la responsabilità sociale per le imprese del settore agricolo e

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la responsabilità sociale per le imprese del settore agricolo e
la responsabilità sociale per le imprese del settore agricolo e agroalimentare
Responsabilità sociale di impresa è un termine entrato ormai nel vocabolario di tutti (aziende,
cittadini, politici, sindacati, media, associazioni, enti pubblici e non profit) ma forse non è ancora
nel “bagaglio culturale” di molti.
Il presente volume intende rappresentare, insieme alle “Linee guida” e ai “Casi studio”, uno degli strumenti che l’INEA mette a disposizione delle imprese che intendono avviare e strutturare
in modo organico un percorso di responsabilità sociale nella propria realtà aziendale.
In particolare si vogliono gettare le basi per l’applicazione di tale concetto alle aziende e agli
operatori del sistema agroalimentare, poiché tale settore presenta problematiche di primo piano sia a livello ambientale sia sul piano sociale.
Le emergenze verificatesi in questo settore, gli shock alimentari della “mucca pazza” o dei
“polli alle diossina”, come pure questioni di scottante attualità, quali l’utilizzo di prodotti OGM
o gli aumenti indiscriminati dei prezzi di vari generi di prima necessità, sono immediatamente
divenuti dei problemi sociali rilevanti.
Visti dunque gli impatti che tale settore può avere sul benessere di produttori e consumatori e
in considerazione della crescente richiesta di trasparenza in relazione alle caratteristiche dei
prodotti e dei processi produttivi, quasi “a garanzia” della loro qualità e genuinità, una riflessione organica e approfondita sulla responsabilità sociale del sistema agroalimentare diviene di
primaria importanza.
Ne consegue che il successo dell’agricoltura rispetto alle nuove attese della società risiede
nella capacità dell’impresa agricola di produrre alimenti sani e genuini e concorrere allo stesso
tempo alla protezione delle risorse naturali e allo sviluppo equilibrato del territorio, creando
occupazione e riservando maggiore attenzione alla qualità del lavoro.
Per tutte queste ragioni è estremamente importante approfondire, anche attraverso pubblicazioni come questa, le motivazioni, le modalità e gli strumenti con cui gli attori del sistema
agroalimentare possono soddisfare queste nuove aspettative dei consumatori e degli altri stakeholder circa gli impatti sociali e ambientali dei processi di produzione, trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli e agroalimentari.
la responsabilità sociale
per le imprese del settore
agricolo e agroalimentare
collana STUDI E RICERCHE
a cura di Lucia Briamonte e Luciano Hinna
2012
ISBN 978-88-8145-299-6
VOLUME NON IN VENDITA
inea 2012
ISTITUTO NAZIONALE DI ECONOMIA AGRARIA
SEDE REGIONALE DELLA CALABRIA
LA RESPONSABILITÀ SOCIALE
PER LE IMPRESE DEL SETTORE
AGRICOLO E AGROALIMENTARE
a cura di
Lucia Briamonte e Luciano Hinna
Il presente lavoro è stato elaborato nell’ambito del progetto “Responsabilità sociale: implicazioni ed
applicazioni alle imprese del settore agroalimentare” realizzato dall’INEA e finanziato dal MIPAAF
con D.M. 488/7303/2004.
Per l’impostazione e la progettazione dello studio ha operato il seguente gruppo di lavoro:
Responsabile scientifico: Luciano Hinna; Coordinamento: Lucia Briamonte (Responsabile INEA),
Paolo Biraschi, Ester Dini, Maria Assunta D’Oronzio, Barbara Luppi, Francesca Giarè, Sabrina
Giuca, Fabio Monteduro, Raffaella Pergamo, Iuri Peri, Rachele Rossi, Saverio Scarpellino.
I contributi al testo sono di:
Introduzione: Alberto Manelli
Capitolo I: Luciano Hinna
Capitolo II: Maria Assunta D’Oronzio, Raffaella Pergamo, Lucia Briamonte
Capitolo III: Fabio Monteduro
Capitolo IV: Sabrina Giuca
Capitolo V: Iuri Peri
Capitolo VI: Saverio Scarpellino
Capitolo VII: Ester Dini
Capitolo VIII: Francesco Zecca, Elisabetta Capocchi
Capitolo IX: Paolo Biraschi
Capitolo X: Lucia Briamonte, Raffaella Pergamo, Maria Assunta D’Oronzio
Capitolo XI: Barbara Luppi
Capitolo XII: Rachele Rossi
La consulenza editoriale è di Moira Rotondo
Segreteria tecnica: Roberta Capretti, Novella Rossi, Giulio Viggiani
BRIAMONTE, Lucia; HINNA, Luciano (a cura di)
La responsabilità sociale per le imprese del settore agricolo e agroalimentare
Collana: Studi & Ricerche INEA
Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 2008
pp. 240; 24 cm
ISBN 978-88-495-1757-6
Copyright © 2008 by Istituto Nazionale di Economia Agraria, Roma.
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la
fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.
INDICE
PRESENTAZIONE
INTRODUZIONE
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Parte prima - La responsabilità sociale di impresa nel settore
agricolo e agroalimentare: percorsi e strumenti
CAPITOLO I - LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DI IMPRESA
E LA SUA APPLICAZIONE AL SISTEMA AGROALIMENTARE
1.1. Premessa
1.2. La responsabilità sociale di impresa tra definizioni e concetti
1.3. La promozione della responsabilità sociale di impresa da parte
delle organizzazioni internazionali
1.4. La relatività della responsabilità sociale di impresa
1.5. La responsabilità sociale d’impresa un’occasione per il sistema
agroalimentare italiano
1.6. Conclusioni
CAPITOLO II - PERCORSI DI RESPONSABILITÀ SOCIALE
PER LA FILIERA AGROALIMENTARE
2.1. Premessa
2.2. La filiera agroalimentare
2.3. Percorsi di responsabilità sociale per la filiera agroalimentare
2.4. Conclusioni
CAPITOLO III - GLI STRUMENTI DI RESPONSABILITÀ SOCIALE
PER LE IMPRESE AGRICOLE E AGROALIMENTARI
3.1. Premessa
3.2. Gli strumenti come leva di attuazione delle strategie socialmente responsabili
3.3. Conclusioni
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Parte seconda - La funzione sociale della responsabilità sociale
di impresa in agricoltura: tradizione, ambiente, territorio
e cooperazione
CAPITOLO IV - RESPONSABILITÀ SOCIALE DI IMPRESA
COME VALORIZZAZIONE DELLA TERRITORIALITÀ
E DELLA TRADIZIONE AGROALIMENTARE
4.1. Premessa
4.2. Le specificità del territorio come cultura della qualificazione
4.3. Conclusioni
CAPITOLO V - RESPONSABILITÀ SOCIALE DI IMPRESA,
AGRICOLTURA E AMBIENTE: IMPLICAZIONI E APPLICAZIONI
5.1. Premessa
5.2. Agricoltura e ambiente: disaccordi concettuali e differenze interpretative
5.3. L’interdipendenza nel rapporto agricoltura ambiente
5.4. Conclusioni
CAPITOLO VI - RESPONSABILITÀ SOCIALE DI IMPRESA
E COOPERAZIONE
6.1. Premessa
6.2. Mutualità VERSUS responsabilità sociale: i contenuti della responsabilità sociale cooperativa
6.3. La cooperazione nel sistema agroalimentare: i principali fattori
costitutivi dell’azione socialmente responsabile
6.4. Conclusioni
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Parte terza - Lavoro e agricoltura non profit
CAPITOLO VII - LAVORO E RESPONSABILITÀ SOCIALE
DELLE IMPRESE DEL COMPARTO AGROALIMENTARE
7.1. Premessa
7.2. La centralità della dimensione lavoro nell’azione di responsabilità sociale di impresa
7.3. Aspetti e strumenti dell’organizzazione del lavoro responsabile
7.4. Quale responsabilità possibile nel comparto agroalimentare?
7.5. Conclusioni
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CAPITOLO VIII - AGRICOLTURA NON PROFIT:
ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI E NORMATIVI
8.1. Premessa
8.2. Il quadro di riferimento
8.3. L’affermazione delle organizzazioni non profit in agricoltura
8.4. La funzione sociale delle strutture operanti nel settore agricolo
8.5. Conclusioni
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Parte quarta - Politiche pubbliche e private a sostegno
della responsabilità sociale di impresa nel sistema agricolo
e agroalimentare
CAPITOLO IX - LA STRATEGIA EUROPEA
PER LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DI IMPRESA:
RICONCILIARE L’AGENDA DI LISBONA
E LA POLITICA AGRICOLA COMUNE
9.1. Premessa
9.2. La responsabilità sociale di impresa come strumento per conciliare la strategia di Lisbona e la politica agricola comunitaria
9.3. Conclusioni
CAPITOLO X - LE POLITICHE NAZIONALI IN TEMA
DI RESPONSABILITÀ SOCIALE DI IMPRESA:
STRUMENTI E FINALITÀ
10.1. Premessa
10.2. Esperienze e iniziative a livello nazionale
10.3. Le Regioni italiane e le politiche per la responsabilità sociale
di impresa
10.4. Conclusioni
CAPITOLO XI - LA FINANZA PRIVATA
NEL SISTEMA AGRICOLO E AGROALIMENTARE
E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DI IMPRESA
11.1. Premessa
11.2. Il rapporto banca-impresa nel settore agricolo e agroalimentare
11.3. Gli strumenti finanziari nel mondo agricolo
11.4. La responsabilità sociale di impresa nel mondo bancario: una
duplice prospettiva
11.5. Basilea II e il mondo agricolo
11.6. Conclusioni
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Parte quinta - Gli sviluppi futuri della responsabilità sociale
di impresa in agricoltura e l’evoluzione del sistema
economico internazionale
CAPITOLO XII - RESPONSABILITÀ SOCIALE DI IMPRESA
E GLOBALIZZAZIONE: UN’OPPORTUNITÀ DA SFRUTTARE?
12.1. Premessa
12.2. La crescita della competizione e la globalizzazione
12.3. L’internazionalizzazione tra principi etici universali e culture
locali
12.4. Una globalizzazione responsabile e sostenibile
12.5. Conclusioni
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ACRONIMI
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BIBLIOGRAFIA
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Presentazione
Negli ultimi anni le questioni socio-ambientali sono diventate parte integrante degli obiettivi della politica agricola. La sempre crescente richiesta di
qualità, salubrità e genuinità dei prodotti alimentari, gli shock climatici ed energetici e le problematiche sociali e ambientali riconducibili al tema dello sviluppo sostenibile hanno contribuito ad accelerare questo processo.
Ci troviamo di fronte a un nuovo modello di sviluppo in cui la competitività
dell’impresa agricola deriva anche dal suo impegno a garantire adeguati livelli
di sostenibilità economica, sociale e ambientale nel contesto territoriale in cui
opera.
Ne consegue che il successo dell’agricoltura rispetto alle nuove attese della
società risiede nella capacità dell’impresa agricola di produrre alimenti sani e
genuini e concorrere allo stesso tempo alla protezione delle risorse naturali e
allo sviluppo equilibrato del territorio, creando occupazione e riservando maggiore attenzione alla qualità del lavoro.
Oggi, il consumatore è sempre più attento e orientato verso acquisti consapevoli e include nel concetto di qualità dei prodotti agroalimentari anche valori
quali la sostenibilità ambientale e sociale della produzione. L’agricoltura quindi
riserva grande attenzione a temi trasversali quali: sicurezza alimentare, tracciabilità delle produzioni, qualità dei prodotti, rispetto dell’ambiente e delle risorse
umane. Tali aspetti hanno contribuito a declinare il concetto di produzione in
una dimensione più ampia di filiera e di territorio, affiancata dalla promozione
e dalla rintracciabilità delle produzioni agroalimentari e da forme di comunicazione istituzionale volte a valorizzare e a dare riconoscibilità alla qualità dei prodotti agroalimentari italiani, a creare la consapevolezza dell’evoluzione dell’agricoltura tra tradizione e innovazione e a valorizzare il “made in Italy” quale
stile di vita e di consumo.
Questi elementi hanno trovato ampia collocazione nel presente volume che
sviluppa alcune tematiche proprie della responsabilità sociale nel settore con l’obiettivo di approfondire e illustrare il contenuto del concetto di responsabilità
sociale e di divulgare i risultati del lavoro INEA.
La volontà di analizzare e sviluppare il complesso di tematiche che ruota attorno al concetto di responsabilità sociale è alla base del lavoro che l’INEA sta
portando avanti con il progetto «Responsabilità sociale: implicazioni e applica-
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zioni per le imprese del settore agroalimentare», finalizzato all’approfondimento, alla promozione e all’applicazione dei temi e delle metodologie di responsabilità sociale.
L’Istituto, negli ultimi anni, partecipando al dibattito sulla responsabilità sociale di impresa, che costituisce un tema di interesse crescente da parte delle
aziende, del mondo associativo, delle istituzioni, dei consumatori e della società
civile, ha contribuito all’introduzione della RSI nel sistema agroalimentare.
Il presente volume, insieme alle “Linee guida” e ai “Casi studio”, rappresenta uno degli strumenti che l’INEA mette a disposizione delle imprese che intendono avviare e strutturare in modo organico un percorso di responsabilità sociale nella propria realtà aziendale. Alcune imprese agricole e agroalimentari
stanno manifestando, infatti, una crescente attenzione e disponibilità a considerare, nell’ambito delle proprie strategie e attività, anche pratiche di responsabilità sociale.
La responsabilità sociale però richiede un impegno continuo da parte di tutti
gli stakeholder al fine di contribuire allo sviluppo economico del settore e non
può tradursi semplicemente in uno standard di qualità da certificare. In tal senso,
l’auspicio dell’INEA è quello di contribuire con la sua attività a promuovere
una nuova forma mentis e un nuovo modo di fare impresa secondo un approccio integrato (triple bottom line) che tenga conto di aspetti economici, ambientali e sociali.
On. Lino Carlo Rava
Presidente INEA
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Introduzione
Può la responsabilità sociale di impresa applicarsi e svilupparsi all’interno
del mondo agricolo e dei settori in cui esso si declina? Oppure i due concetti
sono antitetici e inconciliabili? Oppure, al contrario, il primo trova già comprensione nel secondo e nella sua missione per così dire originaria, senza quindi
alcuna necessità di specifica implementazione? Esiste nel nostro Paese una adeguata elaborazione culturale di questi temi ed esperienze così consolidate da potersi considerare prodromiche alla definitiva affermazione degli obiettivi della
RSI?
Il presente volume cerca di fare chiarezza su questi interrogativi, partendo
però dalla constatazione che, sebbene l’argomento della RSI sia stato ampiamente trattato in letteratura, poco o niente è stato detto con riferimento al sistema agroalimentare. Eppure, il settore primario rappresenta un luogo privilegiato per favorire l’adozione di scelte e comportamenti con un fortissimo connotato sociale. Risulta immeditato citare le numerose esperienze imprenditoriali
che mostrano la fondatezza di questa affermazione: si pensi alla cooperazione
sociale in agricoltura per favorire l’inserimento di soggetti svantaggiati oppure
alle produzioni biologiche, ecc. Ma proprio questa “contiguità” tra agricoltura e
temi sociali mette in evidenza la centralità della figura dell’imprenditore che,
con la stessa facilità con cui può adottare scelte socialmente responsabili, rischia
di essere esclusivamente rivolto all’interesse aziendale, pur rimanendo in uno
stretto ambito di legittimità.
Proprio questa ultima riflessione mette in evidenza l’utilità di questo volume,
laddove si occupa di analizzare e proporre all’imprenditore agricolo gli strumenti più opportuni per sviluppare scelte strategiche e comportamenti operativi
in linea con una finalità sociale. Dunque è di tutta evidenza l’intrinseca rilevanza sociale del sistema agroalimentare, così come affermato nel testo, ma proprio questa condizione rappresenta insieme un’opportunità e un rischio da gestire.
Si pone a questo punto un ulteriore e più problematico quesito su quale sia
il vero obiettivo di un’impresa e, nello specifico, di un’impresa agricola, per capire se in questo trova cittadinanza stabile anche la responsabilità sociale. Superata oramai dalla letteratura e dalla pratica aziendale la massimizzazione del
profitto come finalità principale di un’impresa, si può concordare con chi so-
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stiene che lo scopo ultimo di un’iniziativa imprenditoriale sia la creazione di
valore, individuando però quest’ultima come una “grandezza vettoriale”, una
grandezza cioè costituita da più variabili tutte egualmente importanti: il mancato conseguimento anche di un solo sub-obiettivo rende inefficace l’intera vita
aziendale. Tra le variabili che formano il vettore “creazione di valore” c’è sicuramente la responsabilità sociale, che anzi negli ultimi anni ha assunto un’importanza sempre crescente.
Identificare la creazione di valore come il vero obiettivo aziendale consente,
da un lato, di riconoscere anche alla responsabilità sociale la dignità di finalità
imprenditoriale e, dall’altro, di eliminare in via definitiva la convinzione che introdurre scelte manageriali socialmente responsabili sia incompatibile con l’efficienza economica e con l’idea che l’impresa debba generare ricchezza per tutti
gli stakeholder.
Nello specifico, quindi, creare valore comporta anche l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate, così come l’Unione europea definisce la RSI nel suo Libro Verde del luglio 2001.
Non basta però perseguire un’adesione teorica agli obiettivi sociali: occorrono scelte strategiche consapevoli e atteggiamenti manageriali misurabili. In
quest’ottica, il testo costituisce nel suo complesso una sorta di manuale a disposizione dell’imprenditore nel momento in cui decide di adottare consapevolmente scelte aziendali coerenti con la RSI.
In particolare, nel testo si fornisce un’interessante e puntuale disamina degli
strumenti a disposizione delle imprese per realizzare le finalità sociali, facendo
le necessarie e opportune distinzioni in relazione alle diversità che caratterizzano gli ambiti in cui si articola il mondo agricolo.
Vengono individuate due categorie generali di strumenti per l’adozione e
l’implementazione di strategie di RSI: strumenti di gestione socialmente responsabili e strumenti per il consumo socialmente responsabile.
Il testo, insomma, delinea in modo chiaro il percorso per l’adozione di comportamenti socialmente responsabili: obiettivi e strategie, programmi e standard
di misurazione, analisi finale e bilancio.
Non va poi dimenticato come, alla stregua del rapporto impresa agricola e
territorio, anche l’adozione di scelte socialmente responsabili accentui l’enfasi
sulla territorialità e sulla qualità dei prodotti, favorendo quel radicamento nella
realtà locale ormai irrinunciabile per dialogare con il mercato, specie quello internazionale: è il ben noto paradosso della globalizzazione (globale-locale) che
se da un lato accresce l’importanza di marchi “spendibili” allo stesso modo in
ogni parte del mondo, dall’altro richiede, soprattutto per il sistema agroalimentare, di rintracciare nei prodotti la loro identità territoriale.
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In un’ottica di gestione socialmente responsabile, inoltre, viene analizzato il
rapporto tra impresa agricola e ambiente. Si tratta di un tema che appassiona da
anni gli studiosi e gli operatori del settore (si pensi ad esempio a tutti i dibattiti sulla multifunzionalità dell’impresa agricola), ma che in questo caso viene
affrontato analizzando le esternalità ambientali positive e negative derivanti
dalle innovazioni introdotte nei processi produttivi aziendali e le conseguenti
implicazioni sociali. È di tutta evidenza l’implicazione economica derivante da
scelte socialmente responsabili in termini di maggiori costi ma è altrettanto
chiaro che la RSI deve rappresentare una leva per accrescere la visibilità dell’impresa sul proprio mercato di sbocco.
Di grande interesse è l’approfondimento riservato alla cooperazione, come
modello privilegiato di impresa socialmente responsabile. Che la mutualità e la
solidarietà – che sono i princìpi fondanti della società cooperativa – favoriscano
un approccio sociale alla gestione è indiscutibile ma proprio nel settore agricolo, dove il modello cooperativo prevalente è quello della cooperativa di conferimento, esistono rischi notevoli di snaturamento delle scelte di gestione socialmente responsabile (quali la ricerca spasmodica di una crescita dimensionale
eccessiva con la conseguente perdita della natura mutualistica, oppure il perseguimento di posizioni oligopolistiche sul mercato che penalizzano i consumatori e i soci di piccole dimensioni), soprattutto nella tutela delle economie individuali dei singoli produttori conferenti, riconoscendo loro il giusto prezzo, e
nel rispetto delle qualità dei prodotti. Anche in questo caso le opportune indicazioni “manualistiche” provenienti dal testo indicano all’imprenditore, pur nella
forma collettiva della società cooperativa, il percorso più adatto per individuare
gli obiettivi aziendali compatibili con risultati socialmente responsabili: presidio degli equilibri naturali, difesa dell’identità e della vocazione produttiva del
territorio, animazione sociale, ricerca del carattere intergenerazionale della base
sociale, ecc.
Il modello cooperativo evoca immediatamente l’altro elemento centrale nella
RSI adeguatamente evidenziato nel testo: il lavoro, la sua qualità e i nuovi significati attribuitigli dal contesto sociale. Inutile qui richiamare le tante questioni
oggi sul tappeto rispetto alle profonde trasformazioni che stanno interessando
non sono in Italia, ma in tutto il mondo, il mercato del lavoro e le sue regole.
È certo però che mai come adesso, sia a livello di politiche attive del lavoro sia
a livello di singola impresa, occorre trovare un linguaggio comune, superando
se necessario anche il mero dettato legislativo e promuovendo idonei meccanismi di governance del mercato del lavoro. Le richieste dalla collettività sono
sempre più articolate: aumentare i livelli di occupazione, favorire gli investimenti in capitale umano, garantire un’adeguata remunerazione, facilitare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, realizzare una maggiore inclusione so-
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ciale, incentivare le innovazioni di processo, ecc. La RSI non può essere la panacea di tutti i mali né può avere effetti taumaturgici ma è altrettanto vero che
nell’adozione di strategie socialmente responsabili quelle problematiche vengono evidenziate e possono essere affrontate in modo sistematico.
Occorre un cambiamento culturale: non si può, infatti, pensare di affidare
tutte le soluzioni a norme e/o regolamenti, che per quanto evoluti, non potranno
mai identificare tutti i possibili comportamenti da evitare e quelli da incentivare.
È l’imprenditore che assume un ruolo determinante. È lui che va formato e aiutato a capire che la RSI è un vero e proprio investimento aziendale, consentendogli di misurarne i rendimenti economici diretti e indiretti.
Il volume che ho l’onore di introdurre va proprio in questa direzione, rafforzando la speranza che esistano le condizioni per un’affermazione definitiva di
pratiche imprenditoriali socialmente responsabili, se è vero, come è vero, che
anche i mercati finanziari, all’apparenza i più insensibili alle tematiche sociali
e nel contempo i più orientati al profitto, hanno ritenuto opportuno misurare le
aziende quotate anche sotto la dimensione sociale, attraverso opportuni indici
borsistici (come ad esempio il Dow Jones sociale della borsa di New York).
Si tratta di una scelta certamente adottata per ragioni di convenienza ma anche a seguito delle sollecitazioni provenienti dai risparmiatori e ciò dimostra che
sta emergendo e si sta affermando una sensibilità nuova sui temi della responsabilità sociale di impresa.
Prof. Alberto Manelli
Direttore Generale INEA
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PARTE PRIMA
LA
RESPONSABILITÀ SOCIALE DI IMPRESA
NEL SETTORE AGRICOLO E AGROALIMENTARE:
PERCORSI E STRUMENTI
CAPITOLO I
LA RESPONSABILITÀ
SOCIALE DI IMPRESA
E LA SUA APPLICAZIONE AL SISTEMA AGROALIMENTARE
1.1. Premessa
In Italia il settore agroalimentare incide in misura rilevante sulla formazione
del Prodotto Interno Lordo. È un settore con numeri importanti, caratterizzato
da aziende di dimensioni e caratteristiche diverse ma che operano a stretto contatto con i problemi ambientali, etici, di sostenibilità e di interrelazione con i
cittadini e con i consumatori.
Una delle caratteristiche del sistema agroalimentare italiano, che si è andata
affermando con evidenza negli ultimi decenni, è la sua complessità. Essa deriva
innanzitutto dal forte processo di integrazione che si è sviluppato fra le diverse
componenti del sistema, dall’agricoltura, all’industria di trasformazione alimentare, alla grande distribuzione, fino ai nuovi rapporti con il consumo finale e la
sicurezza alimentare, ma anche dall’affermarsi di collegamenti sempre più stretti
con gli altri Paesi, in particolare quelli europei, con un aumento notevole degli
scambi di beni agricoli e alimentari, che hanno reso la realtà italiana sempre più
aperta verso l’esterno.
Si tratta di argomenti che offrono l’occasione per introdurre un tema inevitabile in questo contesto economico e sociale: quello della Responsabilità Sociale di Impresa (RSI) o Corporate Social Responsibility (CSR), come viene definita a livello internazionale.
Responsabilità sociale di impresa è un termine entrato ormai nel vocabolario di tutti (imprese, cittadini, politici, sindacati, media, associazioni, enti pubblici e non profit) ma forse non è ancora nel “bagaglio culturale” di molti.
L’obiettivo del presente contributo è quello di introdurlo e di gettare le basi
per l’applicazione di tale concetto alle aziende e agli operatori del sistema agroalimentare, poiché tale settore presenta problematiche di primo piano sia a livello
ambientale sia sul piano sociale.
Emergenze verificatesi nel settore dell’agroalimentare, i cosiddetti shock alimentari della “mucca pazza” o dei “polli alla diossina”, come pure questioni di
scottante attualità, quali l’utilizzo di prodotti OGM o gli aumenti indiscriminati
dei prezzi di vari generi agricoli, sono immediatamente divenuti dei problemi
sociali rilevanti.
Visti dunque gli impatti che tale settore può avere sul benessere di produt-
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tori e consumatori e in considerazione della crescente richiesta di trasparenza in
relazione alle caratteristiche dei prodotti e dei processi produttivi, quasi “a garanzia” della loro qualità e genuinità, una riflessione organica e approfondita
sulla responsabilità sociale del sistema agroalimentare diviene di primaria importanza.
1.2. La responsabilità sociale di impresa tra definizioni e concetti
Recentemente uno studioso norvegese ha censito circa quaranta definizioni
di responsabilità sociale d’impresa1. La moltitudine di definizioni esistenti evidenzia certo l’attualità del tema ma sottende anche l’esistenza di concezioni e
interpretazioni diverse. Queste diversità vanno colte, comprese, dominate. Si
dice che gli eschimesi abbiano oltre venti espressioni diverse per definire la
neve, a seconda della sua consistenza e del livello di aggregazione2. Nel contesto ambientale, culturale e sociale degli eschimesi è di fondamentale importanza
definire in modo preciso e differenziato un fenomeno – la neve appunto – che
in altre culture è indifferenziato e uniforme. La ragione è che se due eschimesi
non si intendono sulla diversa consistenza della neve – che debbono attraversare o con la quale debbono costruire un riparo – ne va della loro vita.
Fortunatamente nel nostro caso la questione non è così drammatica, ma certamente se non ci si intende sul significato della RSI si rischia di non comprenderne la portata, sottostimandone o sovrastimandone le potenzialità e le possibilità applicative.
Particolarmente utile si può rivelare un’analisi sintetica e ragionata dei principali contributi proposti sul tema dagli studiosi e dalle istituzioni che più hanno
dedicato energie e risorse all’approfondimento del concetto della RSI.
Nel corso degli ultimi cinquanta anni la definizione di RSI ha subito numerosi adattamenti e rivisitazioni. Il punto di arrivo di tale evoluzione è la definizione di responsabilità sociale di impresa formulata dalla Commissione europea
nell’ormai celebre Libro Verde: «L’integrazione volontaria delle preoccupazioni
sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro
rapporti con le parti interessate» (Commissione europea, 2001a).
Tale definizione riassume, in maniera sintetica e semplice, molti dei contenuti che nel tempo si sono stratificati in letteratura.
Alla fine dell’Ottocento, nella letteratura di matrice anglosassone, si sviluppò
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Sul punto cfr. Hinna, 2005.
La citazione è tratta dal romanzo di Peter Høeg, Il senso di Smilla per la neve, 1992.
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un intenso dibattito sul tema della RSI. Inizialmente questa è sovrapposta al concetto di filantropia e, infatti, numerosi sono gli studi che affrontano la questione
dell’influenza delle istanze religiose sull’attività imprenditoriale3. Tali formulazioni trovano una più corposa articolazione in H. Bowen che nel 1953, definisce la RSI come «Industry’s obligation to pursue those policies, to make those
decisions, or to follow those lines of actions which are desirable in terms of
objectives and values of society» (Bowen, 1953).
Nel pensiero di Bowen si rispecchia un filone di studi e di prassi che interpreta la RSI come la responsabilità degli imprenditori di servire la società in
modo proattivo. Esempi concreti di tale approccio imprenditoriale sono rinvenibili nell’esperienza di Arthur Page, il vice presidente dell’American Telecommunications Company AT&T, il quale già nel 1927 sosteneva che tutte le attività economiche nascono per mezzo di autorizzazioni pubbliche e si sviluppano
grazie all’approvazione dell’opinione pubblica.
Nello stesso periodo Oliver Sheldon, manager di un’azienda inglese produttrice di cioccolato (Rowntree & Company) scrive diversi volumi (tra cui il più
noto The Philosophy of Management del 1923), in cui pone l’accento sulla necessità di adottare alcuni principi fondamentali nella direzione d’impresa tra cui
il “benessere della comunità” (community well-being) e gli ideali della giustizia sociale: «The social responsibility of management is to carve out the path
of cooperation in service, so that the economic service of the community may
produce not only material wealth but spiritual well-being» (Sheldon, 1923).
