clandestinamente in
Burkina Faso e contenenti prodotti non precisati ad azione anfetaminica (“le capsule che
aiutano i figli unici);
• i preparati erboristici dei guaritori e sciamani, o quelli su base minerale delle medicine orientali e
cinesi;
• le piante maestro degli sciamani amazzonici
• i funghi sacri in Messico
• l’acqua benedetta nelle tradizioni cristiane e musulmane, per aspersioni e bevute
• l’acqua sacralizzata mescolata col fiato del guaritore dogon
• le compresse, capsule, gocce, preparati iniettabili della farmacopea occidentale destinati a curare
i “disturbi psichici” come classificati nel DSM,
• ecc.
Restringiamo, per il momento, il campo a un particolare tipo di oggetti che curano: le sostanze che
hanno azione anche sul sistema nervoso, e quindi sulla psiche come la pensa la medicina e la psicologia.
Parliamo cioè delle sostanze usate in medicina e psichiatria e di quelle che stanno alla base delle
tossicomanie; ma anche del vasto campo delle sostanze psicoattive, come gli allucinogeni, o enteogeni,
veicolati da vegetali (come il peyotl, la datura, lo yagé, lo psylocibe, l’amanita muscaria, l’iboga), usati in
molte parti del mondo in contesti rituali “tradizionali”. Tradizionali, ma anche assolutamente moderni,
come dimostra l’invenzione del Bitwi in Gabon e del Santo Daime in Brasile.
Anzi, partiamo proprio da questi psico-tropi usati in altri sistemi, per poi tornare a quelli certificati dalla
Scienza. Un’osservazione delle modalità del loro uso, e delle condizioni della loro efficacia, può aiutare
a guardare, con occhi aperti dallo spaesamento, l’uso degli psicofarmaci nelle società industrializzate.
3. Dall’intenzione della sostanza a quella del dispositivo
E’ chiaro che la sostanza chimica contenuta nel vegetale assunto (in genere per via orale) nel corso dei
riti in questione ha una azione sul corpo, e cioè sulla materia di cui sono fatti i viventi, e gli umani in
particolare. Ma è anche chiaro che, in quei contesti, l’azione sul corpo di una persona si traduce in una
esperienza altamente significativa per questa e per il suo ambiente: riguarda cioè l’”uomo totale” di
Marcel Mauss, totalità concreta che lega corpo, psiche e cultura. Si crea così una catena in cui ogni
dimensione rinvia a un’altra: la sostanza introdotta grazie a un’effrazione dell’involucro del corpo,
modifica l’omeostasi e la sua composizione; questa effrazione, insieme alle proprietà farmacologiche
specifiche della sostanza, determina il vissuto psicologico dell’esperienza in corso che entra in risonanza
con la cultura condivisa; questa, a sua volta, contribuisce potentemente a mettere in forma l’esperienza
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attraverso le modalità tecniche della preparazione della sostanza, la situazione rituale, il suo senso e il
suo contesto. (Bonhomme 2001: 172) L’insieme del rito finisce dunque per ricondurre l’esperienza
personale, alla quale è data la massima latitudine di originalità possibile in quel contesto, a un senso
meta-individuale, confermando così l’appartenenza a una specifica cosmovisione (gli aspetti
fondamentali della cultura condivisa). Uno degli effetti generali di questo tipo di esperienze è dunque
quello di creare un tempo-luogo dove le separazioni corpo-psiche-cultura, individuo-collettivo vengono
messe in crisi. Da un lato c’è indeterminazione e complementarietà tra psicologico, culturale e
sociologico, dall’altro tra biologico e psicologico, tra ciò che è determinato dalla sostanza e ciò che
viene dalla persona. Questo equilibrio tra determinazione personale del contenuto dell’esperienza e
determinazione da parte delle caratteristiche della sostanza varia però a seconda del tipo della sostanza.
