Catarini Angelo
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Catarini Angelo
1 Angelo Catarini nato a Valcimarra il 23. 07. 1921 DISTRIBUZIONE DEL GRANO Il comune di Caldarola, nel mese di novembre '43 fa dei manifesti dove comunica che alle ore 15 del giorno 20 verrà distribuito del grano; tutti gli abitanti, compresi quelli delle frazioni accettano l’ invito, viste le necessità di quegli anni. La distribuzione avviene vicino alle scuole, all’inizio del corso che conduce alla piazza, il grano proviene da un magazzino del consorzio agrario e sono circa 100 quintali; da una finestra in legno all'altezza di un paio di metri il grano scende da solo sulla strada e la gente aspetta per riempire il sacco, saranno una cinquantina di persone. Io mi trovo un po’ più lontano dalla coda, in attesa che mio padre arrivi al suo turno. Oltre alla gente ci sono anche tre slavi, armati di moschetto e munizioni: sono prigionieri di guerra, liberati dal campo di concentramento di Sforzacosta dopo l'8 settembre e rifugiatisi nelle nostre montagne. Così armati fanno la guardia, non so dire chi li avesse autorizzati, uno di loro si occupa di mantenere l'ordine tra le persone che si accalcano intorno al grano, un altro si è messo alla fine della via, davanti al vecchio ospedale da dove sì può controllare la strada nazionale tra Caccamo e Belforte. Ad un certo punto vede arrivare al Caccamo, diretta a Caldarola, la macchina del Prefetto di Macerata Ferazzani seguita da una corriera piena di repubblichini fascisti; spara tre colpi in aria e la gente spaventata scappa via di corsa, cercando rifugio in qualsiasi posto possibile. Arrivano il prefetto e i fascisti davanti alle scuole ormai vuote, si dirigono verso la piazza sparando in ogni piccola via, ma non trovano nessuno. In piazza, sotto il loggiato del comune è aperta la farmacia e il Prefetto si dirige all'interno per chiedere al farmacista dove fosse andata la gente che stava a prendere il grano, ma il dottore dice di non aver visto niente, perché lui era all'interno del negozio, viene portato fuori nel luogo della distribuzione, e di nuovo interrogato, alla fine il Prefetto fa aprire un portone di una casa vicina, la casa dell'Ingegnere A.., nel lungo corridoio dell'ingresso si è nascosta una ventina di persone, tra i primi tre più vicini: mio padre, un abitante di Montalto e uno di Pievefavera, tutti e tre con i sacchi ancora vuoti in mano. Il Prefetto li interroga subito a partire dal contadino di Montalto – “Cosa sei venuto a fare?” , questi gli risponde la prima cosa che reputa più innocua – “Sono venuto a macinare il grano”, il militare comincia a prenderlo a pugni e schiaffoni, ma il poveretto continua a ripetere di essere lì per macinare il grano. A quel punto smette e passa a mio padre Ilario, - “ Tu che cosa sei venuto a fare?”, viste le tante botte prese dall'altro, prova a dire la verità – “Sono venuto a prendere il grano”, il prefetto gli dà un pugno in viso, rompendogli un dente e dicendogli – “Vedi come tiro di boxe?”, però smette e passa al terzo –“Tu cosa sei venuto a fare?”, anche questo reputa più opportuno confermare la tesi di mio padre a cui è andata meglio e anche lui rimedia un solo pugno. A questo punto Ferazzani torna ad interrogare il primo, ripetendogli la domanda, lui continua a rispondere - "Sono venuto a macinare il grano”, il Prefetto rivolto ai fascisti – “Prendetelo, portatelo in piazza e fucilatelo immediatamente”. Cosi avviene la tragedia e l’obbrobrio dei fascisti. Quel signore lascia la moglie con 6 figli. Eseguita la fucilazione i repubblichini tornano dal Prefetto. Nel parapiglia dell'arrivo dei fascisti, io avevo perso di vista mio padre e mi ero rifugiato nella casa di un sarto amico di famiglia, da lì abbiamo sentito le urla di quel poveretto, colpi di fucile e poi un silenzio pesante. Era già buio e verso le 10 di sera ci affacciamo alla finestra per renderci conto della situazione. Per strada vediamo una signora che proviene dalla piazza, lei ci riferisce che un uomo è stato fucilato vicino ad una colonna di fronte all’entrata del comune. A quel punto tutto sembra essere tranquillo, allora mi decido ad uscire e vado in piazza, con il cuore in gola per vedere il cadavere di quell'uomo, che pieno di sangue non e riconoscibile, io penso a mio padre e cerco nel buio di capire dai vestiti, ma ad un certo punto sì intravede il lume della guardia comunale e decido di tornare a Valcimarra, passando per Pievefavera, ma