Questi pensieri vengono ripresi solo più tardi, nel 1979, da A. Carroll, che
propone un modello di RSI basato su quattro categorie di responsabilità sociale:
– economica, relativa alla produzione e vendita di beni e servizi, richiesti dalla
società, in cambio di un profitto;
– legale, riferita all’obbligo di adempiere non solo a un tacito contratto sociale
ma a un contratto formale con la società, ossia rispettare le leggi e le regole
previste dallo Stato;
– etica, quale soddisfacimento delle aspettative economiche della società, in
termini valoriali, al di là dei requisiti base di legge;
– discrezionale, quale elargizione, adempimento ulteriore che va oltre le aspettative della società e i requisiti previsti.
Il modello prendeva in considerazione alcuni degli effetti sociali (ad esempio, il consumismo, l’ambiente, le discriminazioni, la sicurezza dei prodotti, la
sicurezza del lavoro) e, a seconda di come venivano declinati rispetto alle quat3
Si ricorda a tal proposito Andrew Carnegie con la sua opera The Gospel of Wealth, dove si focalizza l’attenzione sulla figura dell’imprenditore, il cosiddetto businessman, che deve considerarsi depositario e garante degli interessi della comunità
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tro categorie, si valutava la responsabilità sociale in modo reazionario, difensivo, accomodante o proattivo.
Un altro approccio molto importante è quello che si ricollega alla formulazione della c.d. teoria degli stakeholder. Teorizzata da E. Freeman nella sua
opera del 19844, tale teoria, piuttosto che ipotizzare livelli diversi e piramidali
di responsabilità, individua un’unica responsabilità verso l’insieme degli
stakeholder, identificati come qualsiasi gruppo o individuo che può influenzare
o essere influenzato dagli obiettivi di un’impresa. Secondo questo orientamento
teorico l’impresa non ha dei doveri soltanto nei confronti degli azionisti ma
verso tutti gli interlocutori con cui, direttamente o indirettamente, si trova a interagire. Usando le parole dello stesso Freeman «ciascun gruppo di stakeholder
ha diritto a non essere trattato come mezzo orientato a qualche fine ma deve
partecipare alla determinazione dell’indirizzo futuro dell’impresa» (Evan, Freeman, 1988, p. 101). Da questa affermazione emerge una più ampia estensione
di responsabilità sociale, in quanto non più limitata agli azionisti e quindi alla
sola idea di “aumentare i profitti”, ma orientata a tutelare i diritti di tutti gli
stakeholder, riconoscendo una responsabilità verso la comunità tutta. La società,
apportando le risorse necessarie all’attività d’impresa, ha diritto a ricevere i benefici di questa attività e a partecipare alla determinazione dell’indirizzo futuro
dell’impresa stessa. Da ciò discende che «l’autentico fine dell’impresa è quello
di operare come veicolo per coordinare gli interessi degli stakeholder» (Ibid.).
Al management è allora attribuita un’attività di bilanciamento di tutti gli interessi in gioco: «il management è portatore di una relazione fiduciaria che lo lega
tanto agli stakeholder quanto all’impresa come entità astratta. Esso è tenuto ad
agire nell’interesse degli stakeholder come se fosse un loro agente e deve agire
nell’interesse dell’azienda per garantire la sua sopravvivenza, salvaguardando le
quote di lungo periodo per ciascun gruppo» (Ibidem).
Finora sono stati esaminati i lavori di coloro che hanno contribuito a rendere
più articolato il concetto di RSI. In Milton Friedman si può ritrovare, invece,
l’opposizione più tenace a questa visione “allargata” della responsabilità d’impresa. Per Friedman l’unica responsabilità dell’impresa è quella di creare profitto per i suoi azionisti e per l’impresa stessa, nel rispetto delle regole del gioco.
Per Friedman, l’impresa, in modo onesto, legale ed etico, deve raggiungere il
suo obiettivo, ovvero massimizzare il profitto. Secondo questo autore, l’altruismo auspicato da Bowen rientra semmai nelle responsabilità del governo, del
sistema sociale di welfare e dei singoli individui ma non costituisce parte integrante del finalismo dell’impresa.
4
20
Freeman, 1984.
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Tra queste visioni in antitesi oggi si tende a privilegiare una posizione intermedia che colloca la responsabilità sociale di impresa a livello strategico. La
RSI è una lungimirante strategia di impresa che, facendo leva su una corretta
relazione con gli stakeholder, consente di creare valore nel medio-lungo periodo
a favore della molteplicità di stakeholder che intrattengono relazioni fiduciarie
con l’impresa stessa.
Dalle definizioni riportate e dalle considerazioni proposte emerge che la RSI
è strettamente connessa ad alcuni concetti distinti:
– la sostenibilità, poiché le imprese nello svolgimento delle loro attività devono tenere conto dello sviluppo sostenibile e quindi delle ripercussioni non
solo economiche ma anche sociali e ambientali, in una visione sempre meno
provinciale e sempre più planetaria;
– la volontarietà, che attiene alla scelta operata dall’impresa di comportarsi responsabilmente verso la società, senza rischiare tuttavia di cadere nell’autoreferenzialità. La RSI è infatti volontaria ma per essere credibile ed efficace
deve essere misurata e valutata. La valutazione delle prestazioni di RSI aiuta
le imprese a migliorare le procedure e i comportamenti poiché facilita una
misurazione efficace e credibile del loro “rendimento” a livello sociale e ambientale;
– la consapevolezza dell’azienda circa i riflessi che la sua gestione provoca nel
contesto economico e sociale. Corporate Social Responsibility o CSR, viene
tradotta in italiano Responsabilità Sociale dell’Impresa. Sarebbe forse più opportuno interpretarla come “sensibilità” o “consapevolezza” sociale dell’impresa, in quanto la parola responsabilità assume in italiano immediatamente
una valenza negativa, con accezione giuridica – essere responsabile di qualche cosa – mentre il termine consapevolezza offre più l’idea di un’opzione
etica e di una presa di coscienza.
Tuttavia, al di là delle disquisizioni sui concetti e sulle parole, essere responsabili socialmente è diventata una necessità per quelle imprese che non vogliono correre il rischio di essere escluse dal mercato per una caduta di consenso da parte dell’opinione pubblica5. Questo rischio è vecchio quanto sono
vecchie le imprese ma la novità qui consiste in un fattore nuovo di esclusione:
non è il prezzo, non è la concorrenza, non è la qualità del prodotto ma è la “qualità dell’impresa stessa”. Elemento questo sempre più difficile da percepire in
un mercato finanziario e in una economia sempre più globalizzata e caratterizzata da fenomeni di delocalizzazione della produzione6.
5
6
Cfr. Campiglio, 2004.
Cfr. Margiocco, 2005 e Bhagwati, 2005 in «Il Sole 24 Ore», 19 gennaio, p. 9.
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La responsabilità sociale delle imprese e la reputazione ad essa collegata
erano facilmente percepibili quando il mercato non era ancora “mondiale” ma
oggi la visibilità della responsabilità si perde e la reputazione si frantuma.
Da qui la necessità di declinare e rendicontare tale responsabilità per ricompattare il consenso della società e del mercato in cui l’azienda opera.
1.3. La promozione della responsabilità sociale di impresa da parte
delle organizzazioni internazionali
La RSI si colloca nello spazio etico delle imprese e quindi nello spazio che
non è regolato da norme precise e stringenti. Tuttavia governi e istituzioni sovranazionali si sono più volte interessati al tema della responsabilità sociale dell’impresa emanando documenti per discussione, inviti e raccomandazioni, proponendo una visione della RSI dall’orbita istituzionale.
Gli interventi governativi o sovranazionali sopraggiungono dopo che il tema
RSI è divenuto in qualche misura dominio prima del dibattito sociale e poi della
politica.
La Commissione europea, ad esempio, assumendo il ruolo di mediatore in
una discussione che da molti anni veniva portata avanti in Europa, ha definito
in modo più chiaro e strategico il ruolo della RSI. Essa, recuperando precedenti
filoni di pensiero, ha presentato la responsabilità sociale delle imprese come uno
strumento strategico, da utilizzare nella relazione con gli stakeholder a tutti i
“livelli”, poiché ha una diretta ricaduta sui profitti aziendali.
In altre parole, orientarsi alla responsabilità sociale consente alle imprese di
meglio raggiungere gli obiettivi aziendali e incrementare i profitti: una relazione
forte con gli stakeholder di riferimento non è solo importante per realizzare una
società più giusta e uno sviluppo economico conciliabili con i problemi della
tutela ambientale e dei diritti umani, ma conviene anche alle stesse aziende.
Come accennato, l’intervento dell’Unione europea giunge dopo una serie di
iniziative sovranazionali che avevano a più riprese toccato il tema della responsabilità sociale.
Il primo evento importante si registra nel 1992, quando a Rio De Janeiro, si
apre un Summit globale durante il quale vengono affrontati i problemi ambientali
del pianeta e i loro legami con i problemi dello sviluppo sociale ed economico. A
conclusione si giunse all’approvazione della dichiarazione di Rio per migliorare gli
standard di vita di tutti e per consentire uno sviluppo sostenibile del pianeta.
Nel 1993 il Presidente della Commissione europea, Jacques Delors, invita le
imprese europee a partecipare alla lotta contro l’esclusione sociale, e, nel 1995,
si giunge alla firma del “Manifesto delle imprese contro l’esclusione sociale”,
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documento che segna una svolta importante del dibattito intorno alla responsabilità sociale, in quanto evidenzia tra i principi fondamentali della cittadinanza
europea il valore della solidarietà e il rispetto dei diritti umani.
Dal 1994 al 1999 il Parlamento europeo raggiunge notevoli risultati in materia di responsabilità sociale: dalla trasparenza delle delocalizzazioni e delle ristrutturazioni all’introduzione di clausole sociali negli accordi internazionali; dai
diritti umani nel mondo al commercio equo e solidale.
Contemporaneamente, dal 1998 al 2000, si lavora per giungere alla dichiarazione dell’ILO sui principi e diritti fondamentali del lavoro, mentre le Nazioni
Unite si assumono il compito, con un’iniziativa volontaria, definita Global
Compact, di fornire un quadro generale entro il quale muoversi per promuovere
la crescita sostenibile e il senso di cittadinanza per le imprese.
La svolta più significativa nell’evoluzione dell’impegno sulla responsabilità
sociale di impresa si ha però nel 2000, con il Consiglio europeo di Lisbona, durante il quale viene definito l’obiettivo strategico dell’Unione europea per il
2010: «divenire l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del
mondo, capace di una crescita economica sostenibile accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da una maggiore coesione sociale». È ovvio che tale ambizioso obiettivo non può essere raggiunto
senza fare appello al senso di responsabilità sociale delle imprese affinché collaborino al raggiungimento di questo obiettivo.
Si tiene nello stesso anno il Consiglio europeo di Nizza per sollecitare la
Commissione a integrare le imprese in una partnership che includa parti sociali,
ONG, autorità locali e organismi che gestiscono servizi sociali, in modo da
rafforzare la responsabilità sociale.
La OECD (Organization for Economic Cooperation and Development), sempre nel 2000, elabora le linee guida dirette alle multinazionali, che contengono
i principali capisaldi della RSI e che coinvolgono le parti sociali e i governi nazionali con l’obiettivo di operare in armonia con le politiche e le aspettative sociali e ambientali.
Nel 2001 si tiene il Consiglio europeo di Göteborg, durante il quale viene
illustrata la Comunicazione della Commissione sullo sviluppo sostenibile e viene
rimarcata l’importanza che le imprese integrino gli aspetti ambientali e sociali
nelle loro attività.
Nel 2001 la Commissione europea pubblica il più volte citato Libro Verde,
una sorta di “milestone” della RSI per “promuovere un quadro europeo per la
responsabilità sociale delle imprese”, documento attraverso cui si intende stimolare la riflessione sul tema e lanciare la consultazione a livello europeo sul
concetto di responsabilità sociale affinché diventi uno degli elementi fondamentali della cultura imprenditoriale.
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Fa seguito, l’anno successivo, la pubblicazione, da parte della Commissione,
della Comunicazione «Responsabilità sociale: un contributo delle imprese allo
sviluppo sostenibile», contenente la sintesi della consultazione in merito al Libro Verde sulla RSI e i principi proposti per un’azione comunitaria nel campo
della responsabilità sociale; viene inoltre istituito il Multi-stakeholder Forum al
fine di promuovere la trasparenza e la convergenza delle prassi e degli strumenti
socialmente responsabili.
Nel 2002 durante il Forum di Parigi, la Banca Mondiale prende posizione a
favore dell’Agenda 21 e del Global Compact, sostenendo che tutte le aziende
devono perseguire quattro obiettivi:
– economico (non in perdita);
– ambientale (minimizzando effetti negativi);
– sociale (rispetto standard lavoro e impatto sulla comunità in cui si inserisce);
– trasparenza di gestione.
Sempre nel 2002 a Johannesburg ha luogo il Summit mondiale sullo sviluppo
sostenibile per fare il punto sul raggiungimento degli obiettivi in agenda definiti alla Conferenza di Rio e per attivare nuove iniziative attraverso una serie
di misure volte a ridurre la povertà e a proteggere l’ambiente.
Tutte queste azioni hanno notevolmente contribuito a diffondere la conoscenza e la sensibilità sul tema. Tuttavia man mano che la RSI è divenuta un
tema globalmente noto, si è posta l’esigenza di tradurne i principi in termini
realmente applicabili a realtà imprenditoriali che possono essere notevolmente
diverse per dimensione (piccole o grandi imprese) per ambito di azione (locale
o globale) per comparto di attività (agricolo o industriale), ecc.
1.4. La relatività della responsabilità sociale di impresa
La RSI si coniuga in maniera differente a seconda che sia riferita a imprese
grandi o piccole e medie. Nelle prime, che hanno la possibilità di mettere in
campo direttamente risorse specifiche e competenze avanzate, la RSI può quasi
naturalmente collocarsi al livello di orientamento strategico di fondo ed essere
interpretata come un “investimento” che consente all’azienda la salvaguardia e
il miglioramento della performance economica nel medio lungo periodo tramite
una migliore interazione con le parti interessate. Nel caso delle piccole e medie
imprese, a fronte della minore disponibilità di risorse finanziarie e umane si riscontra un più immediato contatto con gli stakeholder. Ne consegue che, soprattutto per queste realtà, la RSI non può prescindere dalla realizzazione di un
percorso integrato con le altre realtà dello stesso segmento produttivo o con
quelle a monte e a valle della catena del valore, nonché da un raccordo con le
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azioni di promozione delle istituzioni e il supporto della comunità locale. È a
questo livello che si genera il cosiddetto “capitale sociale” e che si alimenta il
rapporto fiduciario impresa-stakeholder, elementi basilari nella moderna economia. La dimensione aziendale quindi, non è un fattore limitante della RSI, ma
piuttosto un punto di forza dato dal forte legame e radicamento sul territorio e
con le comunità locali reso possibile proprio dalle piccole dimensioni delle imprese che, se si collocano in un logica di sistema, possono addirittura trovarsi
in una posizione di “vantaggio” rispetto alle grandi realtà per intraprendere un
percorso di responsabilità sociale.
Inoltre, la responsabilità sociale si coniuga in maniera diversa a seconda delle
peculiarità del settore di riferimento. Il sistema agroalimentare da sempre riveste un ruolo centrale per la collettività, rispondendo a fabbisogni primari dell’individuo e, quindi, assolvendo a una funzione essenziale nella vita di ciascuno. Se, da un lato, la liberalizzazione dei mercati internazionali e la diffusione capillare della tecnologia dell’informazione hanno reso possibile una maggiore circolazione delle informazioni e delle merci, ampliando in modo esponenziale la possibilità di scelta dei consumatori, dall’altro, hanno comportato la
crescita della interdipendenza tra mercati difficilmente controllabili, con conseguenti riflessi sulla qualità e sicurezza degli alimenti.
1.5. La responsabilità sociale d’impresa un’occasione per il sistema
agroalimentare italiano
I problemi sanitari legati all’alimentazione hanno determinato un mutamento
nel rapporto tra consumatore e sistema agroalimentare. Eventi congiunturali
come la BSE e la febbre aviaria hanno prodotto negli anni significative crisi di
fiducia nei consumatori, con l’effetto di accrescere l’attenzione dell’opinione
pubblica verso le politiche agricole. In particolare, il consumatore ha sviluppato
una sempre maggiore sensibilità non solo verso tematiche come la sicurezza alimentare, l’ambiente, il benessere animale e la biodiversità ma anche verso i valori etici del consumo e il rispetto dei diritti umani e dei lavoratori.
Per le imprese agricole e agroalimentari la responsabilità sociale rappresenta
quasi una “vocazione naturale” perché esse assolvono ormai, più o meno consapevolmente, a funzioni di salvaguardia e presidio del territorio, dell’ambiente,
delle tradizioni locali, ecc. Il sistema agroalimentare è oggi, infatti, una sintesi
di più funzioni: accanto alla tradizionale funzione economico-produttiva, sempre determinante, si pongono ulteriori funzioni di valenza territoriale e ambientale che caratterizzano il settore e il quadro delle relazioni che ad esso fanno
capo.
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Il sistema agroalimentare è oggi un motore dello sviluppo economico e sociale, oltre che uno strumento di salvaguardia e valorizzazione ambientale essendo chiamato a dare risposte ad alcune grandi questioni: gli spazi rurali, il bisogno di sicurezza alimentare, la qualità dei prodotti, la sostenibilità ambientale
e la valorizzazione del territorio.
Il mercato dei prodotti agricoli e agroalimentari è ormai globale e il fenomeno dell’importazione di prodotti ottenuti con norme e regole assai diverse
dalle nostre è molto frequente. Infatti, non è difficile trovare nei mercati, accanto ai prodotti italiani, quelli prodotti in altri Paesi senza che si conoscano i
sistemi di conservazione, i criteri di produzione, la sicurezza sul lavoro, il rispetto dell’ambiente, ecc. Se è vero che la produzione agricola italiana è in concorrenza con quella estera, un orientamento alla responsabilità sociale delle nostre imprese, e, soprattutto, la comunicazione ai consumatori e all’opinione pubblica dei principi etici assunti nella gestione e nella produzione può diventare
un elemento di qualificazione e distinzione dagli altri attori del mercato che operano con standard etici inadeguati.
Il sistema agroalimentare può dunque giocare una carta importante proprio
evidenziando il “come produce”, dal momento che l’acquisto di un prodotto alimentare è legato a valori quali la salute, l’ambiente, la tradizione, la cultura, il
benessere e la qualità. In sintesi è legato alla fiducia.
Esempi in altri comparti non mancano. Ci sono dati nazionali e internazionali che dimostrano come le aziende che si sono orientate alla RSI registrano performance aziendali migliori delle altre imprese, e questo anche in
cicli di congiuntura negativa, confermando il fatto che la RSI è un elemento
positivo della gestione, una “strategia di ascolto del mercato” che consente di
anticipare la gestione delle criticità legate a situazioni di crisi e a contraccolpi
dei mercati.
Indagini di mercato, inoltre, hanno dimostrato che i consumatori sono disposti a pagare, a parità di qualità, fino al 30% in più se quel prodotto garantisce anche altri valori (rispetto dell’ambiente, sicurezza e condizioni di lavoro,
diritti umani, campagne di solidarietà sociale, ecc). Ciò implica che quando si
compra un prodotto con esso si comprano anche i valori che ne sono alla base.
L’acquisto diventa un atteggiamento politico oltre che un negozio giuridico ed
economico: un voto alle imprese. Se il sistema agroalimentare coglie a pieno
questo aspetto non potrà che avvantaggiarsene.
La strategia di ascolto costringe le aziende a fare i conti con il consenso della
gente, un elemento intangibile della gestione, un elemento che, come direbbe
Einstein, “conta, ma non si conta”. Gli strumenti della RSI permettono all’azienda di “gestire” questa fiducia e inserirla a pieno titolo tra le attività intangibili che danno valore all’impresa.
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1.6. Conclusioni
Un suggerimento che si può proporre all’operatore del settore agroalimentare è di fare molta attenzione al rispetto delle norme, soprattutto in tema di lavoro e ambiente. È noto che il fenomeno del lavoro nero in agricoltura è molto
diffuso e in certe regioni più che in altre. Stessa cosa dicasi per pesticidi e concimi. Ebbene, il primo sforzo da compiere è quello di porsi dentro le norme,
nell’alveo della legge e solo dopo cercare eventualmente lo spazio etico della
responsabilità sociale. Rispettare le leggi, condivise o meno, non è un comportamento etico nei confronti dell’opinione pubblica, è semplicemente un dovere
e un obbligo nei confronti dello Stato di cui si fa parte.
Gli strumenti utilizzabili, come si vedrà, sono diversi, ma ciò che conta non
è il numero, ciascun operatore adotterà quelli che ritiene più opportuni in funzione della propria storia, dimensione, tipologia di produzione, posizionamento
del mercato, ecc. Ciò che è importante è che gli strumenti che adotta siano tra
loro coordinati e messi a sistema e non solo a sommatoria.
L’integrazione è importante. È quella che fa la differenza tra sommatoria e
sistema, tra musica e rumore: in una orchestra sinfonica quando i professori di
conservatorio con grande esperienza suonano una partitura eccezionale con strumenti fantastici ottengono risultati diversi a seconda che ciascuno suoni per proprio conto o a tempo con gli altri.
A volte è meglio e più facile fare poco, ma in maniera armoniosa, che fare
tanto e in maniera scoordinata: nel contesto della RSI quindi conviene utilizzare
bene pochi strumenti piuttosto che tanti male. Questo è il suggerimento che si
propone.
Non c’è scritto da nessuna parte che si debba fare per forza tutto e subito,
fortunatamente non c’è un obbligo di legge. Tutto dipende dagli orologi di maturazione interna delle imprese e dalle spinte esterne dei mercati. E queste non
sono mai uguali.
L’altra considerazione riguarda le filiere: tutti i soggetti delle filiere sono
stakeholder rispetto all’impresa e ciascun soggetto è stakeholder dell’altro. Ciò
implica che, anche se con ritardo, il settore agricolo una volta orientatosi alla
RSI può registrare un’accelerazione violenta che premia certamente le avanguardie ma che rischia di spazzare via dal mercato chi invece ritiene che la RSI
sia un fenomeno di moda.
Da tutto questo si intuisce come l’orientamento alla responsabilità sociale sia
un’idea, una tendenza, un’intenzione, un atto di libertà affidato alla sensibilità
e alle esigenze dell’azienda, che si colloca nello spazio etico del non esigibile
per norma. L’orientamento alla responsabilità sociale, pertanto, è un percorso libero, originale, esclusivo ed è lo stile di direzione dei vertici che deve declinare
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la maturità e sensibilità della gente che opera in azienda con le aspettative della
società civile intesa come mercato e opinione pubblica.
Non esistono processi di orientamento migliori di altri, ma solo risultati diversi raggiungibili attraverso percorsi diversi. La responsabilità sociale non è
quella che l’azienda ritiene di adottare ma è quella che l’opinione pubblica riconosce.
Dalla sommatoria dei comportamenti delle imprese e degli individui dipende
la qualità del mondo dove i nostri figli e nipoti vivranno ma la qualità di quel
mondo dipende anche dal livello di indifferenza o di attenzione di tutti gli
stakeholder, tutti noi, gente senza volto che “vota” con i portafogli. Stakeholder, “una nuova potenza mondiale” come li ha definiti un noto opinionista americano, gente che è disponibile ad aggregarsi su un valore e un tema con la velocità e l’irruenza di un fiume in piena ma che può cambiare idea con la velocità di un cavallo quando scarta un ostacolo, “disarcionando” imprese, prodotti
e intermediari culturali.
Stakeholder siamo tutti, individui e aziende, anche senza sapere “di chi”.
Tutti, anche senza averne coscienza, teniamo in una mano un’arma potente che
usiamo ancora poco, l’infamia e il dissenso, e offriamo invece con l’altra la perla
delle perle: la fiducia.
Anche le imprese sono stakeholder, di altre imprese e di individui e tutti insieme siamo stakeholder di sistemi, comunità, nazioni e Stati.
Il potere degli stakeholder, però, è potenziale; per diventare reale necessita
di due detonatori: il livello culturale della gente e il sistema di informazione,
dove il secondo influenza anche il primo. La vera democrazia, infatti, consiste
nell’offrire alla gente gli strumenti culturali perché ciascuno possa scegliere in
autonomia e libertà. In questa ottica, il livello culturale di un Paese, inteso come
sensibilità e reattività, diventa il vero indicatore della democrazia economica.
Al di là dei modelli giuridici, delle convinzioni religiose, delle idee politiche,
dei livelli economici e delle conoscenze di ciascuno di noi, è necessario che tutti
insieme ci riconosciamo, ci aggreghiamo e ci attiviamo intorno a un valore
nuovo: “essere responsabile socialmente e pretendere che anche gli altri lo siano”.
La responsabilità sociale di impresa è nel “dna culturale” delle aziende agricole. L’etica fa parte della sua tradizione e la dimostrazione è semplice: la parola stakeholder ha origine nella cultura contadina scozzese. Il suo significato letterale è “proprietario del paletto” che segna il confine del campo. Tenere in considerazione gli interessi dello stakeholder significa tenere conto degli interessi del
contadino confinante. Nel proprio terreno si ha diritto a fare ciò che si vuole, ma
c’è sempre un vicino che, ai confini delle nostre azioni, è portatore di semplici
interessi e che può essere tutelato solo dai nostri comportamenti. In cambio offre consenso, quello che serve per vivere in armonia nella stessa comunità.
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CAPITOLO II
PERCORSI DI
RESPONSABILITÀ SOCIALE
PER LA FILIERA AGROALIMENTARE*
2.1. Premessa
Le relazioni esistenti tra le imprese agricole e quelle alimentari risultano ben
visibili in un processo di integrazione verticale noto in letteratura con il termine
di filiera.
Negli anni, numerosi studi sono stati rivolti al sistema agroalimentare e con
la nozione di filiera si definisce la successione di stadi sequenzialmente ravvicinati, da un punto di vista tecnico e tecnologico, necessari per trasformare la
materia prima in prodotto finito, pronto per essere acquistato dal consumatore
finale. Lungo il percorso di filiera i prodotti agroalimentari, quindi, subiscono
le trasformazioni fisiche, i trattamenti e i condizionamenti necessari per essere
preparati alla vendita finale. Nella filiera si è in presenza di relazioni strutturate
e le fasi che la caratterizzano sono: la produzione, la trasformazione e la distribuzione. Gli attori coinvolti nel processo di filiera (produttori agricoli, intermediari, grossisti, industrie alimentari, dettaglianti, ecc.) sono molteplici e sono
chiamati ad affrontare le sfide del mercato globale e i nuovi bisogni dei consumatori che vogliono riscoprire prodotti autentici e genuini. La figura che segue
rappresenta la nozione di filiera e i legami intersettoriali esistenti al suo interno.
È chiaro che il sistema agroalimentare è inserito in un contesto economico
molto mutevole e complesso, in cui aspetti come la struttura dei mercati, l’internazionalizzazione, l’aumento dei prezzi delle materie prime scaturita dalla
crisi energetica e la concorrenza da parte di Paesi emergenti rendono difficile la
definizione di aspetti di dettaglio caratterizzanti il sistema stesso. Al contempo,
Figura 1 - Le fasi identificative della filiera produttiva
*
Il lavoro è frutto dell’impegno comune di L. Briamonte, M.A. D’Oronzio e di R. Pergamo. Tuttavia, le
singole parti vanno così attribuite: Maria Assunta D’Oronzio, paragrafi 2.1 e 2.4; Raffaella Pergamo, paragrafo 2.2; Lucia Briamonte, paragrafo 2.3.
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però, l’adattabilità del sistema agroalimentare allo scenario di riferimento suggerisce di analizzare le interdipendenze esistenti tra i vari aspetti, integrandole
in un processo logico di filiera che evidenzi la vitalità delle modalità organizzative, l’identità dei soggetti e la natura dei processi. In questo contesto dinamico e mutevole il sistema agricolo ha finito col perdere la sua specificità rispetto al resto della filiera e si è inserito nell’ambito di complessi agroalimentari integrati (Iacoponi, 1994). I legami con la trasformazione e la commercializzazione sono diventati via via più stretti e le singole strategie aziendali sono
state rielaborate e orientate in una logica di integrazione interaziendale, in senso
verticale e orizzontale e, in taluni casi sono sorte forme organizzative particolari in ambiti territoriali ben delimitati. Elevati livelli di efficienza e competitività, ottenuti grazie alla presenza di prodotti tipici e di qualità di beni, hanno
caratterizzato alcune di queste realtà territoriali. Studi e rilievi empirici hanno
evidenziato una realtà agroalimentare locale sempre più articolata e complessa
caratterizzata non solo da elementi di natura materiale ma anche relazionale1
(Storper, 1997).
In linea generale, nonostante tali mutamenti, l’anello debole del sistema rimane l’agricoltura, che nel confronto con la trasformazione agroalimentare e con
la distribuzione, non governa appieno le relazioni, non controlla i meccanismi
organizzativi anche se, allo stesso tempo, solo l’appartenenza al territorio e la
tipicità delle produzioni conferma alla fase agricola quel ruolo primario strategico nei confronti degli altri operatori economici. Nell’ultimo periodo, l’applicazione della riforma della PAC rende più vulnerabile il ruolo dell’imprenditorialità agricola, concedendo aiuti non riferiti alla produzione e contribuendo a
determinare il conseguente abbandono delle superfici coltivate che inficia ulteriormente il sistema dell’integrazione verticale. La trasformazione alimentare si
caratterizza per le dimensioni medio-piccole, definite di “nanismo strutturale”
(Banca d’Italia, 2007) che però concentrano discreti volumi di capitale. In questo segmento si colgono tuttavia elementi di debolezza legati soprattutto alle
condizioni infrastrutturali e alla logistica anche se vi è una capacità generalizzata di penetrazione di nuovi mercati e un approccio alle relazioni di tipo manageriale. L’industria alimentare, nel complesso, si è modificata a seguito dei
processi di specializzazione produttiva e di concentrazione territoriale nonché
per le evoluzioni intercorse nei rapporti contrattuali tra gli operatori. Alla luce
di questo percorso, è sempre più efficace evidenziare le peculiarità di un prodotto in relazione alla sua provenienza, ai meccanismi e alle regole della filiera
1
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Nella produzione si inseriscono numerose relazioni: accordi tra imprese e partner, tra imprese e pubbliche istituzioni, etc.