Nel caso dell’LSD, per esempio, (in questo caso una molecola chimica purificata), le sperimentazioni
con soggetti sani e con portatori di psicopatologie ha portato a concludere che la sostanza creerebbe
una situazione di attivazione non differenziata, in grado di facilitare l’emergenza di materiale inconscio
idiosincrasico da differenti livelli di personalità (Grof 1996).
Diversamente, l’assunzione dello yagé (una bevanda preparata a partire da almeno due piante, esseri
dunque biologici e complessi) in contesti rituali produrrebbe esperienze abbastanza stereotipate in
persone diverse, addirittura appartenenti a diverse culture, come se la sostanza fosse in se portatrice di
personalità e cultura propria, in grado dunque di facilitare contenuti psicologici specifici. Nel primo
caso sembrerebbe dominante l’effetto dell’effrazione dei normali filtri percettivi e degli ordinari
equilibri tra strutture cognitive e affettive; nel secondo caso ci sarebbe un di più di informazioni
veicolate dall’insieme delle molecole che costituiscono il metaboloma (la personalità chimica) degli
organismi vegetali coinvolti.
La differenza tra una molecola prodotta in un laboratorio chimico nel 1936 in Svizzera e una bevanda
(lo yagé), composta da un insieme complesso ed eterogeneo di organismi vegetali provenienti da diversi
contesti e indispensabili l’uno all’altro perché si dia azione psicoattiva sta anche nelle modalità della loro
scoperta. L’effetto dell’LSD fu scoperto casualmente, nel corso di una produzione seriale di derivati
chimici (è nota la storia di Albert Hofmann e dell’incontro con il suo “bambino difficile”); lo yagé,
conosciuto da secoli dai cacciatori-raccoglitori amazzonici, sarebbe stato offerto agli umani da una
pianta madre, il tabacco, che ne avrebbe svelato la composizione (c’è chi ha stimato a una probabilità su
alcuni milioni che l’associazione sia stata scoperta per caso dai nativi) agli sciamani intossicati
dall’assunzione per via orale e inalatoria di forti dosi di tabacco. Come dire che l’LSD è un prodotto
dell’ingegneria umana, lo yagé una offerta proveniente dalla rappresentante (la pianta madre) del più
complesso sistema bio-ecologico del pianeta; il primo veicola l’intelligenza degli uomini, il secondo la
conoscenza della biosfera amazzonica. In questo secondo caso, coerentemente con la storia e la natura
della sostanza (del veicolo), vi sarebbe una trasmissione di informazioni che potrebbero essere
decodificate e fatte proprie dal soggetto traumatizzato sotto forma, per esempio, di visioni ricorrenti o
stereotipate appartenenti al mondo proprio delle sostanze usate.
In ogni caso, è evidente la soppressione della demarcazione netta tra corpo e psiche, tra individuale e
collettivo (la “cultura”). La potenza di quest’ultima si esprime nella messa in forma del rituale nei
dettagli di tutti i suoi elementi tecnici, che a loro volta in-formano l’esperienza; in nessun caso, quindi,
si potrebbe ridurre l’esperienza agli effetti di uno stretto determinismo biochimico della sostanza. E,
d’altra parte, non la si può neppure in questi casi ridurre alle dinamiche endo-psicologiche della
persona. Infine, non si può neppure parlare di un determinismo culturale stretto, come se la persona
fosse un puro contenitore passivo che riattualizza la memoria culturale attraverso le sue percezioni e i
suoi sentimenti.
“La cultura è di fatto tanto un risultato prodotto nella e dalla esperienza allucinogena quanto la sua
causa prima: è un sentimento vissuto e rivendicato di appartenenza a un collettivo, costruito attraverso
delle interazioni che mobilizzano degli oggetti, dei discorsi e degli individui. Ora, l’esperienza
allucinogena rituale partecipa concretamente a questa costruzione di una identità di gruppo. Per queste
società che li utilizza nel corso dei loro rituali più importanti, gli allucinogeni sono dei supporti attivi di
esperienze che affiliano al gruppo, producono della cultura. Gli huicholes del Messico fanno
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dell’occasione rituale del peyotl l’occasione privilegiata per sperimentare concretamente la realtà del loro
collettivo religioso. … A partire dalla fine del XIX secolo, questo stesso peyotl servirà come supporto
di identità agli Indiani fedeli alla Native American Church. E’ la bandiera di una “indianità” minacciata.
