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CAPITOLO TERZO
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LE TEORIE ECONOMICHE TRA STORICISMO E MARXISMO
1. L’ECONOMIA, «SCIENZA TRISTE»
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Sommario: 1. L’economia, «scienza triste». - 2. Le teorie economico-politiche dello
storicismo tedesco. - 3. Marx e la critica dell’economia politica.
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A) David Ricardo: economia politica e problema della distribuzione
Ricardo può essere considerato il massimo teorico dell’economia politica «classica».
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David Ricardo nacque a Londra nel 1772. Inizialmente agente di cambio, poi banchiere e
operatore di borsa, infine teorico e studioso di questioni finanziarie e di politica economica. La
sua opera principale è costituita dai Principi dell’economia politica e delle imposte (1817).
Nel 1819 fu eletto alla Camera dei Comuni e si espresse in favore di un liberalismo radicale e
di una difesa dell’espansione industriale. Morì a Gatcomb Park, nel Gloucestershire, nel 1823.
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La riflessione economico-sociale di Ricardo si rivolge a campi di applicazioni diversi rispetto a quelli affrontati da Smith. Mentre quest’ultimo
analizzava i meccanismi generali di incremento economico della ricchezza delle nazioni, Ricardo dirige la propria analisi sui problemi della distribuzione della ricchezza nel capitalismo industriale moderno. Nel profitto
industriale Ricardo individua la molla dell’intero sistema capitalistico: il
rapporto tra profitto e capitale (il calcolo del «saggio generale di profitto»)
assume un valore chiave per l’economia politica. Attraverso analisi economico-politiche di grande pregnanza, Ricardo chiarisce la strutturale situazione di conflittualità fra le classi sociali basata su una fondamentale divergenza di interessi (elemento di critica alla nozione della «mano invisibile» di Smith). Nella sua dottrina del «libero scambio», cardine dello sviluppo economico dell’Inghilterra del capitalismo industriale, è possibile riconoscere una netta differenza di atteggiamento rispetto a Smith: l’intera
analisi dei meccanismi di produzione capitalistica elaborata da Ricardo, interessata a svelare anche i tratti più drammatici della crescita economica,
fu ammirata da Marx, che vi vide non a caso un primo riconoscimento di
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quegli aspetti negativi del processo di accumulazione che altri economisti
dell’epoca tendevano a mistificare costantemente e che ispirò molte analisi
svolte nel Capitale proprio sulla teoria del valore-lavoro di Ricardo.
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B) Thomas Malthus: gli squilibri della produzione
Thomas Robert Malthus nacque a Wotton, nel Surrey, nel 1766. Era pastore protestante ed ebbe anche degli incarichi nella vita pubblica. Nella sua
formazione furono particolarmente importanti le opere di Hume e Adam
Smith. Nel 1798 scrisse la sua opera più celebre, il Saggio sul principio
della popolazione, che successivamente rimaneggiò. Redasse anche opere
di economia, che furono attaccate duramente dai ricardiani e per questo
meno conosciute, tra le quali ricordiamo la Ricerca sulla natura e il progresso della rendita (1815), che ebbe influenza sulla teoria della rendita
fondiaria di Ricardo, e i Principi di economia politica (1820), scritti invece
in polemica con i ricardiani. Morì a Bath nel 1834.
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Il Saggio sul principio della popolazione contiene forti elementi di critica all’ideologia
illuministica del progresso, cioè alla convinzione che l’umanità, grazie al diffondersi della
razionalità scientifica e degli effetti dell’industrializzazione, procedesse verso un miglioramento inarrestabile della propria condizione (i riferimenti polemici sono da un lato la filosofia
della storia di Condorcet, dall’altro la teoria della «mano invisibile» di Smith). All’opposto di
tale visione, Malthus vede nella società del suo tempo il profilarsi di una condizione di strutturale scarsità di risorse: in base al suo studio, all’aumento della popolazione non corrisponde
un eguale aumento dei mezzi di sussistenza.