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di appartenenza piuttosto che al sistema nel suo complesso, poiché le analisi aggregate spesso non restituiscono quegli elementi chiarificatori sulle tendenze in
atto e le motivazioni che vi sottendono. Allo stesso modo, il territorio che ospita
i sistemi locali di imprese garantisce a questi ultimi un vantaggio competitivo
per quelle particolari variabili ambientali – le economi esterne – che consentono
una riduzione dei costi di produzione e il miglioramento qualitativo dei prodotti
offerti. La distribuzione, infine, è quella fase della filiera che ha avuto i maggiori mutamenti sia per l’evoluzione degli stili di vita sia per le nuove esigenze
manifestate dalle imprese di trasformazione: i soggetti concentrati in questo
segmento sono eterogenei per dimensione e per localizzazione, passando dagli
esercizi al dettaglio, fisso e ambulante presenti soprattutto nei piccoli centri, agli
intermediari commerciali e alla distribuzione organizzata diffusi nei centri urbanizzati. Dagli inizi degli anni ottanta è stato posto l’accento, in maniera sempre più forte sul ruolo che svolge il consumatore nel processo di organizzazione
dell’offerta. Partendo da tale assunto è inevitabile rivedere gli accordi, a monte
e a valle, dell’impresa di produzione. Infatti, un prodotto alimentare per giungere al consumatore finale segue un percorso che coinvolge un concatenamento
di stadi e in ognuno di questi il prodotto subisce una trasformazione e/o viene
aggiunto allo stesso un servizio.
Profonde modifiche hanno interessato il sistema agroalimentare, e il sistema
economico nel suo complesso, e i percorsi strategici che possono essere adottati dai singoli imprenditori per affrontare questo nuovo contesto produttivo devono tenere conto dei fattori chiave, strettamente interrelati fra loro, interni all’azienda (prodotto e risorse umane) ed esterni (territorio ed ambiente). In questo ambito la RSI costituisce “la strategia di differenziazione” capace di far diventare l’impresa unica nel proprio settore con particolari caratteristiche riconosciute e richieste dal consumatore (prodotti ottenuti con modalità rispettose
dell’ambiente e delle risorse umane).
2.2. La filiera agroalimentare
Nel presente capitolo si analizzano le principali caratteristiche dei comparti
produttivi agricoli italiani al fine di individuare i possibili percorsi di RSI.
2.2.1. Il comparto zootecnico e lattiero-caseario
Il settore della zootecnia da carne ha mostrato evidenti segnali di cambiamento poiché si è manifestata una progressiva diminuzione degli allevamenti
bovini e un aumento di aziende dedite all’allevamento di capi bufalini con un
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consistente incremento del numero stesso dei capi, soprattutto nelle regioni centro-meridionali (Pergamo, 2005).
Il comparto suino presenta, negli ultimi anni, una certa contrazione nel numero di aziende dedicate. L’allevamento dei suini pesanti, destinati alla produzione di prosciutti, è concentrato soprattutto al Nord della penisola ed è organizzato da aziende che detengono un elevato numero di capi. Nel comparto sono
presenti molte produzioni tipiche a marchio territoriale (19 DOP e 7 IGP) che
danno luogo a circa 180mila tonnellate di carne così come si stanno diffondendo
molti prodotti senza marchio nelle stesse aree di produzione certificata.
Nell’ambito dell’industria agroalimentare nazionale, la macellazione e lavorazione delle carni è un comparto di indiscussa prevalenza economica e in cui,
un segmento di sicuro rilievo è costituito dalla macellazione delle carni. L’industria di macellazione è riuscita, nell’ultimo decennio, a sfruttare pienamente
le sue capacità produttive, sottoponendosi a un processo di razionalizzazione
delle attività e di riorganizzazione strutturale, che ha avuto come risultato una
crescita complessiva del volume prodotto e una riallocazione territoriale dell’offerta da Nord a Sud.
Da un’analisi sintetica delle principali problematiche rinvenibili nel comparto
carni bufaline e bovine, emerge che nel segmento della macellazione e lavorazione delle carni, la diminuzione della consistenza del patrimonio bovino farà
verificare, nel breve periodo, una minore disponibilità di capi da macello e una
conseguente eliminazione dal mercato di imprese di trasformazione. Queste ultime hanno anche risentito dello squilibrio esistente nelle condizioni contrattuali
con il comparto grande distribuzione, poiché, fino all’entrata in vigore nel 2002
del decreto legislativo che ha fissato i termini di pagamento nelle transazioni
commerciali, tali operatori non potevano riferirsi ad alcun termine legale entro
cui riscuotere i pagamenti, con degli innumerevoli ritardi da parte degli acquirenti che hanno aggravato notevolmente una non proprio rosea situazione di
cassa.
Per quanto riguarda le carni suine, si ha una localizzazione delle strutture di
macellazione nelle regioni a maggiore vocazione suinicola e quelle più grandi
sono in stretta connessione con le strutture di lavorazione mentre è quasi inesistente l’integrazione dell’industria di macellazione con la fase agricola; nel
comparto, in generale, si riscontrano criticità sia per la valutazione del prezzo
sia per l’omogeneità delle forniture.
La produzione di carne risulta, inoltre, condizionata dall’applicazione e dalle
evoluzioni della normativa in materia di igiene e benessere degli animali nonché da quella avente ad oggetto la sicurezza alimentare; si profilano, inoltre, altri adempimenti da eseguire con l’applicazione delle direttive sulla rintracciabilità ed etichettatura. Il regolamento (CE) n. 1760/00, infatti, ha istituito per i
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capi bovini un sistema di identificazione e di registrazione nonché l’adozione di
un sistema di etichettatura delle carni e dei prodotti a base di carne, per i quali
i rivenditori al dettaglio e la GDO hanno inserito in ogni etichetta da apporre
sul singolo pezzo di carne venduta informazioni relative al numero di identificazione del singolo capo, al numero di approvazione del macello presso cui è
stata effettuata la macellazione e al numero di approvazione del laboratorio dove
è stata sezionata la carcassa. Dal 2002, inoltre, obbligatoriamente le stesse etichette sono state implementate con informazioni riguardanti lo Stato di nascita
del capo, lo Stato in cui è avvenuto l’ingrasso e lo Stato in cui è avvenuta la
macellazione.
Il sistema distributivo nazionale dei prodotti alimentari ha subìto una forte
evoluzione negli ultimi anni con la creazione di grandi strutture di vendita e la
concentrazione delle imprese per realizzare massa critica nei confronti dei grandi
operatori stranieri. D’altra parte, la presenza di forme distributive diverse, dall’ipermercato al discount, dalle superette ai supermercati oltre a rappresentare
un tangibile rinnovamento dei formati distributivi che rispondono meglio alle
esigenze di qualità dei consumatori, ha comportato dei crescenti investimenti
volti a fidelizzare la clientela mediante l’adozione di marchi e la distribuzione
di prodotti tipici e biologici nonché con una mirata presentazione di prodotti autoctoni nelle diverse sedi distributive.
Il prodotto carne in Italia non è, però, pienamente interessato da questa innovazione del sistema distributivo. Esso, infatti, è rimasto più legato, rispetto
ad altri prodotti alimentari, al negozio specializzato e, quindi, nonostante la politica accorta svolta dalla GDO che ha inserito al suo interno degli specialisti
del banco di vendita, e in taluni casi, ha istituito delle vere e proprie botteghe
della carne in cui il consumatore viene informato sui tagli e sulle preparazioni
come se fosse dal macellaio di fiducia, sussiste ancora oggi un radicamento delle
abitudini di acquisto che assimilano il prodotto carne alla macelleria tradizionale.
Il comparto lattiero-caseario è suddiviso in tre sub-comparti: latte bovino,
bufalino e ovicaprino. La filiera lattiero-casearia di latte bovino e ovicaprino
presenta numerosi elementi di omogeneità: in essa prevalgono le piccole
aziende, mentre i grandi allevatori sono sempre meno numerosi; l’attività di trasformazione è condotta senza marchio o a marchio proprio mentre pochi operatori presentano un “private label”. Le aziende di maggiori dimensioni hanno
prospettive di mercato legate al prodotto di qualità, alla tutela del “made in
Italy” e all’apertura di nuovi canali. I piccoli trasformatori, invece, non perseguono alcuna strategia di differenziazione laddove i disciplinari di produzione
impongono dei vincoli abbastanza limitanti. Il prodotto trasformato di latte bovino e ovicaprino è venduto prevalentemente tramite grossisti e grande distri-
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buzione mentre solo un 10% della produzione è richiesta dal dettaglio tradizionale. Poco significative sono le quote veicolate tramite produttori e ristorazione.
La filiera da latte bufalino presenta una localizzazione geografica limitata
alle regioni centro- meridionali anche se negli ultimi anni la domanda di mozzarella al Nord ha indotto una conseguente diffusione di allevamenti bufalini anche in queste zone. Gli allevamenti si presentano consistenti con una produzione
annuale media elevata e di buona qualità anche se a partire dal 2005, la redditività degli stessi risulta in calo rispetto al quinquennio precedente e ciò fa presagire una battuta di arresto del latte conferito ai trasformatori. Anche il segmento della trasformazione è concentrato territorialmente con una rete commerciale moderna che ha consentito la diffusione del prodotto nei circuiti della
grande distribuzione e, in alcuni casi, fuori dai confini nazionali.
Nel comparto lattiero-caseario si è riscontrata una discreta sensibilità all’uso
delle certificazioni di qualità e all’adesione alle denominazioni di origine mentre non sono numerosi i riscontri di marchi collettivi o l’adesione alla produzione con metodo biologico. Il livello di conoscenza sui sistemi di certificazione
è medio-alto anche se il maggior numero di aziende non prevede l’adesione per
la mancanza di vantaggi diretti, per l’onerosità dei costi e per la presenza di vincoli produttivi come nel caso del biologico. La scelta di certificarsi o di aderire
alla DOP deriva spesso dalla necessità di eliminare le barriere poste da alcuni
mercati, per ottenere il riconoscimento da parte dei clienti e per acquisire un
maggiore potere contrattuale nei confronti dei compratori (ISMEA, 2006).
2.2.2. Il comparto ortofrutticolo
L’attività ortofrutticola è articolata per subcomparti e di conseguenza riassume al suo interno mini-filiere differenziate sia per la numerosità di soggetti
coinvolti sia per le prospettive di integrazione e di sviluppo esistenti. Nel segmento della produzione le aziende si presentano piccolissime, a carattere familiare e altamente specializzate per cui si presume che nel prossimo futuro si consoliderà la posizione di chi potrà confrontarsi con il mercato ed essere competitivo.
Per i prodotti orticoli freschi sfusi la destinazione geografica prevalente è
quella regionale mentre, con le operazioni di condizionamento, i legumi e gli
ortaggi in coltura protetta arrivano sui mercati nazionali.
La vendita del prodotto orticolo fresco avviene al Nord, prevalentemente tramite organismi associativi, tuttavia è consistente anche il flusso di prodotto che
si avvia alla vendita diretta. Il prodotto condizionato, invece, è venduto sia tramite intermediari commerciali sia tramite grande distribuzione. Nel comparto
frutta, il prodotto è venduto prevalentemente fresco e solo pochi operatori ne
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effettuano il condizionamento. La frutta fresca è destinata in grande maggioranza al mercato locale mentre il prodotto condizionato è commercializzato su
mercati nazionali ed esteri.
Nella fase della trasformazione si assiste a una continua crescita dei prodotti
con alto contenuto di servizio come quelli della IV e V gamma2 così come nella
distribuzione gioca un ruolo fondamentale l’attenzione dei consumatori a prodotti con elevati standard qualitativi, ottenuti con tecniche che salvaguardano
l’ambiente e contenenti tracce di riconoscibilità delle tradizioni locali.
L’orientamento degli operatori ortofrutticoli nei confronti delle certificazioni
è favorevole ai sistemi di gestione della qualità, in particolar modo per il comparto pomodoro, per le aziende di trasformazione di ortive e per le produzioni
biologiche che sono preferite dai consumatori e dalla grande distribuzione; non
si coglie, invece, interesse per l’adesione a marchi collettivi e alle denominazioni di origine. La disponibilità di risorse naturali legate a un territorio e non
replicabili in altri contesti non è una strategia molto perseguita dagli stessi operatori locali, o meglio varia a seconda del contesto geografico di riferimento, in
particolare, l’adesione alle DOP è più frequente al Nord Italia mentre per le IGP
si riscontra una maggiore diffusione per i vantaggi concreti riscontrati nella fase
di commercializzazione.
2.2.3. Il comparto vitivinicolo
Il comparto vitivinicolo italiano ha riportato negli ultimi trenta anni prima
una notevole espansione per poi subire una decisa contrazione delle superfici
dedicate: la produzione italiana mantiene, nonostante questa diminuzione, una
posizione di rilievo, occupando il secondo posto al mondo come produttore di
vino e il terzo per superficie vitata (FAO 2007). La coltivazione di vigneti è diffusa soprattutto nel Centro Sud: la Puglia è la prima regione produttiva italiana
seguita dalla Sicilia, dal Veneto, dalla Toscana, dall’Emilia Romagna e dal Piemonte.
Nel contesto produttivo italiano, l’attività vitivinicola ha un’importanza non
solo di tipo economico ma anche ambientale perché con i molteplici sistemi di
allevamento tende a delineare le tipicità del paesaggio, qualità particolarmente
apprezzata dalle popolazioni locali (IDDA et alii, 2007). Allo stesso modo, la
sicurezza alimentare dei vini tutelati o garantiti è maggiormente conveniente per
gli operatori perché è questo il comparto produttivo italiano in cui si riporta un
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I prodotti di IV gamma sono quegli ortaggi e/o frutta che dopo una prima cernita, sono lavati, tagliati,
sbucciati, asciugati e confezionati in buste mentre quelli di V gamma sono quei prodotti ortofrutticoli che
dopo la pulitura sono sottoposti a pastorizzazione e/o sterilizzazione e confezionamento.
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discreto vantaggio competitivo nonostante l’onerosità e il rigore dei protocolli
di garanzia igienico-sanitaria.
Alla tipicità di alcune produzioni vitivinicole si associano idealmente il capitale sociale e il patrimonio di valori delle comunità rurali come pure la risorsa
lavoro, fortemente impiegata e valorizzata nelle operazioni propedeutiche all’ottenimento del prodotto vino. Non si può non evidenziare, infine, che alcune
peculiarità dell’attività vitivinicola, come la creazione di cantine, hanno, nel
tempo, determinato delle leve competitive locali sia in termini di reddito sia di
occupazione: le “Strade del vino”, ad esempio, rappresentano veri e propri momenti di aggregazione e di attrazione turistica sul territorio.
2.2.4. Il comparto olivicolo
L’attività olivicola riassume esperienze produttive molto differenziate a seconda che si tratti di attività tradizionali perpetuate da generazioni o di nuovi
impianti di tipo intensivo.
In generale l’attività della filiera è condizionata dai risultati economici assicurati nel tempo dalla coltura dell’olivo. In questo comparto ci sono aziende che
integrano completamente la fase di coltivazione e di produzione giungendo alla
commercializzazione dell’olio sfuso senza passare per i canali della distribuzione; allo stesso modo si riscontra l’esistenza di cooperative di produzione che
hanno una visione unitaria della valorizzazione del prodotto e, quindi, del territorio di appartenenza perseguendo una politica di tipo collettivo che rende visibile il prodotto anche su mercati non strettamente locali.
Nel processo di produzione dell’olio assume una notevole importanza la lavorazione in conto terzi, con i frantoi che acquistano le olive da molire da un
numero elevato di fornitori prevalentemente locali. I principali canali di sbocco
dell’olio prodotto dai frantoi sono gli intermediari e gli imbottigliatori mentre
solo una piccola percentuale è destinata alla vendita diretta. Una grande difficoltà incontrata dalle aziende del comparto è quella della presenza di prodotti
oleari importati nel circuito della grande distribuzione che spiazza l’offerta di
prodotto nazionale da parte degli operatori più rispettosi delle regole dei disciplinari3 di produzione.
La diffusione del prodotto di punta della gamma, l’extravergine, in alcuni
casi anche biologico, è stratificata per area geografica ed è localizzata prevalentemente in Sicilia, Calabria e Basilicata, dove si rileva anche il maggior numero di aziende che aderiscono al biologico, (Platania, Printera, 2008). L’olio
3
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Tecniche produttive da adottare per effettuare la difesa fitosanitaria nel rispetto delle norme.
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extravergine d’oliva è l’unico prodotto tra quelli ottenuti con metodo bio, riconosciuto abitualmente dai consumatori e, per l’elevato numero di certificazioni,
rientra pieno titolo nella preparazione di alcune ricette tradizionali e nel regime
alimentare della dieta mediterranea.
2.2.5. Il comparto tabacco
Il comparto tabacchicolo è una realtà produttiva importante non tanto per le
quantità di prodotto ma soprattutto per il suo radicamento sul territorio e per i
suoi spiccati caratteri regionali. Negli ultimi anni, con l’avvio della riforma
OCM Tabacco, si è avuto un drastico ridimensionamento delle aziende di produzione che nel corso del 2006 si sono ridotte del 51% circa (Sardone, 2008).
Una contrazione più modesta, solo il 17%, ha interessato le superfici dedicate
anche se in alcune regioni, come il Veneto, vi è stata addirittura una crescita degli ettari coltivati nonostante la diminuzione delle aziende.
La produzione di tabacco nel 2006 ha visto una spiccata predilezione per la
varietà Bright che viene prodotta prevalentemente in Umbria e Veneto, seguita
dal Burley, presente in Veneto, Toscana e Campania e da qualche nicchia di
Kentucky, soprattutto in Toscana. Il segmento della trasformazione si presenta
complesso per la presenza di una molteplicità di attori, come le cooperative di
trasformazione, i consorzi e poche, grandi aziende che operano quasi in regime
di monopolio.
Una considerazione immediata sulle condizioni della filiera tabacchicola suggerisce interventi di miglioramento nell’organizzazione, ridimensionando le intermediazioni che hanno occupato sempre più spazi a discapito degli operatori,
aumentando l’efficienza e determinando un incremento di prezzo da corrispondere al produttore. La preannunciata crisi che riguarda il settore trae origine dalla
fine del contributo pubblico alla produzione e da una sostanziale mancanza di
strategie; diventano determinanti, quindi, una maggiore qualità del prodotto, la
riduzione dei costi di gestione e la meccanizzazione del processo produttivo. In
questa direzione va l’adozione del disciplinare da parte dei produttori di Virginia Bright in Umbria in cui si ritrovano riferimenti non solo alle modalità di ottenimento del tabacco ma anche ad aspetti sociali come la tutela dei lavoratori
e l’accrescimento delle competenze professionali.
2.2.6. Il comparto legno
La produzione di materia legnosa a livello nazionale risulta poco significativa. Il fatturato del comparto legno, però, è in crescita e garantisce sia il numero di imprese sia di addetti specializzati (INEA, 2006). Una parte consistente
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della produzione legnosa italiana è costituita da combustibili: ciocchi, cippati e
pellet; per il cippato ed il pellet la vendita avviene a volume o a peso e senza
alcuna specifica sul contenuto idrico, per cui l’acquisto a minor prezzo non determina un minor costo dell’energia prodotta. In altre parole, il prezzo del volume di legna dovrebbe equivalere al suo valore energetico per cui sono preferibili forme contrattuali che definiscono il prezzo del legno in base al peso e al
potenziale calorifico.
Il pellet4 è un prodotto che presenta caratteristiche chimiche e fisiche di elevata qualità. Producibile a livello di aziende agricole e di organismi consortili,
può derivare da diverse essenze legnose e sottoprodotti agricoli.
Il cippato5 è un combustibile derivante direttamente dai tagli di legna: la sua
produzione viene da azioni di diradamento e manutenzione dei boschi, dall’esbosco di conifere di prima generazione, dal taglio dei boschi cedui accessibili,
dalla raccolta di materiale di scarto. L’offerta di cippato è presente sul mercato
a opera di tre principali categorie di operatori: a) autoconsumatori industriali, b)
autoconsumatori agricoli-forestali c) produttori commerciali, locali, nazionali e
internazionali.
Il fattore che condiziona l’utilizzo di questi prodotti e l’andamento della filiera legno in generale è l’ampia varietà di fonti di materia prima e di approvvigionamento, perché oltre la risorsa forestale si utilizza cippato da scarti di origine agricola, interventi di taglio lungo l’alveo dei fiumi o potature di piante in
ambiente urbano. La variabilità dei costi di produzione deriva dalle condizioni
di accessibilità e di produttività di un cantiere forestale. È necessario considerare, inoltre, che dalla produzione di legno derivano importanti benefici, come
la prevenzione antincendio e l’equilibrio idrogeologico del territorio.
La filiera legno racchiude, dunque, elementi di multifunzionalità non solo
per i flussi di reddito e i servizi ma anche per la manutenzione del territorio,
per il miglioramento della stabilità dei versanti, della prevenzione degli incendi
e per la salvaguardia della biodiversità.
2.3. Percorsi di responsabilità sociale per la filiera agroalimentare
Come già detto, il sistema agroalimentare italiano è estremamente eterogeneo ed è caratterizzato da diverse tipologie produttive e da imprese che presentano differenti classi dimensionali (micro, piccola, media e grande) e diversi
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Cilindretto di diametro inferiore ai 25 mm.
Costituito da piccole scaglie di legno lunghe dai 5 ai 50 mm.
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gradi di concentrazione (cooperative, consorzi, associazioni, ecc.) nonché da una
pluralità di ambiti di intervento (aree protette, aree urbane e periurbane, aree rurali, aree a forte specializzazione, distretti produttivi, ecc.).
Negli ultimi anni, il processo di creazione del valore si è spostato sempre
più a valle della filiera e la distribuzione ha finito col diventare elemento determinante nel sistema agroalimentare. La liberalizzazione dei mercati, il bisogno/aspettativa del consumatore di “valori aggiunti” al prodotto alimentare,
quali la sicurezza e la salubrità, la sostenibilità ambientale, il benessere animale,
la tipicità, l’eticità delle produzioni, il bisogno di informazioni sulla provenienza
e la trasparenza dei prezzi, pongono non solo la singola azienda ma tutto il sistema agroalimentare di fronte alla necessità di rafforzare la propria competitività e la propria immagine sui mercati nazionali e internazionali. L’insieme di
questi elementi richiede l’introduzione e la promozione della “qualità” delle produzioni e dei rapporti tra le singole imprese e, ove necessario, tra le singole
componenti del sistema stesso integrando e creando reti di imprese. Il percorso
di RSI che le imprese possono compiere è influenzato dal grado di condivisione
e di coinvolgimento di obiettivi comuni nelle diverse fasi della filiera di appartenenza (dalla produzione ai servizi annessi alla distribuzione) o di altre filiere
attraverso la costruzione di una rete di rapporti.
La rintracciabilità del prodotto all’interno di una specifica filiera è il presupposto essenziale per un’efficiente gestione della produzione e per la risoluzione di eventuali problemi di sicurezza alimentare. La rintracciabilità è un
aspetto chiave dal punto di vista legislativo e delle norme volontarie per la sicurezza agroalimentare adottate dalle aziende. In base al regolamento (CE) n.
178/2002, le imprese del settore agroalimentare devono rendere visibile la propria filiera e trasparente ogni passaggio della produzione e della distribuzione,
fornire informazioni precise sulle origini delle materie prime, sui luoghi di lavorazione e sulle tecniche utilizzate. In tal modo si è in grado di documentare
la storia del prodotto e le responsabilità coinvolte, di identificare e registrare i
flussi materiali e le organizzazioni che fanno parte della filiera produttiva6. Per
quanto riguarda la certificazione di filiera occorre quindi individuare il campo
di applicazione, il sistema di registrazione della rintracciabilità e l’organizzazione.
Determinante nel percorso di RSI, all’interno della stessa filiera produttiva,
è la cooperazione fra le imprese: l’adesione alle Organizzazioni di Produttori ai
contratti di filiera o alla certificazione di rintracciabilità consente di accrescere
6
La filiera agroalimentare deve individuare tutte le attività e i flussi (comprese le organizzazioni) che hanno
rilevanza critica per le caratteristiche del prodotto.
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il valore del territorio e del prodotto. L’iscrizione alle Organizzazioni di Produttori indica l’orientamento degli imprenditori a fare rete inserendosi, con diverse modalità e forme, all’interno di una comunità professionale che condivide
valori e obiettivi.
La condivisione di un obiettivo comune consente alla singola azienda di beneficiare di un vantaggio economico grazie all’attività degli altri attori partecipanti alla filiera. Accrescendo i meccanismi di cooperazione tra le imprese, improntando l’attività d’impresa a logiche fiduciarie e di trasparenza, migliorando
i rapporti tra fornitori e intermediari e innalzando, infine, il livello di responsabilizzazione dei singoli produttori si contribuisce a innalzare i livelli di qualità
e di sicurezza dei prodotti agroalimentari.
Ai fini del percorso della RSI nella filiera agroalimentare strategici sono gli
elementi “lavoro” e “ambiente”. La maggior parte delle persone che prestano lavoro in agricoltura sono conduttori di aziende agricole e loro familiari (il coniuge
del conduttore); minima è la presenza del lavoro salariato. Secondo le stime più
recenti dell’ISTAT il lavoro non regolare7 è aumentato e il 55% è rappresentato
da irregolari residenti. L’impiego di lavoro sommerso risulta presente in quei
comparti produttivi dove i margini di profitto sono ridotti e la professionalità richiesta è meno qualificata e/o discontinua8. È da oltre un decennio che l’agricoltura italiana ricorre alla manodopera extracomunitaria impiegandola in prevalenza nell’attività di raccolta delle colture arboree e ortive, nelle attività zootecniche e florovivaistiche. Recentemente, nell’agricoltura italiana si registrano segnali di cambiamento all’interno delle aziende agricole, a monte e a valle della
filiera. Molte riservano specifica attenzione ai propri lavoratori e alle loro condizioni lavorative e in alcuni territori si realizzano opportune politiche di inserimento che migliorano la situazione lavorativa, tra cui gli sportelli di orientamento, gli accordi interistituzionali, gli incentivi all’acquisto della casa, ecc.
Il peggioramento delle condizioni ambientali per la collettività e l’abbassamento del livello della qualità della vita delle popolazioni locali spingono a richiedere la conservazione delle condizioni paesaggistico-ambientali e l’utilizzo
di tecnologie sempre meno inquinanti. L’attuale situazione è percepita anche dagli stessi agricoltori che sono sempre più disponibili ad adottare metodi di coltivazione più attenti alla salvaguardia delle risorse naturali, anche se produrre
esternalità positive comporta un aumento dei costi aziendali. Il mercato nazionale e internazionale da un lato, che esprime sempre più una domanda orientata
alla sicurezza alimentare e ambientale e la disponibilità di tecnologie meno in-
7
8
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Attività lavorativa svolta senza il rispetto completo della normativa fiscale e previdenziale.
Per un dettaglio sull’argomento si veda l’Annuario dell’Agricoltura Italiana, INEA 2006.
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quinanti dall’altro, favoriscono il processo di adeguamento del comparto agricolo allo sviluppo sostenibile. L’applicazione della politica agroambientale
(PAA) potrebbe consentire al settore agricolo di esprimere al meglio tutte le sue
potenzialità attraverso la produzione di beni alimentari e servizi che aumentano
le risorse naturali a disposizione della collettività. L’adozione volontaria, da
parte degli imprenditori agricoli, di sistemi di certificazioni ambientale o marchi ambientali è in forte crescita e costituisce una prima risposta dell’agricoltura alle richieste del mercato
Lungo il percorso di RSI di filiera si possono individuare diversi comportamenti: dalla assenza totale di responsabilità fino ad arrivare ad incidere sulla
governance aziendale. In linea del tutto generale il percorso di RSI lungo la filiera produttiva si articola in quattro alternative: consolidamento, progressione
orizzontale, progressione verticale e progressione diagonale o mista.
Una prima progressione orizzontale può essere realizzata dall’impresa attraverso l’adozione di nuovi strumenti di RSI e in questo percorso è facilitata dalla
presenza di incentivi. Un’ulteriore progressione orizzontale si può compiere investendo sulla RSI a prescindere dalla presenza o meno di incentivi specifici e
riconoscendo la crescente sensibilità dei consumatori verso la sicurezza alimentare e la qualità. L’impresa agricola può scegliere di selezionare sementi di qua-
Figura 2 - I possibili percorsi di RSI
AZIONI
CARATTERISTICHE
1. Consolidamento
- l’impresa “sfrutta” al massimo le potenzialità
delle azioni e degli strumenti di RSI già attivati;
2. Progressione orizzontale
- l’impresa cresce in responsabilità sociale e
adotta progressivamente azioni, comportamenti
e strumenti sempre più articolati e formalizzati;
3. Progressione verticale
- l’impresa cresce in responsabilità sociale facendo “rete” con altre imprese presenti sul territorio;
4. Progressione diagonale o mista
- l’impresa cresce in responsabilità sociale adottando congiuntamente logiche di “rete” e comportamenti socialmente responsabili.