L’esperienza allucinogena è quindi altrettanto creatrice di cultura quanto è culturalmente determinata,
altrettanto sorgente di ispirazione che proiezione negativa di forme culturali.” (Bonhomme 2001: 176177)
L’analisi della tecnica, dei diversi dispositivi1 messi in atto dai gruppi umani che prevedono l’uso rituale
di sostanze psico-trope (ma che sono anche somato-trope e cultura-trope), mette quindi in discussione
alcune dicotomie che fondano la nostra percezione del mondo e mettono in evidenza come si tratti
dell’attivazione di una dinamica a doppia valenza: incultura la persona, e crea, attraverso l’esperienza
individuale, collettivi e quindi cultura condivisa. Questi dispositivi creano uno spazio di prevedibilità e
di pensabilità delle diverse esperienze; ma anche l’uso di sostanze più solitario e sregolato comporta un
minimo di regole e di norme, per quanto lasse e condannate dalla cultura dominante. Perfino i
tossicomani hanno i loro rituali privati, o collettivi, che accompagnano la presa della sostanza. I
dispositivi mobilizzano intanto dei saperi e delle tecniche relativi alle sostanze psicoattive e ai loro
effetti (classificazione, selezione, dosaggio, tecniche per evitare gli effetti secondari, preparazione,
miscelazione con altre sostanze di cui non conosciamo gli effetti psicotropi diretti ma solo il loro senso
simbolico); poi dei simboli, delle opinioni e delle aspettative rispetto all’esperienza (delle “ideologie”),
frutto sia di una impregnazione passiva che di una esperienza diretta, che si incarnano poi in procedure
tecniche (la purificazione nel Bwiti).
Ora, questi psico-tropi non sono osservabili e studiabili al di fuori del contesto e delle modalità in cui
sono utilizzati; sono “degli oggetti instabili che si trasformano in accordo con i loro contesti”.
(Bonhomme “002: 181) La sostanza è dunque un catalizzatore relativamente indeterminato nei suoi
effetti poiché è determinato compiutamente solo dal e nel contesto rituale: lo yagé serve a provocare
una regressione infantile in un dispositivo narco-terapeutico occidentale, mentre consente di entrare in
relazione con gli spiriti ausiliari in un contesto sciamanico. I riti sono poi delle tecniche; e
l’accoppiamento effetti della sostanza-effetti del rito mette in discussione le loro definizioni ufficiali
rispettive (efficacia neuro-biochimica da un lato, simbolica dall’altro).
A cosa servono allora i riti/dispositivi/tecniche che prevedono l’assunzione di psicotropi allucinogeni?
Sono delle tecniche di comunicazione e conoscenza. Comunicazione nel senso proprio, perché
collegano la persona a un certo modello di realtà e a una determinata classe di entità: i morti, gli spiriti,
le divinità o l’inconscio, a seconda dei contesti. Comunicazione dunque nel senso di trasmettere
informazioni, entrare in relazioni con, essere in rapporto con. Da questa comunicazione deriva una
conoscenza: le informazioni ricevute consentono al soggetto di produrre un sapere a proposito di certe
dimensioni della realtà e classi di esseri. Si entra in contatto con antenati o spiriti, si rivive il passato e si
sente il futuro, si diagnosticano malattie e si identificano i rimedi. Ciò che avviene quindi in questi
rituali è molto più che aprire la persona a una sua particolare esperienza soggettiva. In quei contesti, si
convocano e si costruiscono dei mondi. [si veda in Bonhomme]
4. Ciò che hanno di speciale gli psicofarmaci industriali
In medicina e in psichiatria l’uso di sostanze in grado di agire sull’attività mentale e sugli affetti (a partire
dalle costituzioni, dalle idiosincrasie che ne sostenevano espressioni eccessive) data dagli albori dell’arte.