con un po' di difficoltà perché ci sono 20 o 30 centimetri di neve. Arrivato verso la mezzanotte a casa chiedo a mamma Letizia se è ritornato, mi dice di no, allora insieme a mio fratello Dino ripartiamo per 2 cercarlo, arrivati di nuovo alla piazza accendiamo una candela, ma non riusciamo a vedere nulla di certo, anche se non ci sembra che sia nostro padre, non riusciamo a fare altro che ritornare a casa dai nostri e tutti passiamo la notte con angoscia, finalmente verso le otto del mattino arriva mio padre che ci racconta quanto accaduto e ci dice di essersi fermato a casa della sorella che abita tra il Caccamo e Caldarola, troppo preoccupati che potesse essere lui la vittima non abbiamo pensato di cercarlo altrove, non si può accettare di morire per un pugno di grano. Con questa testimonianza vorrei che si conoscesse cosa è stato il fascismo, la Repubblica di Salò e le barbarie e le tragedie avvenute. 3 Diario del servizio militare Partito il 26 gennaio 1942 per il 33° reggimento Carristi di Parma, subito iniziano le istruzioni di marcia e la ginnastica. Avevo avuto un infortunio sul lavoro il 24 settembre 1941 ed ero stato operato al ginocchio destro, la convalescenza si era protratta fino al 20 gennaio. La ferita era ancora fresca e il ginocchio non riuscivo a piegarlo alla perfezione e ciò mi impediva di fare tali esercizi, così decisi, dopo pochi giorni di chiedere una visita all'infermeria di Parma. Il tenente medico, dopo il controllo mi dice -"Sai quanta guerra dovrai fare con questo ginocchio!”, allora mi viene in mente, senza malizia, che un anno prima avevo fatto domanda in ferrovia e non ero risultato idoneo a causa di attacchi cardiaci, mi ero fatto controllare da un altro medico che aveva detto che non era una malattia grave e che con l'età si sarebbe sistemata da sola. Il tenente medico, ascoltando questo, decide di visitarmi e senza interpellarmi chiama il colonnello medico, che a sua volta mi visita. Non mi danno nessun chiarimento, il giorno successivo mi chiamano in infermeria e mi consegnano un foglio dove si dice che sono assegnato ai servizi sedentari e mi rimandano alla Caserma del 33° Reggimento Carristi. Sono rimasto un pò perplesso, né contento né scontento. Mi assegnano alla compagnia deposito e mi mandano all'ufficio matricole dove il mio lavoro consiste nel copiare i fogli matricolari e altri piccoli servizi di ufficio. Non potevo lamentarmi, ma ciò mi rendeva un po' insoddisfatto, vedendo che i miei amici e colleghi della mia classe di età partivano per il fronte per combattere in Iugoslavia, in Russia, in Grecia o in Africa. Il fastidio che provavo era come se io non potessi partecipare ad una festa, tutto questo rammarico che sentivo è legato al fascismo che ci aveva fatto il lavaggio del cervello, iniziando da balilla ad avanguardista fino a giovane fascista e al servizio militare dove ci sentivamo orgogliosi di essere Italiani e di difendere la Patria. Dopo molti mesi arriva una lettera del Distretto militare di Macerata che comunica al comando del reggimento che non potevo rimanere ai carristi perché quel reggimento è militarizzato e assegnato ai militari per andare al fronte, essendo assegnato ai servizi sedentari devo essere trasferito alla 6° compagnia di sanità di Bologna. Io non volevo andare, mi sembrava una cosa umiliante anche perché la divisa da carrista mi dava un certo orgoglio. Il comandante mi dice che se non voglio andare, lui può stracciare la lettera e cosi fa, ma dopo qualche mese ne arriva un’altra e anche questa viene cestinata. Poi avviene che una mattina mi sento male e mi portano all’ospedale militare di Parma, dopo quindici giorni di digiuno il capitano medico mi dice che mi deve operare di appendicite. Il mattino successivo, alle sei, mi sveglio e trovo vicino al mio letto babbo e mamma che, informati dell’operazione, mi hanno raggiunto; è una piacevole sorpresa; verso le otto il medico viene a visitarmi e stranamente non provo più dolore, il capitano medico mi dice – “Sei stato fortunato, ti sei operato da solo, l’ascesso appendicolare si è riassorbito”. Sono rimasto un’altra settimana per poi avere quaranta giorni di licenza per convalescenza. Al rientro al reggimento il mio comandante mi dice che hanno dovuto dare corso all’ultima lettera del Distretto di Macerata e che debbo raggiungere la 6° compagnia di sanità di Bologna. All’ufficio comando, il mio lavoro consiste nel predisporre permessi e licenze e altre mansioni d’ufficio. Il comandante della compagnia era un capitano di fanteria che aveva fatto la guerra ‘15-‘18 e da semplice soldato per i meriti acquisiti durante i combattimenti è riuscito a diventare tenente e richiamato per questa nuova guerra ha ottenuto il grado di capitano ed è stato assegnato al comando della 6° Compagnia di Sanità e il suo reggimento di fanteria era quello che stava a Macerata alla caserma Corridoni, dove ha conosciuto un mio paesano di Valcimarra, anche lui con lo stesso grado acquisito nella campagna ‘15-‘18, il capitano Pascolini Filippo. Mi sono trovato molto bene a Bologna in particolare con quel comandante. 