numero 11 - Finzioni Magazine

Transcript

numero 11 - Finzioni Magazine
n.11
2
The Godfathers
Il concetto di scarto in
Brizzi, Sarasso e Wu Ming.
Dell’abbassamento progressivo del
sospiro di sollievo.
di JACOPO CIRILLO
C
i stiamo avvicinando al numero 12 di Finzioni che, simbolicamente, (di)
mostra un anno in cui ci siamo fatti un mazzo così ma ci siamo voluti tanto
bene. Per questo i Godfather sono tre (otto se contate i Wu Ming come singoli e
non come collettivo) e l’articolo è mooolto più lungo del solito. Questi tre padrini
sono accomunati da un concetto che, legandoli, ne articola le differenze, soprattutto nei confronti di quel lettore medio che, sì, ha fatto il liceo ma si ricorda poco
o nulla della storia. Questo concetto è lo scarto, inteso non in quanto rifiuto o
spazzatura ma come scostamento.
Tutti e tre (o otto) gli autori raccontano una possibile deviazione dalla Storia,
tutti e tre (o otto) lo fanno in modo diverso e complementare e alcune delle loro
opere, spesso le più significative, messe insieme diventano quasi un compendio
del concetto di scarto storico, in tutte le sue possibili (yaaawn) occorrenze.
I Wu Ming con Q (Luther Blissett), Altai e Manituana, raccontano una particolare deviazione della storia: un personaggio vive un determinato periodo e ne diventa protagonista, o comunque attore importante. Nella percezione del lettore,
la verità e la dimostrabilità storiografica di queste narrazioni è irrilevante, sia per
l’abilita con cui viene costruita la trama, sia per la distanza temporale e culturale
da quegli avvenimenti. La Istanbul del 1550 e quella di 15 anni dopo, o i nativi
americani del 1775 sono storie e ambientazioni che il lettore medio non conosce
e, soprattutto, non è tenuto a conoscere, dunque senza problemi si abbandona
alla narrazione, problematizzando poco o nulla la verità dei fatti, l’effettivo scarto
dalla realtà e, di converso, la sua ignoranza in materia.
Sarasso e Brizzi, invece, raccontano periodi che noi lettori italiani sappiamo o
siamo tenuti a sapere: la seconda guerra mondiale, gli anni ’60, gli anni ’70 e così
via. Conoscere la propria storia recente è un requisito fondamentale e richiesto
dalla società (e dai programmi ministeriali), dunque chi non sa problematizza
la sua ignoranza vergognandosene o, più semplicemente, snobbando colpevolmente l’imbarazzo.
Simone Sarasso, nei primi due libri della sua "Trilogia sporca d’Italia", Confine
di Stato e Settanta, parte dalle conoscenze (che dovrebbero essere) condivise riguardo ai periodi più bui del dopoguerra italiano che sviluppa ipotizzando snodi
3
4
narrativi in realtà sconosciuti. Prosaicamente, tappa i buchi della storia con il romanzo, scrivendo quello che plausibilmente potrebbe essere successo nei grandi
misteri d’Italia. Qui lo scarto è possibile ma non univoco: le cose potrebbero essere andate così oppure no, lo scollamento storico è indeterminato e indeterminabile. Allora il nostro lettore poco informato può comunque tirare un sospiro di
sollievo: non è a conoscenza della recente storia d’Italia a un livello socialmente
accettabile ma, comunque, il libro lo dispensa da questa colpa ammettendo, tramite appunto lo scarto, un livello di ignoranza costitutiva. Nessuno (o quasi) sa
come sia andata davvero; perché dovrei saperlo io?
Enrico Brizzi, invece, lo frega. Nei suoi L’inattesa piega degli eventi e La nostra
guerra usa il concetto di scarto attraverso l’ucronia: come sarebbe andata se.
Come sarebbe andata se Mussolini non si fosse alleato con la Germania bensì
con l’Inghilterra e l’America? Se l’Italia avesse vinto la guerra, se le colonie africane fossero ancora nostre? Qui, il sospiro di sollievo del lettore si tramuta in fiato
corto: per capire appieno lo scarto bisogna sapere com’è andata veramente, altrimenti non si coglie lo spirito del libro. Brizzi usa uno stile quasi verista nella
descrizione dei fatti e degli ambienti, usando un rigore storiografico su ciò che
non è mai successo. Il lettore è con le spalle al muro: i neo laureati che non si ricordano le ore di storia liceali non possono non sentirsi a disagio nel leggere i libri
in questione che, per dire il falso, assumono la consapevolezza diffusa del vero.
Due linee parallele: Wu Ming-Sarasso-Brizzi da una parte e il progressivo abbassamento del sospiro di sollievo del lettore scarso in storia dall’altra. Prima viene giustificato, poi dispensato, infine condannato. E come tutte le linee parallele
non si incontrano mai e, se si incontrano, non si salutano (cit.).
Enrico Brizzi - L'inattesa piega degli eventi, Baldini Castoldi Dalai 2008, 20 euro
Enrico Brizzi - La nostra guerra, Baldini Castoldi Dalai 2009, 20 euro
Simone Sarasso - Confine di stato, Marsilio 2007, 18 euro
Simone Sarasso - Settanta, Marsilio 2009, 21 euro
Luther Blissett - Q, Einaudi 1998, 16 euro
Wu Ming - Altai, Einaudi 2009, 20 euro
5
Sommario
La citazione del mese
Le vite ortogonali
Libri (quasi) mai letti
Mitomania
Corrispondenze notevoli
Letterature Involontarie
Me lo copre il prezzo?
Punizioni
Oh, Scena!
Donne & Compressori Megaviaggi!
7
8
9
10
11
12
14
15
16
17
18
La lettera che muore
Mattoni
Biografie edulcorate
I ferri del mestiere
Metaletterari di carta/1
La posta dei lettori
Pillole di Scienza
Metaletterari di carta/2
Ghost World
Iperboloser
Contributi da
19
20
21
22
23
24
26
27
28
29
30
Editoriale
Benvenuti a Finzioni numero undici. Numero ricco di
pagine e di Godfather, addirittura tre, ma soprattutto ricco di aspettative.
una loro interpretazione personale dell'idea di "lettura
creativa", faro e guida della nostra linea editoriale. Fumetti, racconti, riflessioni, poesie, recensioni e pensieri
sparsi di chi si fa il mazzo da mesi o anni per promuovere
un po' di cultura in rete.
Sì perché come potete notare dal numerino in copertina, la prossima uscita sarà la numero 12, dunque il vero
compleanno di Finzioni che non sembra ma è già un
ometto.
Lo sappiamo, non vedete l'ora. Nel frattempo leggetevi
però questo numero che è un coacervo di sospiri di sollievo, gatti di simonerossi, Lady Gaga, sbottonamenti di
Céline, Megaviaggi e strane omonimie con pacchetti di
sigarette.
Essendo un ometto, dicevamo, invece di chiedere regali
a parenti e vecchie nonnine prepara una sorpresa per tutti voi, cioè un numero da collezione: al posto delle solite
firme che ormai, diciamolo, hanno un po' stufato, Finzioni numero dodici sarà scritto e arricchito dagli amici che,
come noi, hanno una rivista letteraria giovane e indipendente in giro per il web. Tutti i progetti letterari più belli
della rete si sono uniti per i festeggiamenti e scriveranno
La redazione
6
P
arlare in modo complicato, utilizzare parole
difficili sta a segnalare che si fa parte dei privilegiati, si viene invitati ai convegni, coperti di onori.
Ma bisogna chiedersi se tutti quei discorsi hanno un
contenuto, se non si riesce a dire la stessa cosa con parole semplici. È quasi sempre possibile.
Noam Chomsky (non il gatto di simonerossi)
La citazione del mese
Nicola Lagioia - Riportando tutto a casa
di JACOPO CIRILLO
E
h no, caro Noam. Tu così la
fai troppo facile. Certo, usare
paroloni, complicate metafore o allegorie, costruzioni inedite e significati nascosti di solito danneggia
la comprensione del testo e dunque
il testo stesso. Pone un filtro opaco
tra il lettore e il libro (vero Gesualdo Bufalino?). Altre volte indulgere
in parole difficili aiuta a diluire: ho
poche cose da dire e inizio a condirle con “ebdomadario” o “proclività”, sfruttando quel sapere comune
per cui una parola difficile è anche
lunga.Ma, al contrario di quello
che state pensando, questo non è
il caso. Questo, invece, è il caso di
quel geniaccio di Nicola Lagioia che
invece di bullarsi o di sbrodolare fa
una cosa molto più fine (e si noti il
sublime paradosso): ispessisce[1].
Ma cominciamo dall’inizio. A
mio parere si arriva a padroneggiare davvero qualcosa quando si
riesce a cambiarne (o sovvertirne)
l’uso mantenendone lo statuto, un
po’ come spiegare il porno attraverso la semiotica. Per uno scrittore,
padroneggiare davvero il linguaggio che, come qualcuno sostiene, è
un sistema modellizzante primario, dunque che “forma” il mondo,
è probabilmente il modo per avvicinarsi il più possibile all’onnipotenza senza incappare in questioni
teistiche.
La prima critica che viene in
mente leggendo Riportando tutto a casa è simile a quelle rivolte a
qualsiasi film diretto o prodotto
da Judd Apatow: ci sono scritte/
dette solo delle figate. Ma andando
avanti nella lettura è tutta un’altra
cosa. Non ci sono giochi di parole alla Pinketts o divertissement
dal sapore bufalino. O i nemici di
Chomsky che fanno i belli. Nicola
Lagioia prende frasi e fa iniezioni di
senso, ispessimenti di significato.
Ne cambia (o sovverte) l’uso mantenendone lo statuto e le rende più
grosse, più piene. Più spesse, come
se dicesse più volte la stessa cosa in
modi diversi, come “la simultaneità
di due vibrazioni che non coincidono esattamente[2]”.
La frase “ci muovevamo in un clima di chiassosa impunità, salutati
benevolmente da muratori e cuoche ed elettricisti che avrebbero
corretto quell’ esuberanza a suon di
schiaffi se fosse appartenuta ai loro
figli”, ma quante cose dice?! Quanto
7
è piena?!
Oppure “la forza di un’innocenza ritrovata scavando sul lato sbagliato del tunnel”, o la meravigliosa
descrizione della quattordicenne
sega in compagnia: “Mimmo dava
l’impressione che per lui la copertina di Skorpio fosse davvero quello
che era, una miscela di fibre vegetali uniformate in uno stabilimento
tipografico che il suo sguardo associava più al cameratismo d’occasione che a un’astratta voluttà,
e quindi uno strabiliante caso di
corpi cavernosi gonfiati dal semplice bisogno d’amicizia”. Queste
non sono “semplici” figate, questa è
roba pesante.
Ma poi, ‘sto libro, di che parlava?
(cit.)
[1]
O inspessisce; si dice in entrambi i modi, checché ne dica il
correttore di Word.
[2]
Uno dei momenti su tutto il nulla di Carmelo Bene. Non ringrazierò mai abbastanza Edoardo Lucatti
per avermelo fatto conoscere.
Le vite ortogonali
Tyler Durden vs Piggy
di JACOPO DONATI
P
lutarco scrisse una serie di 24
biografie che prese il nome
di Vite parallele. Per ognuna prese
una figura greca ed una romana, le
mise una affianco all’altra e ne cercò le similitudini. Ma qui si parla
di finzione, mica di realtà!, e così i
miei grandi saranno i personaggi
d’inchiostro dei libri. Lavoro ben
più umile il mio che, oltre a esaminare solo una parte della vita di
questi personaggi, ne sottolineerà
le differenze.
realizza ciò che l’innominato protagonista segretamente desidera e gli
apre gli occhi. A differenza di quello in cui viveva precedentemente,
quello che Tyler gli svela è il mondo
in cui può dire la sua, dare alla storia la piega che vuole.
Cosa sarebbe stato il protagonista
di Fight club senza Tyler? Uno qualunque, un annoiato, una persona
che come tante altre campa in attesa di tirare le cuoia. La storia non è
tutta rose e fiori, intendiamoci, fin
dal primo capitolo si sa che alla fine
Tyler Durden terrà la canna di una
pistola nella bocca del protagonista, ma senza di lui tutto sarebbe
stato piatto. Nessuna emozione,
nient’altro che una lunghissima
attesa.
Tyler Durden è in fin dei conti un
Socrate più in forma: ciò che mostra
è che chiunque può essere chi vuole dimenticandosi chi è in questo
istante; che chiunque può raggiungere lo scopo che vuole prefiggersi.