Fonte: Linee guida “Promuovere la responsabilità sociale delle imprese agricole e agroalimentari”, INEA
2007
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lità superiore o adottare tecniche agronomiche più avanzate oppure di rivedere
le proprie pratiche di selezione delle materie prime aumentando i requisiti igienico-sanitari o di qualità richiesti ai propri fornitori. In questo caso si è di fronte
a buone pratiche ancora non formalizzate, ma che testimoniano comunque una
presa di coscienza sul tema della RSI. Lungo tale percorso l’impresa può scegliere di adottare strumenti orientati alla RSI via via sempre più raffinati, effettuando un’ulteriore progressione orizzontale.
L’impresa agricola e agroalimentare può scegliere, su una o più aree di interesse degli stakeholder, di adottare comportamenti volontari non incentivati e
sviluppare azioni legate al prodotto, di accrescere il livello di qualità (certificazioni di prodotto volontarie) oppure di migliorare il proprio impatto ambientale
attraverso certificazioni ambientali volontarie. Allo stesso modo, l’impresa può
operare su più livelli e aderire a due o più certificazioni non incentivate o partecipare a marchi d’area. Ma può anche scegliere di dotarsi di strumenti di governo orientati alla RSI (codice etico o carta dei valori) che spieghino in modo
chiaro il set valoriale a cui l’impresa e i suoi dipendenti devono ispirarsi.
In generale, il management aziendale può cercare di coinvolgere in modo attivo e strutturato i propri stakeholder, dando loro la possibilità di esprimere le
proprie esigenze e proponendo, in un secondo, tempo la realizzazione di progetti comuni. Nell’affrontare il percorso di RSI ciascuna impresa può scegliere
di allargare il proprio raggio di azione attraverso l’adozione degli “strumenti di
sistema”, azioni che le consentano di superare i propri limiti dimensionali attraverso la costruzione di una rete con altre imprese operanti nel sistema agroalimentare. L’impresa può, inoltre, iniziare a stabilire rapporti strutturati con altre imprese del sistema agroalimentare, aderire a iniziative di consorzi volti alla
tutela della qualità e delle tradizioni locali oppure adottare un marchio d’area o
ancora sviluppare accordi con le Università e i centri di ricerca finalizzati all’attivazione di progetti di ricerca e sperimentazione.
Di seguito si riportano degli esempi specifici di percorsi di RSI nei comparti
ortofrutta, carne, latte, vino-olio, cerealicolo e foresta-legno, tratti dai Casi studio “Le esperienze italiane sulla responsabilità sociale nel settore agricolo e
agroalimentare”.
Per le caratteristiche dei comparti produttivi e le specificità aziendali i percorsi di responsabilità sociale adottati dall’imprenditore, anche se simili fra di
loro, scaturiscono da motivazioni diverse e mirano al raggiungimento di obiettivi e di posizionamento all’interno del mercato di riferimento differenti fra loro.
In generale, anche se alcune esperienze sono ancora solitarie nel proprio contesto di riferimento produttivo e non sempre si riesce a trovare il giusto dialogo
con tutti gli stakeholder, in Italia si registrano solide realtà strutturate nell’intero sistema territoriale che adottano buoni comportamenti di RSI che interes-
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MELOGRANO, è
leader nella trasformazione e nel confezionamento di ortofrutta pronta all’uso.
Il successo risiede
nell’elevata qualità
della materia prima,
nella sicurezza alimentare garantita,
nella bontà del prodotto finale unita al
risparmio di tempo
per il consumatore.
Il Melograno è certificata SA8000: l’azienda riserva particolare attenzione ai
suoi lavoratori ed
alle loro condizioni
di lavoro.
FILIERA
ORTOFRUTTA
FRATELLI VERONI
ha da sempre orientato
la propria attività d’impresa alla ricerca della
qualità elevata del prodotto coniugata al pieno rispetto della tradizione salumiera Il processo di RSI si basa sul
rafforzamento del rapporto con i propri
stakeholder, clientela e
dipendenti.
Ai consumatori sono
offerti prodotti sempre
più sicuri (genuinità,
salubrità, senza OGM,
lattosio e allergeni).
I lavoratori dipendenti
sono coinvolti nel processo di miglioramento
continuo dell’azienda attraverso la formazione e
l’incentivazione economica.
FILIERA CARNE
GRANAROLO detiene la leadership nel mercato italiano del
latte fresco e di prodotti biologici a marchio industriale. Grazie all’adozione di un modello
di business improntato alla RSI,
all’inizio degli anni novanta, è
riuscito a risollevare e rilanciare
con successo l’azienda al collasso. L’approccio alle politiche
di qualità contempera obiettivi
di tipo economico, ambientale
ed etico lungo la catena alimentare, dalla fattoria al consumatore. La ricerca dell’alta qualità
è coincisa con la rintracciabilità
di filiera, le certificazioni ambientali e la certificazione
SA8000. Il controllo integrale
della filiera produttiva e la presenza di un team di tecnici completamente impegnati nella ricerca hanno consentito di ottenere un prodotto di eccellente
qualità. Il dialogo con gli
stakeholder e la considerazione
delle risorse umane sono fra gli
elementi determinanti della RSI
di Granarolo.
FILIERA LATTE
L’AZIENDA AGRICOLA PAOLO BEA operante nel settore vitivinicolo e olivicolo produce vini
di altissima qualità, certificati a
livello nazionale e internazionale.
L’azienda cerca di ottenere l’alta
qualità delle proprie produzioni
attraverso il recupero dell’equilibrio tra l’azione dell’uomo e i cicli della natura, il tutto in un’ottica di RSI attenta al rispetto e
alla tutela ambientale oltre che
alla salute e alla sicurezza sul lavoro. L’azienda ha ottenuto il riconoscimento del Certificato di
Eccellenza, in quanto certificata
UNI EN ISO 14001: 2004;
OHSA 18001: 1999; UNI ENI
ISO 9001: 2000. Ha posto attenzione al tema della sensibilizzazione e della formazione del personale, con azioni di coinvolgimento e di responsabilizzazione
dei propri lavoratori e preferisce
impiegare manodopera giovane
con l’intento di migliorarne le
motivazioni e accrescerne la produttività.
FILIERA VINO-OLIO
AGRIBOSCO produce e trasforma un paniere di prodotti
biologici di alta qualità legata
ai requisiti di bontà, salubrità e
sicurezza. Si è imposta come
punto di riferimento per molti
produttori della zona promuovendo processi di riconversione al biologico prima ancora che vi fosse una regolamentazione per tali produzioni. La cura delle coltivazioni dalla semina al raccolto,
seguendo un rigido disciplinare di produzione, rende il
Consorzio un caso d’eccellenza nell’ambito delle esperienze di RSI. Nei rapporti con
i consumatori e nell’organizzazione del proprio processo
produttivo, inoltre, esso va ben
oltre il semplice rispetto degli
obblighi di legge, offrendo garanzie sulla qualità del prodotto acquistato, sulla provenienza delle materie prime utilizzate e sulla cura di ogni fase
del processo produttivo.
FILIERA CEREALICOLA
PALM opera nel campo della progettazione, produzione
e vendita di pallet per imballaggi industriali ecosostenibili. Basa il proprio sviluppo industriale sulla RSI:
ha ottenuto numerose certificazioni per la qualità dei
prodotti e per la corretta gestione delle risorse forestali
dando vita a diverse iniziative e progetti circa l’impatto prodotto dalle proprie
attività sull’ambiente circostante. Si è dotata di un codice etico e ha intrapreso
molteplici attività di comunicazione della RSI ai vari
stakeholder e di creazione di
una rete tra le aziende partner per la diffusione di pratiche volte alla tutela dei valori sociali e ambientali.
FILIERA FORESTA
LEGNO
sano numerose fasi della filiera. In particolare queste ultime esperienze possono
coinvolgere in un percorso di RSI un numero via via crescente di imprenditori
che si mettono in relazione tra loro per la specificità della produzione, in qualità di fornitori di beni e servizi anche nel settore dell’amministrazione pubblica.
È auspicabile che tali esperienze fungano da stimolo all’adozione di comportamenti socialmente responsabili anche in altre realtà organizzative e soprattutto in quei contesti produttivi e geografici caratterizzati da gravi problemi in
materia di risorse umane e tematiche ambientali.
2.4. Conclusioni
Il contesto produttivo agricolo è eterogeneo e il percorso di RSI che l’imprenditore può adottare deve essere graduale e basato sull’uso di concetti e strumenti legati alle proprie specificità di comparto. In generale, il contesto è sicuramente interessato da una evoluzione costante dovuta principalmente al processo
di globalizzazione che comporta anche un’integrazione economica e un visibile
aumento di competitività delle imprese laddove esiste un’attenzione maggiore all’organizzazione economica e commerciale e a un efficiente sistema di produzione.
Negli ultimi anni, si sono verificati diversi fenomeni interessanti che sono diventati elementi caratterizzanti i processi produttivi nei singoli comparti: ci si riferisce, in particolare, alle disposizioni normative che delineano il quadro dei vincoli e delle responsabilità di un’impresa, agli elementi etici, al riconoscimento
del ruolo delle istituzioni, all’importanza della reputazione aziendale e alle regole imposte dal mercato. Tutti questi fattori interagiscono tra loro e rendono il
panorama dell’agroalimentare italiano molto variegato e flessibile; l’immagine di
un’azienda o di un prodotto è associata a una figura o a un processo di produzione che se, da un lato, attira i consumatori, dall’altro, può dar luogo a comportamenti opportunistici da parte dei diversi operatori presenti nella filiera.
L’adozione di marchi e l’adesione a sistemi di certificazione o di produzione
bio sono modalità diverse per perseguire contemporaneamente un vantaggio
competitivo e un aumento di reputazione aziendale ma la presenza di asimmetrie informative può causare difficoltà nelle decisioni d’acquisto dei consumatori e, se manca la fidelizzazione, rischia di essere vanificato l’intero processo
di costruzione di un sistema di certificazione. In questo “dilemma” si colloca la
responsabilità sociale d’impresa, che individua una responsabilità morale derivante da una sorta di contratto sociale e sanziona o incentiva comportamenti rilevanti anche in mancanza di una norma di legge.
Il concetto di responsabilità sociale sposa in particolar modo la “mission”
delle imprese agroalimentari, laddove l’impegno da intraprendere non è solo per
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RICERCHE INEA
l’ottenimento del prodotto ma anche per garantire la qualità e la sostenibilità del
processo di produzione sia in termini ambientali sia rispetto al sistema di lavoro
e alle tradizioni del territorio. D’altra parte i consumatori, sempre più attenti agli
acquisti, identificano la presenza di comportamenti socialmente responsabili nell’agroalimentare (42%), individuando aziende che, più di ogni altre, integrano
questi principi nel loro operato – Barilla e Parmalat per la produzione e COOP
per la distribuzione (Osservatorio Operandi 2006). In generale, il prodotto deve
possedere caratteristiche intrinseche come la qualità ma deve anche derivare da
processi produttivi sostenibili e da un regolare sistema di lavoro, basato sulla
capacità di occupazione creata e sulle eventuali scelte di delocalizzazione effettuate che non devono danneggiare il sistema Paese.
Si osserva quindi che l’impresa agricola e agroalimentare non è un’unità produttiva isolata, ma è parte integrante di un sistema di interrelazioni verticali (tra
produzione, trasformazione, distribuzione e servizi) e orizzontali (tra imprese di
uno stesso comparto). In questo contesto, di per sé già complesso, il processo
di globalizzazione contribuisce all’ulteriore frammentazione dei processi produttivi e pone l’impresa agricola al centro di molteplici pressioni, che scaturiscono dalle esigenze di ogni singolo operatore appartenente alle diverse fasi
della produzione e che influenzano “il modo di agire” dell’imprenditore.
La figura che segue individua le fasi caratteristiche della filiera produttiva:
produzione, lavorazione/trasformazione, confezionamento e commercializzazione e le sue integrazioni a monte e a valle del processo produttivo, che rispondono alle specifiche richieste del comparto di riferimento e della molteplicità di attori che richiedono al prodotto agroalimentare specifiche proprietà (salutistiche, organolettiche, nutrizionali e di sicurezza igienica). Si adeguano anche ai nuovi stili di vita e alla necessità di avere dei prodotti che semplificano
l’utilizzo nella preparazione dei pasti risparmiando tempo. Per rispondere adeguatamente a tali sfide il sistema agroalimentare ha messo in atto nuove forme
di collaborazione fra i diversi operatori a monte e a valle della filiera, ricercando soluzioni nuove e relazioni semplificate. L’insieme di queste attività contribuisce allo sviluppo del territorio di riferimento che finisce con l’identificarsi
con la filiera produttiva. In tal modo il territorio diventa competitivo e si rafforza
grazie proprio alla sua capacità di “fare rete” con le istituzioni e le imprese di
qualsiasi segmento della filiera produttiva ed in generale con la collettività. In
tal modo si condividono, si consolidano e si trasferiscono all’esterno gli elementi caratterizzanti del territorio (le tradizioni, la cultura locale, ecc) creando
una gestione territoriale in linea con lo sviluppo sostenibile9. Tali imprese fanno
9
Lo sviluppo sostenibile è «uno sviluppo che risponde alle esigenze del presente senza compromettere la
capacità delle generazioni future di soddisfare le proprie» (Com 264/01).
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Figura 3 - Le fasi specifiche delle filiere produttive e le relazioni tra gli attori presenti
propri i bisogni ambientali, economici e sociali di carattere locale e li inseriscono nelle proprie strategie operative. Questo modo di operare crea anche i presupposti per l’applicazione e la gestione del controllo della filiera e della rintracciabilità dei prodotti agroalimentari.
La filiera produttiva è parte integrante delle “Risorse naturali”, principalmente acqua e suolo, dei “Mezzi produttivi”, energia e mezzi tecnici, e dei “Servizi”che, sviluppatisi intorno all’attività agricola, garantiscono supporto e innovazione all’attività.
L’integrazione della filiera produttiva si completa con i trasporti (e con la logistica), passando dalle fasi di movimentazione a quelle di raccolta (piattaforme,
centri di stoccaggio, ecc.), fino al trasporto in senso stretto, nonché con le industrie di altro genere, e/o con altri servizi che non coinvolgono specificatamente il mondo agricolo (il settore creditizio, quello assicurativo e quello che
fornisce assistenza tecnica).
Il percorso di RSI è influenzato dal grado di condivisione e di coinvolgimento delle aziende operanti nella stessa filiera produttiva (dalla produzione ai
servizi annessi alla distribuzione) o in filiere produttive differenti ma che, facendo sistema e instaurando una rete di rapporti, contribuiscono alla crescita e
allo sviluppo socio-economico del proprio territorio.
Come descritto nelle Linee guida, il percorso di RSI dell’impresa lungo la
filiera si sviluppa in relazione alle motivazioni e alle modalità con cui vengono
adottate le azioni e gli strumenti di responsabilità sociale. È possibile individuare una graduazione delle motivazioni e delle modalità ma non una graduatoria degli strumenti adottati che rappresentano lo strumento della RSI. Sono le
motivazioni e le modalità di attuazione che fanno usare bene o male gli strumenti. Molte aziende, con le diverse sfaccettature che caratterizzano il sistema
agroalimentare, hanno già avviato al loro interno attività, iniziative ed esperienze
che, anche se non espressamente etichettate come strumenti di RSI, di fatto ne
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riflettono alcune caratteristiche tipiche. Dal momento che la responsabilità sociale è un concetto a “geometria variabile” (dipende dalla collocazione geografica, sociale e settoriale delle aziende), gli strumenti non possono che essere
molto vari e numerosi e nuovi ne vengono proposti continuamente. Lungo il
percorso di “RSI di filiera” è possibile trovare comportamenti diversi da parte
degli imprenditori: dall’assenza totale di comportamenti socialmente responsabili, all’utilizzo di comportamenti incentivati (legati a qualche forma di contributo pubblico), all’adozione di pratiche non strutturate, per passare nei livelli
successivi a comportamenti di RSI che incidono su una sola dimensione di RSI
(risorse umane, prodotto, territorio, ambiente), o simultaneamente su più dimensioni. Infine, le imprese i cui comportamenti incidono sulla governance, migliorando la qualità e il dialogo con gli interlocutori sociali, si collocano all’ultimo livello del percorso di RSI.
Con la possibilità di esternalizzare segmenti della produzione verso contesti
favorevoli cresce il livello di profitto da parte degli imprenditori ma nel contempo aumentano le difficoltà ad adottare comportamenti socialmente responsabili in quanto le spinte provenienti dai vari operatori (pubblico/privato) creano
delle barriere che influenzano il comportamento del singolo. In questo contesto
di produzione globalizzata la possibilità di includere una dimensione etica costituisce una sfida piena di complessità ma rappresenta l’elemento vincente nel
nuovo mercato economico.
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CAPITOLO III
GLI STRUMENTI
DI RESPONSABILITÀ SOCIALE
PER LE IMPRESE AGRICOLE E AGROALIMENTARI
3.1. Premessa
Il settore agricolo e agroalimentare ha un’intrinseca rilevanza sociale. L’agricoltura viene definita attività “primaria” perché contribuisce ad una funzione
essenziale per la vita umana: l’alimentazione. È opinione diffusa che l’agricoltura sia portatrice di un’innata sostenibilità ambientale e sociale: per millenni
l’agricoltore è stato il custode dell’ambiente e le attività agricole sono state
svolte in stretto contatto con la natura, facendola fruttificare e producendo risorse rinnovabili. Inoltre, sotto il profilo storico ed demoetnoantropologico, la
progressiva diffusione dell’allevamento e dell’agricoltura sono considerate come
la principale causa della sedentarizzazione di molte popolazioni e, quindi, al
centro del progresso sociale ed economico.
Oggi però questa innata sostenibilità dell’agricoltura è insidiata da molteplici
fattori e da dinamiche che si stanno manifestando su scala globale.
Negli ultimi secoli l’agricoltura ha dovuto adeguarsi alla crescente domanda
di prodotti alimentari e industriali. Ciò per effetto del vertiginoso incremento
della popolazione mondiale e dell’innalzamento del tenore di vita di una parte
di questa, cui è seguita l’adozione di sistemi sempre più sofisticati per elevare
la produttività del suolo e per espandere l’area coltivabile (Formica, 2006). Rilevanti sono state le ricadute ambientali, soprattutto sotto l’aspetto dell’inquinamento e delle alterazioni biologiche. Inoltre il tendenziale spostamento delle
attività economiche verso le aree urbane e la conseguente perdita di importanza
dell’agricoltura come settore portante dell’economia di molti territori hanno portato a una crisi della tradizionale struttura e organizzazione delle aree rurali, con
ripercussioni anche in termini di coesione sociale (Dichiarazione di Cork, 1996).
Sono emerse forti criticità e preoccupazioni sotto il profilo della qualità del
lavoro, tanto nei Paesi industrializzati che in quelli emergenti. In particolare nei
Paesi sviluppati il problema si è posto con riferimento agli aspetti della sicurezza sui luoghi di lavoro, della stagionalità e della irregolarità dei rapporti di
lavoro. Nei Paesi emergenti, invece, il problema principale è quello del rispetto
dei diritti umani e dell’equità retributiva.
Infine enormi cambiamenti hanno interessato il sistema agroalimentare, caratterizzato non più da uno stretto rapporto tra produzione e consumo ma dal
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ruolo fondamentale svolto dai processi di trasformazione, conservazione e commercializzazione degli alimenti. Oggi si pongono perciò nuovi problemi connessi alla sicurezza alimentare, tra cui quello di definire le responsabilità di tutti
i partecipanti alla filiera alimentare quello di garantire la rintracciabilità dei percorsi dei mangimi, degli alimenti e dei loro ingredienti.
Nel complesso la profonda evoluzione che sta interessando il sistema agroalimentare fa sì che a tutti gli attori che ne fanno parte venga sempre più frequentemente richiesto di assumere comportamenti socialmente responsabili. Ad
esempio, secondo un’indagine dell’Eurobarometro condotta nel 2001 (box 1), i
cittadini europei chiedono una maggiore attenzione ai temi della sicurezza e salubrità dei prodotti (90%), della sostenibilità ambientale delle produzioni (89%),
della qualità dei prodotti e della valorizzazione del territorio.
Box 1 - Che cosa si attendono i cittadini europei dalla politica agricola comunitaria
Obiettivo
Prodotti sicuri e sani
Rispetto dell’ambiente
Proteggere le piccole imprese
Adattare l’agricoltura alle esigenze dei consumatori
Migliorare le condizioni di vita nel modo rurale
Aumentare la competitività dell’agricoltura UE
Quota prima scelta
90%
89%
82%
81%
80%
78%
Fonte: Indagine Eurobarometro 2001
Per tutte queste ragioni è estremamente importante approfondire il tema degli “strumenti” e cioè dei mezzi che gli attori del sistema agroalimentare hanno
a disposizione per soddisfare queste nuove aspettative dei consumatori e degli
altri stakeholder circa gli impatti sociali e ambientali dei processi di produzione,
trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli e agroalimentari.
3.2. Gli strumenti come leva di attuazione delle strategie socialmente responsabili
Il tema della responsabilità sociale si presta a due rischi possibili ma opposti. Da un lato, esso può rimanere un discorso astratto e inapplicato: vale a dire
che, alle dichiarazioni di principio, non fanno seguito comportamenti concreti.
Dall’altro, spesso si adottano strumenti impropriamente o inconsapevolmente,
per isomorfismo o comunque non per un reale convincimento. Un’ampia lette-
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ratura (Freeman, 1984; Pastore e Piantoni, 1984; Coda, 1988; Guthrie, Parker,
1989; Meznar, Chrisman, Carroll, 1990; Hinna, 2002 e 2005; Rusconi e Dorigatti, 2005; Favotto e Michelon, 2007) ha evidenziato che per rendere “applicata” ai reali comportamenti delle imprese la responsabilità sociale questa va
collocata a livello strategico. Al di fuori di questo contesto, il discorso sulla responsabilità sociale diventa un’elaborazione su cosa ci si aspetta che le imprese
possano fare, su un loro “dover essere”, con il rischio di non applicarsi alle specifiche fasi evolutive che esse affrontano (Favotto e Michelon, 2007). D’altra
parte l’adozione di strumenti socialmente responsabili non deve essere considerata come un risultato in sé ma come una “tappa” del progressivo orientamento
dell’impresa alla responsabilità sociale.
Gli “strumenti” della responsabilità sociale devono essere implementati secondo modalità in grado di promuovere percorsi di innovazione culturale, manageriale e organizzativa basati su un continuo dialogo tra azienda e stakeholder. Si tratta di un approccio che «solo una imprenditorialità innovativa e sensibile alle istanze etico-sociali è in grado di valorizzare in chiave strategica»
(Coda V., 2002, pp. XXII-XXIII).
Le dinamiche che si stanno manifestando nel settore agricolo e agroalimentare, richiamate nel paragrafo introduttivo ed esaminate più analiticamente in altre parti del volume, ci consentono di sintetizzare tre direttrici strategiche attinenti la responsabilità sociale del sistema agroalimentare:
– sostenibilità ambientale e sviluppo rurale;
– salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;
– sicurezza e qualità dei prodotti.
Ognuna di queste direttrici può essere “attuata” avvalendosi di una molteplicità di strumenti secondo la logica illustrata nella figura 4.
Si possono distinguere due categorie generali di strumenti con cui attuare,
singolarmente o congiuntamente, le direttrici strategiche della responsabilità sociale (European Commission, 2004):
a) gli strumenti di gestione socialmente responsabile: agiscono sul versante dell’offerta (imprese e altri attori della filiera agroalimentare) e hanno lo scopo
di supportare le imprese nell’integrazione dei principi della responsabilità sociale nei processi strategici e operativi. Vi sono diverse fattispecie:
– i codici di condotta, che intervengono nell’individuazione e fissazione dei
principi di comportamento responsabile;
– gli standard di gestione e certificazione, in base ai quali generalmente si
ottiene una certificazione esterna;
– gli standard di rendicontazione, che individuano indicatori e tecniche di
misurazione per valutare e rendicontare le performance.
b) gli strumenti per il consumo socialmente responsabile: agiscono sul versante
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Figura 4 - Gli strumenti come leva di attuazione di strategie socialmente responsabili
Fonte: elaborazione propria
della domanda e hanno lo scopo di promuovere uno sviluppo più sostenibile
ed equo influenzando le decisioni di acquisto dei consumatori, dei distributori, dei commercianti e di altri operatori. In genere si manifestano come etichette e/o marchi che certificano che la produzione e la commercializzazione
dei prodotti ha soddisfatto alcuni criteri specifici.
Nei paragrafi seguenti verranno analizzati i più importanti strumenti della responsabilità sociale applicabili alle diverse realtà del sistema agroalimentare,
cercando di offrire una rappresentazione sintetica ma bilanciata di entrambe le
categorie individuate (strumenti di gestione e strumenti per il consumo). La logica di trattazione è necessariamente esemplificativa in ragione della numerosità e della specificità degli strumenti esistenti, elemento questo che rende poco
interessante oltre che complessa una trattazione di tipo analitico. Si intendono
approfondire invece gli aspetti di carattere metodologico, i punti di forza e gli
snodi critici dei vari strumenti, provando a generalizzare gli spunti offerti dagli
esempi che verranno esaminati. Il presente contributo si pone in una logica di
complementarietà e integrazione rispetto alle iniziative in tema di responsabilità
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sociale già avviate dall’Istituto Nazionale di Economia Agraria (si vedano in
particolare le Linee guida “Promuovere la responsabilità sociale delle imprese
agricole e agroalimentari”, i Casi studio “Le esperienze italiane sulla responsabilità sociale nel settore agricolo e agroalimentare” e il portale tematico
http://www.agres.inea.it).
3.2.1. Gli strumenti di gestione socialmente responsabile
3.2.1.1. I codici di condotta
I codici di condotta sono dichiarazioni formali contenenti principi e standard
di comportamento per le imprese. Essi possono essere adottati unilateralmente
da una singola impresa o da un gruppo di imprese appartenenti a uno specifico
settore. In genere, i codici di condotta includono una pluralità di aspetti, tra cui,
in particolare, le tematiche legate ai diritti umani, alla trasparenza, alla salute e
alla sicurezza sui luoghi di lavoro, all’ambiente, ecc.
Numerosissime sono le iniziative diffusesi a livello internazionale, settoriale
e aziendale. Di seguito offriremo alcuni esempi di particolare interesse per le
imprese agricole e agroalimentari.
A livello internazionale l’iniziativa più articolata e completa è il Global Compact portato avanti dall’ONU (http://www.unglobalcompact.org). Il Global Compact
è stato annunciato nel 1999, a Davos, in occasione del World Economic Forum e
prevede una collaborazione tra imprese private, governi, società civile e organizzazioni sindacali per la creazione di un mercato globale più sostenibile e inclusivo,
accettando e applicando dieci principi universali nelle aree dei diritti umani, delle
norme del lavoro, della tutela dell’ambiente e della lotta alla corruzione.
I dieci principi del Global Compact sono condivisi universalmente in quanto
derivati da:
– la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (ONU);
– la Dichiarazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sui principi
e i diritti fondamentali nel lavoro (ILO);
– la Dichiarazione di Rio sull’Ambiente e lo Sviluppo (ONU);
– la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (ONU).
Il Global Compact non è uno strumento normativo né obbligatorio ma un’iniziativa volontaria che cerca di fornire un quadro globale per promuovere una
crescita sostenibile. Attraverso l’adesione ai principi del Global Compact anche
le imprese del settore agricolo e agroalimentare hanno l’opportunità di rendere
il proprio modello di business più adeguato alle istanze di natura ambientale e
sociale che sono ormai diffuse tra i consumatori, gli attori del mercato e i regolatori pubblici.
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Box 2 - I principi del Global Compact
Diritti umani
Principio I
Alle imprese è richiesto di promuovere e rispettare i diritti umani universalmente riconosciuti nell’ambito delle
rispettive sfere di influenza;
Principio II
Alle imprese è richiesto di assicurarsi di non essere, seppure indirettamente, complici negli abusi dei diritti
umani;
Lavoro
Principio III
Alle imprese è richiesto di sostenere la libertà di associazione dei lavoratori e riconoscere il diritto alla contrattazione collettiva;
Principio IV
Alle imprese è richiesto di sostenere l’eliminazione di tutte le forme di lavoro forzato e obbligatorio;
Principio V
Alle imprese è richiesto di sostenere l’effettiva eliminazione del lavoro minorile;
Principio VI
Alle imprese è richiesto di sostenere l’eliminazione di ogni forma di discriminazione in materia di impiego e
professione;
Ambiente
Principio VII
Alle imprese è richiesto di sostenere un approccio preventivo nei confronti delle sfide ambientali;
Principio VIII
Alle imprese è richiesto di intraprendere iniziative che promuovano una maggiore responsabilità ambientale;
Principio IX
Alle imprese è richiesto di incoraggiare lo sviluppo e la diffusione di tecnologie che rispettino l’ambiente;
Lotta alla corruzione
Principio X
Le imprese si impegnano a contrastare la corruzione in ogni sua forma, incluse l’estorsione e le tangenti.
Fonte: http://www.unglobalcompact.org
Sono circa 4.000 le imprese che in tutto il mondo hanno aderito e partecipano al Global Compact. Esse operano in settori e aree geografiche differenti,
ma hanno in comune il fatto di essere aziende leader e di aspirare a una crescita globale responsabile, che tenga in considerazione gli interessi di un ampio
spettro di soggetti che include dipendenti, investitori, clienti, partner commerciali, associazioni di consumatori e comunità locali.
Il Global Compact invita le aziende aderenti ad adoperarsi affinché i suoi principi diventino parte della strategia aziendale e delle loro operazioni quotidiane.
I principali benefici identificati dalle imprese che hanno aderito al Global
Compact sono riassunti nel box seguente.