Il modello della ricerca è offerto dagli effetti del poderoso incremento demografico nell’Inghilterra della fine del Settecento in relazione alla crescita industriale. Le conclusioni dello
studio di Malthus sono per molti versi drammatiche: ad un incremento delle nascite di tipo
geometrico (per moltiplicazione: 1, 2, 4, 8...) ne corrisponde uno delle risorse di tipo aritmetico (per semplice addizione: 1, 2, 3, 4...). Lo squilibrio è dunque sistemico e le politiche
riformiste appaiono largamente insufficienti di fronte a questa disparità di crescita. La prognosi di Malthus è tuttavia altrettanto sconcertante: alle limitazioni tradizionali dell’istinto biologico alla procreazione (sia di tipo repressivo, come l’aumento delle morti, sia preventivo, come
le politiche di contenimento delle nascite) va aggiunta la necessità dell’ingiustizia sociale,
anzi della povertà, esplicitamente teorizzata come fattore di equilibrio sociale.
Secondo Malthus, infatti, proprio l’emergere di uno stato sociale ed assistenziale (pubblica assistenza ai poveri, diritti salariali, miglioramento delle condizioni di lavoro), favorendo il
miglioramento della qualità della vita delle classi subalterne e dunque l’incremento demografico, creerebbe le condizioni del potenziale collasso economico complessivo.
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La disorientante analisi malthusiana mostra per la prima volta, in pieno
clima illuminista, come gli squilibri sociali non derivino esclusivamente
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dall’egoismo dei ricchi o da forme di squilibrio nella distribuzione delle
ricchezze, quanto da cause strettamente naturali: come nel mondo animale,
anche in quello sociale umano la scarsità delle risorse genera una drammatica lotta per l’esistenza che, determinando la diminuzione della popolazione, crea le condizioni per la sopravvivenza della classe sociale più ricca
(concetto, come noto, ripreso in ambito biologico da Charles Darwin e posto all’origine della teoria evoluzionistica della specie).
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2. LE TEORIE ECONOMICO-POLITICHE DELLO STORICISMO
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Con l’estendersi dello sviluppo capitalistico, nel corso dell’Ottocento, il
rapporto tra economia e società appare più problematico. Mentre la rivoluzione industriale si sviluppa in Inghilterra e comincia a manifestarsi anche
nell’Europa continentale, emergono tensioni crescenti. Le vecchie economie tradizionali e artigianali sono minacciate dalla concorrenza della produzione industriale.
Lo sviluppo economico e la diffusione del mercato determinano nuove
differenziazioni territoriali. Allo stesso tempo, la trasformazione delle campagne e la crescita della classe operaia si accompagnano a condizioni di vita
e di lavoro estremamente disagiate per masse crescenti di popolazione. Si
profilano i contorni della nascente questione sociale.
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In questo contesto, le teorie dell’economia classica appaiono inadeguate non solo nella
versione più ottimista ma anche in quella più pessimista, basata sui limiti naturali dello sviluppo, di Malthus e Ricardo. Del resto, entrambe le varianti dell’economia classica sostenevano la
necessità di non turbare con interventi istituzionali l’equilibrio dei meccanismi economici. Ma
ciò comincia a suscitare dubbi crescenti nel contesto continentale e a sollevare critiche contro
l’economia classica inglese, reputata incapace di spiegare i fenomeni concreti e, soprattutto, di
fornirne una soluzione valida.
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Due in particolare sono i tipi di critiche che le vengono mosse:
— la prima, portata avanti dallo storicismo tedesco, si concentra sulle differenze territoriali dello sviluppo economico e sulle modalità per colmarle;
— la seconda, quella di Marx, mette in discussione l’interpretazione dei
rapporti tra le classi sociali nello sviluppo capitalistico.
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Nei primi decenni dell’Ottocento la situazione della Germania era caratterizzata da una forte frammentazione politica (l’unificazione sarà realizzata solo dopo il 1866). Lo sviluppo economico era molto più limitato di
quello inglese e anche di quello della vicina Francia (nel 1840 la capacità
delle macchine a vapore esistenti in Francia era pari al 14% di quella britannica mentre in Germania era solo il 6 %).