Tyler Durden
A differenza di altri personaggi che
nei film diventano la brutta copia
della versione cartacea, Tyler Durden esce tanto dalla pellicola quanto dalla pagina. Palahniuk, in Fight
club, crea il vero superuomo. Forte,
audace, sordo a ciò che la gente dice
di lui, Tyler Durden è per certi versi
ciò che sai dovresti essere ma non
ne hai mai avuto la forza.
Piggy
Piggy è la spalla di Ralph, il protagonista del capolavoro di William
Golding intitolato Il Signore delle
Mosche. È un bambino grassottello
e asmatico, da qui il nome, sul naso
un paio di occhiali da cui dipenderà come dall’aria per tutta la storia.
Fin dalle prime pagine del romanzo Piggy desidera comandare,
ma un po’ per timidezza, un po’ per
il suo aspetto goffo, i suoi compagni
preferiscono Ralph. Sull’isola in cui
si ritrovano, Piggy è il più intelligente e il più razionale, quello che
ha subito chiaro quali sono le priorità per sopravvivere. È grazie a lui e
ai suoi occhiali che riescono ad accendere il fuoco di segnalazione, e
pur avendo i suoi difetti, senza di lui
i bambini dell’isola sarebbero stati
spacciati in più di un’occasione.
Se solo Piggy avesse voluto, se
solo si fosse fatto coraggio e avesse affrontato le sue paure, sarebbe
stato la voce principale del libro di
Golding, avrebbe ritrovato la zia e
non sarebbe morto spiaccicato da
un enorme masso.
La storia dei due personaggi si
spiega da sé: se non avrai la forza
per farti valere, finirai schiacciato
come una mosca, nessuno saprà
mai il tuo vero nome e, se non bastasse, verrai ricordato con un soprannome ridicolo.
Tyler prende in mano tutta la storia,
8
Libri (quasi) mai letti
"Una donna spezzata"
di Simone de Beauvoir
di Maria Giovanna Ziccardi
V
erso Simone de Beauvoir ho
preso un impegno. Leggerò
tutto quello che ha scritto. Sono a
metà strada, e di averne fatta già
metà un po’ mi dispiace. Prima, in
macchina, contemplando il grandioso tramonto in scena sulla catena del Brenta, pensavo con tristezza
all’ultima pagina della sua prima
autobiografia, che incontrerò stasera per la seconda volta. Pensavo anche che mentre tutto va e veramente nulla può dare certezza di sé, i
libri, non c’è niente da fare, restano.
Insomma, se anche finisco di leggere Memorie di una ragazza per bene
potrò sempre ricominciarlo. Potrò
ricominciarlo ogni volta. Sembra
stupido ma, a pensarci bene, nella vita non sono tanti i piaceri che
puoi ricominciare, rivisitare in
modo così gratuito.
Del Secondo sesso ho già parlato e
il problema è risolto; ma con Simone de Beauvoir ho un altro conto in
sospeso. Un libro a cui giro intorno
da tre anni. Lo guardo da lontano,
lo guardo con diffidenza, lo rinvio,
penso che avrò tempo. E poi il tempo lo uso per leggere quello che ho
già letto. E allora no, qualcosa non
va.
Una donna spezzata mette in
scena tre storie, tre donne, tre solitudini in un universo di solitudine. È questo quello che non va. So
come Simone ascolti, ed è questo
che mi spaventa. So che ascolterebbe anche me. So che le sue donne
spierebbero e tradirebbero me. E
non perché, come loro, ho 50 anni
e mi ha tradita perfino mio figlio.
Una donna spezzata respira un’aria
universale, che è più o meno, prima
o poi, l’aria che respiriamo tutti,
tutte. E se si legge anche per riconoscersi, in certi casi allora è logico
esitare. Non è mai il momento giusto per guardarsi allo specchio.
Conosco abbastanza bene cosa
passa per la testa a Simone: la vita
a due paga il prezzo di un’alienazione. Così andava tra i salotti di
Parigi negli anni ’30. Essere donne
è diventare mogli. Il resto del mondo si cancella, il bagliore dell’inatteso, del diverso, della possibilità,
della vita autentica, si spegne per
sempre. Allora, quando quell’universo, che non è il mondo, si strappa e crolla, è il deserto che resta.
Resta una donna che si guarda allo
specchio senza riconoscersi, sola e
persa davanti al suo involucro: “Io
non sono giovane, io sono ben conservata”. Il peggiore, eppure il più
facile, dei destini.
Molto banalmente, io ho paura
di annusare questo tanfo. Ho paura che sia vero. Ho paura che niente, assolutamente niente, possa
interporsi tra me e il destino della
donna spezzata. Tra me e tutte le
donne spezzate, quell’universale
che Simone ha sempre presente
perché non può evitare di fare filosofia quando scrive un romanzo.
Non può, perché il suo pensiero si è
9
costruito con la filosofia, si muove
in quegli spazi, parla per quelle ragioni. E allora le sue non sono storie
d’amore finite male, o banali invettive contro il matrimonio borghese:
sono invece la storia della libertà e
della necessità, del destino e della
scelta, del tutto e del nulla, della
vita e della morte, dell’ignoto che ci
sta in mezzo. È la tragedia nel senso
in cui l’avevano intesa i greci, ma
riscritta con nomi nostri, categorie
nostre.
Da un po’ di tempo non sopporto
più film come Million dollar baby.
Ma io non c’entro: la colpa, cioè la
grandezza, è tutta di Simone.
Mitomania
Ermafrodito, Lady Gaga & C.
di VIVIANA LISANTI
M
olti miti greci iniziano con
un dio, incapace di trattenere la propria esuberanza sessuale, che scende in terra per possedere
la vergine di turno. La ragazza, normalmente sorpresa mentre impiega il suo tempo in maniera proficua
cogliendo violette o specchiandosi
nei ruscelli, può sentirsi lusingata,
specialmente se lo spasimante è
Zeus, ma nella maggior parte dei
casi si da alla fuga. Poco importa
comunque quale sia la volontà della
prescelta, il dio, dopo innumerevoli
imboscate, l’avrà.
Il mito di cui parleremo in questa puntata è atipico perché nasce
dai pruriti sessuali di una donna,
la ninfa Salmacis. L’oggetto del
suo desiderio è Ermafrodito, figlio
di Hermes e Afrodite, un ragazzo
tanto stupendo quanto indaffarato: passa le giornate sulle rive di un
lago a contemplare la bellezza del
paesaggio. Salmacis, che in quelle
acque abita, si innamora a prima
vista del giovane, lo avvicina, lo
corteggia (e parlando dei miti greci
dobbiamo pensare a degli approcci
ai limiti dello stalking) purtroppo
senza successo. Un giorno l’ingenuo Ermafrodito, notando l’insolita
calma piatta delle acque, crede di
aver scampato il pericolo, si denuda
e si tuffa per un bagno rilassante:
un invito per la scaltrissima ninfa
che gli salta addosso stringendolo in un abbraccio eterno. Gli dei
infatti esaudiscono il suo desiderio di unirsi per sempre all’amato
fondendo i due in un nuovo essere,
maschio e femmina al contempo.
Potrebbe sembrare un happy en-
ding un pò forzato o uno stupro,
dipende dai punti di vista, sicuramente si tratta della nascita di un
mostro, perché tale era considerato
un ermafrodito dagli antichi Greci.
In pratica se ne nasceva uno gli uomini erano certi di aver commesso
una delle loro cazzate, una grossa,
passibile di punizione divina.
(Qui arriva la parte in cui dovrei
parlarvi di Lady Gaga e dei recenti
gossip circa alcuni scatti che testimonierebbero la sua natura di
ermafrodito. Ma è stata solo una
bieca trovata per farvi leggere il mio
articolo.)
Cal Stepahanides, voce narrante
in Middlesex, secondo romanzo di
Jeffrey Eugenides (Mondadori, 602
p., 9.80 euro), è un ermafrodito di
quarant’anni che decide di parlarci
di sé, scavando a ritroso nella storia della sua famiglia, proprio alla
ricerca di quella presunta colpa
che lo ha condannato a nascere due
volte: come Calliope nel 1960, come
Cal nel 1974.
La sua odissea, o meglio quella di
“un gene solitario sulle montagne
russe del tempo”, inizia nel 1922
sul monte Olimpo di Misia, in Asia
Minore, con due fratelli, Desdemona e Eleutherios, che fuggono da
una Smirne in fiamme, diretti negli
Stati Uniti. O forse sarebbe meglio
farla iniziare durante il viaggio verso l’America, su una nave, in mezzo
all’oceano, un territorio neutro in
un tempo sospeso tra passato e futuro, dove tutto è possibile, anche
che due fratelli che si sono sempre
10
desiderati trovino il coraggio di
ammetterlo e sposarsi.
Un’odissea tragicomica che finisce 600 pagine dopo, negli anni ’70
a Detroit con una nonna in preda ai
sensi di colpa che, tra le lacrime, rivela il suo segreto a chi ne ha dovuto subire le conseguenze: il nipote
“sfortunato”, Cal, scelto dal fato per
esibire sul proprio corpo gli esiti di
un incesto che sembrava ormai del
tutto innocuo.
In mezzo c’è un’adolescenza,
particolare sì, date le circostanze,
ma gioiosa e dolorosa come tutte
le adolescenze sanno essere. Si può
scegliere di raccontarla da diverse angolazioni ma i nodi restano
sempre gli stessi: i cambiamenti
del corpo e della mente, le trasformazioni dei rapporti con i coetanei, con il sesso opposto (quale nel
caso di Cal?), con la famiglia, con
se stessi. Eugenides in Middlesex
affronta tutto questo con un’arma
in più, cioè quella del mito antico,
mutuato e rivestito di nuovi significati per l’occasione. Per parlare
di transizione crea il personaggio
di Calliope: per metà greca e per
metà americana, per metà donna e
per metà uomo, o meglio cresciuta
come una ragazza fino ai 14 anni,
età in cui, mentre le sue amiche iniziano a comprare reggiseni e assorbenti, scopre di avere degli organi
sessuali maschili. Esiste metafora
più geniale, se non quella dell’ermafrodito, per ritrarre con efficacia
una fase della nostra vita in cui tutti
noi siamo stati degli ibridi, a metà
strada tra l’infanzia e l’età adulta?
“I
vecchi hanno le loro manie,
lo sapete. La mia é di venir
pubblicato dalla Pléiade.” Un anno
dopo la sua morte, Gallimard onorerà il suo desiderio, e nel 2009
l'opera si compie con la pubblicazione di Lettres, (Bibliothèque de la
Pléiade, Gallimard, 2009, 2080 pagine, 56 euro) la raccolta di 50 anni
di corrispondenza.
Da Céline é lecito aspettarsi delle
belle, figuriamoci nelle lettere. E infatti rifila un po' a tutti quelle “pic-
re. E' tuttavia nel “massacro ignobile della guerra” o nei viaggi in mare
che preannunciano la traversata
epocale di Morte a credito, che inizia il suo delirio.
Dopo Bagatelle per un massacro,
si dichiara, fiero, il nemico numero uno degli ebrei. E riempie le sue
corrispondenze di odio anti intellettuale e decadentista. I cliché
della scrittura romantica gli danno
ai nervi: “Questa sorta di gioia creatrice, che merda!” Scrivere serve
taria Marie Canavaggia, che aveva
avuto il torto d'inoltrarsi sul territorio sentimentale. “Il sesso dura tre
secondi e se ne scrive per dei secoli.
Che storia!” Ai sentimenti accessori
e mielosi espressi dalla sventurata
oppone la sua visione vigorosa: “La
vita é troppo corta per torturarsi
d'astinenze idiote e gli uomini organizzano le privazioni e le torture
con troppo zelo perché vi aggiunga
dei rosari! Le donne hanno delle
riserve sensuali “tropicali” non dimenticatelo! I più riservati o i più
scalpitanti e cinici seduttori, non sono al loro fianco che miseri velleitari”
Corrispondenze
notevoli
Céline si sbottona
di MATTEO TRELEANI
cole perle acidule” di cui, secondo il
suo editore a Gallimard, detiene il
segreto (le traduzioni sono divertitamente mie, la versione italiana a
venire: noi di Finzioni ci bulliamo
di leggere Céline in francese senza
dizionario, e di capire metà di quello che scrive). E si dimostra un oratore furbo, che cambia toni a seconda dell'interlocutore, calibrando
antisemitismo e meschineria.
Dal 1907, quando viaggia in Germania per studio e scrive ai genitori
con affetto “Il vostro adorato figlio”
agli anni della Grande Guerra, fino
agli anni '30 dove vira al delirio
escatologico, diventando una sorta
d'”oracolo vendicatore” e vagheggiando una folgorazione nichilista.