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Box 3 - I principali benefici identificati dalle imprese che hanno aderito al Global Compact
Diretti
Indiretti
Opportunità di dialogare e collaborare a livello locale
e globale con altre imprese, ONG, lavoratori e governi su aspetti critici.
Maggiore legittimazione dell’impresa, in particolare
nei Paesi in via di sviluppo, dal momento che l’attività imprenditoriale si basa su valori universali.
Scambio di esperienze e buone pratiche che hanno
consentito di trovare soluzioni e nuove strategie per
Migliore reputazione e maggiore valore del brand con
riferimento ai consumatori e agli investitori.
affrontare i problemi.
Accesso all’ampio bagaglio di conoscenza ed esperienza delle Nazioni Unite sulle tematiche dello sviluppo.
Fare leva sulla portata globale delle Nazioni Unite e
rendere sinergici gli sforzi dei governi, delle imprese,
della società civile e degli altri stakeholder.
Maggiore motivazione e produttività del personale e
maggiore capacità di attrarre e mantenere il personale
più qualificato.
Maggiore efficienza operativa, per esempio attraverso
un uso più razionale delle materie prime e una migliore gestione delle scorie e dei rifiuti.
Migliore accountability e trasparenza aziendale.
Fonte: http://www.unglobalcompact.org
A livello settoriale un esempio particolarmente interessante è rappresentato dall’iniziativa del Comitato europeo dei Produttori di Zucchero (CEFS) che, insieme
alla Federazione Europea dei Sindacati del settore Alimentare, Agricolo e Turistico (EFFAT), ha attuato un Codice di condotta dell’industria saccarifera europea che fissa alcuni standard di comportamento etico suddividendoli in otto aree.
Box 4 - I principi del Codice di condotta dell’industria saccarifera europea
Diritti umani
L’industria saccarifera europea:
– rispetta la libertà di associazione e cioè il diritto di tutti i lavoratori di dar vita e aderire a organizzazioni
sindacali, ivi incluso il diritto dei rappresentati dei lavoratori di accedere ai luoghi di lavoro (Convezione
ILO 87);
– riconosce l’effettivo diritto alla contrattazione collettiva e accorda ai rappresentanti sindacali delle agevolazioni in maniera tale da consentirgli di svolgere al meglio le loro funzioni (Convezione ILO 98 e
135);
– conferma che l’esercizio dei diritti sindacali non comporterà alcun pregiudizio personale o professionale
per i lavoratori e i loro rappresentanti;
– non si avvarrà in alcune modo di lavoro forzato o obbligato (convezione ILO 29);
– si oppone al lavoro minorile (Convezione ILO 182) e rispetta la Convenzione ILO 138 che definisce l’età
minima di ammissione al lavoro;
– si oppone a tutte le discriminazioni fondate sull’origine sociale, la nazionalità, la religione, il sesso, l’orientamento sessuale, l’adesione a organizzazioni sindacali, l’età o la sensibilizzazione politica e si impegna in particolare a garantire e a promuovere le pari opportunità tra uomo e donna.
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Educazione e formazione continua
L’industria saccarifera europea si impegna a sviluppare nei propri dipendenti le migliori capacità e competenze per valorizzare il loro potenziale professionale e contribuire al successo e alla competitività dell’impresa. Essa fornisce una formazione specifica relativamente agli aspetti tecnici legati al processo di produzione, alla salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e agli ulteriori aspetti rilevanti per l’impresa. L’educazione
e la formazione costituiscono parte integrante del dialogo sociale nell’impresa. Le proposte e le iniziative dei
lavoratori e dei rappresentati sindacali in materia di educazione e formazione continua sono caldeggiate e verranno messe in atto conformemente agli usi nazionali. L’industria saccarifera europea raccomanda alle imprese, ogniqualvolta sia economicamente e socialmente possibile, di mettere in condizioni i giovani lavoratori di svolgere periodi di apprendistato al fine di accrescere le loro competenze sul mercato del lavoro.
Salute e sicurezza
L’industria saccarifera europea è particolarmente attenta alla salute e alla sicurezza. In questo quadro, essa si
sforza di creare un ambiente di lavoro che tenga in considerazione la dimensione umana e che non presenti
rischi per la salute. In cooperazione con i lavoratori e i loro rappresentanti, l’industria saccarifera europea si
preoccupa di creare un ambiente di lavoro sicuro e sano, tendendo verso le migliori pratiche e conoscenze.
Tutte le misure che favoriscono la prevenzione e la salute sono considerate come prioritarie.
L’industria saccarifera europea, inoltre, non si accontenta di applicare la legislazione europea, in particolare
la direttiva quadro del 1989, ma si sforza di andare al là di questa normativa.
In tutti gli zuccherifici verranno messi in pratica programmi di formazione specifica e verranno adottate politiche e procedure di sicurezza pensate apposta per l’industria saccarifera e che prendano in considerazione
i rischi legati alle processi produttivi e mettano un accento particolare sulla prevenzione.
Relazioni tra le parti sociali
Le parti sociali dell’industria saccarifera europea – rappresentate dal Comitato europeo dei Produttori di Zucchero (CEFS) e la Federazione Europea dell’Alimentazione, dell’Agricoltura e del Turismo (EFFAT) – ritengono che un dialogo sociale costruttivo, introdotto a tutti i livelli, con i rappresentanti dei lavoratori e i sindacati sia un fattore determinante per il buon funzionamento delle imprese. L’informazione e la consultazione
dei rappresentanti dei lavoratori favoriscono la fiducia e la cooperazione tra lavoratori e datori di lavoro.
È per questo che l’industria saccarifera europea ha portato avanti un dialogo sociale a livello europeo a partire dal 1969, riconosciuto ufficialmente dalla Commissione europea nel 1999 attraverso al creazione di un
comitato di dialogo settoriale. Le parti sociali hanno congiuntamente sviluppato un certo numero di ricerche
e programmi di formazione professionale, con particolare riferimento al tema della sicurezza. Esse intendono
proseguire e ulteriormente sviluppare questo dialogo.
A livello nazionale la legislazione concernente la rappresentanza dei lavoratori e la negoziazione collettiva
non solo deve essere rispettata ma possibilmente occorre andare oltre. In tutte le imprese occorre applicare la
legislazione europea sull’informazione e la consultazione. Le parti sociali auspicano che, con l’aiuto e il sostegno delle autorità pubbliche, si instauri un dialogo veramente costruttivo e responsabile al fine di stabilire
le fondamenta di un’Europa allargata in grado di combinare coesione sociale e competitività economica.
Equa remunerazione
Nell’industria saccarifera le remunerazioni reali si adeguano ai minimali fissati dai contratti collettivi e/o dalle
autorità pubbliche. Laddove non esistano tali regole, le remunerazioni devono essere sufficienti per assicurare
ai lavoratori un livello di vita dignitoso, così come definito dalla Dichiarazione fondamentale per i diritti dell’uomo e dalla Dichiarazione tripartita dell’Organizzazione Internazionale per il Lavoro.
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Al fine di evitare ogni forma di discriminazione l’industria saccarifera riconosce il diritto per i lavoratori a
parità di condizioni di ricevere un medesimo salario (Convenzione ILO 100, Trattato UE art. 141, Direttiva
(CE) n. 78 del 2000).
Condizioni di lavoro
L’industria saccarifera europea rispetta la legislazione europea sulle condizioni di lavoro e si conforma alle
norme fissate a livello di comparto o di settore per definire gli orari di lavoro. Per ciò che concerne i tempi
di lavoro, accordi specifici possono essere conclusi tra le parti sociali e/o le autorità pubbliche.
Laddove non esistano norme, le parti sociali possono concludere opportuni accordi. Le condizioni di lavoro
devono essere almeno equivalenti a quelle offerte ad altri lavoratori simili nei Paesi considerati.
Ristrutturazioni aziendali
Nel quadro di un dialogo sociale europeo possono essere organizzate informazioni regolari, scambi di opinioni e, se necessario, azioni congiunte relativamente a tutte le tematiche, incluse quelle legate a politiche e
legislazioni comunitarie aventi un impatto economico e sociale per il settore dello zucchero. Questo dialogo
rispetta e va la di là della legislazione europea o nazionale sull’informazione e la consultazione. Dal momento
che un dialogo aperto tra la direzione e i lavoratori è una condizione preliminare per instaurare un clima di
fiducia e di rispetto reciproco, i lavoratori e i loro rappresentanti saranno regolarmente tenuti al corrente della
situazione delle imprese e, inoltre, saranno informati e ascoltati in tempo utile sulle misure adottate nei casi
di ristrutturazione aziendale. In caso di ristrutturazioni o di investimenti con un impatto sociale, ai sensi del
presente codice di condotta l’industria saccarifera agisce in maniera socialmente responsabile. Inoltre saranno
intraprese tutte le azioni volte a migliorare la buona occupazione.
Rapporti tra imprese e scelta dei fornitori
L’industria saccarifera europea pretende da parte dei fornitori un comportamento socialmente responsabile. I
fornitori sono scelti sulla base della loro professionalità ma per i fornitori più importanti bisogna tener conto
degli aspetti relativi alla loro responsabilità sociale, conformemente alle disposizioni del Codice di Condotta.
A tal fine, l’industria saccarifera europea si impegna a veicolare il concetto di responsabilità sociale a livello
globale e cercherà di apportare un contributo concreto alla lotta al lavoro minorile.
L’industria saccarifera europea sostiene le misure adottate dalla legislazione europea per la lotta alle frodi e
alla corruzione nell’ambito del commercio mondiale.
Nel quadro generale dell’etica degli affari l’industria saccarifera europea si impegna a conformarsi alle linee
guida per le imprese multinazionali dell’OCSE e, al di là dell’area di attività del CEFS, di promuoverle al
massimo.
Fonte: nostra traduzione da http://www.comitesucre.org/www/pdf/code_en.pdf
3.2.1.2. Gli standard di gestione e certificazione
Gli standard di gestione socialmente responsabile consentono di applicare gli
impegni di sostenibilità sociale e ambientale all’interno dei processi decisionali
e nell’operatività aziendale.
Essi si presentano tipicamente sotto forma di modelli ai quali le imprese devono uniformare i propri processi gestionali. Gli standard di gestione socialmente responsabile sono sviluppati da specifici organismi (standard setters)
dopo un’attenta e ampia consultazione di tutte le parti interessate.
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Anche in questo caso molto numerose sono le iniziative diffusesi a livello
internazionale e settoriale. Di seguito offriamo alcuni esempi di particolare interesse o per la loro ampia portata o per la particolare adattabilità alle caratteristiche specifiche del sistema agroalimentare.
La norma SA 8000 è uno standard internazionale di gestione socialmente responsabile che disciplina il tema del rispetto dei diritti umani, dei diritti dei lavoratori, della tutela contro lo sfruttamento dei minori e della sicurezza sui luoghi di lavoro.
La norma SA 8000 è stata formulata in seno al CEPAA (Council of Economical Priorities Accreditation Agency), emanazione del CEP (Council of Economic priorities), istituto statunitense fondato nel 1969 per fornire agli investitori e ai consumatori strumenti informativi per analizzare le performance sociali
delle aziende.
Lo scopo istituzionale del CEPAA è di rendere le organizzazioni in grado di
essere socialmente responsabili, riunendo i principali stakeholder per sviluppare
standard volontari basati sul consenso, accreditando organizzazioni qualificate
per verificare la conformità, promuovendo la conoscenza e comprensione dello
standard e incoraggiandone l’attuazione a livello mondiale. L’organismo riunisce 21 membri in rappresentanza delle organizzazioni sindacali, delle organizzazioni non governative, di associazioni che tutelano i diritti umani e dell’infanzia, di imprese che investono in modo socialmente responsabile e di società
di certificazione. Lo standard e le relative procedure di accreditamento e certificazione nascono in un’ottica globale e transnazionale, pur recependo le peculiarità normative locali.
Gli obiettivi principali della SA 8000 sono: a) sviluppare, mantenere e sostenere politiche e procedure al fine di gestire gli aspetti che possono essere
controllati o influenzati; b) dimostrare alle parti interessate che le politiche, le
procedure e la loro applicazione sono conformi ai requisiti della norma.
La norma SA 8000, come la maggior parte degli standard, viene periodicamente aggiornata, incorporando le nuove esigenze che si manifestano nel corso
della sua applicazione. Importanti novità introdotte nel 2001 sono state l’estensione al lavoro a domicilio (homeworkers), l’introduzione dell’età anagrafica
come elemento discriminante e l’estensione a tutti i fornitori della filiera (subcontractors).
La SA 8000 è riconosciuta e applicata volontariamente da organizzazioni in
tutto il mondo e anche in Italia, dove soprattutto negli ultimi anni sta avendo
una buona diffusione.
I principali potenziali mercati interessati a SA 8000 in Italia sono:
– imprese di alto profilo che delocalizzano la produzione in Paesi in cui possono godere dei benefici connessi a un più basso costo della manodopera.
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Tali imprese, infatti, sono spesso accusate dall’opinione pubblica di non rispettare i diritti dei lavoratori e di utilizzare lavoro infantile (esempio sudest asiatico);
– imprese che operano sul territorio nazionale e che possono utilizzare la certificazione SA 8000 come strumento di vantaggio competitivo nei confronti
di coloro che non sono in grado di fornire garanzie sul proprio comportamento etico;
– grandi multinazionali che operano anche sul territorio italiano.
Il sistema SA 8000 si struttura, per ora, seguendo il modello normalmente in
uso nelle aziende per assicurare il controllo della qualità: lo standard ISO 9000.
La SA 8000 infatti sfrutta le tecniche di audit di comprovata efficacia dello standard ISO, incoraggia un continuo miglioramento e pone l’attenzione sulla gestione e sulla documentazione del sistema per assicurarne l’efficienza. A ciò aggiunge tre elementi essenziali per l’auditing etico:
– fissa valori minimi per le prestazioni;
– gli auditor devono collaborare con le organizzazioni non governative, le associazioni dei consumatori e quelle dei lavoratori;
– un meccanismo di gestione delle lamentele (da parte dei lavoratori, delle organizzazioni dei consumatori ecc.) che può portare alla verifica di situazioni
di non conformità anche in siti già certificati.
La creazione di questo standard è avvenuta tenendo sempre presenti dei principi fondamentali a cui conformarsi nel momento in cui l’organizzazione vuole
orientarsi alla responsabilità sociale. I requisiti fondamentali su cui si basa la
SA 8000 sono otto: lavoro minorile, lavoro forzato, salute e sicurezza, libertà
di associazione e rappresentanza collettiva, discriminazione, pratiche disciplinari, orario di lavoro, salario.
Inoltre è presente un nono requisito riguardante il sistema di gestione, in base
al quale politiche, procedure e documentazioni devono dimostrare la continua
conformità allo standard. La certificazione SA 8000 si sta gradualmente diffondendo perché le aziende cominciano a riconoscere i vantaggi di tale sistema sia
per il management che per i lavoratori. Allo stesso tempo le associazioni dei
consumatori e dei lavoratori considerano la SA 8000 come lo standard di riferimento nel definire le condizioni di lavoro. SA 8000 è certificabile da parte
terza.
Un’organizzazione per ottenere tale certificazione deve realizzare un Sistema
di gestione sociale (Social Management System) basato sui requisiti dello standard. Questi ultimi sono stabiliti tenendo presenti le varie convenzioni e raccomandazioni ILO (International Labour Organization), oltre alla Dichiarazione
Universale dei Diritti dell’Umanità e alla Convenzione sui Diritti dell’Infanzia
delle Nazioni Unite.
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La protezione dell’ambiente, cui è dedicato il capitolo V dell’opera, riveste
per ogni organizzazione un ruolo sempre più importante. La molteplicità e la
crescita delle fonti d’inquinamento, il controllo sempre più attento che i vari
Stati stanno esercitando sui temi dell’ambiente e l’inasprimento delle pene per
chi commette reati ambientali indicano che è necessario agire verso un ridimensionamento delle fonti inquinanti. Per dimostrare il proprio impegno in tal
senso molte imprese hanno adottato uno standard di gestione ambientale.
La certificazione ISO 14001 proviene di fatto da una precedente norma inglese (BS 7750, Specification for Environmental Management) che ha avuto un
discreto successo mondiale ed è tuttora usata dalle aziende. La norma BS 7750
risale al 1992 ed è stata rivista nel 1994 alla luce dell’entrata in vigore del regolamento (CEE) n. 1836/93 (regolamento EMAS). Tale regolamento è stato recentemente abrogato dal nuovo EMAS II (regolamento (CE) n. 761/2000).
La ISO 14001 è una norma internazionale ad adesione volontaria, applicabile a qualsiasi tipologia di organizzazione pubblica o privata, che specifica i
requisiti di un Sistema di Gestione Ambientale (SGA). La gestione ambientale
rappresenta il passaggio dal semplice rispetto delle leggi a una gestione delle
attività volta alla prevenzione dell’inquinamento e al miglioramento delle prestazioni ambientali.
Grazie alla norma ISO 14001 dal 1996 esistono criteri di gestione ambientale validi in tutto il mondo. Nel 2004 tali criteri sono stati revisionati ed è stata
data maggiore enfasi agli aspetti ambientali indiretti e all’ottemperanza dei requisiti cogenti.
La certificazione di Sistemi di Gestione Ambientale permette di:
– migliorare l’efficienza dei processi produttivi e/o dei servizi;
– tenere sotto controllo e monitorare gli adempimenti legislativi;
– migliorare le prestazioni ambientali;
– soddisfare clienti, fornitori, collaboratori, autorità, investitori, cioè tutti gli
stakeholder;
– migliorare il clima aziendale.
Per ottenere la certificazione è necessario seguire una certa prassi standardizzata che rispecchia quasi del tutto quella seguita per la certificazione di qualità (ISO 9000); l’unica fase che si differenzia notevolmente è la prima, ossia
quella della cosiddetta analisi ambientale iniziale, attraverso cui ci si rende conto
di quale sia la distanza della propria azienda dall’ottenimento della certificazione e quali siano gli aspetti e gli impatti ambientali significativi.
Analogamente alle altre norme ISO sulla certificazione di qualità anche per
la norma ISO 14001 vi sono alcuni requisiti necessari affinché si possa procedere alla sua applicazione:
– redazione della politica ambientale da parte della direzione;
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– nomina del responsabile della gestione ambientale, che è auspicabile coincida con il responsabile dell’assicurazione qualità;
– redazione del manuale di gestione ambientale e delle procedure, oppure integrazione nel manuale della qualità;
– attuazione della documentazione e conduzione degli audit ambientali;
– riesame da parte della direzione;
– certificazione di terza parte;
– miglioramento continuo e sorveglianza da parte dell’ente terzo.
La certificazione ISO 14001 non è l’unico schema che un’azienda può adottare per prevenire l’inquinamento. Il 19 marzo 2001 è stato emesso (con entrata
in vigore il 27 aprile 2001) il regolamento (CE) n. 761/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio sull’adesione volontaria delle organizzazioni a un sistema
comunitario di ecogestione e audit (EMAS). Più che di certificazione si parla di
registrazione dell’organizzazione e l’approccio si differenzia in alcuni punti
dalla realizzazione di un sistema ISO 14001.
Si propone di seguito un confronto tra ISO 14001 e EMAS.
Un raffronto tra i contenuti del regolamento EMAS e quelli della norma ISO
14001 non può prescindere dagli aspetti di “immagine”, in effetti l’unico punto
su cui i due testi si differenziano.
Infatti, fino all’aprile del 2001 (momento in cui è entrato in vigore EMAS
II, ovvero il nuovo regolamento revisionato), vi erano differenze nell’approccio
all’implementazione del Sistema di Gestione Ambientale nei due testi e questo
comportava dubbi su quale tipo di certificazione fosse meglio scegliere e problemi alle organizzazioni che non potevano certificarsi con entrambe le norme,
se non con una serie di trafile molto simili, ma difficilmente integrabili.
Ora invece il nuovo regolamento EMAS riporta in allegato, nei “Requisiti
del sistema di gestione ambientale”, il testo integrale del quarto punto della
norma ISO 14001. In tal modo il sistema di gestione implementato per ottenere
la certificazione ISO 14001 è sicuramente valido anche per richiedere di aderire al regolamento EMAS e viceversa.
L’unico aspetto che ancora differenzia i due testi è, come si è detto, l’immagine. La certificazione ISO 14001 è uno standard internazionale e come tale
è riconosciuto praticamente ovunque, ma i consumatori o le pubbliche autorità
non sono sempre informati e consapevoli di cosa significhi l’aver ottenuto una
certificazione ISO 14001. L’EMAS d’altra parte è un regolamento europeo,
quindi il campo di validità è teoricamente più ristretto, ma salvo per chi ha l’esigenza di avere rapporti commerciali al di fuori dell’Europa, presenta in termini di immagine un innegabile vantaggio.
Per ottenere l’iscrizione tra le organizzazioni aderenti a EMAS, una volta impiantato il sistema di gestione ambientale, è necessario redigere una dichiara-
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zione ambientale comprendente una descrizione del sistema stesso e della propria politica ambientale.
La dichiarazione ambientale viene convalidata da un verificatore e poi resa
nota alle autorità locali. L’organizzazione viene inserita nel registro di quelle aderenti a EMAS, e in tal modo ottiene un esplicito riconoscimento per il suo impegno verso l’ambiente. Il carattere divulgativo della dichiarazione è quello che permette il ritorno di immagine che invece, certificandosi ISO 14001, mancherebbe.
Lo standard ISO 22000 (Food safety management systems) è uno standard
volontario per la certificazione di sistemi di gestione della sicurezza in campo
alimentare, che può essere applicato da ogni operatore della filiera agroalimentare e permette di sviluppare e attestare l’idoneità dei sistemi per il controllo e
la gestione dei rischi che riguardano il processo produttivo.
La certificazione, rilasciata da un Ente terzo accreditato, prende in esame
ogni fase del processo e del ciclo di vita del prodotto anche successivamente
alla sua cessione e ciò rappresenta una caratteristica estremamente interessante,
tenuto conto che il regolamento (CE) n. 178/2002 ha fissato a carico degli operatori una precisa sequenza di attività obbligatorie nell’ipotesi in cui si tema un
rischio di sicurezza sui prodotti già immessi sul mercato.
Lo standard si rivolge a tutti gli attori coinvolti nella filiera agroalimentare:
aziende agricole, mangimifici, allevamenti, aziende agroalimentari, supermercati, rivenditori al dettaglio e all’ingrosso, aziende di trasporto, produttori di
packaging e macchinari alimentari, aziende fornitrici di prodotti per la pulizia e
la sanificazione, fornitori di servizi.
I punti chiave della norma sono:
– la comunicazione interattiva tra l’azienda interessata e i diversi attori a monte
e a valle della catena di fornitura;
– il sistema di gestione aziendale;
– il controllo di processo;
– la metodologia HACCP1, applicata secondo quanto previsto dal documento
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La metodologia Hazard Analysis Critical Control Point (HACCP) è un sistema di autocontrollo che ogni operatore nel settore della produzione di alimenti deve mettere in atto al fine di valutare pericoli e rischi e stabilire misure di controllo per prevenire l’insorgere di problemi igienici e sanitari. Prima dell’adozione del sistema HACCP i controlli venivano effettuati a valle del processo produttivo, con analisi sulla salubrità soltanto del prodotto finito e pronto per la vendita al consumatore. Il sistema di autocontrollo invece mira a valutare in ogni fase della produzione i rischi che possono influenzare la sicurezza degli alimenti, attuando in
questo modo misure preventive. L’HACCP è stato introdotto in Europa nel 1993 con la direttiva 43/93/CEE
(recepita in Italia con il decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 155), che prevede l’obbligo di applicazione
del protocollo HACCP per tutti gli operatori a qualsiasi livello della catena alimentare. Questa normativa è
stata sostituita nel 2006 dal regolamento (CE) n. 852/2004. Sempre nel 2006 il sistema HACCP è stato reso
obbligatorio anche per le aziende che hanno a che fare con i mangimi per gli animali destinati alla produzione di alimenti (produzione delle materie prime, miscele, additivi, vendita, somministrazione).
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FAO/OMS Codex Alimentarius, con particolare attenzione per l’analisi dei
pericoli, diventa lo strumento guida per la politica di sicurezza alimentare
aziendale;
– la gestione dei pericoli per la sicurezza igienica tramite misure di controllo
operative.
I punti di forza della certificazione sono:
– obiettivo chiaro e concreto del modello gestionale, sicurezza alimentare e non
qualità in senso lato;
– compatibilità e integrabilità completa con la norma UNI EN ISO 9001: 2000
e altri modelli gestionali simili (es. UNI EN ISO 14001: 1996);
– integrazione del metodo HACCP e dei principi del Codex Alimentarius all’interno del modello gestionale;
– soddisfazione di tutte le parti interessate: autorità preposte al controllo dei
requisiti di legge, consumatori, intermediari commerciali e altre aziende alimentari.
Gli strumenti di gestione socialmente responsabile rappresentano un’importante leva per “passare dalle parole ai fatti” dal momento che si propongono di
sviluppare sistemi per attuare e valutare le politiche e le pratiche di responsabilità sociale attraverso la fissazione di target e processi, la definizione di ruoli
e responsabilità, l’attuazione di percorsi di formazione e di meccanismi di misurazione e rendicontazione.
I sistemi di gestione rendono più facile gestire in maniera strategica la responsabilità sociale e possono contribuire al miglioramento delle performance
sociali dell’impresa, favorendo una più ampia e diffusa accountability. Tali strumenti inoltre possono consentire una più agevole ed efficiente identificazione e
gestione dei rischi ambientali e sociali, un più ampio e attivo coinvolgimento
degli stakeholder e una migliore efficacia organizzativa attraverso una razionale
raccolta e analisi delle informazioni sulle operazioni, oltre a un miglior coordinamento tra le diverse unità organizzative.
Infine gli standard di gestione socialmente responsabile possono essere utili
benchmark e strumenti di comunicazione sulla qualità del management.
Dato il loro carattere volontario, il successo degli standard di gestione socialmente responsabile dipende in ultima istanza dal loro livello di diffusione e
accettazione da parte del mercato. L’autorevolezza dell’organismo che ha prodotto lo standard e la qualità del processo attraverso il quale lo standard è stato
sviluppato (ad esempio il livello di coinvolgimento di un’ampia base di parti interessate) sono elementi determinanti per la sua credibilità.
Nei casi in cui l’ottenimento di una certificazione rispetto a uno standard di
gestione socialmente responsabile divenga oggetto di comunicazione esterna occorre accertarsi che il processo attraverso il quale la certificazione è stata otte-
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nuta abbia soddisfatto i requisiti generali di trasparenza e indipendenza. In ogni
caso tali standard non devono essere interpretati solo come un’occasione per
rendere visibile all’estero (ai consumatori, alle autorità di controllo, ecc.) la propria attenzione e il proprio impegno nella salvaguardia dall’ambiente, ma soprattutto come una leva per migliorare la qualità dei propri processi e l’efficienza nell’utilizzo delle risorse.
È importante osservare che l’adozione di uno standard di gestione non costituisce necessariamente garanzia di responsabilità sociale né estingue in alcun
modo la responsabilità dell’impresa di rispettare gli obblighi di legge.
Un’ultima notazione deve essere dedicata al processo di standardizzazione
della responsabilità sociale. Alcuni autori hanno sottolineato la pericolosità di
ridurre un concetto complesso e multiforme come quello della responsabilità sociale a uno standard (che per sua natura è una rappresentazione semplificata
della realtà). Altri invece affermano che la disponibilità di riferimenti accettati
e riconosciuti a livello internazionale facilita la trasparenza e la comparabilità.
Si tratta di un dibattito ancora molto aperto e che non ha trovato ancora una soluzione univocamente accetta.
3.2.1.3. Gli standard di rendicontazione
Gli strumenti di rendicontazione sociale hanno come scopo quello di portare
a conoscenza di tutti gli stakeholder i risultati che l’organizzazione è riuscita a
conseguire. Il progressivo diffondersi di strumenti di rendicontazione sociale e
ambientale si lega a una crescente domanda di accountability e trasparenza: gli
stakeholder chiave non solo si aspettano che le imprese prendano in considerazione le ricadute sociali e ambientali delle proprie azioni ma pretendono di essere informati su quali siano le performance reali delle imprese in queste aree.
Gli strumenti di rendicontazione delle performance sociali e ambientali più
noti e diffusi sono il bilancio sociale, il bilancio ambientale e il bilancio di sostenibilità. Per ognuno di questi strumenti sono stati prodotti standard nazionali
e internazionali di diversa natura, i più importanti dei quali saranno richiamati
nel presente paragrafo.
Il bilancio sociale è sicuramente il più noto strumento di rendicontazione sociale. In letteratura il bilancio sociale è stato oggetto di diverse definizioni:
– «il complesso dei documenti contabili e non che, insieme ai bilanci tradizionali, abbia come scopo di offrire informazioni quali-quantitative sulle operazioni svolte dall’impresa per effetto delle finalità sociali che si è assunta»
(Matacena, 1984, p. 99);
– «un report sociale autonomo che ha per oggetto il rendiconto della performance dell’azienda. La sua redazione è di regola volontaria. Il suo contenuto
può essere declinato in vari modi con soluzioni tecniche alternative. Il ter-
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mine bilancio sociale non si riferisce invece alla necessità che si elaborino
dati e prospetti bilancianti» (Mei Gabrovec, 2004, p. 30);
– «il risultato di un processo e non di un singolo atto» (Hinna, 2002, p. 88);
– «osservato in una prospettiva dinamica, è l’ultimo atto del processo di rendicontazione, ossia dell’insieme di azioni e strumenti con i quali si dà conto
a una pluralità di destinatari dei risultati raggiunti e della loro coerenza con
le finalità dell’istituzione» (Hinna, Monteduro, 2005, p. 38);
– «un processo attraverso il quale un’organizzazione valuta e comunica agli
stakeholder e alla comunità, in una prospettiva di assunzione di responsabilità, comportamenti, risultati, impatti delle proprie scelte e del proprio agire
in merito a questioni sociali, ambientali ed economiche» (Maino, 2002).