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A differenza della situazione inglese, la società civile appariva molto meno autonoma
dalle istituzioni politiche. Il ruolo delle strutture statali era più esteso e più rilevante. È ovvio
che in questo quadro fosse difficile recepire un modello interpretativo come quello dell’economia classica, che presupponeva un’elevata autonomia dei meccanismi di regolazione delle
attività economiche basati sul mercato. D’altra parte, era invece presente una tradizione di
ricerca sulle attività economiche come strumento ausiliario per le decisioni statali.
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Si comprende dunque come diversi autori della scuola storica tedesca
di economia politica si siano posti il problema delle differenze di sviluppo
economico tra i vari stati nazionali, criticando l’astrattezza degli schemi
teorici dell’economia classica. La soluzione infatti doveva essere cercata in
un’indagine che restasse più aderente alla realtà concreta e che quindi si
servisse del metodo storico piuttosto che di quello analitico-deduttivo. L’indagine storica doveva chiarire come aspetti culturali, sociali e politici si
combinassero con variabili economiche, dando luogo a specifiche forme di
organizzazione dell’economia.
L’insistenza sulla variabilità delle economie concrete e sulla loro evoluzione nel tempo consentiva poi di mettere in discussione l’orientamento
rigidamente liberista dell’economia classica, legittimando forme di politica
economica più interventiste, specie in termini di protezionismo doganale.
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A) Stadi di sviluppo dell’economia
Gli storicisti tedeschi hanno in genere proposto classificazioni di diversi
stadi di sviluppo dell’economia, risultanti dalla combinazione di fattori
economici e istituzionali.
Una prima formulazione di tali stadi si trova in Friederich List (17891846), un precursore della scuola storica. Nella sua opera (1841) egli assume come unità di analisi l’economia nazionale. Per comprendere i diversi
gradi di sviluppo delle economie nazionali occorre tenere presente che la
prosperità di una nazione è grande non in rapporto all’accumulazione della
ricchezza, ma in rapporto allo sviluppo delle forze produttive.
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Tra le forze produttive egli includeva fattori socioculturali: in particolare
la crescita delle conoscenze scientifiche e politico-istituzionali e un contesto
atto a sostenere la libertà e l’autonomia individuale. List imputa all’economia
classica di non tener adeguatamente conto del ruolo delle istituzioni che condizionano l’evoluzione nel tempo delle diverse economie. A questo scopo
elabora una classificazione basata su cinque stadi di sviluppo:
— primitivo;
— pastorale;
— agricolo;
— agricolo-manifatturiero;
— commerciale.
L’attenzione è posta soprattutto sugli stadi finali: l’industrializzazione
e il passaggio a un’economia industriale e terziaria. List sosteneva che la
marcata differenza tra i vari paesi in termini di industrializzazione richiedeva politiche di protezione dell’industria nazionale. Un orientamento rigidamente liberista poteva essere conveniente per l’Inghilterra, le cui industrie
erano più sviluppate; ma gli altri paesi, per vincere la concorrenza inglese,
dovevano sostenere le loro industrie fino a quando non fossero diventate
competitive.
A quel punto, a parità di condizioni, un quadro di libero commercio
avrebbe effettivamente contribuito allo sviluppo di tutti, secondo i dettami
dell’economia classica. List incontrò incomprensioni e critiche per le sue
posizioni, ma poi la sua tesi fu seguita dalla maggior parte dei paesi avviatisi verso l’industrializzazione e fu ripresa e sviluppata dagli esponenti della
cosiddetta scuola storica di economia: W. Roscher (1817-1894), K. Knies
(1821-1898), B. Hildebrand (1812-1878), cui si aggiunsero più tardi altri
autori tra cui G. Schmoller (1838-1917) e K. Bücher (1847-1930). Alla pretesa teorica dei classici di individuare leggi di funzionamento dell’economia, viene contrapposta l’esigenza di una descrizione complessiva di tutti
gli aspetti della realtà nella sua evoluzione storica.
Da qui l’insistenza sull’analisi degli stadi di sviluppo. Alla classificazione di List, basata sulle caratteristiche prevalenti della produzione, Hildebrand ne contrappone un’altra centrata sulle modalità delle transazioni
economiche:
— l’economia naturale o del baratto;
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— l’economia monetaria;
— l’economia che si serve del credito.