In guerra troviamo un Céline ben
diverso dal Bardamu di Viaggio al
termine della notte. Soldato patriota
ed eroico, decorato al valor milita-
innanzitutto a guadagnare quattro
soldi per “tirarsi fuori dagli imbarazzi materiali”. “Se vuoi vedere i
peggiori ebeti di un paese, chiedi
degli scrittori” Céline rigetta la cultura classica, e difende la scrittura
viscerale “Proust scrive arzigogolato perché ebreo e farcito d'inutili
mediazioni culturali”
Dalla sua detenzione in Danimarca derivano invece alcune perle,
se Karen Jansen che l'ha ospitato
é “una strega di Macbeth, in più
canaglia e taccagna” (ma, quando
si rivolge a lei nelle lettere, il tono
é tutt'altro che acido), il villaggio
di Staegersalle “un covo di befane
malefiche”. D'altra parte “il Baltico
é inguardabile: i battelli sembrano
bare e le vele crêpes”.
E l'amore, emerge spesso nella
sua corrispondenza con la segre-
11
Ma é al suo stesso capolavoro che riserva un
tono di lirismo, in una
lettera alle Editions de la
NRF, nel 1932, con cui accompagna il manoscritto: “Monsieur, vi invio il
mio Viaggio al termine
della notte (5 anni di lavoro). Vi sarei particolarmente grato di farmi
sapere il prima possibile
se desiderate pubblicarlo. Si tratta, di una sorta
di sinfonia letteraria, emotiva, più
che di un vero romanzo. Il genere é
la noia. Non credo che il mio viaggio sia noioso. Dal punto di vista
emotivo il testo é vicino a cio' che si
ottiene con la musica... 700 pagine
di viaggi attraverso il mondo, gli
uomini, la notte e l'amore, l'amore
soprattutto che qui bracco, sciupo,
e che ne esce miserabile, sgonfiato,
vinto... Del crimine, del delirio, del
dostoievskismo, c'é tutto in questo
coso, per istruirsi o divertirsi.” E
conclude: “E' del pane per un intero secolo di letteratura. E' il prix
Goncourt 1932 su un piatto d'argento per il fortunato editore che
saprà apprezzare quest'opera senza
eguali, questo momento capitale
della natura umana...”. Immodesto e autoironico certo, ma non che
avesse torto.
Letterature
involontarie
I tempi giusti.
O di come si disimpari a
guardare un film.
(in memoria di Andrew Koenig)
di EDOARDO LUCATTI
U
n essere umano che scarichi
dalla rete materiali audiovideo per fruirne al riparo delle
mura domestiche, presto o tardi,
disimparerà a guardare un film.
Buon senso vorrebbe che nulla
occorra sapere su come-si-guardiun-film. Insomma: lo-si-guardae-basta. Ma per impenetrabile che
appaia quest’oppiacea autoevidenza, c’è sempre una serie-tv pronta
a svergognarci. Sempre, per altro,
seguendo lo stesso copione: selezioniamo l’ultimo film dei Cohen,
ci apprestiamo al doppio click e
un attimo prima – quasi distratto
dall’aria - il nostro dito tentenna,
s’arresta e prende a rimbalzare
nervosamente sul guscio rigido del
mouse. A quel punto abbiamo già
cambiato cartella: recuperiamo
“Lost 4x07” o “Heroes 3x13” o “Dexter 1x09” e senza indugio affidiamo
a una serie tv i nostri successivi 40
minuti. Perché? Questione di tempo?
Forse. La serie tv è certamente
più interstiziale, in alcuni casi non
supera i 20 minuti a episodio e spesso è possibile infilarla persino in
pausa pranzo. È però più frequente il caso di chi si divori un’intera
stagione, ad esempio di Boris o di
Californication, in due soli giorni,
trascorrendo davanti al monitor
dalle 5 alle 7 ore consecutive. La
cronometria, quindi, non spiega
molto. Esiste un altro tempo, più
qualitativo, sul quale invece vale la
pena di riflettere. È il tempo della
scoperta, il tempo in cui ciò-chesi-da-a-guardare acquista forma,
nome, ruolo, ragione, scopo, carattere, storia. In un film, per l’appunto, serve un tempo tutto nostro per
mettere a fuoco queste cose. Possiamo, certo, cavarcela con poco:
di un film, spesso, ci è infatti noto
in anticipo il genere; se il film ne rispetta gli standard molte di quelle
messe a fuoco saranno immediate.
Se però il film, in violazione più o
meno sensata di tali standard, galleggia tra due o più canovacci, ecco
aprirsi un tempo della scoperta che
pone al nostro guardare una serie
di domande primordiali, quasi ontologiche: Cosa stiamo guardando?
Chi sono quelli? Dove si trovano?
Fra la puntata 13 e la puntata 14
12
di una serie tv, invece, sorgono altre questioni, che presuppongono
un tempo della scoperta vicino allo
zero e introducono invece il tempo
del controllo: “Vediamo cosa combina oggi Dexter”, oppure “Non è
che Sawyer (da qualche puntata a
questa parte) sta facendo troppo
lo stronzo?”, o ancora “Vediamo
se Tony Soprano ha davvero il coraggio di eliminare suo zio”. In linea di massima, si guarda un film
così come si sostiene un colloquio
di lavoro, in cui ci tocca scoprire
tutto (e il più in fretta possibile) di
chi abbiamo davanti (tempo della
scoperta), mentre si guarda una
serie tv come si presiede uno staff
meeting, in cui dobbiamo tirare le
fila di quello che stanno combinando i nostri dipendenti (tempo del
controllo). Chi s’abitui a presiedere
staff meeting, non sarà mai parti-
colarmente entusiasta di tornare
a sostenere un colloquio di lavoro
e, nel medio-lungo periodo, è addirittura probabile che dimentichi
come si faccia. L’attitudine della
scoperta è molto diversa dall’attitudine del controllo. Grazie, direte
voi. E l’Arte? Non dovremmo forse
privilegiare i luoghi in cui l’opera
si mantiene nell’epifanico, suggendo l’estetico dalla pura scoperta di
sé? Non dovremmo cioè tornare
all’epica del colloquio di lavoro,
al film, alla scoperta? Che razza di
estetica potrà mai esserci nella routine di un controllo, nel tedio di uno
sguardo preinformato che tiene
d’occhio personaggi di cui già, per
lo più, conosce il pedigree? L’arte è
balzo e soprassalto, giammai cheta
abitudine!
Ora, queste sono tutte stronzate,
reiterate da una vulganza greve e
romanticante, incapace di pensarsi
viva al di fuori di continue sovrastimolazioni. Un qualunque film di
Muccino - uno a caso - vi sia d’esempio. L’abitudine, al contrario, è non
soltanto passibile di accidentale
estetizzazione ma rappresenta, in
se stessa, la grana del tempo con la
quale all’estetico ci si può persino
educare, affinando le proprie prassi quotidiane sino a farne perfetti
exempla. Il semiologo francese Eric
Landowski avanza considerazioni
analoghe, descrivendo l’abitudine come un reciproco accordarsi
di soggetto e oggetto, un paziente
lavorìo non soltanto compatibile ma addirittura consustanziale
all’apertura dell’estetico. Si può
così perfezionare, come di fatto
accade, il modo di guardare una
serie-tv, giungendo ad assegnarle
uno spazio orario via via
più preciso, adatto, calzato, studiando la propria postura sul divano
o sul letto fino a renderla
ergonomica rispetto alle
tensioni che la serie stessa sviluppa e trovando
la cibaglieria che meglio
s’abbini a quella visione
da pantofole e pile.
Sinceratevi però, in
ogni momento, d’avere
un amico lesto a ricordarvi come si guardi un
film.
Verboso
metro
20
15
10
5
0
Ritaglia il verbosometro
e attaccalo sulla schiena
del tuo amico verboso
13
Verboso
metro
L’eloquio deloquia: lo si
parametri, dunque, in
funzione di soglie di
verbosità che ne dipanino
l’evolvere, l’involvere e
l’avvolvere.
Da 0 a 5 espressioni
verbose.
Latenza del verboso. Il
singolare riluce nel
pauperismo dei villici,
ramingo dinoterio prosodico
scampato all’impudente
glaciarsi del dire.
Da 5 a 10 espressioni
verbose.
Brezza verbosa. Distendesi
l’eloquio lungo plaghe
d’orpelli musabili,
muscovite di senso che
rattiene la voce in
gibigiana.
Da 10 a 15 espressioni
verbose.
Telluria verbosa. Ciacchero
clivo del sema che
incerona l’abisso a meta,
liberando legioni d’una
lutulenza che ‘l pudore
tenea per ascosa.
Da 15 a 20 espressioni
verbose.
Verbocrazia. Tripudio
fulgente della lingua: di
fuètto s’agguizzano i
nervi palatali; ne
promana un sentire che
mal s’addice al fucato
anelito del frasaio e ben
si predica, invece, d’un
dire-miele la cui voce per ovunque - si dissipa.
Più di 20 espressioni
verbose.
Verborrimìa. Il nulla
s’attarda nel discorso e
ne fa vano asfodelo.
Me lo copre il
prezzo?
Poi ti dico
di LICIA AMBU
A
lice cominciava a sentirsi assai stanca di sedere sul poggetto accanto a sua sorella, senza far
niente: aveva una o due volte data
un'occhiata al libro che la sorella
stava leggendo, ma non v'erano né
dialoghi né figure, – e a che serve un
libro, pensò Alice, – senza dialoghi
né figure?
Una cosa che mi fa impazzire del
lavoro in una libreria è che niente
è mai uguale. Voglio dire, nessun
giorno è mai ripetitivo o uguale
all’altro. Sì, certo si fanno ogni giorno alcune cose indispensabili e meravigliose come ordini, riordini e
pulizie. Ma più del mocio ad aprirti
la mente c’è quel che non sai. Ogni
persona che entra, ogni lettore forte
o potenziale porta tutta una storia
che a volte ci basta proprio un libro
anche il più banale per imparare
qualcosa che davvero non avevi
inquadrato. Per dire ieri, parlando
di libri sui cani, ho incontrato una
pittrice svedese, poi ho ricevuto in
prestito un libro dopo averlo venduto (e così colmerò le mie lacune sul
lotto 49), ho idealmente impegnato
un Benni in cambio di un Cacciari, passando attraverso lezioni di
attualità e commi da matrimonio
come si deve. Che è una sensazione
che non te la scolli più. E poi c’è il
seguito, indicativamente per una
buona percentuale anche… A volte
ritornano, per dire. In crisi da astinenza dopo aver finito un libro proprio bello, o quelli che non trovano
14
un libro bello dall’ultimo di Balzac,
quelli che non leggono… però così
tanto per capire chi era sto Salinger che tutti ne parlano, quelli che
l’ultimo dato non gli è piaciuto,
gli sperimentatori che si buttano
sull’autore dall’esistenza ignorata,
le bimbe stregate da Dahl e Pippi
e poi il resto. Tutto ciò che si può
assorbire da questo, tanto per dire
io ho un sacco di compiti da fare…
libri da leggere, consigli da seguire,
recensioni da ricevere e storie da
incontrare. E poi non è vero che in
Italia non legge nessuno, è vero che
si leggono un sacco di gialli, non è
vero che i ragazzi schifano i libri
(forse quelli noiosi scelti da maestre
tradizionaliste all’eccesso), è vero
che scrivono in troppi.
- Cosa c’è di ultimissimo?
- Allora…
- No però non quelle storie di
vampiri o d’amore e nemmeno troppo tristi come quella degli aquiloni
che non è periodo
- D’accordo, in verità non è uscito
molto
Scambi, insomma. Conversazioni, opinioni costruttive e confronti.
Non è sempre così, ma adesso, qui,
in questo articolo, non ci stiamo
concentrando sui momenti bui di
un mestiere, ma sul suo motore.
- Che ne dici di questo?
- Ok, mi fido. Poi ti dico.
Punizioni
Lara Cardella - Volevo i pantaloni
di VIVIANA LISANTI
O
ggi a Punizioni parliamo
della zia di Melissa P.: Lara
Cardella. Le due hanno molto in
comune: sono entrambe siciliane,
hanno esordito giovanissime vendendo milioni di copie, sono state
entrambe ospiti al Maurizio Costanzo Show.
La Cardella con il suo primo romanzo Volevo i pantaloni (Mondadori, 121 p., lire 12.000) vinse nel
1989 il concorso Cercasi scrittore indetto dalla Mondatori e fu pubblicata di diritto nella prestigiosa collana Oscar Originals, marchio che,
citando la terza di copertina “ne garantisce di volta in volta la freschezza della scoperta per l’attualità del
tema, per il nome dell’autore, per la
qualità della scrittura.”