Il bilancio sociale è sicuramente lo strumento più indicato per rispondere alla
necessità di informazione e trasparenza dei propri stakeholder. È uno strumento
potenzialmente straordinario, rappresenta infatti un momento per enfatizzare il
proprio legame con il territorio, un’occasione per affermare il concetto di impresa come soggetto economico che perseguendo il proprio interesse prevalente
contribuisce a migliorare la qualità della vita dei membri della società in cui è
inserito.
Varie possono anche essere le motivazioni per cui si decide di realizzarlo:
per ragioni di comunicazione esterna o interna, per migliorare l’organizzazione
e la gestione oppure per contribuire alla definizione e valutazione delle strategie sociali.
Il bilancio sociale può essere oggetto di due diversi approcci: un approccio
al “documento” e un approccio più ampio al “processo” di dialogo e rendicontazione sociale.
Il primo approccio al bilancio sociale è “a cono stretto”. Partendo da un’impostazione di tipo contabile si evidenziano le incertezze e le disomogeneità riguardo alla forma espositiva dei dati e dei valori, al contenuto informativo e alle
funzioni svolte dal bilancio d’esercizio. Per rispondere a tale deficit ci si concentra solo sul miglioramento dei documenti di rendicontazione proponendone
uno nuovo e autonomo – il bilancio sociale – e individuando opportuni principi
di redazione.
L’ipotesi sottostante è che standardizzando le caratteristiche del documento
di rendicontazione sociale si possa realizzare una strategia di comunicazione diffusa, trasparente e confrontabile. Si trascurano, invece, elementi di tipo strategico e comunicativo oltre che contabili, quali il processo di ascolto e dialogo
con gli stakeholder. Il rischio è che da un anno all’altro cambino solo le cifre
del documento-bilancio sociale, proprio come nel bilancio economico tradizionale.
Senza rincorrere una coerenza con la mission aziendale, con i valori e con
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l’ambiente di riferimento e senza aver fatto tesoro dei suggerimenti di miglioramento provenienti dagli stakeholder (strategia dell’ascolto), il documento assume una rigidità che con il tempo si trasforma nella freddezza di un rito di cui
si perde la motivazione e il significato originario (Hinna, 2002).
Il più noto “standard di documento” è il modello predisposto dal Gruppo di
studio per la statuizione dei principi di redazione del bilancio sociale» (GBS)2.
A tal fine, il GBS ha definito i principi e le indicazioni procedurali essenziali e necessarie per la redazione del bilancio sociale (GBS, 2001). I principi
sono: la trasparenza, l’identificazione, l’utilità, la responsabilità, la coerenza,
l’inclusione, la neutralità, la comparabilità, la significatività e la rilevanza, la
verificabilità dell’informazione, l’attendibilità e la fedele interpretazione.
Lo strumento del bilancio sociale previsto dal modello GBS è tripartito in
una sezione dedicata all’identità aziendale, una riguardante la produzione e distribuzione del valore aggiunto e un’ultima relativa alla relazione sociale. La
prima riporta la mission aziendale, i valori etici di riferimento e l’assetto istituzionale; la seconda riclassifica i dati del bilancio tradizionale raggruppandoli in
categorie identificate sulla base dell’interesse degli stakeholder; la relazione sociale “racconta” la relazione con gli stakeholder, espone i risultati raggiunti in
funzione degli obiettivi programmati ed evidenzia gli effetti prodotti dalla gestione sui singoli stakeholder.
Quello del GBS è un modello che copre la dimensione economica, ambientale e sociale e si applica a tutte le tipologie di imprese del settore privato.
Secondo questa impostazione non è sufficiente adottare un qualsiasi modello
di bilancio sociale per essere socialmente responsabili, ma è necessario che l’impresa interiorizzi tutta una serie di valori. Tra i vari modelli che enfatizzano il
“processo” di rendicontazione sociale, quello noto come Copenhagen Charter
rappresenta la sintesi dei principali approcci al processo esistenti a livello internazionale.
La Copenhagen Charter può essere considerata come una sorta di “ciclo gestionale”, declinato rispetto alla costruzione e al mantenimento di una relazione
strutturata con gli stakeholder. Esso, dunque, inquadra il “documento” bilancio
sociale come una fase di un più ampio processo di rendicontazione e dialogo
con gli stakeholder aziendali (figura 5)
Secondo la Copenhagen Charter l’obiettivo dell’azienda che intende accrescere la propria responsabilità sociale è riuscire “a creare valore”, integrando i
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Il GBS è stato fondato nel 1998 ed è costituito da studiosi e da professionisti. Ha la finalità di definire
le caratteristiche di uno strumento di rendicontazione sociale che consenta alle aziende di realizzare una
strategia di comunicazione diffusa e trasparente per ottenere consenso fra i propri stakeholder e legittimazione sociale.
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processi di dialogo e di reporting con gli stakeholder nella mission e nella strategia aziendali. In questa ottica, la rendicontazione sociale diventa un metodo
di lavoro che orienta il management verso “la responsabilità sociale” e verifica
la creazione di valore condiviso tra tutti gli stakeholder chiave, siano essi interni o esterni all’azienda.
Box 5 - La Copenhagen Charter
La Copenhagen Charter prevede le seguenti fasi di processo di rendicontazione sociale:
Decisione dell’Alta Direzione: è la decisione di creare e gestire un rapporto duraturo e articolato con i propri interlocutori. L’impegno della struttura apicale è fondamentale sia per l’avvio che per il prosieguo del processo.
Identificazione degli stakeholder: all’interno dell’insieme variegato di interlocutori di un’organizzazione vanno
individuati gli stakeholder strategici rispetto ai quali si va a rendicontare.
Dialogo con gli stakeholder: si tratta di costruire con gli stakeholder individuati un dialogo biunivoco e permanente attivando gli strumenti in grado di intercettare le istanze dei diversi segmenti di interlocutori.
Determinazione del sistema di indicatori: è il momento cruciale del processo poiché si tratta di costruire un
‘sistema operativo’ di indicatori che rappresenta una parte sostanziale del Bilancio sociale. Vengono definiti
KPI (Key Performance Indicators) e sono delle informazioni sintetiche, di tipo qualitativo e quantitativo, in
grado di testimoniare i risultati ottenuti in maniera chiara, significativa, definita e misurabile.
Monitoraggio performance: si tratta di verificare, attraverso la rilevazione costante attivata tramite gli indicatori, la coerenza delle performance realizzate (risultati raggiunti) rispetto agli obiettivi, ai valori, alla missione dell’organizzazione (in una parola ai suoi “impegni”).
Azioni per il miglioramento: il monitoraggio dà la possibilità di fornire tempestivamente risposte e azioni di
miglioramento sulla base delle indicazioni strategiche derivanti dal processo di rendicontazione sociale.
Preparazione, verifica, pubblicazione del report: è questa la fase in cui viene effettivamente predisposto il Bilancio sociale. Il Report, una volta pronto, va sottoposto ad una verifica esterna (social audit). Ha luogo infine la pubblicazione e la divulgazione del Report, che deve essere vissuta come un evento di legittimazione
sociale.
Feedback degli stakeholder: la raccolta delle osservazioni degli stakeholder serve a migliorare sia il processo
di rendicontazione sociale sia le performance dell’organizzazione in generale.
Un secondo standard di processo molto noto e diffuso è l’AccountAbility
1000 (AA1000) elaborato dall’ISEA (Institute of Social and Ethical Accountability) nel 1999. L’AA1000 si basa sullo sviluppo del dialogo e l’instaurazione
di relazioni con tutte le categorie di stakeholder. Tale standard individua le cinque fasi essenziali della rendicontazione etico-sociale:
1. pianificazione (planning),
2. raccolta delle informazioni (accounting),
3. verifica e comunicazione (auditing and reporting),
4. integrazione nei sistemi (embedding)
5. coinvolgimento degli stakeholder (stakeholder engagement).
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Figura 5 - Il ciclo della rendicontazione sociale
Fonte: Copenhagen Charter, 1999
Prevede inoltre la definizione di una serie di linee guida da seguire nel sistema di contabilità e di rendicontazione della responsabilità sociale dell’impresa, e un insieme di requisiti necessari per le adeguate qualifiche professionali (professional qualification).
Il bilancio ambientale si sviluppa alla fine degli anni settanta come evoluzione del filone della comunicazione sociale delle imprese nord-americane (Frey
M., 2002). Una serie di catastrofi ambientali aveva sollevato con forza il problema dell’impatto ambientale dell’attività di impresa. Se negli anni ottanta i rapporti ambientali erano richiesti alle imprese dalle autorità pubbliche (e cioè erano
obbligatori), negli anni novanta le imprese iniziano a produrre volontariamente i
primi rapporti ambientali, concependoli come destinati a un largo pubblico.
Parallelamente alla proliferazione dei bilanci ambientali si sono sviluppate
molteplici iniziative per standardizzarne le caratteristiche e i contenuti. Tra le
iniziative di standardizzazione più note vi sono l’iniziativa della Coalition for
Environmentally Responsible Economics (CERES) e l’iniziativa dell’United Nations Environment Programme (UNEP).
La CERES è un’organizzazione costituita da investitori sociali e ambientali-
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sti e ha di recente generato la Global Reporting Initiative. Si tratta, come meglio si dirà in seguito, di un progetto concepito su scala mondiale per consentire alle imprese multinazionali di avere un riferimento per i propri rapporti ambientali. Le linee guida comprendono riferimenti alle strategie, agli indicatori
chiave, alle performance finanziarie, agli aspetti gestionali, alle relazioni con gli
stakeholder, alle prestazioni manageriali, operative e di prodotto.
L’iniziativa dell’UNEP ha invece individuato ben 50 elementi di base che caratterizzano un bilancio ambientale. Questi elementi di base sono raggruppati in
sei sezioni: sistemi e politiche gestionali, prospetto input-output, aspetti economico-finanziari, rapporti con gli stakeholder, sviluppo sostenibile, architettura
del report ambientale.
Nel complesso il bilancio ambientale è un documento informativo nel quale
sono descritte le principali relazioni tra l’impresa e l’ambiente, pubblicato volontariamente allo scopo di comunicare direttamente con il pubblico interessato.
In esso sono contenuti:
– indicatori di gestione ambientale, che valutano l’impegno profuso nel controllo degli aspetti ambientali;
– indicatori ambientali assoluti, che misurano l’entità dei fattori d’impatto generati dall’impresa;
– indicatori di prestazione ambientale, che valutano l’efficienza ecologica svincolandola dalle fluttuazioni del livello di produzione;
– indicatori di effetto potenziale, che stimano l’effetto che potrebbe produrre
l’attività dell’impresa sull’ambiente;
– indicatori di effetto ambientale, che valutano le variazioni effettive dell’ambiente dovute all’attività dell’impresa.
Rispetto al bilancio ambientale, il bilancio di sostenibilità costituisce una
forma di comunicazione “più completa” che comprende tutte le dimensioni del
concetto di sostenibilità: sostenibilità ambientale come capacità di mantenere la
qualità e riproducibilità delle risorse naturali; sostenibilità sociale come capacità
di garantire condizioni di benessere e opportunità di crescita nel rispetto dei diritti umani e del lavoro; sostenibilità economica come capacità di generare reddito, profitti e lavoro (figura 6).
Si possono definire come caratteristiche distintive del bilancio di sostenibilità (Frey M., 2002):
– la piena valorizzazione della dimensione ambientale, oltre che di quelle economiche e sociali,
– l’attenzione al benessere delle generazioni future quali stakeholder cui è necessario “dare voce”;
– la capacità di coniugare dimensione globale e dimensione locale dello sviluppo;
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Figura 6 - Bilancio di sostenibilità e bilancio sociale
Fonte: nostra elaborazione
– la capacità di essere il risultato di un complessivo processo di interazione
nelle politiche di gestione delle variabili socio-ambientali all’interno dell’organizzazione.
Passando dagli strumenti agli standard di rendicontazione ambientale il più
noto e diffuso è la Global Reporting Iniziative (GRI). Si tratta di un’iniziativa
istituita nel 1997 allo scopo di sviluppare e promuovere linee guida, applicabili
a livello globale, per la redazione di un “bilancio di sostenibilità” ovvero di un
documento pubblico e credibile che descriva gli impatti di natura economica,
ambientale e sociale che l’impresa o l’organizzazione genera attraverso le proprie attività.
La GRI è stata promossa da CERES in partnership con UNEP, e con il coinvolgimento di imprese, ONG, associazioni di esperti contabili, organizzazioni
imprenditoriali e altri stakeholder a livello internazionale.
La GRI prende in considerazione le tre dimensioni della sostenibilità, declinandole a livello delle varie organizzazioni. Si tratta, rispettivamente della:
– dimensione economica (ad esempio, retribuzioni e benefici, spese per la fornitura, vendite nette, interessi e dividendi erogati, tasse pagate, andando oltre informazioni puramente finanziarie);
– dimensione ambientale (ad esempio, gli impatti di processi, beni e servizi su
aria, acqua, suolo, biodiversità e salute umana);
– dimensione sociale (includendo, ad esempio, salute e sicurezza sul lavoro, livelli occupazionali, diritti dei lavoratori, diritti umani e delle popolazioni indigene).
Per ogni dimensione della sostenibilità le GRI Guidelines individuano categorie, aspetti e indicatori di performance. Nella versione 2002 gli indicatori sono
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stati rivisti, riorganizzati e integrati, specie quelli sociali (pratiche di lavoro, diritti umani, responsabilità del prodotto e verso la società) e quelli riguardanti la
categoria economica.
Dopo aver descritto le caratteristiche principali degli strumenti di rendicontazione sociale è bene fare alcune considerazioni di carattere metodologico, utili
ai fini della realizzazione di un bilancio sociale, ambientale o di sostenibilità.
In sede di avvio dell’iniziativa di rendicontazione può rivelarsi molto utile
prestare attenzione agli elementi di seguito indicati.
– Il livello gerarchico al quale si colloca l’iniziativa: prima di partire può essere opportuno fare una verifica della convinzione dei massimi vertici rispetto al progetto. In tal modo si può scongiurare il rischio di interrompere
la pubblicazione del bilancio sociale/ambientale/di sostenibilità dopo qualche
anno, disorientando gli stakeholder e tradendo le attese che ai vari livelli, anche del personale interno, si erano venute a creare.
– Il gruppo di lavoro: è auspicabile che il gruppo di lavoro interno sia coordinato da una persona collocata al giusto livello gerarchico e riconosciuta, o
riconoscibile, come referente di progetto. È opportuno inoltre che i componenti del gruppo di lavoro, in quanto futuri portatori della conoscenza interna
in materia di predisposizione del bilancio sociale/ambientale/di sostenibilità,
siano il più possibile espressione delle diverse articolazioni interne dell’azienda.
– L’informazione interna sull’iniziativa: la realizzazione di un momento di
(in)formazione favorisce la conoscenza del progetto, le sue valenze, i risultati attesi e gli obiettivi perseguiti. Inoltre si può negoziare la disponibilità a
collaborare da parte delle varie unità organizzative anche avvalendosi della
“sponsorizzazione” sul progetto da parte dei vertici dell’amministrazione. Ci
si può avvalere di strumenti quali: seminari interni sul tema della rendicontazione sociale e delle sue metodologie; la predisposizione e la distribuzione
di materiale informativo e divulgativo sul tema del bilancio sociale, ecc.
– L’analisi interna: attraverso l’analisi della documentazione e attraverso incontri e riunioni con il personale impiegato nelle varie aree, il gruppo di lavoro può procedere all’analisi di alcuni “fattori chiave”, che sebbene differentemente coniugabili nelle diverse realtà, fanno generalmente capo alle seguenti aree di indagine: a) la missione istituzionale, i valori e i principali settori di intervento; b) gli obiettivi strategici, così come risultano dai molteplici strumenti di pianificazione generale e settoriale; c) la storia, le iniziative attuate e i successi ottenuti; d) il modello di governance (interna); e)
l’organizzazione interna e le risorse umane; f) i processi qualificanti, i progetti e le principali attività; g) i destinatari delle attività; h) le risorse economico-finanziarie. L’approfondimento delle predette aree di indagine è
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strumentale alla costruzione del bilancio sociale/ambientale/di sostenibilità e
alla individuazione dei punti di forza e delle criticità per implementare un
efficiente sistema di rendicontazione sociale.
– La definizione della gerarchia delle informazioni: un momento importante è
quello della definizione della gerarchia e dell’ordine espositivo delle informazioni che saranno oggetto di rendicontazione. Naturalmente sono possibili
molteplici soluzioni. Tra queste appare interessante la soluzione che prevede
la definizione di nuclei di informazioni fondamentali che, trovando una sintesi massima nella missione, vengono via via scomposti fino all’unità di
informazione minima (progetto, iniziativa, ecc.) alla quale – in sede di costruzione del bilancio sociale – viene poi “agganciato” il sistema di contabilità sociale (fatti e cifre).
– L’identificazione degli stakeholder chiave: si tratta di una delle fasi più delicate, in quanto dalla tipologia di stakeholder individuata dipenderà il target
audience del bilancio sociale, la scelta del livello di approfondimento delle
informazioni rendicontate e la definizione del “linguaggio contabile” più opportuno. Un utile supporto può essere offerto dalla “matrice attività/stakeholder” ossia da una tabella a doppia entrata che, partendo dai settori di intervento (o da una sommaria elencazione delle attività svolte), individua per
ogni attività gli stakeholder che sono interessati da (o che influenzano) la
realizzazione della stessa.
Se si decide di realizzare un bilancio sociale si suggerisce di prendere in considerazione i seguenti ulteriori aspetti.
– Identificazione del portafoglio indicatori di base: sulla base della tipologia
di informazioni candidate a costituire gli oggetti di rendicontazione sociale
può essere definito un portafoglio indicatori di base. Per l’identificazione di
detto portafoglio sarà utile e necessario, oltre che un’analisi di confronto con
altre esperienze italiane ed estere anche un confronto con il sistema informativo interno all’azienda.
– Stesura del bilancio sociale: sulla base dell’analisi sin qui svolta è opportuno
elaborare una prima bozza del bilancio sociale/ambientale/di sostenibilità da
sottoporre all’attenzione e approvazione degli organi di governo aziendale.
– Pubblicazione del bilancio sociale: con il supporto da parte di esperti della
comunicazione, si possono individuare i canali/supporti di comunicazione,
nonché il profilo linguistico ed espressivo più idoneo agli scopi preposti e
comunque adeguati alle capacità cognitive delle differenti categorie di
stakeholder.
– Social Auditing: per evitare l’autoreferenzialità del processo occorre accompagnare allo stesso un momento di verifica esterna. Esistono vari approcci e
per un approfondimento si rinvia alla letteratura specifica (Hinna, 2005).
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3.2.2. Gli strumenti per il consumo socialmente responsabile
Alcune ricerche3 hanno dimostrato che i consumatori vogliono non solo acquistare prodotti di qualità e sicuri ma anche sapere se essi siano stati fabbricati secondo criteri “socialmente responsabili”. Infatti, i consumatori, oggi, attribuiscono grande importanza agli impegni sociali e ambientali di un’impresa
al momento dell’acquisto di un prodotto o di un servizio.
Tale atteggiamento rivela prospettive interessanti sul mercato poiché un numero sempre più significativo di consumatori afferma di essere assolutamente
disposto a pagare di più tali prodotti (MORI, 2000). Le principali preoccupazioni dei consumatori sono la protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori, il rispetto dei diritti dell’uomo nel funzionamento dell’impresa e lungo
l’intera filiera produttiva (ad esempio il fatto di non ricorrere al lavoro infantile), la protezione dell’ambiente, la qualità e la sicurezza.
In risposta a queste istanze si stanno diffondendo numerose iniziative (denominate “etichette sociali” e/o marchi) ad opera di singole imprese (etichette/marchi autodichiarati), associazioni di categoria o settore, ONG, governi.
Le etichette sociali e i marchi devono garantire che il processo di produzione
sia esente da qualunque pratica non sostenibile sotto il profilo sociale e/o ambientale. Inoltre devono garantire una piena trasparenza e un processo di verifica indipendente (certificazione).
A questo punto è opportuno analizzare la struttura di alcune iniziative particolarmente rilevanti nel settore agricolo e agroalimentare.
3.2.2.1. Le etichette e i marchi etico-sociali
Le etichette sociali e i marchi si caratterizzano per la fissazione di una serie
di principi e di procedure organizzative la cui conformità a criteri di carattere
etico-sociale viene certificata da un soggetto qualificato e viene comunicata attraverso l’apposizione sul prodotto di un’etichetta/marchio.
Da quanto appena detto si desume che è necessario, per poter ricevere l’etichetta/marchio, attivare un processo di revisione dell’ordinamento interno all’organizzazione cosicché questo possa allinearsi allo standard proposto dall’etichetta. È necessario quindi che l’impresa che intende certificarsi adatti il suo
3
Tra le varie fonti disponibili si ricordano ECRA (The Ethical Consumer Research Association), che propone una rivista (Ethical Consumer) anche on-line ed un database on line (Corporate Critic) (www.ethicalconsumer.org), The Cooperative Bank, che già da alcuni anni pubblica annualmente un rapporto di ricerca sul consumo etico (Ethical Consumerism Research Report) (www.cooperativebank.co.uk), e CSR
Europe, un’organizzazione non profit che promuove a livello europeo la cultura della responsabilità sociale e che ha svolto una ricerca sull’atteggiamento dei consumatori verso la responsabilità sociale delle
imprese (www.cseurope.org).
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sistema produttivo, il suo sistema informativo e il suo sistema di controllo interno alle direttive che gli vengono proposte dall’ente promotore dello standard.
Per cercare di rendere le etichette e i marchi il più possibile trasparenti e veritieri si ricorre al meccanismo della certificazione esterna, che ha il compito di
verificare se sono stati esattamente compresi e applicati dalle imprese tutti i principi e le procedure fondamentali.
Le etichette e i marchi sono la categoria di strumenti della responsabilità sociale che in assoluto ha fatto registrare la maggior proliferazione di iniziative
negli ultimi anni. Dal momento che le istanze dei consumatori possono essere
anche molto diverse tra aziende, settori e/o aree territoriali, si registra una notevole eterogeneità di modelli e approcci. Di seguito ne vengono illustrati alcuni a titolo esemplificativo.
L’Ecolabel (regolamento (CE) n. 1980/2000) è l’etichetta europea di qualità
ecologica che premia i prodotti e i servizi migliori dal punto di vista ambientale. L’etichetta attesta che il prodotto o il servizio abbia un ridotto impatto ambientale nel suo intero ciclo di vita.
Possono richiedere l’etichetta le aziende produttrici di beni e i fornitori di
servizi, i venditori all’ingrosso e al dettaglio di prodotti e servizi che utilizzino
il proprio marchio e gli importatori. Per tali soggetti l’etichetta costituisce un
vantaggio competitivo legato all’aumento di visibilità sul mercato e all’allargamento del target clienti.
Per il consumatore invece l’Ecolabel è una garanzia, fornita dalla UE, delle
qualità ecologiche e d’uso dei prodotti che permette di fare scelte volte a minimizzare gli impatti ambientali negativi dei prodotti industriali.
L’Ecolabel rientra tra gli strumenti preferiti per lo sviluppo di politiche di
acquisto sostenibile, attuate sia nel settore pubblico che in quello privato e si
caratterizza per:
– la volontarietà: la richiesta dell’Ecolabel è del tutto volontaria. I produttori,
gli importatori o i distributori possono richiedere l’Ecolabel, una volta verificato il rispetto dei criteri da parte dei prodotti;
– la selettività: l’etichetta ecologica è un attestato di eccellenza. I criteri ecologici e prestazionali sono messi a punto in modo tale da permettere l’ottenimento dell’Ecolabel solo da parte di quei prodotti che abbiano raggiunto
l’eccellenza ambientale. Quando se ne verifichi la necessità, i criteri vengono
revisionati e resi più restrittivi, in modo da favorire il miglioramento continuo della qualità ambientale dei prodotti;
– la diffusione a livello europeo: forza dell’Ecolabel è proprio la sua dimensione europea. L’etichetta può essere usata negli Stati membri dell’Unione
europea così come in Norvegia, Islanda e Liechtenstein.
L’impresa che vuole conseguire l’Ecolabel deve inviare una domanda corre-
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data da una documentazione tecnica, al Comitato Ecolabel-Ecoaudit. Tutta la
documentazione viene giudicata dall’APAT (Agenzia per l’ambiente e per i servizi tecnici) che esegue l’istruttoria tecnico-amministrativa. L’APAT, entro sessanta giorni, deve verificare la conformità del prodotto ai criteri Ecolabel di riferimento e comunicare il risultato al Comitato. In caso di esito positivo dell’istruttoria il Comitato, entro trenta giorni, concede l’etichetta e informa la Commissione europea.
Per le produzioni da agricoltura biologica esiste un sistema di controllo e di
certificazione obbligatori, a valle del quale è possibile apporre il marchio “Agricoltura Biologica” (regolamento (CEE) n. 2092/91). Ulteriori disposizioni applicative emanate in Italia dall’autorità competente hanno introdotto il meccanismo dell’“autorizzazione alla stampa etichette” con relative codifiche e diciture obbligatorie.
L’etichettatura dei prodotti da agricoltura biologica trova disposizioni specifiche nell’ambito degli artt. 2 (diciture), 4 (definizioni) 5 (requisiti e diciture
dell’etichetta) e 10 (dichiarazione/logo di conformità) del regolamento (CEE) n.
2092/91.
Gli aspetti essenziali che è bene richiamare parlando di etichettatura dei prodotti ottenuti con metodo biologico sono i seguenti:
– le indicazioni in etichetta devono evidenziare che quando si utilizza il termine “biologico” si tratta di un metodo di produzione agricolo o di allevamento, non di un requisito di prodotto (concetto rafforzato dal divieto di riferirsi a caratteristiche organolettiche, qualitative o sanitarie superiori);
– il prodotto deve essere stato ottenuto nel pieno rispetto delle norme di produzione e interamente all’interno di una “filiera” sottoposta al sistema di controllo obbligatorio, oltre che contenere esclusivamente ingredienti ammessi
anche qualora si tratti di prodotti importati da Paesi terzi;
– in etichetta deve comparire quantomeno il codice o il logo dell’organismo di
certificazione autorizzato, mentre l’utilizzo del logo europeo non è obbligatorio.
Il marchio “Agricoltura biologica – Regime di controllo CE” indica che il
prodotto finale è stato ottenuto attraverso una composizione di ingredienti di cui
una determinata percentuale (95%) è stata ricavata con tecniche biologiche.
I punti di forza del marchio da agricoltura biologica sono:
– difesa delle produzioni che contribuiscono a mantenere la fertilità del suolo;
– sistema di valorizzazione territoriale;
– garanzia di derrate alimentari genuine, sicure e di qualità con prodotti controllabili sin dall’origine.
Il marchio collettivo di natura pubblica (c.d. marchio geografico) è promosso
da Regioni, Enti locali, Camere di Commercio, Enti parco, associazioni pub-
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blico-private (consorzi, consorzi d’area localizzati in zone delimitate, gruppi di
azione locale, cooperative) che ne sono proprietari (depositari) (Giuca, 2001). Il
marchio collettivo, proprio perché si configura per la separazione tra uso e titolarità, viene concesso in uso ai produttori locali che ne fanno richiesta, i quali
aderiscono agli obblighi e alle condizioni previste dalla stessa legge istitutiva
del marchio e nel regolamento d’uso e alle caratteristiche qualitative codificate
nei disciplinari di produzione o documenti normativi, appositamente predisposti. Su incarico del titolare e/o gestore del marchio vengono svolte visite ispettive da parte di organismi di certificazione indipendenti e competenti del settore
per verificare la rispondenza del richiedente l’uso del marchio ai requisiti previsti nei disciplinari o documenti normativi.
Il marchio collettivo può essere:
– un marchio regionale, istituito con legge regionale anche per più categorie
merceologiche di prodotto, per identificare le produzioni agricole locali, soprattutto quelle ottenute dai programmi di agricoltura integrata;
– un marchio istituito con provvedimenti delle amministrazioni locali e di cui
sono titolari le Camere di Commercio per identificare le produzioni agricole
tipiche dei territori di Province, Comunità montane, Comuni e altri Enti locali;
– un marchio d’area: marchio dei Consorzi d’area, localizzati in una zona delimitata per lo svolgimento di attività esterne di promozione e vendita dei
prodotti delle imprese consorziate tramite un ufficio comune (art. 2612 c.c.);
– un marchio dei Consorzi di tutela dei prodotti tipici, affidato in gestione, in
seguito a legge nazionale, ai Consorzi riconosciuti con decreto ministeriale.
Il marchio collettivo è di natura privatistica quando è di proprietà di organizzazioni o soggetti privati (consorzi di imprese, cooperative) e in tal caso è
assoggettato alle norme del Codice Civile.
Il marchio collettivo garantisce la corrispondenza tra il marchio concesso agli
associati e le caratteristiche del prodotto, assicurando il mantenimento di standard ben precisi e consentendo di distribuire i costi che ne derivano (comunicazione, promozione, controlli) tra gli associati. Spesso si tratta di un marchio
regionale volto a identificare le produzioni agricole locali tipiche o ottenute con
metodi di produzione biologica o con programmi di agricoltura integrata, rispondenti a determinati disciplinari di produzione; in questo caso consente di
usufruire della sponsorizzazione e del sostegno diretto della Regione. Nel caso
di marchio d’area rappresenta uno strumento per consentire all’area stessa di
sviluppare e consolidare l’offerta dei prodotti tradizionali caratteristici.