Dall’Elleboro che Ippocrate porta con sé andando a incontrare il melanconico Democrito (si veda
Coppo 2005: 15-20), all’uso anche medico nell’Europa della metà dell’800 della Cannabis Indica
(Samorini 1996; Moreau de Tours, allievo di Esquirol, negli anni 1830-40 aveva usato l’hashish per
In questi contesti “intendiamo per “dispositivi” “gli insiemi identificabili e osservabili di cui fanno parte, oltre
alle sostanze psicotrope, delle tecniche, delle pratiche, delle esperienze, delle credenze e delle attese che
mobilizzano degli attori e degli oggetti attorno all’uso rituale. … Il termine inglese ‘set & setting’ – la disposizione
e il dispositivo –designa molto bene ciò che noi intendiamo con questo. Il dispositivo è meno della cultura; è più
localizzato, incarnato, dunque identificabile…” (Bonhomme 2002: 178)
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provocare crisi in un’ottica terapeutica) e della Amanita Muscaria (ancora all’inizio ‘900 si trovavano
nelle farmacie vasi contenenti il fungo essicato usato come ricostituente), fino alla prescrizione della
Coca come euforizzante e analettico (anche da parte di Sigmund Freud), i medici non persero,
giustamente, l’occasione di estendere il ventaglio delle loro risorse di cura mettendo alla prova sostanze
attive. Ma è con la scoperta della cloropromazina che inizia l’avventura degli psicofarmaci nella
modernità e poi nella post-modernità.
A partire dalla fenotiazina, una molecola sintetizzata nel 1883 e usata dal 1945 come antistaminico, che
per le proprietà sedative era impiegata anche in anestesia e psichiatria, le industrie francesi si misero a
cercare un derivato con maggiori attività sedative e sintetizzarono nel 1950 la cloropromazina. Henri
Laborit, un medico militare, lo usò subito nei suoi cocktail litici, mezzi chimici compositi in grado di
ridurre o abolire le reazioni di difesa e facilitare “l’ibernazione artificiale”, e cioè la messa a riposo
vegetativo (come fanno gli animali in letargo) in modo da evitare che l’organismo esaurisca le sue forze
in reazioni omeostatiche di difesa contro un’aggressione che tende a squilibrare il suo ambiente interno;
come un intervento chirurgico, una narcosi, un grave trauma. Jean Delay e Pierre Deniker , psichiatri
all’Hôpital Sainte Anne di Parigi, introdussero subito la molecola nella clinica psichiatrica chiamandola,
per la sua larghissima gamma di azione, “Largactil”. Rispetto ai rimedi precedenti, il nuovo farmaco
dava risultati straordinari in tutte le sindromi dominate da agitazione, angoscia, confusione. Più o meno
negli stessi anni, a partire da un farmaco antitubercolare, e cercando di ottenere un derivato più potente
per la stessa indicazione, i laboratori Roche sintetizzarono l’iproniazide, che dimostrò non solo una
maggiore efficacia del capostipite nella cura della tubercolosi ossea, ma anche una netta e specifica
azione psichica: provocava negli ospiti dei sanatori una sensazione di benessere con aumento
dell’appetito e del peso corporeo. Il farmaco passò allora dai sanatori agli ospedali psichiatrici e nel
1952 fu descritto il primo netto miglioramento in un depresso grazie al suo uso. A partire dalla sua
attività farmacologica (inibizione di un enzima, la monoaminossidasi, implicato nella distruzione di
sostanze endogene, come le catecolamine e la serotonina, attive, tra l’altro, nella trasmissione degli
impulsi nervosi da un neurone all’altro, generando subito l’ipotesi eziologica che tuttora orienta e
sostiene speculazioni e ricerche: la depressione sarebbe causata da un difetto di alcuni
neurotrasmettitori, visto che una sostanza che ne diminuisce la distruzione migliora i sintomi depressivi.