La vicenda narrata dalla Cardella si svolge in un paesino siciliano e
ha come protagonista una ragazzina, Annetta, forse un pò ingenuotta ma che ha ben chiaro cosa vuol
fare da grande: vuole indossare i
pantaloni. Disposta a tutto pur di
raggiungere il suo obiettivo, ne architetta di ogni: per prima cosa decide di farsi monaca, pensando che
sotto quella lunga tunica in realtà
le suore nascondino un bel paio di
blue jeans. Il dialogo con una suora
illuminata però, se è vero che la disillude, le schiude al contempo una
nuova via:
Lara: Ma allora una si deve far
prete per portarli?
Suora: Non è necessario essere un
prete…basta essere un uomo..
Niente di più facile per Annetta
che iniziare a sputare, fare la pipì
in piedi e farsi la barba, sana abitudine questa per una femmina
mediterranea, che fortunatamente
non andrà persa neanche una volta
arresasi all’idea di essere donna.
A questo punto la nostra eroina è
passata attraverso la fase monacale
e quella virile fallendo miseramente. Resta l’ultima possibilità: in paese le uniche donne a indossare i
pantaloni sono le puttane e buttana
sia! Aiutata da un ottimo esemplare, Angelina la figlia dell’ingegnere, Annetta viene iniziata a questo
mondo: trucco e parrucco, lezioni
di ammiccamento, noiose sessioni
di studio de L’arte di farsi rispettare
di Schopenauer etc..
Ed eccoci al giorno che cambierà
per sempre il corso della vita di Annetta: il rito di transizione da monachella a puttanella sta per compiersi: è su una panchina a limonare
duro da ben 3 minuti con un volontario trovatogli da Angelina, tutto
sembra procedere per il meglio,
Anetta non riesce a staccare gli occhi dai jeans del suo partner, (sono
Levi’s, ottima qualità)…ma c’è una
falla nell’ingegnosissimo piano: lo
zio perdigiorno e pettegolo che passa di li e con un bagascia! sancisce
la fine di un sogno.
Da questo punto in poi il romanzo perde la sua verve e si abbandona alla narrazione di eventi al
limite del tragico, cedendo un pò
troppo il passo ad un registro patetico- lirico. La Cardella ci strug-
15
ge con brani di rara profondità, ad
esempio la preghiera alla nonna
morta “ Nonnina mi devi scusare
se è da tanto che non ti parlo…tu sai
perché non l ho fatto..(…)” o ancora
gli stralci dal diario segreto della
zia di Annina, autrice di versi indimenticabili “ Vorrei essere piccola e
farmi allattare/ vorrei essere grande e allattare.”
Tacendo dell’interesse meramente letterario che questa prima
prova della Cardella, con il suo
stile sperimentale e ricercato, ha
suscitato e susciterà in ogni attento critico, torniamo per un attimo
a Melissa P., perché il parallelo tra
i due best-seller ci fornisce materia
di riflessione sul versante sociologico- antropologico - storico: cos’è
cambiato nel comportamento delle
adolescenti siciliane nel corso di
vent’anni? Che un tempo volevano
i pantaloni e oggi non vedono l’ora
di calarseli.
Oh, Scena!
Oh, bacimbocca!
di SIMONE ROSSI
Comico o tragico, il nostro sarà
uno di quei giochi in cui a un certo
momento si ride verde.
M
a che oggetto avranno insomma questi spettacoli?
Nessuno. Piantate in mezzo a una
piazza un lampione e metteteci intorno dei fiori, chiamate a raccolta
il popolo e avrete una festa. Facile.
Poi chiamiamo una liceale con i
fianchi larghi e le facciamo leggere
le note di regia di Rimbaud: Ho steso
ghirlande da campanile a campanile. Ghirlande da finestra a finestra.
Catene d'oro da stella a stella. E ballo. Poi la liceale con i fianchi larghi
se la porta via la sua amica timida
tirando forte con la mano, vieni via,
Margherita.
L'impatto visivo è fondamentale: io tirerei dei fili da una finestra
all'altra, sospesi a diverse altezze
lungo tutta la strada. Possiamo appenderci panni bagnati e panni bagnati di verde, e campanelli, strisce
di stoffa con sopra scritto BENPARTITA, in stampatello. Buona partenza, Marta: il tuo funerale sarà
una roba grande (faremo scorrere
lune di carta e diavolerie da film
muto sopra il suo corpo portato in
trionfo da quattro maggiordomi sui
trampoli. La vestiremo normale,
la lasceremo scalza e le infileremo
una gerbera rossa tra i capelli).
La gerbera è come una margherita, ma troppo grande.
Il nome Gerbera è quello del naturalista tedesco Traugott Gerber,
naturalista tedesco che vede le
margherite giganti di Santiago del
Cile e le chiama come il suo cognome: Traugott Margheritoni. Oltre
che come graziose piante ornamentali dalla facile coltura, le specie del
genere Gerbera vengono coltivate industrialmente per la produzione del
fiore reciso. Marta. La produzione
del fiore reciso.
Poi c'è funerale, e alla fine del funerale c'è il sermone dello sciamano scemo.
Amici. Amiche, devo dirvi una
cosa. Aspettate, stanno suonando
le campane e non si sente niente.
Ecco. Eccoci. Amici: guardiamoci.
Contiamoci. Non parlo con tutti:
siamo in pochi e sappiamo riconoscerci. Volevo dirvi: baciamoci in
bocca. Come in Russia. Come allo
zoo di Berlino. Da oggi in poi: bacimbocca. A ogni buongiorno e a
ogni buonanotte e a ogni arrivederci, rapido come un timbro. Senza
lingua. Siamo in pochi e ci facciamo riconoscere. Diventeremo quelli
dei saluti più intensi. Niente benefici. Solo baci. Ci riconosceranno.
Vigorosi cenni di assenso.
Diciamoci qui la regola: tutti
sanno che tutti baciano tutti, ma i
bacimbocca si danno di nascosto.
Furtivo. Il primo aggettivo che mi
viene in mente se penso allo spettacolo del bacimbocca è furtivo.
Eh, ma siamo timidi. / Eh, ma sei
paraculo. / Ma anche no, i bacimbocca.
16
Concesso: un bacimbocca può
essere sostituito da un abbraccio
lungo almeno quattro secondi. In
generale, un abbraccio lungo almeno quattro secondi è un buon
indicatore di maturazione: se di solito ve lo date, siete pronti per il bacimbocca. Eravate già pronti per il
bacimbocca e non ve lo siete ancora
dato, ci voleva uno che ve lo dicesse:
ve lo sto dicendo: potete baciare la
Signora.
Se indovini da quale testo teatrale
è partito questo pezzo vinci un frigo
a pedali. Puoi chiedere due indizi a
[email protected]. Il terzo indizio è “la Signora”.
Donne & Compressori
Sottopagare il commesso sbagliato
di ALEX GROTTO
L
a superficialità di questa rubrica arriva addirittura alla
sua seconda puntata, che a dir la
verità conta come se fosse la prima
perchè quella sul numero scorso
era solo un'introduzione mossa da
confusione, entusiasmo e invidia
del pene culturale. Questo mese
il libro utile alla mia redenzione
di lettore fallito me l'ha suggerito
Shlomo Roma di professione edicolante all'angolo, nato e cresciuto nella provincia che parla solo il
dialetto, critico d'arte fallito, dice
lui per un dissidio con il racket dei
colori ad olio, ebreo non praticante, non guadagnante, orgoglioso
della propria cultura d'origine, ma
soprattutto di averla preservata
nella culla della blasfemia che è il
Veneto; per questo motivo, mentre
gli passavo i due euro e dieci del
Trovalavoro, mi ha guardato negli
occhi dicendomi -Non aprire mai
un negozio tuo, ragazzo, specie di
alimentari. E se ti stai chiedendo il
perchè, leggiti Il Commesso di Bernard Malamud (Einaudi, 262pp.
Dieci euro e rotti con lo sconto)Preso dallo sconforto, perchè in
realtà aprire una gelateria era il mio
Piano B per sfuggire all'ufficio di
collocamento, sono finito il libreria
per seguire la traccia che il circonciso delle riviste mi aveva lasciato
e dato che quando ero piccolo mi
teneva sempre da parte il Topolino
del Mercoledì coi gadget da costruire, merita il mio rispetto e l'ospitata
qui su Donne&Compressori.
Ad ogni pagina tira un vento di
sfiga a tutto tondo mista a povertà
da soffiarsi il naso sulle maniche,
inettitudine generale e salute precaria che farebbe sentire migliore
e più fortunato persino un ergastolano. Morris Bober, commerciante
ebreo proprietario di un negozio di
alimentari sulla strada del fallimento praticamente dalla sua apertura,
è uno sconfitto perenne, un vinto
dalle circostanze che lo vogliono
povero, con un lavoro ed una bottega orrenda, circondato da gente che
detesta: quella che nel libro era la
situazione comune degli immigrati
ebrei nella New York del dopoguerra è facilmente confondibile con
quella di un neolaureato in Scienze
Della Comunicazione con gli Arab
On Radar nell'iPod. Quando la noia
di una vita di ordinaria mestizia sta
per inghiottirsi tutto il libro arriva
lui, la scintilla che mi permette di
assegnare a Malamud cento punti
stima da spendere nell'oltretomba
per bullarsi con i suoi colleghi, il
vero protagonista e tizio immagine di Donne&Compressori: Frank
Alpine,
farabutto
ovviamente
italo-americano, vagabondo con
le pezze al culo ma col mito di San
Francesco e il culto del blues, è
paradossalmente il personaggio
più credibile di tutta la vicenda. Si
fa assumere come commesso nel
negozio dell'ebreo dove i prodotti
più gettonati sono gli scarafaggi e
l'autocommiserazione, lavora in
cambio di un tetto e un pasto, frega
i soldi dalla cassa, si tromba la figlia
altezzosa dell'ebreo dopo averla
convinta di essere un uomo con ambizioni ed essersi letto mattoni sovietici che a lei piacevano di brutto.
Al funerale del vecchio Bober (morto di polmonite per aver festeggiato
17
sotto la neve il fatto di essere quasi
riuscito a vendere quella prigione
di grettitudine chiamata negozio,
non ci si crede) arriva persino a
ballargli sulla tomba. E' il trionfo
dell'italinità vincente, quella che
ci rende temuti in tutto il mondo:
nel nostro tempo dove il luogo comune è il collante dei popoli e lo
dicono i sondaggi di Cronaca Vera
e le interviste sulla spiaggia fatte da
Studio Aperto, l'italiano in trasferta
all'estero risulta essere un ineguagliabile maneggione superstizioso
persino nei libri scritti da gente che
pesta un bicchiere quando si sposa.
Frank Alpine aggiunge miseria alla
miseria, batte tutti superando sulla
sinistra il senso di pudore e facendo mangiare la polvere alla riconoscenza e per mettersi la coscienza
a posto finisce col diventare ebreo
e circoncidersi: il colpo di grazia
a tutta la baracca di preconcetti e
clichè messa in piedi da Malamud.
Dov'è il vostro Dio, ora?
Megaviaggi!
Analisi Finzioni del testo
di ALESSANDRO POLLINI
O
ggi fingiamo di essere a
scuola, parliamo da giovani
e giochiamo all’analisi Finzioni del
testo. La frase da analizzare è «in
un paese di cannibali c'è rimasto
solo uno grassissimo» (Leo Ortolani, Il Rat-Man enigmistico, Panini
Comics 2,30 euro).
In un paese: Complemento di
dove si incontra l’amore, ne parla
Luis Sepulveda in Incontro d’amore
in un paese di guerra (Ed. Tea, 200
pp. 8 euro). «Ero contento, quella sera avevo un appuntamento.
Qualcuno da toccare, da guardare,
con cui parlare. Con cui dimenticare la morte, pane quotidiano». Uno
dal titolo pensa ad asfaltare
ed invece si parla della morte,
tema che introduce il complemento successivo.
Economici Newton, 100 pp. fuori
catalogo) dove altri superstiti su di
una zattera decidono di non aspettare le morte dei compagni ma,
sfruttando la presenza di un chirurgo a bordo, di amputare singoli
arti per cibarsene. È tremendo ma
fatto da Peter Griffin nei confronti
del compagno Joe in Naufragio Perfetto (Family Guy, 1999, quarta stagione, puntata n°15) fa più ridere.
C’è rimasto: Predicato di sfattanza. In John Barleycorn. Ricordi
alcolici di Jack London (UTET, 289
pp. 14 euro) tutti i marinai bevono
come pazzi e compiono azioni tremende. Ci sono rimasti di brutto.
Di cannibali: Complemento di cosa si mangia per cena?