Ciascuna di queste forme presuppone istituzioni specifiche che ne garantiscano il funzionamento e ne influenzino le possibilità di creare ricchezza. Bücher distingue a sua volta:
— lo stadio dell’economia domestica;
— lo stadio dell’economia cittadina;
— lo stadio dell’economia nazionale.
Mentre il primo è basato sull’autoconsumo familiare, con il secondo si
diffonde lo scambio delle merci; ma è solo con il terzo che si istituzionalizza il mercato come strumento di regolazione della produzione e del consumo. Questa classificazione assegna particolare importanza al contesto politico-istituzionale per l’origine dei diversi stadi: in particolare, al fenomeno
dei comuni, tipico dell’Europa medievale, per il formarsi del secondo stadio
e all’emergenza degli stati nazionali per il mercato del terzo stadio.
Come è stato notato da Hoselitz (1960), queste elaborazioni presentano
tre limiti principali:
— oscillano con scarsa consapevolezza tra l’interpretazione teorica e la
descrizione empirica. L’insistenza sugli aspetti istituzionali e sul condizionamento da essi esercitato sullo sviluppo economico non si accompagna a una chiara esplicitazione dei rapporti causali tra i diversi fattori
presi in considerazione;
— gli stadi appaiono a volte delle costruzioni destinate a servire scopi di
analisi comparata e a volte delle vere e proprie descrizioni di fasi successive dello sviluppo economico, tra le quali si ipotizza un rapporto
necessario, anche se invece alcuni stadi riflettono chiaramente l’esperienza specifica e limitata di paesi europei (soprattutto della Germania);
— non sono chiaramente individuati i fattori che spiegano il passaggio da
uno stadio a un altro.
Nel complesso, quindi, la critica dello storicismo porta a un difetto opposto rispetto a quello imputato all’economia classica: il rifiuto del metodo
deduttivo a favore di quello storico conduce all’accumulo di materiale empirico, a volte anche di interesse, ma la cui interpretazione appare problematica.
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Sull’indeterminatezza teorica dello storicismo insisterà, con la sua critica, Weber (19031906). Egli sottolinea efficacemente come il rifiuto di leggi di funzionamento dell’economia
produca in realtà una separazione tra ricerca e interpretazione e quindi una regressione dal
punto di vista teorico.
Infatti, al descrittivismo enciclopedico che caratterizza la ricerca, in cui vengono considerate molteplici variabili, si accompagna poi il rimando a strumenti interpretativi ambigui e non
controllabili scientificamente, come il concetto di spirito del popolo o di impulso divino
(Roscher), per spiegare lo sviluppo storico complessivo. Questi concetti esprimono il convincimento che lo sviluppo economico non sia separabile dalla cultura complessiva di una determinata popolazione. Così, all’impostazione individualistica dell’azione economica tipica dell’economia classica, si contrappone una visione olistica, in cui l’attore economico è radicalmente condizionato dal contesto culturale in cui agisce. Ma una visione di questo tipo rende
difficili la generalizzazione e l’analisi teorica.
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3. MARX E LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA
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L’incapacità degli economisti classici di rendersi conto del conflitto esistente tra capitalisti e lavoratori verrà sottolineata da Marx. Riprendendo le
teorie meno ottimiste avanzate da Malthus e Ricardo, egli considera che il
capitalismo, lungi dal condurre a una crescita della ricchezza e della cooperazione tra le classi sociali, genera al contrario una polarizzazione crescente
delle stesse e quindi una progressiva intensificazione del conflitto, che
alla fine porta al superamento delle vecchie forme di organizzazione economica.
Inoltre, anche se Marx concentra la sua analisi sulle differenze di classe,
con lo storicismo condivide il fatto di tenere l’indagine economica legata al
contesto storico-sociale:
— per gli storicisti è l’evoluzione culturale a condizionare l’organizzazione economica;
— per Marx sono gli aspetti economico-sociali a costituire il vero motore
dello sviluppo storico.