In quei due anni fu posta quindi la base della moderna neurofarmacologia, e, insieme, della teoria
dell’origine biochimica dei disturbi mentali. Per successive derivazioni e filiazioni, dalle molecole
capostipite scoperte per caso sono poi nati tutti gli psicofarmaci usati in medicina e psichiatria. E’
proprio da queste molecole figlie di un procedimento tecnico assolutamente coerente al suo interno ma
rivolto ad altri obiettivi, che casualmente si è generata una terapeutica efficace verso alcune
manifestazioni psicopatologiche e, insieme, una teoria ezio-patogenetica dei disturbi psichici come esito
di un disfunzionamento psichico. Non è quindi a partire dalla conoscenza dei meccanismi della malattia
che è stato cercato il farmaco; ma dall’incontro casuale con un farmaco che è stata costruita una teoria
sulla malattia.
Un altro esempio delle scoperte casuali nel campo della chimica dei recettori riguarda le benzodiazepine.
L. H. Sternbach negli anni ‘50 era impegnato col suo gruppo di ricerca presso Hoffmann-La Roche
nella ricerca di tranquillanti a partire dal meprobamato. A questo scopo aveva progettato la sintesi di
una serie di derivati benzo-ossadiazepinici per poi passare a derivati del tipo chinazolinico 3-ossido; ma
i prodotti ottenuti non avevano le proprietà cercate. Vennero sintetizzati molti derivati, tutti inattivi
come tranquillanti. Fu quindi deciso di abbandonare il progetto inviando però comunque alla
sperimentazione farmacologica gli ultimi campioni, tra i quali uno della cui struttura molecolare non si
era completamente sicuri. Si trattava del clordiazepossido,ottenuto da una reazione inaspettata e con
una struttura del tutto originale rispetto al meprobamato. La sua straordinaria azione tranquillante ha
aperto la strada alla sintesi di una miriade di congeneri ed alla identificazione di un nuovo meccanismo
di azione e di un nuovo tipo di recettori.
Fissare gli anni ’50 del secolo scorso come quella dell’inizio della psicofarmacologia è quindi una scelta
culturale, dato che si è sempre saputo che alcune sostanze hanno azione sulla psiche. Tuttavia inizia da
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lì nei laboratori della moderna chimica industriale la scoperta di nuove sostanze a potente azione
psicotropa, a partire da un meccanismo di invenzione e validazione di nuove molecole che è andato
perfezionandosi e accreditandosi in gran parte dei paesi industrializzati come l’unico in grado di mettere
sul mercato sostanze psicoattive che abbiano avuto l’avvallo dello Stato e della legge.
Una volta inventati, e dopo aver superato i vari stadi della loro valutazione e messa a punto, i nuovi
farmaci per potenza, comodità di uso, possibilità di diffusione, costo e capacità di generare alti guadagni
ai produttori, non solo hanno soppiantato i farmaci precedenti, ma hanno prodotto una cultura (teorie
eziologiche, affermazione della supremazia della tecnica e della chimica, conferma o confutazione delle
categorie nosologiche o invenzione di nuove, ecc.). Da allora, molte sostanze sono state create,
raggruppate poi in diverse famiglie, situate grosso modo su un solo asse verticale: in alto le sostanze
stimolanti, come le anfetamine e gli antidepressivi, e in basso i tranquillanti, di cui i neurolettici, detti
“tranquillanti maggiori” negli Usa, sono i più potenti, e i tranquillanti minori, o benzodiazepine, quelli
di più comune uso. In mezzo, gli stabilizzatori dell’umore, come i sali di litio e il valproato di sodio
(Depakin). Tutte le altre sostanze psicoattive, come gli enteogeni (dall’LSD alla mescalina e agli
allucinogeni vegetali), i cannabinoidi (che presentano effetti terapeutici in varie patologie e effetti
psichici complessi in soggetti sani), gli alcaloidi dell’Amanita Muscaria e i disinibitori (come l’MDMA,
3,4-metilenediossimetanfetamina: Ectasy) sono illegali ed esclusi dagli psicotropi prescrivibili. Nel
nostro mondo è stata quindi effettuata una scelta che ha ammesso come farmaci solo alcune delle
famiglie di sostanze in uso presso i diversi popoli del mondo; sostanze che portano con loro,
promuovendola, una particolare cultura.