Quello che preferisci: una
salma o un moncherino. Nel
primo caso prima ci cibiamo
di un morto, ma non ditelo
ai vegani che poi diventano
tristi, poi andiamo a Parigi e
contempliamo la Zattera della Medusa di Théodore Géricault, grande quasi quanto il
mio monolocale, ripensando
ai sopravvissuti del naufragio
della fregata Meduse che per
sopravvivere furono costretti a
cibarsi della carne dei compagni deceduti. Nel secondo caso
prima mangiamo parte di un
corpo mantenendolo in vita,
poi leggiamo le Storie Macabre
di Gaston Leroux (Tascabili
18
In Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino
(BUR, 345 pp. 12 euro) tutti gli amici, o i conoscenti a voler dare al termine amico un valore più profondo,
di Christiane F. entrano nel mondo
della tossicodipendenza e muoiono
giovanissimi credendo di essere
fighi ma senza esserlo pari. Loro ci
rimangono e basta.
Solo uno grassissimo: Forse soggetto della vignetta di Davide la
Rosa.
vignetta:
DAVIDE LA ROSA
La lettera che muore
Una topografia impossibile:
la Terra di Mezzo
di MICHELE MARCON
C
ammissione, quel Mondo Secondario che ci accompagna ormai da
più di mezzo secolo è nato per il
bisogno di dare un retroterra concreto ai nuovi idiomi; insomma, chi
parlava questi linguaggi? E costoro
dove vivevano?
all’interno essi potranno trovare di
tutto: dalla cartografia dettagliata
di ogni angolo della Terra di Mezzo, fino a una serie di carte tematiche sulla morfologia del terreno, il
clima e perfino la vegetazione che
ricopre questo Mondo Secondario.
Una roba da pazzi o da maniaci, lo so, ma per quanto il lavoro
dell’autrice americana sia destinato solo a quei folgorati dei fan più
sfegatati di Tolkien (confesso, ma
forse l’avrete già capito, anche io
ero un fan sfegatato), ci può aiutare
a capire quanto sia unica, fantastica e allo stesso tempo complessa la
buona letteratura.
Ma non di una topografia qualsiasi, bensì di una topografia impossibile, perché tenta di rappresentare graficamente un mondo
che non esiste se non nella nostra
immaginazione: la Terra di Mezzo.
Tolkien costruisce prima una
lingua quindi, e poi, per giustificarne l’uso, scrive Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, dando vita a un mondo altro che prende corpo anche
attraverso l’accurata ricostruzione
di cartine geografiche dei luoghi
descritti. La definitiva reificazione
di questi prodotti dell’immaginazione avviene ne Il Silmarillion,
dove sono riportati gli alberi genealogici dei personaggi principali, la
narrazione storica di avvenimenti
passati relativi alle Ere precedenti
ai romanzi più famosi, e addirittura la cosmogonia di quell’universo
fantastico. L’universo tolkeniano
ha così acquisito una solidità tale
nell’immaginario collettivo che
ogni lettore si sarà sentito, in un
modo o nell’altro, quasi proiettato fisicamente nei boschi del Doriath, nel bel mezzo delle paludi
di Mordor, o sulle vette degli Ered
Wethrin, anche – e a maggior ragione – ben prima dell’uscita della famosissima versione cinematografica di Peter Jackson.
Tolkien è stato il primo scrittore
ad aver ricreato totalmente e fedelmente un mondo alternativo, ma
questa creazione ex novo non è che
l’apice di un vizio segreto che egli
coltivava fin dall’infanzia e cioè,
inventare linguaggi. Per sua stessa
Proprio per questo motivo non
sarà sembrato strano a Karen Wynn
Fonstad il fatto di compilare L’Atlante della Terra di Mezzo di Tolkien
(ed. Bompiani). Si tratta di una risorsa inimmaginabile per gli appassionati del professore di Oxford;
ari lettori fidati e non, come
vi avevo promesso sono tornato. Ho consegnato la tesi e ora
sono (stra)felice di poter nuovamente scrivere di quello che mi piace su Finzioni.
In questo periodo ho avuto modo
di fermarmi a pensare, e mi sono
accorto che negli ultimi mesi non
ho fatto altro che girare sempre
attorno alla stessa immagine: vi
ho parlato di topi di biblioteca, di
quella topona della Ventura e anche di strani topolini che vanno in
crisi quando viene spostato il “loro”
formaggio. A quanto pare il topo
non me lo levo dalla testa. Ma oggi
voglio concludere quello che ho
iniziato tempo fa; voglio chiudere il
cerchio per poter guardare avanti e
lasciarmi il topo alle spalle (nel pieno della mia depressione topesca
ho perfino dato un’occhiata all’interpretazione dei sogni: vedere tanti topi significa che si sta attraversando un brutto periodo…).
Perciò vi parlerò di topografia!
19
Essa ci permette di entrare in
mondi altri, ci permette di aprire
una finestra su un universo parallelo, un po’ come quel ragazzino
che ne La lama sottile (il secondo
romanzo della trilogia Queste oscure materie di Philip Pullman) apre
finestre tra mondi con un coltello
magico. Allo stesso modo la letteratura può portarci altrove e permettere a ognuno di noi «enfant,
amoureux de cartes et d’estampes»
di tracciare la nostra personalissima topografia impossibile, solo
per il gusto di rimanere incollati a
quelle terre che nutrono la nostra
immaginazione.
Mattoni
James Joyce, Finnegans
Wake, peso: 3,51 kg
di FILIPPO PENNACCHIO
I
eri sera Zola Jesus ha suonato
al Plastic – per chi non lo conoscesse, è un storico locale di Milano
frequentato da gay e indie (che poi
ultimamente quasi sempre sono la
stessa cosa, si sa) – nell’ambito della
settimana della moda. Io che non
avevo l’invito – sic: bisognava essere invitati per assistere alla performance di una marcissima goth
girl che appena un anno fa ascoltavamo in tre – e che comunque non
sarei entrato – il dress code richiesto
agli iniziati sarà stato qualcosa di
tremendo, immagino – sono rimasto tranquillamente (si fa per dire)
sdraiato sul divano.
Non ricordo esattamente come,
ma cazzeggiando su Internet mi
sono imbattuto in un saggio dal
titolo particolarmente spiacevole, Ulysses, Jim e un po’ di coprofilia, in cui si parlava delle malsane
tendenze di uno tra i più grandi
scrittori di sempre. Che Joyce fosse
morbosamente attratto dalla merda potevo tranquillamente immaginarlo, intendiamoci: d’altra parte
una delle sequenze più deliziose
dell’Ulisse descrive con estrema dovizia di particolari la seduta defecatoria del suo protagonista Leopold
Bloom. Avete presente? «Accosciato sulla seggetta spiegò il giornale
voltando le pagine una dopo l'altra
sulle ginocchia denudate. Qualcosa
di nuovo e agevole. Non c'è nessuna
fretta. Tratteniamola un po'» eccetera eccetera. E poi certo, non ci
vuole un genio per cogliere il lega-
me inestricabile tra sesso e latrina
nella mente di Bloom e più in generale nel romanzo di Joyce.
Ignoravo invece quanto il buon
Jim, shitgazer ante litteram, scrisse
all’amata Nora in una serie di lettere crude e scabrose, lettere in cui,
per dirla con l’autore del saggetto
sull’analità di cui sopra, «Joyce si
produce in un saggio di psicopatologia dell’erotismo anale, con
regressioni a comportamenti di
tipo infantile, sovrapposizione tra
sessualità e forme escrementizie,
coprofilia, sodomia, feticismo». E
in effetti nel corso della piccante
corrispondenza epistolare poco o
nulla è lasciato all’immaginazione,
vista e considerata l’accuratezza
con cui Joyce descrive alla compagna gli scenari cloacali e immondi
nei quali fantastica di possederla e
il corollario di odori fetidi e suoni
di emissioni corporali legati all’atto
sessuale stesso.
Non che la cosa debba per forza
destare sconcerto, per altro. D’altronde la storia letteraria segnala
piuttosto evidentemente il frequentissimo scollamento tra l’immagine
antologica dello scrittore e la sua
figura in carne e ossa. Di più, ci
indica chiaramente che tanto più
tale scissione è profonda, tanto più
alta è la probabilità di imbattersi
in grandi scrittori. In questo senso
il prototipo dell’artista autenticamente rivoluzionario non è certo
rappresentato da Hemingway o
20
da Burroughs, quanto piuttosto da
Hawthorne, che condanna all’inferno le sue corrotte eroine mentre
passa le sue giornate morbosamente coccolato da madre e sorelle in
quel di Salem, o da Faulkner, le cui
pagine trasudanti virilità e misoginia celano la tragedia di un uomo
sessualmente impotente. Indi per
cui non possiamo far altro che lodare e inginocchiarci di fronte a
un autore che se in pubblico amava
definire la donna come «quell’animale che urina una volta al giorno,
defeca una volta alla settimana,
mestrua una volta al mese, partorisce una volta all’anno», nel privato,
lungi dal dare esito concreto alle
proprie fantasie escrementizie – a
proposito, per chi fosse interessato
esiste un altro saggio dal bel titolo
Amor y coprofilia en Trieste – le affidava alla pagina scritta pregando
Nora di «dimenticare completamente» tutto quanto letto.
Tutto questo per dire, più o
meno, di come la biografia di un
autore ipercanonizzato – e però,
ammettiamolo, quasi mai letto – sia
spesso molto più interessante delle
pagine della sua opera (se vi avessi
parlato del Finnegans Wake avreste
già smesso di leggere, no? La merda invece tira sempre). Anche se in
fondo la lettura di un testo come il
Finnegans Wake è, al pari delle fantasie del suo autore, un’esperienza
estrema e vagamente repellente.
Apriamo casualmente il mattone
in questione. Pagina 355, terzo paragrafo: «Vociferagitant. Viceversounding. Namely, Abdul Abulbul
Amir or Ivan Slavansky Slavar. In
alldconfusalem».
Modernismo?
Figuriamoci. Avanguardia? Per carità. Letteratura sperimentale? Sì,
ma grazie al cazzo. «Apoteosi della
parola» (Beckett)? Macché. Basterebbe dire le cose come stanno: tutto Joyce, pubblico e privato, merda
e romanzi, è faccenda per stomaci
forti, roba che scotta, ovvero, in una
parola, puro hardcore.
Biografie
Edulcorate
love & desire, Dog: e solo per citarne
alcune, eh.
Lawrence Ferlinghetti
di ANDREA MEREGALLI
E
cco: io, nella vita, volevo fare
il lavoro di Lawrence Ferlinghetti. E invece no. E invece no. E
invece no.
Tu pensa: svegliarti la mattina
e chiamarti Lawrence Ferlinghetti: bacon e uova, una cartolina da
Big Sur, non trovo più le chiavi,
ah, sono sotto questo panetto di
fumo, macchina, saracinesca della
libreria, poesie da leggere, poesie
da scrivere, gente con cui parlare,
inviti a reading da gestire, serate
da organizzare, eterosessualità da
ostentare: sì, donne, loro sono tutti gay: i miei soci tifano per l'altra
squadra: venite pure, fanciulle.
Certo, adesso che Lawrence ha,
tipo, un centinaio di anni credo che
la situazione sia un tantino meno
epica.
E, come no, c'è da specificare che
la sua dosa di merda il Lawrence se
l'è mangiata eccome. Se l'è mangiata assai.
Lawrence Ferlinghetti lo conosciamo tutti per una cosa e una
cosa soltanto: ha pubblicato Howl
di Ginsberg: sì, lui è quello che è finito al gabbio.
Questo è quanto.
Poi, uno dice, uno pensa, vediamo se questo tizio che pubblica una
roba così, una roba così controcor-
rente, una roba così underground,
uno dice, uno pensa: avrà scritto
qualcosa, perdiana.
E, certo, basta andare in biblioteca: ha scritto parecchissimo.
Io, in verità, posseggo solo un
libro di Ferlinghetti: Poesie (Guanda): una sorta di “The best of”, di
“Greatest Hits”, di “Bla bla bla”.
A Coney Island of the Mind, invece, è l'opera più famosa del nostro
beat: Wikipedia sostiene che è stata
tradotta in nove lingue: e io non me
la sento di dare torto a Wikipedia
quando non c'è nemmeno la scritta
rossa “senza fonte” a spalleggiarmi.
Ah, sì, poi c'è il glorioso manifesto ai poeti [Manifesto populista,
per i poeti, con amore] ma, posso
dirlo?, non mi sollazza un granché,
tranne quando dice: all you cunnilingual poets, ecco, lì, solo lì, mi
diverto diverto diverto.