Inoltre, a differenza dei primi, il suo intento non è di mostrare i legami
intercorrenti tra i diversi aspetti della realtà sociale, quanto di formulare
una teoria generale dello sviluppo storico, che ponga l’accento sulla società
capitalistica e sulle sue regole. Secondo la sua visione, i fattori che originano i differenti stadi dell’evoluzione storica sono quelli economico-sociali: i
modi di produzione generano nel tempo proprio quelle classi sociali che li
metteranno in discussione, conducendo a forme di organizzazione economica e sociale diverse.
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Lo stesso socialismo quindi rappresenta un passaggio insito nelle leggi
di movimento della società capitalistica e in quest’ottica Marx, contrapponendosi alle precedenti teorie socialiste fondate su utopie, diviene il fondatore di un socialismo scientifico in cui analisi scientifica e azione politica
appaiono indissolubilmente legati.
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A) La teoria dello sviluppo storico
Poiché per Marx la produzione non rappresenta un processo esclusivamente economico, ma anche e soprattutto sociale, ne consegue che ogni
analisi economica non può tralasciare di prendere in considerazione l’importante ruolo giocato dalle istituzioni.
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La produzione infatti avviene pur sempre all’interno di quei rapporti sociali che sono alla
base della divisione in classi: i membri di una società si dividono in virtù del loro modo di
partecipare alla produzione. La proprietà è la forma giuridica di tali rapporti e la disuguaglianza sociale sarà inevitabilmente funzione della posizione di classe. Così gli operai riceveranno un salario e i capitalisti un profitto.
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La società capitalistica dunque non è composta da un insieme di individui isolati, con pari opportunità, che si scambiano beni e servizi cercando di
massimizzare il loro interesse, secondo quanto sostenuto dal modello individualistico—utilitaristico dell’economia classica. Chi dispone solo della
propria capacità di lavoro deve infatti suo malgrado sottostare alle condizioni imposte dai capitalisti, detentori dei mezzi di produzione. Ne consegue quindi che lo scambio tra salario e lavoro è forzato e diseguale e che
l’ordine sociale si basa sulla coercizione imposta dalle classi dominanti:
— sia i rapporti di produzione che le classi variano con il livello di sviluppo raggiunto dalle forze produttive: i mezzi materiali di produzione,
comprendenti le conoscenze scientifiche e tecniche, le forme di divisione del lavoro e la qualificazione culturale e professionale dei lavoratori.
Al livello delle forze produttive, ne corrisponde a sua volta uno specifico nei rapporti di produzione, che pone in essere una determinata
struttura sociale. La struttura economica influisce a sua volta sulla sovrastruttura della società: l’organizzazione sociale e politica, l’ordinamento giuridico e le forme di sviluppo culturale, religioso e artistico.
Finché il modo di produzione non ostacolerà lo sviluppo delle forze
produttive, si avrà ordine sociale tra le classi: struttura e sovrastruttura
saranno congruenti, così come la forma politica lo sarà con il modo di
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produzione. Quindi, fino a quando la classe dominante sosterrà lo sviluppo delle forze produttive, sarà anche il consenso e non solo la coercizione a garantire l’ordine sociale;
— quando lo sviluppo comincerà a far entrare in contraddizione le forze
produttive con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di
proprietà, la società inevitabilmente inizierà a cambiare e si assisterà al
nascere di una nuova classe sociale: la classe rivoluzionaria, che criticherà tanto il vecchio ordine quanto la classe dominante. Il processo di
rivoluzione sociale condurrà a un nuovo modo di produzione, innescando un mutamento che causerà la ridefinizione dell’intera sovrastruttura.
Sulla base dei diversi modi di produzione dominante, storicamente possiamo distinguere quattro tipi di società:
— antica;
— feudale;
— borghese;
— asiatica.
Le prime tre riguardano l’Occidente e sono caratterizzate dalla subordinazione a una classe dominante che detiene i mezzi di produzione: la
società antica si fondava sulla schiavitù, quella feudale sulla servitù della
gleba e quella borghese sul lavoro salariato.
Nell’ultima invece, tipica della Cina e dell’India, i lavoratori agricoli
erano subordinati allo Stato. All’interno della società feudale si avrà il progressivo affermarsi della borghesia, che conquisterà un potere politico
progressivamente maggiore, fino a ottenere il «dominio esclusivo nello stato rappresentativo moderno». A sua volta, la borghesia causerà una crescita
delle forze produttive, conducendo alla nascita di una nuova classe, quella
operaia, che segnerà la fine del modo di produzione capitalistico, soppiantandolo con il socialismo.