Gli psicotropi industriali sono dunque molto di più di singoli rimedi; e come tutti i farmaci hanno
effetti che vanno ben oltre il singolo portatore della sofferenza. Sono anche costruttori di collettivi e di
teorie, generatori di grandi profitti che coinvolgono una popolazione di ricercatori e lavoratori,
promotori di una particolare visione del mondo. Varrà quindi la pena soffermarsi ancora un momento
su alcuni passaggi che, dopo la loro nascita, caratterizzano la loro esistenza.
Il meccanismo di invenzione degli psicotropi industriali è stato ampiamente descritto da Pignarre 2001a
e 2001b e, per ciò che riguarda soprattutto gli antidepressivi, da Coppo 2005: 67-76. ) In sintesi, il
punto di partenza è in genere una molecola già attiva dalla quale si originano per sintesi delle molecole
derivate per variazioni seriali della loro struttura chimica. Queste molecole vengono poi sottoposte a
test preclinici, cioè su cellule in vitro o su animali, paragonando gli effetti a quelli di altre molecole la cui
efficacia sul comportamento umano sia già stata accertata, anche se per caso. Se superano la prova, e si
dimostrano efficaci come la molecola capostipite o di più, allora vengono candidate agli studi clinici per
specifiche indicazioni dopo, beninteso, che ne sia stata accertata su animali la tossicità acuta e la dose
minima letale. I test clinici prevedono il passaggio attraverso quattro fasi. Nella fase 1, la molecola è
testata in doppio cieco su dei volontari sani, per valutare la tolleranza clinica del nuovo prodotto, in
condizioni molto strette di sicurezza e di osservazione. Nella fase 2, la molecola è somministrata in
doppio cieco a dei gruppi di pazienti (in genere da 500 a 1000) che presentano la patologia per la quale
la molecola potrebbe essere proposta. Nella fase 3, sempre in doppio cieco vengono inclusi dei pazienti
che rappresentano la popolazione da trattare e la molecola è confrontata al placebo ma anche ai farmaci
di riferimento già in commercio. Questa fase coinvolge circa 3000 persone e dura spesso circa tre anni.
E’ alla fine di questa fase che un dossier può essere sottomesso alle autorità competenti per una
autorizzazione di messa in commercio. La fase 4 è realizzata, seguendo dei protocolli simili a quelli della
fase 3, quando il farmaco è già in commercio e permette di precisare i vantaggi e le particolari
indicazioni del farmaco.
Il risultato di questo percorso, che coinvolge grandi risorse e un numero molto elevato di soggetti, tra
ricercatori, sperimentatori, amministratori e volontari, può essere la commercializzazione del prodotto
per la patologia presa in considerazione inizialmente, quando la nuova molecola dimostri una attività
superiore a quella di riferimento, o una nuova indicazione, quando la nuova molecola si dimostra più
efficace di quella di riferimento su un complesso di sintomi (sindrome) che allora si isolano sullo
sfondo della malattia originaria, dando nascita così a una nuova categoria nosologica (è il caso per
esempio dei Disturbi da Attacco di Panico, o della Fobia Sociale).