Ma, facciamo una pseudo disamina tecnica, ok?: la particolarità
più evidente della quasi totalità
delle poesie di Ferlinghetti è che
manca il titolo: io, i primi tempi, mi
incazzavo: echecazzo, neanche il
titolo. Poi, con il tempo, ho imparato a non dare peso a questo genere
di cose e, soprattutto, andando
avanti con il libro ho scoperto che
alcune poesie, ebbene sì, il titolo
ce l'hanno: The third world, Song of
21
Ma, ora, bando alle ciance: è il
momento più atteso da tutti voi
cinque che leggerete questa roba: il
momento citazione: rullo di tamburi, bandiere, nani di corte, grattatina al pacco.
The world is a beautiful place/ to
be born into/ if you don't mind happiness/ not always being/ so very
much fun...
Questa poesia si intitola... ah, no:
è senza titolo.
Che nervi.
I ferri del mestiere
Solo lo stile ci potrà salvare?
(Ragionamenti a voce alta…)
di AGNESE GUALDRINI
“S
ottopongo alla vostra attenzione questi scritti che
ho trovato tra le carte di mio padre”
La domanda che sorge spontanea è: ma perché?
Non che voglia nuovamente tediarvi con la trafila di proposte assurde che arrivano ogni giorno...
ma dopo un paio di anni che sto qui
posso dire che esistono, ebbene sì,
dei tratti salienti che le accomunano.
La prima, innegabile, implacabile, a tratti divertente ma il più delle
volte fastidiosa è L’AUTOBIOGRAFISMO. Tutti amano parlare di sé
(soprattutto perché tutti abbiamo
delle vite straordinarie). Un esempio - ho giusto sottomano un manoscritto con allegata una presentazione breve del testo - “Mi chiamo
Piero e sono un medico quarantenne. La storia parla di un medico
quarantenne…”. Qualche giorno fa
è arrivata una telefonata di un tizio
che mi chiedeva se potevamo essere interessati a un libro che aveva
in mente: “Storia del grasso. Dal
medioevo a oggi”. Io rispondo che
in linea teorica avremmo anche potuto prenderlo in considerazione.
“Ma lei è uno storico?” “No.” “ Ah,
perché sa, il taglio delle nostre collane è abbastanza accademico…è
un medico?” “No. Sono solo un tipo
molto grasso”.
La seconda sono gli ERRORI di
ORTOGRAFIA. “Un’altro giorno insieme”, “Senza tè” (che nel caso specifico, ho verificato, non indicava la
piacevole e gustosa bevanda ma
una tale Iole fuggita con il badante dell’anziano suocero – emblema
della contemporaneità, questa fuga
d’amore, in effetti), periodi sospesi,
consecutio temporum nonsonemmenocosasia (“ma ribadisco che
il mio sogno, quello che mi hanno
impedito di fare perché alla fine mi
hanno costretto a diventare avvocato come papà, era fare lo scrittore”).
La terza è la SOFFERENZA. Tutti soffrono. Tutti sono oggetto di
immeritate tragedie esistenziali.
La maggior parte dei romanzi che
arrivano (nonostante, sempre, noi
non pubblichiamo propriamente
romanzi) iniziano raccontando un
funerale.
Insomma, in generale, buona
parte della letteratura fatta da esordienti è una sorta di “sfogatoio”
(termine inesistente ma che rende
bene l’idea): scrivo perché ne ho urgenza. Perché ne ho bisogno. Scrivere è qualcosa che mi serve. Per
esempio a liberarmi da qualcosa
che mi assilla. A chiudere un capitolo della mia vita, a oggettivare
la mia ansia (difficilmente, quasi
mai, a comunicare la mia serenità
e tranquillità). Del resto si tratta di
un dilemma antico quanto la storia
del pensiero e della letteratura: c’è
chi vede la verità solo attraverso gli
22
occhi dell’inquietudine. Chi nella
lucidità dell’esperienza libera da
assilli. Entrambi i casi generano letteratura? Secondo me sì. Non credo
di essere d’accordo con chi afferma
(es. Sandro Veronesi) che ciò che
distingue il dilettante dallo scrittore professionista sta nella capacità
che il secondo ha di scrivere libero
da ingombri (ansie dettate dal fatto
che la fidanzata mi ha lasciato, il
mio cane è morto, ho perso dei soldi al gioco). Tutti siamo più o meno
ingombranti. E una scrittura neutra, tranne forse quella dell’elenco
telefonico e di un manuale sul funzionamento del frigorifero, grazie a
Dio non esiste: chiunque, inevitabilmente, finisce per parlare di sé.
Dunque, è una questione di modi.
Di come si è autoreferenziali. O di
quanto si è banali nell’esserlo. Insomma, questioni di stile.
Metaletterari di carta/1
Saggia, paziente e sempre gravida
di JACOPO CIRILLO
N
on si può avere un libro preferito. Il mio è Finzioni, di
Jorge Luis Borges. E’ un libro che
parla proprio di quello che evoca il
titolo: libri inesistenti, personaggi
straordinari, biblioteche impossibili. Scrive di finzioni facendo finta
che siano vere. Amplifica e ribatte
quello che il poeta romantico Samuel Taylor Coleridge chiamava
sospensione dell’incredulità, quello che i recenti studiosi di narratività chiamano patto finzionale: la
storia è invenzione, io faccio finta
che sia vera e la storia deve rispettare questa “credulità” con una
propria coerenza interna. Deve creare un mondo possibile dove, al suo
interno, le cose succedono secondo
una logica. Se il protagonista di un
libro, un mago, può volare, allora per tutto il libro questo potere
dovrà essere mantenuto, salvo un
eventuale anatema nemico o qualsiasi altra cosa coerente però con il
mondo possibile creato.
La letteratura è per la maggior
parte finzionale per un semplice
motivo, illustrato bene da questa
illuminante storiella. Un pensatore, talmente assiduo da riuscire
a pensare anche nel sonno, entrò
in un’osteria e mangiò così bene
da sentirsi in dovere di fare i complimenti all’oste, un bell’omone
allegro. Dopo un breve colloquio,
ammirato e meditabondo, il pensatore cominciò a rimuginare sulla
possibilità di cambiare occupazione e diventare anch’egli oste.
Il giorno dopo, tornato all’osteria,
propose al proprietario uno scambio di ruoli. Lo scambio si fece e da
quel momento l’oste diventò pensatore e viceversa. Logicamente le
cose non funzionarono più, né per
il pensatore, né per l’oste. Cosa c’è
di strano in questa storia? Che non
finisce come dovrebbe finire. Algirdas Greimas, grande semiologo e
studioso di narratività, diceva che,
per esserci narrazione, ci deve essere trasformazione. Cioè deve cambiare qualcosa, succedere qualcosa
di rilevante. Dunque il pensatore
potrebbe rivelarsi un grande oste e
allietare i commensali con i suoi ragionamenti, oppure dimostrarsi un
fiasco, arrendendosi alla supremazia della pratica sul puro ragionamento. Di converso l’oste potrebbe
scrivere un libro rivoluzionario o
finire sotto qualche ponte. O entrambi potrebbero avere qualche
tipo di avventura che li porti a ricambiarsi i ruoli. Invece qui succede l’opposto. La finzione sterza
sulla banalità, succede quello che
succederebbe nella realtà, cioè che,
semplicemente, l’oste non ha le capacità di fare il filosofo e il pensatore non sa cucinare. E va male ad entrambi. Il patto finzionale si è rotto.
Thomas Bernhard ha scritto un
libriccino pieno di storie di questo
tipo (L’imitatore di voci, Adelphi
1987, 165 pagine, 9 euro) in cui sceglie di raccontare con una tecnica
giornalistica, più che letteraria,
tante piccole notizie di giornale,
neutre, reali. Ovvie. Facendolo, ci
spiega il motivo per cui si scrivono
romanzi, e non cronache. Perché la
realtà è noiosa e, come nel rasoio di
Occam, succede sempre la cosa che
ti aspetti. Cioè che un oste non sia
23
un pensatore e viceversa.
Però, però… Truman Capote mostrava, qualche anno prima, che il
romanzo perfetto non è letterario
ma giornalistico. Non è invenzione,
ma realtà. A sangue freddo (Garzanti 2005, 391 pagine, 16 euro) racconta di un terribile eccidio, realmente
accaduto, di una famiglia da parte
di due balordi ed è il primo esempio, in letteratura, di romanzo giornalistico. Capote si reca sul luogo
del delitto, intervista vittime e colpevoli e ci scrive sopra 400 pagine
terribili. Il suo è un libro perfetto
perché, oltre ad essere scritto divinamente, non è un romanzo ma
una cronaca giornalistica. Un fatto
accaduto. Reale. Solo la realtà può
essere così spietata, così insensibile. Così prevedibile. E morbosamente interessante.
Truman Capote l’aveva capito: il
romanzo – costitutivamente – non
può essere perfetto, poiché è la sua
imperfezione che gli conferisce lo
statuto. La realtà invece ha due interpretazioni: l’ovvietà della cronaca e la banalità del male.
Bernhard o Capote? La letteratura, madre saggia, paziente e sempre
gravida, mi ha insegnato che hanno
ragione tutti e due.
La Posta dei Lettori di
Matteo Bettoli
di MATTEO BETTOLI
C
arissimo, Questo mare acquitrino che dopo 100 metri
c'hai ancora l'acqua allo stinco
ma non ti vedi i piedi (ed. Yanni
Padre, 45 euro) è l'ultimo recentissimo memoir di Jacomo Yanni,
figlio di Yanni il musicista greco
di indubbia fama e indubbio baffo.
Jacomo si proclama memoirist di
professione, cioè scrittore che riformula ogni pochi anni la storia
della sua vita in un nuovo memoir,
mantenendo alcuni punti fermi (la
figlianza di Yanni, i baffi di Yanni,
il lieve mal di testa della moglie,
la suocera disperata) ma rielaborandola sotto luce rivoluzionata,
spesso contaminato dalle suggestioni e dalle passioni del figlio di
papà (baffuto) che può permettersi
di avere svariati hobbies ma non
un lavoro salariato. Jacomo dopo
aver scritto un memoir filtrato da
luce indù (Come sono arrivato ad
Ahmadabad con la gentile collaborazione di un seguace di Tirthankara) e uno influenzato dalla passione per il cricket pakistano (La
palla c'ha il legno dentro e hindi
dopo quel colpo in faccia ho smesso) si dedica qui al bagninismo
adriatico e ci ripropone la sua vita
con un corollario di piadine, giri di
liscio, bazze e slappe.
lettore di memoir, Prato Fiorito
E
ffettivamente singolare che
un personaggio dalla vita
sostanzialmente inutile sfrutti il
munifico padre tastierista e compositore senza ritegno, facendosi
pubblicare un memoir dietro l'altro
con la pretesa che questa rappresenti "la deriva del memoir nel XXI
secolo". "C'ho soldi" dice Jacomo
Yanni in una recente intervista sul
settimanale καλὸς καὶ ἀγαθός "e
mi piace viaggiare, viaggio molto
perchè posso fare a meno di lavorare. Ma il viaggio mi cambia, mi
affatica, mi ridisegna, e su questo
ridisegno segno i punti fermi sconfondendo (sic) il resto". Jacomo è
bulletto e guida spirituale di chi
si sente cambiato dopo 8 giorni di
campeggio in Guatemala, 7 giorni
di pastorizia sostenibile nel Caucaso o 13 giorni di "lavatrice culturale" in Giappone. Il problema
è che, pur immerso in situazioni
borderline (in ultimo il bagninaggio esistenziale su una spiaggia dei
lidi ferraresi), dalla testa di Jacomo
non esce nulla di significativo, solo
riflessioni sulle alghe, il mare acquitrino e le zanzare tigre ("degne
di vivere, ma magari lontano lontano"). Tornano alla mente le parole di Gualtiero Cannini, indomito
critico letterario che a proposito di
certi scrittori figli di Yanni e situazionisti nell'accezione più bieca del
termine disse qualche anno fa "se
una testa è vuota, serve a poco farla
viaggiare su e giù per aerei con un
brogliaccio e una penna, continuerà a scrivere solo pagliacciate senza
senso".
•
G
entile posta, da sempre ricerco ciò che è stiloso, cittadino globale in un mondo in cui
la stilosità per una ristretta cerchia snobbish è inversamente proporzionale alla percezione della
24
stilosità nel sentire comune (es. le
espadrillas sono tornate ad essere
da sfigati quando ce le hanno avute
tutti, così da rendere tutti una massa informe di sfigati. per di più con
le espadrillas. butta male per il vinile e per i libri usati, butta meglio
per la musicassetta e la lettura di
libri fotocopiati. bene il portamine, superata la matita ed il temperamatite, che oltretutto non passa i
controlli all'aeroporto. male il caffè espresso, leggermente meglio il
frappuccino. male l'alta definizione, meglio il super 8. va di moda
essere miope. bene le diapositive.
malissimo la cultura in generale.)