I punti di forza del marchio collettivo di natura pubblica sono:
– possibilità di pianificare gli aspetti organizzativi e gestionali e di impostare
efficaci azioni di marketing collettivo con il supporto della Regione o dell’Ente pubblico;
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– sistema di valorizzazione territoriale;
– consente uno stretto legame tra produzione agricola e prodotto trasformato;
– soddisfa il consumatore e la sua crescente ricerca di qualità e di informazione;
– nel caso di marchio regionale mantiene e incrementa i livelli di notorietà e
di penetrazione sul mercato acquisiti nelle zone di maggior interesse commerciale.
I punti di debolezza del marchio collettivo sono:
– necessità di garantire quantità costanti di produzione;
– contrastare le strategie della grande distribuzione che punta a grosse quantità prodotte e all’omologazione dei gusti a livello nazionale con prodotti
standardizzati;
– mancanza di notorietà presso i consumatori (nel caso di prodotti da agricoltura integrata)4.
Le etichette e i marchi sono strumenti per il consumo socialmente responsabile che cercano di promuovere uno sviluppo più equo e sostenibile facendo leva
sulle scelte di acquisto dei consumatori.
Queste iniziative hanno in genere una portata e un impatto abbastanza limitato, dal momento che si rivolgono a delle “nicchie” (i consumatori e i distributori più sensibili, ecc.). Nonostante ciò le prospettive di mercato dei beni “etichettati” sono positive e crescenti sono le quote di mercato di questi beni rispetto a quelli tradizionali. Inoltre molte istituzioni pubbliche e internazionali
sono impegnate a promuovere e incentivare le iniziative di consumo responsabile anche attraverso campagne di sensibilizzazione e informazione dei consumatori.
Per essere efficaci le etichette e i marchi devono caratterizzarsi come iniziative trasparenti, affidabili, sostenibili e non discriminatorie. La disponibilità di
informazioni accurate e accessibili sulle condizioni socio-ambientali in cui si
svolgono i processi produttivi è una condizione fondamentale per consentire al
consumatore di assumere delle scelte di consumo pienamente consapevoli. Occorre garantire una totale trasparenza e controllabilità dei criteri e delle procedure di etichettatura e certificazione, nonché dei meccanismi di controllo che
vengono utilizzati.
Un fattore di criticità può essere individuato nella proliferazione di differenti
tipologie e schemi di etichettatura sociale. Ciò può determinare situazioni di
confusione nei consumatori, elemento questo che vanifica il fine stesso per il
quale le etichette sono create: aumentare la capacità di scelta del consumatore.
4
Cfr. Giuca Capitolo IV del presente lavoro.
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Rifarsi a schemi già ampiamente diffusi a livello internazionale può permettere
di limitare questo possibile inconveniente.
Un ulteriore aspetto che contribuisce al successo dell’iniziativa è la qualità
e la professionalità dell’ente che certifica il rispetto dei criteri previsti dall’etichetta/marchio.
3.3. Conclusioni
Il sistema agroalimentare interviene nella produzione, trasformazione e commercializzazione di beni che soddisfano un bisogno primario dell’uomo: l’alimentazione. Ne consegue che il ruolo “sociale” del sistema agroalimentare è insito nella “missione” delle imprese che lo costituiscono.
Tuttavia non è sufficiente constatare questa innata “responsabilità sociale”
del sistema agroalimentare ma occorre chiedersi se tale responsabilità:
– sia condivisa e “vissuta” all’interno delle singole imprese,
– sia confrontata periodicamente con gli stakeholder,
– sia effettivamente alla base delle scelte strategiche,
– si rifletta in coerenti e funzionali modelli organizzativi e gestionali,
– si rifletta in coerenti atteggiamenti e azioni,
– produca risultati concreti e misurabili,
– sia misurata e comunicata in maniera comprensibile anche dai non addetti ai
lavori,
– venga utilizzata come leva di motivazione interna e di competitività esterna.
È proprio dalla risoluzione di questi importanti interrogativi che dipende in
gran parte la capacità di tradurre in azioni concrete i bisogni sottesi alle nuove
sfide di fronte a cui il sistema agroalimentare attualmente si trova.
Attraverso l’applicazione degli strumenti di responsabilità sociale al proprio
contesto organizzativo, ciascuna impresa agricola e agroalimentare ha l’opportunità: a) di definire i principi etici della sua visione; b) di identificare i propri
interlocutori; c) di assumere impegni precisi nei loro confronti; d) di adottare
metodi di organizzazione e attuazione degli impegni presi; e) di rendicontare
agli interlocutori le proprie performance consentendo loro di formarsi aspettative ed esprimere giudizi.
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PARTE SECONDA
LA
FUNZIONE SOCIALE DELLA RESPONSABILITÀ SOCIALE
DI IMPRESA IN AGRICOLTURA:
TRADIZIONE, AMBIENTE, TERRITORIO E COOPERAZIONE
CAPITOLO IV
RESPONSABILITÀ
SOCIALE DI IMPRESA COME VALORIZZAZIONE
DELLA TERRITORIALITÀ E DELLA TRADIZIONE AGROALIMENTARE
4.1. Premessa
Se un territorio produce materie prime agricole a buon mercato, in assenza
di elementi di qualificazione, in condizioni sociali deplorevoli e senza tener
conto delle questioni ambientali, le imprese che vi operano non possono essere
definite né economicamente competitive né socialmente responsabili, nei termini
che la letteratura economica assegna a questi concetti.
Un territorio diventa, invece, competitivo, quando è in grado di affrontare la
concorrenza del mercato attraverso la capacità di fare sistema a livello locale
con le istituzioni pubbliche, le associazioni agricole, le aziende e le industrie di
trasformazione, garantendo, al tempo stesso, la sostenibilità ambientale, economica, sociale e culturale. Perché ciò avvenga, tuttavia, non solo le imprese devono impegnarsi in percorsi di innovazione produttiva e di rafforzamento delle
competenze imprenditoriali ma devono sussistere alcuni elementi, in particolare:
– il rafforzamento del sentimento di attaccamento al territorio delle imprese, in
modo da incrementare le risorse che non possono essere delocalizzate;
– il potenziamento del senso del bene comune;
– l’integrazione di tutte le risorse del territorio;
– la valorizzazione degli elementi comuni legati alla specificità del territorio,
tradizioni, paesaggi, architettura, know-how, per differenziare i prodotti e
creare nuove prospettive di mercato.
Un territorio economicamente competitivo produce materie prime agricole di
qualità nel rispetto delle condizioni sociali e delle questioni ambientali ma è socialmente responsabile quando le imprese che operano in tale contesto oltre a
essere competitive – nei termini classici di produttività, crescita e redditività –
riescono a percepire i bisogni sociali, culturali, ambientali e economici locali e
li traducono in obiettivi condivisi da realizzare.“L’integrazione su base volontaria dei problemi sociali e ambientali delle imprese nelle loro attività commerciali e nelle loro relazioni con le altre parti” (CE, 2001a), infatti, è la definizione di responsabilità sociale delle imprese per la Commissione europea. La
RSI è, quindi, un approccio innovativo alla gestione d’impresa e alla gestione
delle relazioni con gli stakeholder, attraverso un loro diretto coinvolgimento, in
grado di assicurare un corretto bilanciamento tra dimensione sociale, economica
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e ambientale, in linea con lo sviluppo sostenibile1. Ma la RSI consente anche,
da un lato, di conoscere le culture, le tradizioni e le relazioni del territorio e,
dall’altro, di individuare obiettivi, risorse e strumenti degli attori coinvolti nel
contesto di riferimento, al fine di orientare, monitorare e verificare le azioni utili
e necessarie alle imprese per gestire un diverso modo di operare, finalizzato a
un successo commerciale durevole ma equilibrato sul piano sociale.
Il concetto di fondo è che la RSI consenta di gestire e ridurre al minimo le
conseguenze negative di tutte le attività di un’impresa. Nel momento in cui l’impresa apre, per così dire, la “scatola nera” della governance interna agli attori
della comunità locale, essa stessa diventa attore consapevole degli obblighi sociali (Bonomi, 2007) e acquisisce la necessità di una “cultura della qualificazione”. Al tempo stesso, la “cultura della qualificazione” rappresenta, in un mercato sempre più globale e concorrenziale, la leva più idonea ad assicurare sviluppo e sostenibilità all’economia del territorio e alle imprese che vi operano;
come si avrà modo di illustrare nelle pagine seguenti, tale leva, per il sistema
agroalimentare, è mossa da più vettori: valorizzazione, promozione, tutela e certificazione dei prodotti agroalimentari. mentre la chiave di comunicazione per
aumentare l’impatto sui cittadini/consumatori è un insieme di valori salutistici,
ambientali e sociali quali benessere fisico, piacere del gusto, tradizione, tipicità,
genuinità, territorialità, naturalità ed ecologia.
4.2. Le specificità del territorio come cultura della qualificazione
La valorizzazione degli elementi di specificità del territorio può conferire un
vantaggio competitivo all’impresa locale agricola e agroalimentare che si traduce in un successo commerciale sostenibile perché consente di:
– esaltare la componente sociale, con la presa di coscienza e il riconoscimento,
da parte degli operatori locali, degli aspetti caratteristici del loro territorio e
della cultura locale che suscitano l’interesse dei consumatori;
– sviluppare una capacità di rinnovamento, di “modernizzazione” e di adeguamento costante dei prodotti e dei servizi verso la qualità;
– coinvolgere la popolazione locale e gli attori della filiera – produttori, ope1
82
La necessità di rendere compatibili le esigenze dell’economia con le ragioni dell’ambiente è alla base del
concetto di sviluppo sostenibile, che deve essere pensato e implementato con la partecipazione locale al
fine di “rispondere alle esigenze del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di
soddisfare le proprie (CE, 2001B)”; il suo perseguimento pone sfide importanti per tutti gli Stati membri: cambiamenti climatici ed energie pulite; trasporti sostenibili; consumi e produzione sostenibili; conservazione e gestione delle risorse naturali; sanità; inclusione sociale; demografia, migrazioni e povertà
globale (Ce, 2005; Consiglio europeo, 2006).
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ratori e consumatori – anch’essi cittadini del territorio, utilizzando una serie
di strumenti, tra cui i marchi territoriali, le carte di qualità, le strade a tema,
gli itinerari dei sapori, per consolidare gli elementi delle attività locali che
non possono essere delocalizzati;
– promuovere forme innovative di contatto e/o compravendita tra aziende e consumatori in un’ottica di filiera corta che, conciliando la redditività di chi produce con le capacità economiche dei consumatori, si traducono in un esempio
di produzione agricola e agro-alimentare ad alta valenza economico-sociale.
Se, ad esempio, le piccole o piccolissime aziende produttrici di un’area decidono di aggregarsi e adottare un marchio collettivo (Cfr. paragrafo 4.2.2,
box 8) per aumentare la massa critica, ridurre i costi e condividere know-how e
servizi, potenziando così la capacità di penetrazione nel mercato e la loro competitività, possono decidere di fare non solo delle scelte di marketing, ma di porre
in essere comportamenti legati all’etica e alla responsabilità personale. A tal fine,
queste imprese, oltre a costruire le politiche di marketing con riferimento al modello classico delle 4P delle imprese commerciali2 possono scegliere di:
– vendere solo prodotti agricoli locali e promuovere la memoria storica e le
tradizioni agro-alimentari dell’area;
– rendere trasparenti i costi di produzione e i meccanismi di formazione del
prezzo, applicando il giusto prezzo finale ai propri prodotti;
– inserirsi in un contesto di filiera corta nell’ambito di iniziative e programmi
di sviluppo locale;
– adottare percorsi certificati di tracciabilità e qualità dei processi produttivi
e/o inserirsi in un contesto di filiera regionale con obiettivi di trasparenza,
tracciabilità e qualità;
– condividere i comportamenti di consumo responsabile – dove sono fondamentali le valutazioni di ordine etico e l’attenzione alla qualità sociale del
prodotto o del servizio – costruendo un contatto diretto con i consumatori,
ad esempio:
a) proponendo prodotti locali di cooperative sociali3 e/o imprese femminili;
2
3
Le politiche del modello classico delle 4P incidono: 1) sul prodotto, con le decisioni sul mix assortimento/servizi/formula distributiva che l’impresa intende offrire; 2) sul prezzo, con le decisioni sul livello
dei prezzi (e sul margine lordo globale) per ogni mix assortimento/servizi/formula; 3) sulla promozione,
con le decisioni sul mix dei fattori di comunicazione per la promozione dell’attività economica dell’impresa; 4) sul punto di vendita (PDV), con le decisioni sulla logistica e sulle scelte ubicazionali dei PDV
(Cuomo, 1984).
I prodotti cooperativi presentano caratteri con una forte valenza etica, quali la responsabilizzazione del
socio produttore, la solidarietà imprenditoriale, la valorizzazione mutualistica del lavoro e dei prodotti
conferiti dai soci, il forte radicamento territoriale e il controllo dell’intera filiera. Per approfondimenti si
veda il capitolo VIII.
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b) instaurando rapporti economici stabili con uno o più Gruppi di Acquisto
Solidale (Gas)4;
c) organizzando e coordinando la fase commerciale con la partecipazione e
la condivisione dei fini e delle modalità tra produttori e consumatori;
d) promuovendo visite guidate e degustazione presso le aziende per esaltare
le metodiche di lavorazione.
Nel settore dei prodotti tipici l’interfaccia tra produzione e distribuzione è
resa complessa dai limiti strutturali di imprese spesso a carattere semi-artigianale e, nel caso di un bacino territoriale di produzione del tipico, diventa indispensabile l’implementazione di strategie logistiche a costi variabili e la gestione
collettiva degli operatori a livello territoriale; ciò incide sulla crescita del valore
creato e della redditività complessiva delle filiere agroalimentari e artigianali
dell’area.
Tuttavia, anche le piccole o piccolissime imprese non consorziate possono
migliorare la propria competitività e al contempo adottare comportamenti socialmente responsabili calibrandoli alla propria dimensione5; le esperienze di
filiera corta, programmate con il coinvolgimento di tutti gli attori e caratterizzate dal “dialogo” a tutti i livelli – produttori, trasformatori, dettaglianti e consumatori – si configurano come uno strumento nei processi di sviluppo rurale
all’interno di strategie di promozione del territorio e rappresentano, proprio per
i piccoli produttori in particolare, un’opportunità per migliorare il loro posizionamento strategico e, al tempo stesso, ne facilitano l’inserimento nelle reti
socio-istituzionali, ad esempio per la fornitura al sistema della ristorazione locale di qualità e delle mense pubbliche. Queste esperienze e tutte le forme di
vendita diretta in una logica di recupero, valorizzazione e gestione del territorio all’insegna della creazione di circuiti “corti” di produzione/consumo o di
produzione/trasformazione/consumo, sono basati su un rapporto stretto con i
consumatori6 e rientrano a pieno titolo nella RSI, diventando parte della “cul-
4
5
6
84
I GAS sono gruppi di acquisto che non si configurano come un mero strumento di risparmio ma, partendo da un approccio critico al consumo, applicano il principio di equità e solidarietà ai propri acquisti,
scegliendo i fornitori sulla base della qualità del prodotto e dell’impatto ambientale totale (prodotti locali, alimenti da agricoltura biologica o integrata, imballaggi a rendere, ecc). Per approfondimenti:
http://www.retegas.org.
Comportamenti socialmente responsabili impossibili per le imprese artigiane sono invece alla portata delle
grandi imprese commerciali come, ad esempio, contribuire a ridurre gli sprechi alimentari attraverso il
recupero degli alimenti non più commercializzabili ma perfettamente commestibili per sostenere il volontariato cittadino impegnato nella lotta alla povertà.
Tra queste si citano: la vendita diretta in azienda; la vendita a negozi specializzati, a spacci aziendali, a
comunità, a ristoranti «tipici»; la vendita nei “mercati contadini” da parte delle imprese aderenti alle organizzazioni del biologico o ad associazioni di piccoli produttori; outlet di prodotti agricoli gestiti in
forma diretta o associata in specifici ambiti territoriali; vendita on-line; vendita su catalogo.
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tura della qualificazione” del territorio e delle imprese artigiane che vi operano
e creando nuove sinergie tra agricoltori, ristoratori, commercianti e consumatori organizzati.
4.2.1. Valorizzare la tipicità dei prodotti e le tradizioni del territorio è responsabilità sociale
Nei Paesi industrializzati si assiste a una crescente delocalizzazione produttiva, veicolata dalla grande distribuzione transnazionale e fortemente condizionata dal profitto, con il risultato che gli alimenti, prima di arrivare sulle tavole
dei consumatori o, paradossalmente, ritornare addirittura nel luogo in cui sono
stati coltivati, percorrono migliaia di chilometri, consumano energia, inquinano
l’ambiente e sono sottoposti a manipolazioni e trattamenti per evitare il naturale deterioramento (Franci, 2007).
Allo stesso tempo, i requisiti di natura merceologico-mercantile e igienicosanitaria, a cui un tempo era legata la qualità degli alimenti, sono diventati ormai imprescindibili per il consumatore, sempre più esigente e attento ai prodotti
che mangia, alla loro provenienza, ai metodi di coltivazione, alle caratteristiche
specifiche e alle proprietà nutrizionali. Il cibo oggi riveste un ruolo primario nel
rapporto con l’ambiente in cui il consumatore/cittadino si trova a vivere e sulla
spinta emozionale degli scandali alimentari e delle crisi sanitarie che hanno investito il sistema agro-alimentare negli ultimi anni si assiste a una maggiore propensione verso i prodotti tipici7, lavorati con sapienza artigianale, in grado di
restituire al consumatore una certa tranquillità a tutela della salute (box 6). La
voglia di riscoprire i prodotti autentici e genuini del territorio (le “buone cose
di una volta”), di guardare alle origini culturali eno-gastronomiche o, più semplicemente, il desiderio di nuove esperienze di gusto, stanno alimentando sagre,
fiere, mercatini e tutte quelle iniziative dedicate ai prodotti tipici locali, confermando i legami intersettoriali esistenti con le attività turistiche, con il patrimonio artistico-culturale e con quello ambientale-naturalistico. In questo processo,
ogni elemento aggiuntivo può essere percepito come un plus dal cliente-consumatore viene da questi incluso nel concetto stesso di qualità dei prodotti agroalimentari, accrescendone il valore aggiunto in termini di genuinità, bontà e salubrità (box 7).
7
Non solo verso quelli che hanno ottenuto un riconoscimento giuridico – prodotti con marchio di origine
(DOP, IGP, IGT, DOC, DOCG), con marchio collettivo e prodotti agroalimentari tradizionali inseriti nell’elenco nazionale del MIIPAAF – ma anche verso quelli ritenuti caratteristici di un’area per opinione
diffusa e condivisa sulla base di specifici elementi (Cfr. box 8).
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Box 6 - Elementi che conferiscono tipicità a un prodotto agroalimentare
Localizzazione geografica: le condizioni ambientali dell’area di coltivazione o allevamento imprimono al prodotto caratteristiche non riproducibili.
Metodiche di lavorazione: sono tradizionali e artigianali con l’utilizzo di materie prime locali.
Memoria storica: il prodotto è direttamente collegabile alla storia e alle tradizioni del luogo di produzione.
Qualità organolettiche e nutrizionali del prodotto: strettamente connesse ai criteri precedenti conferiscono gusto, genuinità e unicità al prodotto.
Le imprese agricole e agroalimentari si trovano, quindi, a dover garantire
prodotti di qualità certificata e di provenienza certa per posizionarsi sul mercato
ed essere competitive ma, allo stesso tempo, possono acquisire un maggiore vantaggio competitivo aprendosi a concezioni diverse del produrre e del consumare,
basate su valori, principi, significati e obiettivi – come quelli ambientali, culturali ed etici – sostanzialmente diversi rispetto a valori e obiettivi puramente economici. In particolare, i processi di valorizzazione locale dei circuiti di produzione e consumo vedono convergere obiettivi e interessi dei consumatori e dei
produttori per raggiungere condizioni di sostenibilità delle produzioni agroalimentari a beneficio delle collettività rurali; la dinamica di questi processi, infatti, tende a soddisfare i nuovi bisogni percepiti dai consumatori – non solo
qualità organolettica, sicurezza e naturalità ma anche valenza ecologica, aspetti
culturali e contenuto etico delle produzioni – e allo stesso tempo offre opportunità di qualificazione e di posizionamento ai produttori, in uno scenario di
mercato in cui le pressioni provenienti dai meccanismi della competizione – naBox 7 - Elementi che conferiscono qualità a un prodotto agroalimentare
Pre-requisiti
(imprescindibili per il consumatore)
Requisiti merceologici-mercantili: ad esempio freschezza, gusto, aroma, colore;
Requisiti igienico-sanitari: oltre al condizionamento
e all’imballaggio, devono garantire l’assenza di residui e la risoluzione di problemi di carattere fitosanitario, nell’ottica più ampia della sicurezza alimentare
e delle norme cogenti sull’etichettatura e la rintracciabilità di alimenti, mangimi e loro ingredienti (possibilità di risalire all’origine del prodotto attraverso
tutte le fasi della produzione, della trasformazione e
della distribuzione).
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Elementi aggiuntivi
(plus per il consumatore)
Zona geografica d’origine del prodotto: richiama elementi quali la tipicità, la tradizione, la genuinità
Contenuti nutrizionali e salutistici: specificità intrinseche dei prodotti anche di natura sensoriale; assenza
di organismi geneticamente modificati;
Fattori etico-sociali: ad esempio produzione rispettosa dell’ambiente; benessere degli animali; sicurezza
dei lavoratori; commercio equo;
Marchio: (industriale, commerciale, private label) e i
servizi incorporati (conservabilità, facilità d’uso, tipo
di confezionamento/packaging);
Qualità certificata da terzi: dei sistemi, dei prodotti,
dei processi (rintracciabilità di filiera) e dei metodi di
produzione.
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zionale e internazionale – sono destinate a crescere. La valorizzazione della produzione locale rappresenta, infatti, una strategia per la salvaguardia del tessuto
agricolo locale e del patrimonio di produzioni di qualità, finalizzata a sostenere
il “made in Italy” e la reputazione di cui godono le nostre produzioni agroalimentari all’estero.
Ma se, da un lato, le produzioni tipiche hanno un’identità ben specifica che
trae origine dalla forte caratterizzazione del “sistema locale” in cui nascono (territorio, risorse naturali, cultura, aziende e organizzazione degli operatori, conoscenze e competenze specifiche), rappresentando un patrimonio storico-culturale
e un “sapere” che si è tramandato nel tempo, dall’altro esse sono spesso il risultato di attività svolte in aree meno favorite, esterne ai poli dell’agro-industria
intensiva. La loro valorizzazione presuppone azioni finalizzate a vari livelli e,
per molti dei prodotti tradizionali, risulta strettamente correlata al miglioramento
del contesto complessivo in cui sono inserite, allo sviluppo del turismo rurale,
al rafforzamento delle tendenze in atto che vedono, come accennato, il consumatore sempre più informato, attento ed esigente in fatto di qualità e salubrità
degli alimenti.
Sul fronte giuridico, la normativa comunitaria che regolamenta le produzioni
di origine (Cfr. paragrafo 4.2.2) ha come obiettivo la tutela dei prodotti attraverso norme (disciplinari di produzione, standard di qualità, ecc.) il cui rispetto
garantisce la qualità dei prodotti, ma non necessariamente la loro tipicità in
senso tradizionale. Ne consegue che anche quelli che, per denominazione regolamentata, vengono definiti prodotti tipici, sono spesso sottoposti a una standardizzazione della produzione e dei gusti, e restano legati ad un’area di produzione più per una questione puramente geografica che per un vero radicamento nella storia socio-culturale di un territorio. Dunque, i regolamenti comunitari sulle denominazioni d’origine rappresentano il quadro normativo di riferimento essenziale per la valorizzazione dei grandi prodotti tipici italiani e per
supportare politiche di espansione delle esportazioni, mentre le produzioni tipiche e in particolare quelle tradizionali (Cfr. paragrafo 4.2.2, box 8), non sempre possono rientrare negli schemi segnati dalla regolamentazione comunitaria
a causa della ridotta scala produttiva, dell’eterogeneità delle produzioni e della
frammentazione delle aziende produttrici, difficilmente organizzabili in consorzi. Ma la componente culturale e sociale è fortemente presente in tutto il cosiddetto “giacimento delle nicchie” in cui rientra un numero elevato di prodotti
nazionali con caratteristiche molto distinte ma con dimensioni di scala molto ridotte, tra cui alcuni prodotti DOP e IGP, i prodotti tradizionali, i prodotti a marchio collettivo contraddistinti da una forte specializzazione tanto delle materie
prime quanto della localizzazione della trasformazione; alcuni di questi prodotti,
inoltre, sono a “filiera chiusa”, ovvero consumati pressoché integralmente nel-
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l’ambito della ristretta area di produzione oppure sono prodotti di eccellenza,
perché conosciuti e consumati da una fascia “elitaria” di estimatori nazionali e
internazionali. Spesso i prodotti di nicchia vengono lavorati solo a livello artigianale in condizioni organizzative non consone alle richieste del mercato (etichettatura, rintracciabilità), con conseguente difficile – se non impossibile – immissione su canali commerciali significativi, oppure raccolgono una domanda
potenziale molto superiore all’offerta che, proprio a causa delle limitazioni imposte dai ristretti confini dell’area di approvvigionamento delle materie prime,
non riesce ad essere completamente soddisfatta.
Tali prodotti, però, assumono valenza proprio perché si caratterizzano come
“arte del particolare” e possono contribuire allo sviluppo di determinate aree rurali. Se, pertanto, la loro valorizzazione avviene in sede locale attraverso i circuiti
dell’agriturismo e del turismo rurale o attraverso i canali della vendita diretta e
della ristorazione, strategie di commercializzazione mirate sul consumatore e in
un’ottica di sistema possono conferire valore aggiunto a questi prodotti, perfino a
quelli con caratteristiche di commodity (pasta, pane, conserve di pomodoro) legati, però, a territori di eccellenza paesaggistica e artistica, in grado di esprimere
valori materiali e immateriali riconoscibili dal consumatore8; in questo ambito
gioca un ruolo chiave esaltarne la componente culturale, etica e sociale.
Sul lato opposto, il marchio collettivo istituito con legge regionale o nato
come oggetto di accordo di programma9, in cui ricadono anche prodotti a denominazione di origine che risultano strutturati dal punto di vista del modello produttivo e di commercializzazione, rappresenta un progetto multidimensionale di
più ampio respiro, in cui l’agricoltura e le attività economiche connesse, la difesa e la valorizzazione dell’ambiente e del territorio convergono; tale progetto
ha una valenza etica non solo in quanto elemento distintivo della qualità agroalimentare di un particolare territorio ma perché ha tra le sue finalità quella di migliorare le filiere anche in chiave di sviluppo rurale e di opportunità di crescita
dell’occupazione nel settore della produzione, rintracciabilità e diffusione dei prodotti. Nelle aree rurali, in particolare, e nelle aree a forte valenza ambientale (è
il caso delle aree protette), il marchio collettivo d’area diventa un riconoscimento
al senso di appartenenza e alla qualità di una nuova e moderna economia che si
sta sviluppando con forte condivisione nei territori un tempo marginali, garan8
9
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Il successo di un prodotto sul mercato è indissolubilmente correlato alla riconoscibilità dello stesso da
parte del consumatore nonché alla sua idoneità ad essere distinto e preferito rispetto alle altre offerte presenti nella stessa categoria merceologica.
Si cita, al riguardo, il Programma “Marchi d’Area – Strumenti per lo sviluppo dell’occupazione nel settore agroalimentare” promosso da Italia Lavoro spa e ammesso a contributo dal Ministero del lavoro e
delle politiche sociali (dm 23/5/05) per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale di territori a
forte vocazione rurale (www.italialavoro.it/progettomda/home.asp).
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tendo l’origine, la natura e la qualità sia dei prodotti, sia dei servizi e delle attività dell’area (produzione, turismo, ricettività, ristorazione, artigianato).
Anche nelle politiche di valorizzazione e promozione delle produzioni tipiche a marchio collettivo e a marchio di origine e dei prodotti agroalimentari tradizionali vi può essere una forte componente etica e sociale; è il caso delle
“strade dei sapori”, attraverso le quali si punta a valorizzare e promuovere anche il patrimonio architettonico e ambientale pubblico/privato dei territori ai
quali tali prodotti sono legati. Inizialmente nate sul binomio vino-turismo come
“strade del vino”10, sono iniziative locali gestite e regolamentate dalle singole
Regioni che si sono estese nel corso degli anni ad altre produzioni tipiche locali e alla gastronomia, interessando aree più o meno vaste di produzione e
dando luogo a “strade dell’olio”, “strade del latte e dei prodotti derivati”, “strade
del tartufo” e così via, fino alle “strade del gusto” e alle “strade dei sapori”.
Le “Strade” si snodano in percorsi segnalati e pubblicizzati, lungo i quali
convivono valori naturali, culturali e ambientali – vigneti, cantine, oliveti, frantoi, tartufaie, caseifici, ecc. – di aziende, produttori e trasformatori, singoli e
consorziati, aperti al pubblico, le cui produzioni, necessariamente tipiche e di
qualità (certificate da marchio di origine o marchio collettivo e prodotti tradizionali), possono essere commercializzate e fruite in forma turistica attraverso
la degustazione o la mescita dei vini. Questi percorsi, infatti, non solo comprendono enoteche, ristoranti, bar, sagre, imprese turistico-ricettive e strutture
agrituristiche, ma anche componenti architettoniche, come ville e castelli, musei del vino, delle produzioni, della tradizione e della cultura contadina. La componente etica e sociale delle “Strade” si può ricondurre al fatto che esse mantengono la tradizione e promuovono le peculiarità e lo sviluppo economico del
territorio con azioni specifiche e condivise, quali: attività culturali, didattiche e
ricreative; formazione professionale; indagini di mercato; iniziative di informazione tecnico-scientifica e commerciale a favore degli operatori del settore; ricerca nel campo delle produzioni tipiche attraverso la formazione di centri sperimentali o centri di eccellenza.