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Il confronto con il placebo nei test a doppio cieco accompagna dunque la nuova molecola in tutto il
suo percorso per divenire farmaco; l’esito positivo del test autorizza il passaggio da una fase all’altra. Si
può dunque dire che il test a doppio cieco differenzia i moderni farmaci industriali da tutti gli altri
farmaci che non hanno superato la prova del placebo. Questo passaggio è quindi di enorme
importanza, perché separa le “guarigioni per buone ragioni” dalle “guarigioni per cattive ragioni”
(Nathan – Stengers 1995). Dopo che una molecola è stata testata in laboratorio in vitro e su animali, e
ha dimostrato un effetto farmacologico interessante, inizia il suo percorso tra gli umani. Si organizza un
gruppo di soggetti (poniamo 100) che presentino il sintomo, o i sintomi, verso i quali si suppone che la
molecola possa essere attiva. A questi si somministrano per esempio delle capsule che hanno
esattamente lo stesso colore e la stessa forma, ma di cui la metà contiene il principio attivo, l’altra metà
solo un eccipiente. Solo lo sperimentatore, che è fuori dalla scena della somministrazione della capsula,
sa quali contengano la molecola e quali l’eccipiente, cosa che invece ignorano medico e paziente. Alla
fine si valuta l’eventuale miglioramento ottenuto del sintomo bersaglio e, scoprendo le carte, si fa una
analisi statistica: in quale percentuale di casi la molecola e l’eccipiente hanno prodotto un
miglioramento significativo? Se la differenza tra le percentuali non è statisticamente significativa, la
molecola non ha effetto suo proprio, ma solo effetto placebo. Se invece il sottogruppo che ha ricevuto
la molecola sotto esame ha presentato una percentuale di miglioramenti statisticamente significativa,
allora è stata in grado di dimostrare un di più di efficacia rispetto all’effetto placebo ed è autorizzata a
procedere nei test clinici sempre più mirati e su campioni sempre più estesi.
Ma in cosa consiste l’ “effetto placebo”? Nella sperimentazione a doppio cieco l’impianto sperimentale
(che oltre a validare la molecola mette sotto controllo ogni influenzamento della credenza e della
speranza del medico, o della industria, nel suo farmaco) riduce l’effetto placebo al grado zero per
mettere in risalto l’azione farmacologica della molecola. Ma nei fatti non è il grado zero: in ogni gruppo
c’è una percentuale più o meno alta di soggetti che presentano netti miglioramenti avendo assunto una
sostanza inerte. L’effetto placebo dunque è attivo, e contiene almeno due fattori mescolati tra loro:
guarigioni spontanee, guarigioni per influenzamento del paziente da parte del contesto rituale in cui si
svolge la somministrazione (di cui fa anche parte la possibilità di ricevere una capsula “animata” dalla
molecola); e la sua attività è una quota parte più o meno significativa dell’efficacia della molecola,
quando sarà divenuta farmaco, alla fine del percorso di validazione.
Oggi buona parte degli studi di efficacia delle nuove molecole vengono effettuati non verso placebo ma
verso molecole madri già testate e che hanno superato la prova del doppio cieco. In questo caso per
essere ammessa alla commercializzazione la nuova molecola deve dimostrare un effetto superiore a
quella madre sullo stesso gruppo di sintomi, o su un sottogruppo di quei sintomi. E’ in questo modo
che le nuove molecole scompongono e ricompongono gruppi di pazienti secondo ordinatori legati alla
loro attività farmacologica. Quindi non solo le molecole divengono farmaci non a partire da ipotesi o
teorie eziologiche, ma da una tecnologia chimica capace di inventare nuove molecole da quelle, spesso
scoperte casualmente, che già si siano dimostrate attive; ma, nel loro percorso, consentono a ritroso di
costruire modelli e teorie sulla fisiologia e fisiopatologia umana, e questo soprattutto nel campo della
psiche, dove non sono disponibili “testimoni” (che consentono di trasportare e affermare la patologia)
affidabili.