Ora salta fuori che il retro, cool per
regio decreto, non esiste più ed esiste solo il più o meno retro. Tutto è
retro, se si attinge a 60 anni di cultura pop, in varie configurazioni e
arlecchinate. Come distinguo ciò
che è retro cool da ciò che magari
è retro ma non cool? Gavagnoli ci
ha scritto un libro, Vade retro, e lo
vende ad un prezzo non retro, 25
begli euroni.
Evaristide, Ventimiglia
È
retro ciò che torna indietro,
ma l'aggettivo è vettoriale (e
indica il passato) e non dà giudizi di
valore. Retro è tutto ciò che è stato
prodotto diciamo dal 1950 in poi,
prendiamo lo scoppio della guerra
di Korea come anno zero del retro,
tanto che nel 1968 i racconti dei
veterani di guerra erano già considerati mooolto retro. C'è chi si è arricchito confidando nella nostalgia
e smemoratezza del genere umano:
gente che ha conservato quaderni,
sveglie ed orologi, appendiabiti e
lampadari, carta da parati e gingilli decorati, camicie, magliette
e memorabilia, per poi deviare su
apparecchi elettronici e di modernariato tecnologico, torce alogene
e led tintillanti, calcolatori e proiettori, ed ha infine venduto il tutto
a ditte fameliche di idee "originali"
o a retro-fans dimentichi di quanto, in prima battuta, facesse schifo
tutta sta roba e fosse scomoda e/o
inutilizzabile. Gavagnoli prova a
salvaguardare i retro-fans dal rovinarsi, dilapidando conti in banca
e mettendo in discussione unioni
a volte deprimenti (ma meglio di
niente oh), riempiendo casa con retro-puttanate che al limite faranno
abbozzare un sorriso all'amico che
compatisce, qui più che mai nell'accezione originaria di "partecipazione all'altrui patimento". Gavagnoli
salva solo gli orologi Casio dal suo
iconoclastismo partecipato: "quelli" ci dice "c'hanno la batteria che
dura un sacco e sono fichi".
•
C
aro Bettoli, i primi libri che
ho ricevuto in regalo erano libri game. Erano strani libri
pagati caro che presupponevano
una matita ed una gomma, molta
pazienza, un cuore puro e aperto
all'infinito e una bella spremuta
con lo zucchero come quella che fa
mamma. Ormai caduti nel dimenticatoio (e sembrava non bastare il
lancio di due dadi per tirarli fuori),
rappresentano un serbatoio indimenticato ed indimenticabile di
suggestioni e avventure in boschi
magici, dove la civetta dialoga con
la scopa, il guerriero spezza una
lancia in faccia al buffo goblin e
tutti insieme, tenendo bene a mente i punti esperienza, si può fare
passi avanti nel cammino che porta ad un livello superiore di consapevolezza fantasy. Ora tornano,
rivisti e corretti per un pubblico
adulto, ché i bambini le case editrici li danno decisamente per persi.
Il nuovo target sono i giovani adulti o i vecchi tardo adolescenti sugli
-enta, quelli che c'hanno qualche
soldo derivante dal lavoro o un bel
vitalizio strappato a genitori ormai
esausti, quelli che possono sputtanarsi cifre un tempo impensabili
in cose inutili che -per necessità o
per pudore- tenevano ben lontane
fino a poco fa. In questo contesto la
casa editrice Lupo Sfigato ha dato
alle stampe tanti nuovi libri game
che ci fanno godere come pazzi,
impegnati con la nostra matitina e
la gomma Staedtler sulla metro o a
letto, impegnati a non considerare
il/la partner.
Ascia stupida,
contea di Ganderorn
25
C
ara Ascia stupida, ricordo bene
i libri game perché me ne comprarono vagonate da bambino e quelli
della biblioteca erano sempre fuori o
irrimediabilmente inzaccherati. Mia
madre, illusa, pensava che leggerli
avrebbe sviluppato in me un'intelligenza vispa e profonda. Penso oggi che
leggere Harmony sarebbe stato uguale,
e forse mi avrebbe insegnato più cose
del mondo dei grandi. Niente da fare:
pure le figurine dell'inglese dovevo fare,
raccolte noiosissime che non faceva
nessun altro e così rimanevo con un
sacco di doppioni del present perfect. I
libri game non hanno reso nessuno più
intelligente rispetto all'ipotetico lettore pre-adolescenziale di Harmony, e a
pensarci ancora mi viene il nervoso per
non essere riuscito a sconfiggere l'infido
agnello vegetale a difesa della porta numero 2: sono sicuro che lì dietro ci fosse
la chiave del tempio di Marigorn. Lupo
Sfigato è una casa editrice che punta sul
revisionismo di quanti avevano bollato
i libri game come minchiate, e propone
titoli come Ti ho scaricato perché sei misero, guadagna soldi sfruttando sacche
speculative e riconquistami, oppure Gioca nel campionato brasiliano ed entra
nella favela di Adriano. Titoli giovani ma
anche maturi. Già si vedono i primi che
hanno annusato il fenomeno e stanno
in tram con gli occhiali da sole, le cuffiette, un libro, una matita in mano, un
temperamatite e un paio di dadi, sembrando coglioni. Avanti così.
T
ixiotropica è una sostanza
che cambia la sua viscosità
se sollecitata. Ovvero quando la
lasciate ferma è dura ma se la scossate si squaglia. Una cosa davvero
noiosa, eppure è in questo genere
di cose che si cela uno degli altri
aspetti più belli della scienza: l’onnipresenza della natura e la sua
genialità. Il perché sostanze siano
tixiotropiche è davvero complicato
e lo lasciamo felicemente perdere.
Tutti noi abbiamo avuto a che
fare con sostanze tixiotropiche. La
più comune è la sabbia bagnata. È
dura, ci camminiamo sopra sulla
battigia e si deforma poco con tut-
rie hanno questo comportamento.
Anche i muscoli lo sono. Infatti i
tessuti connettivi se freddi sono
rigidi, se sollecitati si sciolgono,
letteralmente: diventano più fliudi.
Ecco perché bisogna fare sempre
un riscaldamento prima di un esercizio sportivo impegnativo e faticoso. In questo modo possiamo far
sì che i muscoli si rilassino e siano
più elastici, migliorando le nostre
prestazioni e diminuendo la possibilità di infortuni. Carino, no? Ma
perché poi dovrebbero essere tixiotopici? A che giova? La rigidità che
vengono ad assumere in seguito al
poco utilizzo o ad un lungo riposo
ha un grandissimo vantaggio: per-
mette di consumare poche o nulle
energie per mantenere una corretta postura durante il riposo (non ci
muoviamo, i muscoli si irrigiscono
e stanno bloccati senza dover essere tirati) così da impedire al corpo
di assumere posizioni sbagliate. E
ancora, i dorsali che non vengono
praticamente mai sollecitati sono
molto rigidi, così possiamo tenere
una postura corretta senza sforzo e
senza consumare energie. Ecco l’altra grande bellezza della scienza:
offre una chiave di lettura profonda
della realtà delle cose e ne rivela i
perfetti equilibri.
Pillole di scienza
Tixitropici di San Gennaro
di FABIO PARIS
to il nostro peso, ma se la prendiamo in mano e la muoviamo un po’
cola e ci inzacchera tutti. Oppure il
ketchup. Sta tutto fermo sul fondo
del vasetto e non scorre. Allora per
muoverlo gli diamo una botta e lui,
perfido, diventa improvvisamente
fluido e ancora ci inzaccheriamo.
Un motivo in più per boicottare i
fast food.
Poi c’è un famoso fluido tixiotropico (o supposto tale): il sangue
di San Gennaro che quando viene
scossato da quell’uomo vestito di
rosso diventa fluido. Ah... no no...
questo è un miracolo. Beh, se volete impressionare gli amici riempite un’ampolla con del ketchup,
vestitevi di rosso (magari serve...)
e provate a fare il miracolo a casa.
Riuscirà.
Ma non solo sabbia e salse va-
26
Metaletterari di carta/2
Abbasso i paroloni
di JACOPO CIRILLO
I
l miglior modo per valutare la
bontà di un cameriere è notare
se il suo atto di aprire una bottiglia
di vino e di versarla influenza, o addirittura inibisce, la conversazione
a tavola.
Di solito è così: mentre lui fa tutte
queste cose, si sta zitti e ci si guarda negli occhi finché non se ne va.
E invece i camerieri migliori sono
quelli che passano, ti servono, non
te ne accorgi ma ne noti lo stile.
Così, spesso, deve essere la scrittura. Ha ancora senso, allora, parlare di libri scritti bene, scritti male o
scritti difficili?
Spesso accade che ci si rallegri
per cose perfettamente normali e
dovute. Ad esempio quando il parlamento approva una legge giusta
o ne respinge una sbagliata. Non è
stato bravo, o particolarmente onesto. Ha fatto solo il suo dovere.
Per i libri deve essere lo stesso.
“E’ scritto bene” non è un complimento, perché ci si deve aspettare
che un libro almeno sia scritto bene
– a meno che la cattiva scrittura non
sia la cifra stilistica dell’autore, ma
questo è un altro discorso.
Questa dinamica si ripete stesso
per i nuovi scrittori. Ecco, per esempio, Carlo Mazzoni (I postromantici, Salani 2007, 269 pp., 14 euro),
giovane esordiente, scrive abbastanza bene. E basta.
Non è sempre detto, però, che un
libro scritto male sia brutto (a par-
te La solitudine dei numeri primi,
Paolo Giordano, Mondadori 2008,
304 pp., 18 euro, s’intende). Spesso
il cattivo stile o la farraginosità del
discorso non sporcano le belle idee:
talvolta malcelano uno straripante
talento in un’altra arte. Per esempio Peggio di un bastardo di Charles Mingus (Baldini Castoldi Dalai
2005, 373 pp., 18 euro) è scritto proprio male. E’ confuso. E’ inconcludente. Però, nel degrado di questa
scrittura si vede chiaramente che
quelle mani non sono state fatte per
tenere una penna ma per pizzicare
delle corde. E che vale la pena raccontarne la storia.
Ricordate la metafora del cameriere? Quando il poverino in livrea
inciampa e vi sporca la camicia con
una bella chiazza color vinaccia,
ecco quella è la scrittura opaca.
Nella Diceria dell’untore (Bompiani 2001, 190 pp., 9 euro), Gesualdo Bufalino usa una scrittura
ingombrante, invadente, che ti (dis)
toglie il fiato e ti distoglie dalla storia. Formule come: “una poltiglia di
sillabe balbe rimasticate in eterno
da mascelle senili”, “le metafore
dell’emottisi”, “i quagli petrosi del
suo difficoltoso emuntorio” sono
tutte nella stessa pagina.
La scrittura è troppo opaca e
pone un filtro tra il lettore e la storia. Non seguo la trama perché
sono troppo impegnato a decifrare
il significato delle parole. Questa è
finta cultura. E poi, che cosa sono le
emottisi? E un quaglio?
27
Certe volte, allora, i paroloni
sono irritanti. Fanno il lavoro contrario di quello che ci si aspetterebbe: invece di svelare il mondo, lo
nascondono.
Altre volte però, certe parole,
seppur altisonanti, sono il modo
migliore – o unico – per centrare il
concetto. In semiotica ci sarebbero
mille esempi, tuttavia mi sembra
più divertente riferirsi al “Manuale delle Giovani Marmotte” (Walt
Disney Company Italia, 9 volumi, 8
euro l’uno).
Come descriverlo? Un libro in
cui c’è scritto tutto? Il libro di quei
ragazzi che sono più o meno scout?
No. Il Manuale è un libro interattivo
che risponde alla domanda che gli
si pone nella contingenza del pericolo o della necessità. Trascende
lo scoutismo mantenendone solo
alcune attestate gerarchie e non è
altro che una borgesiana biblioteca
di Babele, condensata in un tomo
con un rombo in copertina, a disposizione di tre ragazzini più svegli
della media, di un pusillanime in
blusa da marinaio e di un vecchio
angarione.
Graphic Novel
“Summer Blonde”
di Adrian Tomine
di MARINA PIERRI
U
na volta, qualcuno mi ha
raccontato una storia che mi
ha condizionato parecchio: “ragazzina”, mi hanno detto, “nella vita
siamo tutti in fila uno dietro l’altro.
Ognuno guarda quello avanti che è
meglio di lui e così via, all’infinito.
E per quello avanti a te, tu sei solo
un’ombra”. Non ho bisogno di dirvi quanto trovi deprimente questa
storia, che però non tiene. Come
avrete intuito, infatti, la parabola
ha un inconveniente fondamentale: se tutti siamo solo un rumore
di fondo per l’altro, com’è possibile
che poi, invece, ci si innamori, si
facciano figli, si stringano amicizie
a volte eccezionali e lunghissime?