4 Il 25 luglio del 1943 arriva un ordine dal comando superiore che non si debbono più rilasciare né licenze né permessi, perché Mussolini è caduto. lo avevo un gran desiderio di tornare qualche giorno a casa e una settimana prima dell’8 settembre provo a parlare con il capitano che mi ricorda il divieto, ma mi consiglia di andare all'ospedale ortopedico militare di Bologna dove ci sono soldati feriti e mutilati in guerra venuti dai diversi fronti di guerra che, una volta curati, si rimandano a casa e debbono essere accompagnati perché non più autonomi. Arrivato all'ospedale incontro un amico di Belforte senza un braccio, che mi dice che tra una settimana l'avrebbero rimandato a casa e che avrei potuto accompagnarlo, nel frattempo trovo un militare di Pesaro che aveva un braccio al collo e che doveva partire subito, rientro in caserma e il capitano mi rilascia un permesso di 24 ore più 48 ore in proroga al foglio di viaggio. Così partiamo da Bologna il giorno 7 settembre 1943 alle ore 18, arriviamo a Pesaro alle ore 22, ci presentiamo alla caserma dei carabinieri, dove lo lascio e ritorno in stazione e alle 23 parto da Pesaro per giungere alla stazione di Tolentino alle 6 del mattino dell'8 settembre ‘43. All'uscita incontro un signore di Montalto con un carretto trainato da un mulo che sta andando a casa, mi da un passaggio fino a Belforte dove le nostre strade si dividono e perché io vado a salutare una ragazza mia amica; mentre sono con lei, alle ore 8 la radio annuncia la fine della guerra con la firma del generale Badoglio, incaricato dal Re..... Io ho il foglio di viaggio di 24 ore per accompagnare il Pesarese, in più il capitano ha aggiunto 48 ore, così in tutto ho 3 giorni di permesso, il terzo giorno dovrei rientrare alla caserma della 6° Compagnia di Sanità di Bologna, ma non sono più ripartito, perché il secondo giorno è tornato un mio amico che fa il militare a Spalato e mi consiglia di non ripartire perché molti suoi commilitoni erano stati presi dai Tedeschi e trasferiti in Germania a lavorare oppure in caso di conferma dell'alleanza a collaborare con loro, arruolati nelle compagnie militari Italiane rimaste fedeli a Badoglio e al patto fatto da Mussolini con Hitler. In Italia c'è uno sbandamento totale, perché non si capisce più chi comanda, il Re Vittorio Emanuele e il generale Badoglio hanno abbandonato Roma e sono andati a rifugiarsi a Napoli dove ci sono già le forze militari americane, inglesi (gli alleati: prima della caduta del Fascismo erano nemici). Siamo in una fase molto delicata, non esiste comando regolare a cui rivolgersi e tutti i militari che hanno potuto e voluto sono tornati alle loro case. A Sforzacosta vi è un campo di concentramento con prigionieri Americani, Inglesi, Francesi, Slavi, Albanesi, etc. Dopo l'8 settembre '43 hanno aperto le porte e tutti sono usciti, girando per le campagne, qualcuno raggiunge anche le montagne circostanti. Pochi mesi dopo si istituisce la Repubblica di Salò con il comando a Grosseto diretto dal fascista Giorgio Almirante, che in tutta ltalia fa affiggere manifesti dove tutti gli uomini delle classi dal 1911 al 1924 si debbono arruolare nel nuovo esercito, chiunque verrà preso, attraverso rastrellamenti casa per casa, verrà consegnato ai Tedeschi e con i carri ferroviari del bestiame chiusi a chiave trasferito ai lavori forzati in Germania. Noi di Valcimarra abbiamo le montagne vicine e trascorriamo parecchio tempo in mezzo ai boschi, ma anche qui non si sta più sicuri perché spesso si incontrano dei fuggiaschi slavi armati che si insospettiscono della nostra presenza, pensandoci spie. A questo punto prendiamo una decisione e decidiamo di diventare partigiani, proteggendo le nostre montagne. RAPPRESAGLIA DI CAPOLAPIAGGIA Di Valcimarra siamo una decina e ci presentiamo nella frazione di Camerino Letegge dove c'è la base