Nel 1952 dunque abbiamo scelto di legittimare certe sostanze psicoattive e non altre; abbiamo accettato
quelle che sono state in grado di sottomettersi ai test contro placebo. Tutti gli altri farmaci e rimedi
sono stati esclusi o proibiti dalla farmacoterapia ufficiale: dall’LSD ai fiori di Bach. Progressivamente,
gli psicotropi moderni hanno occupato tutto lo spazio. Le cure per crisi (insulino-, malaria-, ESKterapia, convulsioni da pentilenetrazolo o terebentina, ecc.) sono state progressivamente abbandonate; e
con loro l’idea che, dopo il tramonto delle teorie della degenerazione e dell’ereditarietà, le malattie
mentali potessero essere guaribili. I trattamenti attuali servono per stabilizzare i pazienti; i due poli in
cui si situano i nuovi psicotropi (stimolanti/tranquillanti) corrispondono ai due modi più spettacolari di
rottura dell’ordine sociale. Il furore e la melancolia degli antichi. Si tratta di calmare senza deficit, e di
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attivare senza aggressività. Gli psicotropi ideali sono degli stabilizzatori in tutti i sensi del termine:
sociale, fisico, psichico. Il 1952 segna dunque nel nostro mondo un cambiamento di paradigma, e segna
il passaggio da una società disciplinare (reclusione) alla società del controllo. (Pignarre 1994: 66).
Gli psicotropi industriali hanno dunque diversi effetti. Intanto, stabilizzano il soggetto rispetto a una
eccedenza che lo sposta dalla normalità statistica. Poi, legano il sintomo alla persona: porta la causa
della malattia all’interno del soggetto. “In psichiatria, un farmaco è un oggetto attivo che permette di
creare, mantenere e poi perpetuare l’opposto: di legare il sintomo alla persona. Una compressa di
neurolettico è certamente un farmaco, poiché materializza la teoria secondo la quale la schizofrenia si
trova all’interno dell’individuo. Analogamente, possiamo dire che una seduta di psicoanalisi è anch’essa
un farmaco.” (Nathan – Stengers 1996: 83) Facendo questo operano esattamente al contrario di ciò che
avviene altrove: “in una società non occidentale, un medicamento è un oggetto attivo che permette di
creare, mantenere e perpetuare la disgiunzione tra il sintomo dalla persona. Un medicamento è dunque
un oggetto che permette di materializzare la teoria sulla natura del disturbo professata dalla comunità”
(Nathan- Stengers 1996: 83)
La chemioterapia moderna costruisce dunque degli esseri privi di dei, spiriti e forze sovrapersonali,
degli esseri fatti di molecole elementari dalle quali deriva la qualità del vivente. Mobilizza intelligenza e
creatività, fa e disfa la nosografia, distribuisce certificati di lecito e illecito, costituisce e disfa gruppi,
consente il passaggio dalla società disciplinare a quella del controllo, stabilizza processi eccessivi,
spedisce gli umani in un divenire chimica, come, altrove, lo sciamanesimo li spedisce fuori dal loro
mondo verso un divenire pianta. Gli utenti di droghe potrebbero allora essere dei ricercatori che hanno
preso sul serio le proposte della chemioterapia. (Ibidem).
Bibliografia
Bonhomme Julien 2001 “A propos des usages rituels de psychotropes hallucinogènes (substances,
dispositifs, mondes)”, Ethnopsy. Les mondes contemporains de la guérison, 2, 171-190
Coppo Piero 2005 Le ragioni del dolore. Etnopsichiatria della depressione, Bollati Boringhieri, Torino
Nathan Tobie – Isabelle Stengers 1995 Medici e stregoni. Manifesto per una psicopatologia scientifica. Il medico e il
ciarlatano, Bollati Boringhieri, Torino 1996
Nathan Tobie 2001 Fonctions de l’objet dans les dispositifs thérapeutiques, Ethnopsy, 2, 5-42
Samorini Giorgio 2006 L’erba di Carlo Erba. Per una storia della Canapa Indiana in Italia 1845-1948,
Nautilus, Torino
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