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B) La società capitalistica
In una economia capitalistica, l’esistenza di un profitto a vantaggio dei
detentori di capitale è condizione essenziale senza la quale la produzione
di beni non avrebbe motivo di essere. Poiché, però, il valore di scambio
delle merci è pari alla quantità di lavoro necessaria alla loro produzione, ne
consegue che il profitto sarà generato da quella particolare merce che, al-
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l’interno del processo produttivo, creerà un valore aggiuntivo rispetto a quello
sufficiente a produrla.
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Tale merce è la forza lavoro, il cui valore, cioè il salario, è determinato dalla quantità di
lavoro incorporata nelle merci necessarie ad assicurare la sopravvivenza dei lavoratori stessi e
delle loro famiglie. Contrariamente alle altre merci, però, il valore generato dalla forza lavoro
è maggiore di quello necessario ad acquistarla, cioè del salario con cui viene retribuita: il
tempo di lavoro dell’operaio salariato è infatti superiore a quello necessario per produrre un
valore corrispondente al suo salario.
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Questa differenza costituisce un plus-lavoro, fonte di un plusvalore la
cui entità, rispetto al salario anticipato dal capitalista, fornisce la misura del
tasso di sfruttamento. Il capitalista, tendendo ad aumentare tale tasso, allungherà la giornata lavorativa o ridurrà il salario a parità di orario. Ad aumentare il plusvalore prodotto sarà a sua volta il progresso tecnico, in grado di
accresce la produttività del lavoro.
Per determinare il tasso di profitto bisogna però distinguere il capitale
variabile, ossia le anticipazioni salariali, dal capitale costante, l’insieme
di impianti e materie prime che, secondo Marx, non contribuiscono a creare
valore aggiuntivo. Il tasso di profitto calerà quindi al crescere della «composizione organica del capitale», cioè del rapporto tra il valore del capitale costante e quello del capitale variabile. Si avrà infatti l’utilizzo di una
minore quantità di lavoro in rapporto al capitale complessivo, con la conseguente diminuzione del plusvalore e del profitto.
Con l’affacciarsi della concorrenza, al fine di aumentare i profitti, i capitalisti si vedranno costretti ad accrescere il capitale fisso, ossia i macchinari,
a spese del lavoro, il cui costo subirà inevitabilmente una riduzione. Tutto
ciò innescherà un processo che nel lungo periodo determinerà:
— un accrescimento del numero dei disoccupati, ossia dell’«esercito industriale di riserva», su cui influisce anche l’accelerazione del processo di centralizzazione del capitale. Poiché infatti sono solamente le grosse
imprese che, investendo sempre più in capitale fisso, riescono a sopravvivere, mentre i piccoli produttori sono costretti a soccombere, si andranno a infoltire sempre più le file dell’esercito industriale di riserva.
La disoccupazione e i salari ridotti condurranno inevitabilmente a un
peggioramento sia delle condizioni di vita, sia delle stesse condizioni di
lavoro di chi, ridotto a «insignificante appendice della macchina», si
sentirà dequalificato e costretto a svolgere un impiego alienante.
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— un abbassamento del saggio di profitto determinato dal maggior peso
che nel lungo periodo, a causa del diffondersi delle innovazioni, il capitale costante assumerà rispetto a quello variabile. Si avrà dunque un minor
plusvalore con effetti economici negativi per i capitalisti. Anche se tale
processo può comunque essere contrastato riducendo il salario, o intensificando la produttività attraverso il mutamento dell’organizzazione
del lavoro o l’allungamento degli orari, alla lunga segnerà inevitabilmente il destino del capitalismo, legato inesorabilmente ai rapporti di
classe originatisi in seno al sistema produttivo.
Tutti questi fattori costituiranno le premesse che trasformeranno progressivamente la classe operaia in un gruppo sociale coeso che, organizzandosi politicamente, determinerà il definitivo superamento del vecchio
modo di produzione.