del comando della formazione partigiana Spartaco, capitanata da don Nicola Rilli, un exsacerdote, che ci dà un mitra con due caricatori e due bombe a 5 mano SIBA. Questo armamentario veniva lanciato con i paracaduti in montagna dagli alleati. La formazione è composta da circa novanta individui tra cui l’avv. Sartori, l'avv. Secondari, il tenente dei carabinieri di Camerino con tutto il personale. Noi di Valcimarra, a turno scendiamo di notte a casa attraverso la montagna per prendere un po' di provviste. Il 24 giugno ’44 con tutta la formazione andiamo a Serrapetrona, attraversando la montagna. Verso mezzogiorno ci rimettiamo in marcia per ritornare a Letegge, prima di scendere sopra la frazione a circa cinquecento metri notiamo che dall’altra parte della montagna si intravedono degli appostamenti di soldati. Ci chiediamo come mai questi si trovino in quella posizione e ipotizziamo che sia per la difesa di Camerino. Entrati in paese verso le 16, il comandante ci dice di cercare presso qualche casa, qualcosa da mangiare; io e mio fratello Dino ci rivolgiamo a un signore del posto di cui non ricordo il nome, che era amico di nostro padre Ilario. Gentilmente ci fa entrare in casa, ma appena mangiato il primo boccone sentiamo sparare, usciamo ma non vediamo nessuno. A quel punto cerchiamo di uscire fuori dal paese, risalendo la montagna dalla stessa parte da cui siamo venuti, anche perché così possiamo dirigerci verso Valcimarra. Fuori dal paese ci nascondiamo dietro un mucchio di legna, le pallottole della mitragliatrice che spara da sotto si infilano nella legna. Dopo un po’ in cui ci sembra che ci sia un po’ di tregua, riprendiamo il cammino, accompagnati sempre dal tiro della mitragliatrice le cui pallottole non sono più potenti e non ci raggiungono, ma ogni tanto viene lanciata anche qualche grana di mortaio; noi cerchiamo di continuare a salire nascondendoci dietro i cespugli. Arrivati in cima al monte vediamo che qualche altro si muove più in basso, mantenendosi però a distanza, scendiamo dalla montagna e passando dentro il fossato arriviamo al Camposanto di Valcimarra, quindi camminando lungo il fiume arriviamo a casa, babbo ci fa scavare un buco nel terreno dietro casa dove nascondiamo sia i mitra che le munizioni bene avvolti. Io e mio fratello ci siamo salvati dalla tragedia! Per altri compagni non è andata così, diversi si sono salvati nascondendosi nelle capanne o dentro le abitazioni, mentre una parte ha scelto di scendere subito a valle, perché le mitragliatrici sparavano sopra al paese, proprio per impedire la fuga in quella direzione. Dalla valle salgono però i soldati tedeschi e i repubblichini che catturano gli sventurati, insieme a tutti quelli nascosti nelle case e che sono soggetti al servizio militare. Li portano nella piccola frazione di Capolapiaggia dove lì li fucilano. Solo uno si salva, perché una pallottola lo ha colpito ad una spalla, è caduto ed è stato coperto dai corpi degli altri fucilati. Ha atteso che i soldati se ne fossero andati e finché non è diventato buio, a quel punto ha raggiunto la sua abitazione in un paesino vicino a Letegge, poi per paura di essere ripreso è rimasto sulla montagna per una settimana, cioè finché 6 non è avvenuta la liberazione di Camerino, solo a quel punto è andato in ospedale per farsi togliere la pallottola. Sono state fucilate 69 persone di cui tre di Valcimarra. Arrivati a Valcimarra veniamo a sapere che una sfollata di Civitanova Marche ha fatto la spia ai fascisti dando i nomi di quelli di Valcimarra che fanno parte della formazione Spartaco, così siamo costretti a fuggire con tutta la famiglia, babbo, mamma e i miei fratelli verso la montagna dove passiamo la notte in una piccola capanna. Al mattino mio padre dà a me e a mio fratello mille lire ciascuno e noi due ripartiamo attraversando la montagna fino a Piandipieca, dove siamo ospitati dalla famiglia Mancini, conosciuta da mio padre. Qui troviamo i soldati della compagnia della Nembo, schierati con gli alleati, tra cui un paesano a cui raccontiamo tutto quello che è accaduto. Per una settimana rimaniamo lì, fin quando non arriva la liberazione della zona di Camerino, Tolentino ecc. Torniamo a casa e solo come si è ristabilita un po’ di normalità consegniamo i mitra e le munizioni alla caserma dei carabinieri di Caldarola. Così finisce questa parte della mia vita. Il 25 aprile del 1945 la guerra finisce, festa nazionale e nascita della Costituzione per la Repubblica Italiana.