Insomma, la metafora mi ha colpito, ma non funziona davvero. È
solo pessimismo gratuito. Troppo
spesso succede che qualcuno dia
un colpetto sulla spalla al suo predecessore e che quello si giri e si
renda conto che sei fatto di carne ed
ossa. Talmente spesso da inficiare
la considerazione tutta.
Mi sono presa la briga di raccontarvi questa storia perché sulla
copertina dell’edizione inglese di
Summer Blonde di Tomine (Drawn
& Quarterly, ma è anche disponibile nella versione italiana da Coconino Press) c’è un’ombra proiettata
sui sandali portati da due bei polpacci di ragazza. La cosa è piuttosto importante perché l’immagine
riassume tutto questo splendido
volume, che si compone di quattro
storie diverse e pure molto simili,
il cui tema generale, a grandi linee, assomiglia molto alla faccenda della gente in fila di cui sopra. Il
mondo grafico dell’autore - che è un
amero-giapponese di quarta generazione (così dice la sua pagina di
Wikipedia) e ricorda molto quello
del buon Daniel Clowes – si compone più o meno interamente di persone fisiche e ombre. Ogni racconto
ruota attorno a un inseguimento:
qualcuno fa di tutto per essere “visto” da qualcun altro e di solito finisce per riuscirci, in una maniera
o nell’altra. Ognuna delle quattro
figure centrali di Alter Ego, Summer
Blonde, Hawaiian Retreat e Bomb
Scare lotta per cambiare statuto:
da insieme di linee e colori a personaggio, da personaggio a persona,
da persona a protagonista in un
movimento triplice, armonioso,
dentro e fuori dalla pagina. Questo
fa di Summer Blonde un libro sulla
trasformazione, o, più correttamente sul tentativo di trasformarsi;
dunque sull’evoluzione, sulla rivoluzione. Non aspettatevi che si tratti di pagine dense di azioni e colpi
di scena: tutt’altro. Non succede
nulla di straordinario nelle poche
pagine concesse a ogni personaggio, ma l’uso che fa Tomine del mezzo graphic novel è molto “filmico”;
così, almeno nella misura in cui le
parole e le immagini funzionano
da oggetti per un lettore che deve
essere messo nelle condizioni di
esperire il mondo dei personaggi,
alla fine una sciocchezza diventa
un evento straordinariamente sa-
28
liente. In più, non abbiamo nessuna
finestra sui pensieri e le intuizioni di Martin, Hillary o Alex: tutto
quello che abbiamo a disposizione
per farci un’idea di loro e, nella migliore delle ipotesi, nutrire dei sentimento positivi o negativi nei loro
confronti, sono le loro scelte. Che di
solito sono buone. E prevedono un
colpetto sulla spalla alle persone
che li precedono in quella famosa
storia della fila che, indovinate un
po’, mi sono inventata per scrivere
quest’articolo.
C
i sono due modi per raccontare storie: la noiosa verità e la mirabolante esagerazione
dei fatti. L’esagerazione dei fatti, o
iperbole, è bella perché è una caricatura. Wittgenstein (yawn) diceva
che fare una caricatura non è altro
che privilegiare e mettere l’accento su una parte in rapporto con il
tutto, creando dunque, dico io, una
sproporzione. O meglio, un’assimmetria. L’asimmetria fa ridere e fa
pensare, perché non è regolare,
dunque buffa, e va messa a posto
gestalticamente con la propria testa. L’iperbole, la storia esagerata,
segue esattamente questa dinamica: è divertente e fa lavorare il cervello. Fa ridere e fa pensare.
Ci sono poi due ruoli che si al-
ternano nelle storie: la banalità dei
vincitori e il sorprendente spessore
dei perdenti. Le storie dei vincitori
sono retroattivamente incastrate
nel rasoio di Occam: la soluzione
è spesso la più semplice e ovvia.
Quando le leggi, sembra che tutto
sia andato liscio, che sia successo quello che doveva succedere e
niente altro. L’eroe ha vinto perché
è buono, la soluzione più semplice è
che vinca. Non si scappa.
non fuori, come Karate Kid. Solo
che loro perdono per costituzione.
Le storie dei perdenti invece sono
più belle perché i perdenti, per tirare acqua al loro mulino, si raccontano in modo più personale, più
soggettivo, si guardano dentro non
potendo ovviamente aggrapparsi
alla rassicurazione dei fatti oggettivi. Trovano la verità dentro di sé,
In questa rubrica accoppieremo
felicemente questi due fenomeni,
raccontando storie esagerate di
grandi perdenti. Quel ganzo di Walter Benjiamin ha detto che la storia
è il bottino dei vincitori. L’iperbole,
allora, è la risorsa, forse l’ultima,
dei perdenti.
E la verità soggettiva è infinitamente più interessante: come diceva qualcuno (quel qualcuno era
Kierkegaard ma avevo paura di annoiarvi ancora di più), con soggettivo non si intende un attributo relativistico ma una appropriazione
della verità in termini esistenziali.
La verità per me.
Iperboloser
Évariste Galois
di JACOPO CIRILLO
I
l piccolo Évariste, nel 1820, era
un bambino solitario e problematico. Tutti lo prendevano in giro
perché il suo cognome si pronunciava come la marca di sigarette.
Hei Évariste, ce l’hai una paglia?
Ahahahahahaa! - lo schernivano.
Hei Évariste, fabbricami una sigaretta, ahhahaha! – lo irridevano,
basandosi sul fatto che al tempo si
prendeva il tabacco e le cartine e si
fabbricavano le sigarette da soli. Allora i giovani dicevano “fabbricare”
invece di “fare su”.
Per questo il piccolo Évariste diventò un genio della matematica e
un abile intagliatore di legno. Portava sempre il suo coltellino svizzero con sé. Al compimento dei quin-
dici anni fu convocato dal re che
voleva fargli i complimenti per aver
risolto un problema che assillava la
matematica da millenni, cioè determinare un metodo generale per
scoprire se una equazione è risolvibile o meno con operazioni quali
somma, sottrazione, moltiplicazione, divisione, elevazione di potenza
ed estrazione di radice, ma le guardie notarono l’oggetto contundente
e lo misero in galera.
Quivi il piccolo genio, irriso dai
secondini con frasi tipo Évariste,
fatti una paglia prima dell’impiccagione ahahahah!, scrisse la sua
grande opera sulla teoria delle
equazioni che propose prima a
Cauchy, che gli disse di no, poi a
29
Fourier, che gli disse di sì poi però
morì e si portò nella tomba tutto il
megaprogetto del tabagist.. ehm di
Évariste.
Uscito dal carcere, a vent’anni, si
innamorò di una tabaccaia e morì
in duello per difendere il suo onore
e una partita di toscanelli. Si racconta che l’ultimo desiderio di Évariste sul letto di morte fu la prima
sigaretta della sua vita. Tossì, prima
di spegnersi.
Contributi da:
Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua
nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semiotica, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato
questa rivista solo per poterle dire: faccio il co-fondatore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per
poter dire quello che gli pare sui libri che legge.
Alex Grotto è la conseguenza di un'adolescenza sbagliata fatta di TV spazzatura, fumetti spinti e musica
sgangherata. Un eterno precario del buon gusto che
ancora non sa come trasformare la sua colta apatia in
denaro e affitti pagati, ma cerca di ovviare al problema
abitando in una stanza rancida di provincia e scrivendo
di musica su Vitaminic. E' sovrappeso, si veste malissimo ed ha occhiali grandi per darsi un tono che non può
permettersi.
Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiunto traguardi degni di nota e ritiene che la sua infanzia
sia stata traviata dal finale di “Marcellino Pane e Vino”.
Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani
segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno concesso un pò di tempo libero per co-fondare Finzioni.
Agnese Gualdrini, 27 anni, laureata in Filosofia nel
lontano 2005. Da ormai un anno vive e lavora a Roma in
una casa editrice con un non ben definito ruolo di giano bifronte (saltella tra l’ufficio diritti esteri e la valutazione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno
invadono la posta). Adora il caffè amaro, il lungotevere,
i libri di Natalia Ginzburg e cantare anche se violentemente stonata.
Licia Ambu pensa che avere una sola personalità sia
uno spreco di spazio. In fase di definizione a ciclo continuo, ama in ordine sparso (e intercambiabile) un sacco
di cose. Attualmente la posizione più quotata per guardare il mondo le sembra a testa in giù.
Sono Davide La Rosa e faccio i fumetti anche se non
so disegnare (so che questa cosa potrebbe far strabuzzare lo strabuzzabile ma avrei potuto fare il chirurgo senza
saper nulla di medicina). Sono nato il 23 giugno del 1980
e un giorno morirò ma non so darvi una data precisa.
Una volta morto, comunque, voglio essere caramellato.
Vabbè non c'è molto altro da dire su di me. Chi volesse leggere i miei fumetti può trovarli qui: http://www.
lario3.splinder.com/
Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro
di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamicità. A 21 anni controlla i principali media di casa: 3 televisioni, 2 computer, l’abbonamento all’Espresso e la
radio ricevuta in regalo per la cresima. Decide allora di
trasferirsi. Studia a Bologna. Passa diverse giornate in
Sud Africa, Austria e Belgio. L'acronino di questi tre paesi è SAAB, che non a caso produce automobili brutte ed è
sull'orlo del fallimento. Abita a Roma e si sveglia presto.
Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e studia cultura editoriale all’Università Statale di Milano.
Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi
per grafica nonostante non possa vantare alcuna conoscenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora accorto,
quando verrà smascherata sarà costretta a far fruttare
una laurea a detta di molti “inutile”.
Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La
sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo, di
suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per non
pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a
leggere e a inseguire innumerevoli passioni che, per lo
più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando il posto a nuove manie.
n. 11 / Marzo 2010
[email protected]
www.finzionimagazine.it
30
Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso
nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodorante. Performer di incauta protervia, aruspice della significazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per
alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi
al vostro personale sconcerto teoretico.
Alessandro Pollini sta sviluppando le proprie capacità
medianiche con l'obiettivo di essere invitato a Misteri
e conoscere Ruggeri e Bossari con la faccia cattiva. Un
giorno diventerà anche un templare così sposerà la figlia di Giacobbo e passeranno la luna di miele in Egitto
saltellando allegramente tra le piramidi.
Michele Marcon ama così irrazionalmente le lettere
da aver avuto la leggerezza di confessare in famiglia una
certa velleità letteraria. Il giorno dopo il padre si presenta a casa con una maglietta del Milan autografa: “Allo
scrittore Michele, Kakà”. Nonostante incertezze sull’autenticità, Michele si sente fregato: gli tocca diventare
uno scrittore, non è più un affare privato. Per ora è un
abile lettore, ma la cosa triste è che tifa Juve praticamente dalla nascita.
Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci
gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/ fare
la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del portale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling
Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media di
tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di film
e serie televisive americane.
Simone Rossi vive e scrive e suona alla Casa del Cuculo, “un posto dove ci piove dentro” (cit.). Sta volentieri
senza scarpe e fa un po’ fatica ad arrivare a fine mese.
Una volta è stato in Etiopia, poi è tornato e ha scritto La
luna è girata strana (Zandegù). Un'altra volta si è messo
davanti a internet e ha detto: Ciao internet, ho scritto un
(altro) libro. Se me lo finanzi in anticipo me lo pubblico
da solo. Ha funzionato: è nato sbriciolu(na)glio. A questo
punto dovresti andare su simonerossi.tumblr.com per
vedere come continua.
Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque
anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti
del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore
di autostrade nonché massimo esperto in campo internazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate,
piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare
correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte
della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte
dei cessi nei centri commerciali.
Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare
che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la
sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo l’inviato da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per esperto
di nanotecnologie.
Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte,
Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di
tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se
avrebbe preferito vivere nell’800. Attualmente vive a
Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera
aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca
ed un centro di gravità permanente a forma di pera.
Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato dalla
figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi suo eroe personale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam, frequenta concerti di dubbio gusto e beve dei gran birroni.
Quando non sa che fare, ammortizza i propri desideri
nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano, leggendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di conseguenza, alle volte si annoia tantissimo.
Maria Giovanna Ziccardi, laureata in giurisprudenza
a Trento nel lontano 2008, sotto una nevicata epocale, ha
una spiccata vocazione per i lavori non pagati. Si barcamena tra case editrici, udienze e cronaca locale. Pensa
che la matematica sia alla base del declino della civiltà
moderna e crede che chi è capace di fare la conversione
euro-lira sia dotato di capacità divinatorie. Ama leggere
e scrivere, ma non leggere quello che ha scritto.
Finzioni è disponibile
solo su abbonamento.
Abbonati o richiedi gli arretrati su
http://finzioni.bigcartel.com
31
www.finzionimagazine.it