4.2.2. Garantire la qualità dei prodotti è responsabilità sociale
Senza dubbio la RSI può essere messa in relazione con l’evoluzione delle
strategie aziendali nel XX secolo che ha portato a una maggiore sensibilità del
10 Le “Strade del vino” sono disciplinate dalla legge 268/99. Non tutte le Regioni hanno adottato i provvedimenti di applicazione, tuttavia in alcune sono stati approvati progetti di “strade” portati avanti da Comitati promotori formati da Comuni, Camere di Commercio e privati, mentre in altre esistono itinerari
riconosciuti con provvedimenti normativi antecedenti al 1999.
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management verso i molteplici aspetti della qualità e della percezione della qualità nella mente del consumatore. Da un’azienda orientata alla produzione, negli anni Trenta e Quaranta, si è passati a un concetto di azienda orientata alla
vendita e poi al mercato secondo il concetto di marketing negli anni cinquanta
e sessanta, per cui l’azienda non vende tutto ciò che produce ma produce tutto
ciò che vende. L’orientamento aziendale ha continuato ad evolversi sino ad arrivare al marketing contemporaneo, con una dimensione di azienda orientata al
cliente e poi, nel nuovo millennio, a una nuova visione delle politiche nella vita
quotidiana dell’impresa, ovvero a un’impresa orientata agli stakeholder, intesi
come soggetti in relazione con essa, dai clienti/consumatori ai fornitori, dagli
azionisti all’intera comunità.
Insieme all’evoluzione delle aziende è cresciuto e si è apprezzato il concetto
di qualità non solo di prodotto ma di processo, alla luce anche del costante miglioramento della produzione agricola e delle pratiche industriali di trasformazione
che hanno portato con sé un insieme di fattori di forte impatto sull’opinione pubblica per i rischi connessi alla salute e all’ambiente: l’utilizzo di fertilizzanti, antiparassitari, anticrittogamici e diserbanti e le manipolazioni chimico-industriali
(additivi, conservanti, coloranti, aromi artificiali), biochimiche (ormoni, antibiotici, farmaci) e biotecnologiche (organismi geneticamente modificati).
Allo stesso tempo, il succedersi di episodi di adulterazione, di sofisticazione
e di forme di contaminazione alimentare, nonché il verificarsi di gravi crisi sanitarie nel settore agro-zootecnico e alimentare in numerosi Paesi europei, dall’encefalopatia spongiforme bovina (Bse) all’influenza aviaria, hanno posto la
tematica della sicurezza alimentare al centro dell’attenzione del consumatore ma
soprattutto delle istituzioni. Così, nel 2000, la sicurezza degli alimenti destinati
al consumo umano e animale è divenuta una priorità strategica della Commissione Europea che ha adottato un approccio integrato e scientifico dell’intera catena alimentare “dai campi alla tavola”, che ha il fulcro nell’Autorità europea
per la sicurezza alimentare (EFSA) e nelle nuove procedure nel campo della sicurezza alimentare; tale approccio si è tradotto in un corpus normativo ampio
e complesso e in strumenti operativi nuovi ed efficaci al fine di garantire al consumatore europeo livelli di protezione elevati e prodotti alimentari sicuri11.
11 Tale approccio ruota attorno a punti cardine quali: il controllo della filiera; la responsabilizzazione del
produttore; la rintracciabilità dei percorsi degli alimenti dei mangimi e dei loro ingredienti; i sistemi di
allarme rapido sui rischi alimentari; l’informazione nei confronti del consumatore (Libro bianco della
Commissione sulla sicurezza alimentare, COM 719/00; regolamento (CE) 178/02). Un insieme strutturato di norme innovative e significative (c.d. “pacchetto igiene”) si è andato recentemente ad affiancare
all’obbligo della rintracciabilità di alimenti e mangimi, disciplinano l’igiene di prodotti alimentari e mangimi, i criteri microbiologici applicabili ai prodotti alimentari, le disposizioni di polizia sanitaria e il sistema dei controlli.
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L’Unione europea, inoltre, ha riconosciuto un fondamento normativo ai percorsi, anche sovrapponibili, della valorizzazione della qualità delle produzioni
agricole, agroalimentari e zootecniche che incentivano, valorizzano e promuovono i seguenti elementi:
– l’origine geografica (legame con il territorio), la tradizionalità del processo
produttivo e il talento dell’uomo che conferiscono tipicità al prodotto (regolamenti (CE) n. 509/2006 e 510/2006 che vanno a sostituire i regolamenti
(CEE n. 2081/92 e 2082/92; legge 164/92 per i vini);
– l’impiego di pratiche ecocompatibili rispettose dell’ambiente e della salute
dell’uomo, di cui sono un esempio i prodotti ottenuti con metodo biologico
(regolamento (CE) n. 834/07 che sostituisce il regolamento (CEE)
n. 2092/91) e i prodotti ottenuti da agricoltura integrata12.
Negli anni, la politica comunitaria della qualità dei prodotti agroalimentari
si è intersecata con le politiche della sicurezza alimentare, della tutela dei consumatori e della compatibilità ambientale dei sistemi produttivi, connesse, a
monte, con scelte di indirizzo di carattere generale per l’agricoltura, quali la tutela degli stessi operatori, lo sviluppo delle zone rurali, la salvaguardia dell’ambiente, la difesa della biodiversità, la rintracciabilità e l’etichettatura dei
prodotti alimentari.
Specificatamente, la rintracciabilità degli alimenti e dei mangimi e la loro
etichettatura13, soddisfacendo i bisogni di informazione e tutelando il diritto di
scelta dei consumatori, convergono verso lo stesso obiettivo di garantire e certificare istituzionalmente i prodotti immessi sul mercato; addirittura, i regolamenti sulle denominazioni di origine e sull’agricoltura biologica, che hanno rappresentato una novità nella gran parte dei Paesi comunitari, si sono tradotti in
uno strumento di differenziazione del prodotto sul mercato, dunque in uno stru-
12 A livello comunitario non esistono regole cogenti ma l’UE ne incentiva l’utilizzo, così come avviene per
i sistemi di produzione biologici, nell’ambito delle misure agroambientali nei Piani di sviluppo rurale; a
livello nazionale è regolamentata dalle norme sulla lotta guidata e integrata e dalla legislazione sui marchi, mentre a livello territoriale è definita da leggi regionali. Solo recentemente si è costituito il Comitato Produzione Integrata (D.M. 2722 del 17.04.2008) che ha approvato le Linee guida nazionali di produzione integrata 2008-2009.
13 Le severe regolamentazioni UE in materia di etichettatura dei prodotti alimentari hanno armonizzato le
norme nazionali e dettato criteri specifici e settoriali che hanno permesso di certificare, in tutti gli Stati
membri, la genuinità e la provenienza dei prodotti; oltre a disciplinare l’utilizzo di denominazioni associate a prodotti di qualità provenienti da particolari regioni (DOP/IGP), l’UE ha regolamentato l’identificazione e la rintracciabilità per carni bovine, prodotti ittici, ortofrutta fresca, latte fresco, uova, miele,
prodotti da agricoltura biologica, Ogm e, facoltativamente, carni di pollame (con l’aggiunta di un marchio sanitario). Norme specifiche, inoltre, sono state dettate per la data di scadenza, per il peso netto, per
la presenza di coloranti, conservanti, edulcoranti e additivi chimici, per l’aggiunta di vitamine e minerali,
per gli allergeni negli ingredienti, per l’etichettatura nutrizionale, per i prodotti alimentari destinati all’infanzia, per quelli dietetici e per gli integratori alimentari.
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mento di politica competitiva che assume una veste istituzionale in quanto è la
stessa Comunità che si fa garante nei confronti del consumatore della qualità
dei prodotti a marchio (box 8) distinti da denominazioni, menzioni e loghi specifici che rinsaldano il loro legame con il territorio rafforzando, al contempo, il
tessuto rurale. I regolamenti tutelano tanto i produttori nei confronti di un uso
non corretto della denominazione quanto, soprattutto, i consumatori riguardo alle
specifiche qualitative del prodotto, garantendone la rispondenza a un disciplinare di produzione e a specifici parametri tecnici che caratterizzano la filiera
produttiva.
Il contesto competitivo dei canali distributivi nazionali ed esteri e la mancanza di una adeguata politica commerciale hanno penalizzato l’utilizzo del marchio comunitario14, gravato dai costi dei controlli e dei sistemi di garanzia a carico dei produttori. Le imprese private e le cooperative della zona interessata
dalla DOP/IGP spesso preferiscono utilizzare i marchi commerciali collettivi; in
alcuni casi, la reputazione del marchio aziendale/collettivo è talmente consolidata che risulta superiore a quella della DOP e l’utilizzo della denominazione
rischierebbe di “appiattire” la percezione che il consumatore ha del livello qualitativo del prodotto commercializzato.
Il marchio aziendale (brand) è la massima espressione sintetica di un insieme
di valori che l’impresa vuole trasmettere al mercato e al consumatore; la percezione che il consumatore ha del livello qualitativo del prodotto commercializzato con quel marchio rappresenta la “reputazione” di quel marchio e dunque
la reputazione dell’impresa ad esso associata15.
Le imprese che adottano una strategia di marketing concentrata sulla valorizzazione del loro marchio sono maggiormente esposte all’opinione pubblica;
la reputazione, per queste imprese, rappresenta uno dei fattori critici di successo proprio perché il marchio è l’unica cosa immediatamente percepita dal
consumatore che non sa nulla delle strutture produttive che portano alla produzione e alla commercializzazione di quel bene sul mercato. Il marchio, dunque, assume la natura di garanzia per il consumatore e di veicolo pubblicita-
14 Seppure l’Italia vanti il primato europeo per numero di prodotti riconosciuti DOP, IGP e STG (174, pari
al 20,9% del totale Ue) e vi siano denominazioni storiche e di alta reputazione (Parmigiano Reggiano,
Grana Padano, Prosciutto di Parma, ecc.), l’utilizzo delle denominazioni protette non ha generato l’atteso
sviluppo di nuove denominazioni con elevate potenzialità commerciali e di rilevanza economica per l’agricoltura nazionale (ortofrutticoli, olio, carni fresche), così come non si è avuta una crescita significativa – in termini numerici e di fatturato – delle cosiddette denominazioni “minori”, la cui notorietà, tuttavia, continua ad avere una dimensione soprattutto locale (nicchie di mercato).
15 Un prodotto viene reputato di marca non per il logo ma per l’opinione che il mercato ne ha e per lo status che conferisce al proprietario; il brand rappresenta non solo l’anima del prodotto ma lo specchio della
reputazione aziendale nel mercato (Muzzarini, 2007).
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rio; in questi casi, più che valutare la convenienza a introdurre la responsabilità sociale come valore associato al brand, è importante evitare che al marchio vengano associati comportamenti socialmente irresponsabili. In altre parole, se il mercato si dimostra attento alle tematiche sociali l’impresa non può
non «allineare il proprio marchio a un vettore di comportamenti etici e responsabili (…). In questo caso è il mercato a spingere con ‘le spalle al muro’
le corporation, influenzando intere strategie di marketing in funzione delle preferenze del consumatore» (Mazzarini, 2007, p. 9). Piuttosto che maturare da
una scelta manageriale è il mercato a spingere il brand nella direzione della
RSI, soprattutto quando si tratta di un marchio di qualità che ha una reputazione consolidata sul mercato e deve continuare a rispondere, quindi, alle aspettative del consumatore.
Box 8 - Certificazione regolamentata: i marchi di qualità per la produzione agroalimentare
MARCHIO DI ORIGINE (DENOMINAZIONE) – Identifica le caratteristiche del prodotto indissolubilmente
legate all’area geografica di provenienza o al processo di produzione ed è concesso solo ai produttori di quella
zona. Rientrano in questa categoria:
–
Denominazione di Origine Protetta (DOP) e Indicazione Geografica Protetta (IGP), previsti dal regolamento (CE) n.510/06; Specialità tradizionali garantite (STG), previste dal regolamento (CE) n. 509/06. I
disciplinari di produzione devono essere approvati con regolamento (CE).
–
Denominazione d’Origine Controllata (DOC), Denominazione d’Origine Controllata e Garantita (DOCG),
Indicazione Geografica Tipica (IGT), previsti solo per il vino da: regolamento (CE) n. 1493/99; legge
164/92; D.p.r. 348/94. I disciplinari di produzione devono essere approvati con decreto ministeriale.
–
Menzione “Prodotto nella montagna”- prevede per i prodotti DOP e IGP delle aree montane la possibilità di fregiarsi della menzione aggiuntiva, previa iscrizione ad uno specifico albo presso il MIPAAF
(legge 289/02, art. 85).
–
Prodotto tradizionale (d.lgs. 173/98; D.M. 350/99) – categoria di prodotti agroalimentari iscritti nel registro istituito presso il MIPAAF, aggiornato da ultimo con il D.M. 16.06.08 le cui metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura – riconosciute in deroga alla normativa comunitaria – risultano consolidate da almeno 25 anni.
MARCHIO DI PRODUZIONE CON METODO BIOLOGICO – Prevede la menzione “biologico” per i prodotti agricoli vegetali e animali ottenuti con metodo biologico ai sensi del regolamento (CE) 834/07 (che sostituisce il regolamento (CEE) n. 2092/91), il numero di codice dell’autorità o dell’organismo di controllo cui
è soggetto l’operatore che ha effettuato la produzione o la preparazione più recente e un logo da apporre sulle
confezioni unitamente alla dicitura “Agricoltura UE” quando la materia prima è stata coltivata in Europa,
“Agricoltura non UE” quando la materia prima agricola è stata coltivata in Paesi terzi, “Agricoltura UE /non
UE” quando parte della materia prima agricola è stata coltivata nella Comunità e una parte di essa è stata
coltivata in un Paese terzo.
MARCHIO COLLETTIVO DI NATURA PUBBLICA (C.D. MARCHIO GEOGRAFICO) – Si configura per
la separazione tra uso e titolarità del marchio (d.lgs. 30/05) ed è promosso da Regioni, Enti locali, Enti parco,
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associazioni pubblico-private (consorzi, consorzi d’area localizzati in zone delimitate, cooperative) e può essere:
–
marchio regionale, istituito con legge regionale anche per più categorie merceologiche di prodotto, per
identificare le produzioni agricole locali, soprattutto quelle ottenute dai programmi di agricoltura integrata;
–
marchio istituito con provvedimenti delle Amministrazioni locali e di cui sono titolari le Camere di Commercio per identificare le produzioni agricole tipiche dei territori di Province, Comunità montane, Comuni e altri Enti locali;
–
marchio d’area: marchio dei Consorzi d’area, localizzati in una zona delimitata per lo svolgimento di attività esterne di promozione e vendita dei prodotti delle imprese consorziate tramite un ufficio comune
(art. 2612 c.c.);
–
marchio dei Consorzi di tutela dei prodotti tipici, affidato in gestione, in seguito a legge nazionale, ai
Consorzi riconosciuti con decreto ministeriale.
N.B. Il marchio collettivo è di natura privatistica quando è di proprietà di organizzazioni o soggetti privati
(consorzi di imprese, cooperative) e in tal caso è assoggettato alle norme del Codice Civile.
MARCHIO DI QUALITÀ DELLA CARNE BOVINA – Certifica l’origine e la qualità della carne bovina mediante un sistema di etichettatura facoltativa in aggiunta ai criteri di etichettatura obbligatori (regolamento
(CE) n. 1760/00; D.M. 8.8.2000; D.M. 13.12.01).
MARCHIO DI QUALITÀ DELLA CARNE AVICOLA (sistema facoltativo autorizzato dal MIPAAF) – Certifica l’origine e la qualità della carne avicola mediante un sistema volontario di etichettatura (D.M. 23162
del 29.7.04).
N.B. fino al 3/12/07 è in vigore l’etichetta obbligatoria di origine per carni avicole e prodotti contenenti carni
avicole non sottoposti a trattamento termico (ord. m. 26/8/05 e successive integrazioni – misure di protezione
contro l’influenza aviaria).
Tuttavia, se si escludono i prodotti agricoli con grandi quantitativi e con una
reputazione consolidata – soprattutto prodotti trasformati quali formaggi, salumi e vini – il settore agricolo italiano appare poco orientato all’utilizzo dei
marchi individuali (aziendali), perché necessitano di adeguati investimenti in
promozione e pubblicità che si sposano, piuttosto, con le strategie di marketing dell’industria alimentare e della grande distribuzione organizzata (marchi
industriali e commerciali di prodotto, di gamma o di linea). Negli ultimi anni
l’utilizzo dei marchi collettivi con un orientamento ai metodi di produzione a
basso impatto ambientale (agricoltura integrata e agricoltura biologica), ha segnato le strategie di valorizzazione dei prodotti agricoli regionali e dei prodotti
di associazioni o cooperative di produttori locali; in questo caso spingere il
marchio collettivo verso la RSI può tradursi in una scelta manageriale necessaria per costruire un percorso di competitività del prodotto e per differenziarsi
positivamente da quelli delle grandi marche alimentari e della grande distribuzione organizzata.
La scelta di adottare forme di qualità certificata, alla quale accede il produt-
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tore o il trasformatore o il distributore volontariamente16, rappresenta tanto per
le grandi imprese quanto per le piccole cooperative o per i produttori artigiani
una “garanzia supplementare” percepita come un plus dal consumatore. I punti
di forza della qualità certificata si identificano proprio nell’impatto positivo sull’immagine e, quindi, sul posizionamento nel mercato oltre a generare vantaggi
alla gestione aziendale sul piano del controllo dei processi, della sicurezza e
della qualità.
Sebbene esista una forma di certificazione specifica che attesta comportamenti socialmente responsabili dell’impresa, la SA 8000 (Social Account), in
realtà certificazione volontaria (box 9), di per sé rappresenta proprio un elemento fondamentale della responsabilità sociale d’impresa come verifica del rispetto non solo della qualità delle produzioni e dei processi ma anche della rintracciabilità del lavoro nelle catene di fornitura e della sostenibilità ambientale
delle lavorazioni, a garanzia (etica) di certezza e trasparenza nella filiera produttiva. Tuttavia ad oggi, la certificazione etica risulta ancora poco diffusa nel
mondo agroalimentare in genere, mentre l’approccio sistemico alla qualità (certificazione SGQ) è adottato in percentuale significativa dall’industria alimentare
ma coinvolge in misura piuttosto marginale la produzione agricola, proprio perché il processo di lavorazione ha una componente fortemente artigianale17.
4.3. Conclusioni
La politica comunitaria e nazionale in materia di qualità e sicurezza alimentare punta ad assicurare un livello elevato di tutela della salute umana e degli
interessi dei consumatori in relazione agli alimenti, attraverso l’applicazione di
sistemi di garanzia, di comunicazione, di osservazione e di vigilanza connessi
alle tecniche produttive e alla conoscenza del prodotto alimentare.
La percezione dell’opinione pubblica, influenzata dalle emergenze sanitarie
16 La qualità certificata avviene attraverso: una certificazione regolamentata, rilasciata da organismi autorizzati dall’Autorità competente, in cui i criteri normativi e i procedimenti di certificazione sono definiti
da regole cogenti (normativa comunitaria e nazionale); una certificazione volontaria, rilasciata da un ente
terzo accreditato, la cui adozione comporta il diritto d’uso di un marchio che attesta la conformità di un
prodotto, di un servizio o del processo produttivo a determinate regole tecniche emesse da organizzazioni
internazionali al fine di agevolare gli scambi di beni e servizi (Cfr. box 8 e 9).
17 Su un totale di107.672 certificazioni di sistema di gestione per la qualità (ISO 9001) accreditate, 446
(0,4% del totale) sono state rilasciate ad aziende agricole e ittiche e 3.838 (3,6% del totale) ad aziende
alimentari; mentre, quale indice di crescente sensibilità sia del mondo agricolo che dell’industria alimentare verso le esigenze di salvaguardia dell’ambiente, su 10.384 certificazioni di SGA accreditate, 76
(0,7% del totale delle certificazioni) sono state rilasciate a imprese agricole e ittiche e 713 (6,9% del totale) alle aziende alimentari (dati SINCERT, febbraio 2007).
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Box 9 - Certificazione volontaria: i marchi di qualità per la produzione agroalimentare
MARCHIO DI CERTIFICAZIONE DI PRODOTTO AGROALIMENTARE:
– Marchio di certificazione di prodotto agroalimentare (DTP) – È un marchio di conformità a determinati
requisiti con il logo dell’Ente che ha effettuato la certificazione.
– Marchio di qualità alimentare/Marchio di qualità superiore/Marchio di filiera controllata/Marchio di percorso di qualità – È una certificazione di prodotto agroalimentare a marca commerciale (private label)
della GDO i cui prodotti seguono un disciplinare di produzione (ad esempio, linee produttive “OGMfree”) e commercializzazione e sono soggetti a un sistema di controllo certificato da terzi (c.d “filiera
controllata”).
– Marchio di certificazione di rintracciabilità dell’azienda agroalimentare/rintracciabilità interaziendale –
Garantisce e documenta un sistema di rintracciabilità applicato al/ai materiali utilizzati avente/i rilevanza
per le caratteristiche del prodotto al fine di rintracciare lotti di materiali e di prodotti finiti all’interno dell’azienda (norme UNI EN ISO 11020:2002).
– Marchio di certificazione di rintracciabilità della filiera agroalimentare – Garantisce e documenta il processo di produzione lungo la filiera e si applica a tutto il sistema agroalimentare, comprese le produzioni
mangimistiche (norma UNI EN ISO 22005).
MARCHIO DI CERTIFICAZIONE DI STANDARD DI QUALITÀ NELL’AMBITO DEI CAPITOLATI DI
FORNITURA DEI PRODOTTI AGROALIMENTARI:
– BRC (Technical Standard for Retailer Branded Food Products) Food Standard – È utilizzato per garantire che i prodotti a marchio privato sono ottenuti secondo standard qualitativi ben definiti e nel rispetto
di requisiti minimi tecnici e strutturali.
– IFS (International Food Standard) – È utilizzato dalla GDO per qualificare i propri fornitori a marchio
secondo requisiti di qualità, sicurezza e conformità alla normativa sui prodotti alimentari.
– EUREPGAP – È una certificazione internazionale delle buone pratiche agricole nel sistema agroalimentare (produzioni sicure; rintracciabilità; minimo impiego di prodotti chimici; protezione ambientale; aspetti
igienici nella manipolazione dei prodotti; salute e sicurezza dei lavoratori).
MARCHIO DI CERTIFICAZIONE DI SISTEMA AGROALIMENTARE:
– Marchio di certificazione del sistema di gestione per la qualità (SGO) – Attesta che le procedure di organizzazione e gestione, applicate in una determinata azienda, risultano essere conformi ad un determinato manuale, redatto precedentemente e riportante una serie di criteri riconosciuti a livello internazionale (norme UNI EN ISO 9001:2000 – Vision 2000).
– Marchio di certificazione del sistema di gestione per l’autocontrollo igienico dei prodotti e dei processi –
Rilasciato da un ente terzo accreditato, attesta che l’autocontrollo è effettato in linea con i principi dell’HACCP che consente di evidenziare nella filiera produttiva i possibili rischi, individuarne i punti critici e prevedere per ognuno di essi modalità di controllo tali da prevenirli (norma UNI EN ISO
10854:1999). N.B. Questa certificazione è diventata obbligatoria dal 1° gennaio 2006 per tutti gli operatori della catena agroalimentare e per i produttori di mangimi per animali.
– Marchio di certificazione del sistema di gestione della sicurezza in campo alimentare – Garantisce e documenta gli standard relativi alla sicurezza alimentare dei prodotti e dei processi (norma UNI EN ISO
22000:2005). N.B. La sua specifica tecnica ISO/TS 22003:2007 fornisce informazioni, criteri e linee guida
per la realizzazione degli audit e delle certificazioni.
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MARCHIO DI CERTIFICAZIONE DI PRODOTTO E DI SISTEMA AMBIENTALE:
– Marchio di certificazione del sistema di gestione ambientale (SGA) – Garantisce e documenta un processo
di miglioramento continuo della performance ambientale dell’impresa (norma UNI EN ISO 14001:2004
– registrazione ambientale europea EMAS)
– Marchio di certificazione del ciclo di vita del prodotto – ISO 14040/LCA.
– Dichiarazione Ambientale di Prodotto (EDP).
MARCHIO DI CERTIFICAZIONE DI PRODUZIONI ECO-SOSTENIBILI:
– Marchio di certificazione della filiera legno per imballaggi (Pefc).
– Marchio di prodotto sostenibile (Fsc).
MARCHIO DI CERTIFICAZIONE DI SISTEMA SICUREZZA SUL LAVORO E DI ETICA SOCIALE:
– Marchio di certificazione responsabilità sociale (SA 8000) – Certificazione che attesta che all’interno delle
imprese vi siano eque condizioni di lavoro, un approvvigionamento etico di risorse e un processo indipendente di controllo per la tutela dei lavoratori.
– Marchio di certificazione per la sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro (OHSAS 18001).
degli ultimi anni e dagli allarmismi dei media, ha generato una progressiva perdita di fiducia e la tendenza ad attribuire a episodi particolari un significato universale; i maggiori rischi sanitari sono, in realtà, di origine batterica18 per cui
anche una semplice indicazione riguardo alla manipolazione e alla conservazione domestica degli alimenti sulle confezioni può essere una forma di responsabilità sociale. Mentre la trasparenza delle indicazioni riportate sull’etichetta dei prodotti alimentari e i messaggi commerciali sono espressione del diritto dei consumatori alla corretta informazione, il ruolo della certificazione controllata è invece quello di fornire una carta di identità internazionale che mette
al riparo la sopravvivenza delle produzioni artigianali, tutela la tradizione, limita la sofisticazione e rilancia il buon nome della gastronomia “made in Italy”.
Anzi, il marchio può diventare intrinseca espressione dei valori dell’area di origine di un prodotto e una forma di responsabilità sociale quando l’impresa condivide con gli stakeholder l’impegno a consolidare l’immagine di quel territorio per divulgare all’esterno le peculiarità locali e recuperare al suo interno, gli
antichi “saperi” artigianali.
La responsabilità sociale nel sistema agroalimentare, allora, diventa un impegno a fornire al consumatore informazioni sempre più accurate, comprensi-
18 Nell’ultimo decennio i principali problemi della sicurezza alimentare nei Paesi industrializzati hanno origine microbiologica; essi causano patologie nel 30% della popolazione, mentre i rischi chimici dovuti ad
additivi, pesticidi e farmaci veterinari, sono responsabili solo dello 0,5% delle malattie associate agli alimenti. Addirittura, il 51% delle epidemie originano dalla ristorazione collettiva e il 36% è di origine domestica a causa del mancato rispetto di semplici norme di igiene generale (dati FAO).
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bili e utili sulla qualità dei prodotti alimentari e dei processi produttivi – per il
tramite dei marchi e delle certificazioni – in modo che ciascuno possa fare delle
scelte informate e consapevoli riguardo alla propria alimentazione. Non soltanto.
Ogni impresa, in quanto operante in una società con cui scambia risorse, beni
e servizi deve riconoscere la propria responsabilità sociale e costruire una “cultura della qualificazione” sui principi del vivere sano, del rispetto dell’ambiente,
della qualità dei prodotti e della consapevolezza dell’identità culturale trasmettendola alla comunità attraverso politiche commerciali che coniughino il profitto con le esigenze del territorio.
La formazione della “cultura della qualificazione”, pertanto, può ricondursi
a un comportamento socialmente responsabile per tutte le imprese agricole e
agroalimentari anche per quelle artigianali di piccole o piccolissime dimensioni
o per quelle non consorziate. Tale cultura, infatti, quando valorizza elementi collettivi quali la territorialità, le tradizioni e la qualità dei prodotti tipici, è finalizzata a migliorare nel breve e nel lungo termine i risultati economici, sociali
e ambientali delle imprese, condividendo i valori delle comunità locali. La “cultura della qualificazione”, infatti, può portare tanto a valorizzare e promuovere,
semplicemente, i prodotti di fattoria quanto a organizzare e proporre un’offerta
integrata del territorio, mettendo in risalto l’intero patrimonio ambientale, naturale, culturale e produttivo, fatto non solo di agricoltura ma di tradizioni, mestieri, artigianato e luoghi di interesse turistico.
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CAPITOLO V
RESPONSABILITÀ
SOCIALE DI IMPRESA, AGRICOLTURA E AMBIENTE:
IMPLICAZIONI E APPLICAZIONI
5.1. Premessa
Negli ultimi venti anni si è assistito a un radicale cambiamento nei rapporti
tra impresa, istituzioni e società civile. Si è passati dal modello di sviluppo fordista a un nuovo modello incentrato sulla conoscenza e caratterizzato da una
crescente sensibilità verso il rispetto dei valori etici e ambientali.
L’economia contemporanea si fonda sulla conoscenza che, da fattore raro, diviene il motore dell’innovazione sul quale si costruisce la crescita (Archibugi,
Lundvall, 2001). Conoscenza, informazione e fiducia sono al centro del nuovo
modello di sviluppo economico, nel quale le decisioni delle imprese, oltre al
raggiungimento degli obiettivi economici, tendono a considerare i bisogni di tutti
i portatori di interesse, siano essi interni o esterni all’impresa ovvero i lavoratori, i consumatori, i fornitori, ecc. (Petit, 2003).
In questo contesto si afferma il concetto di comportamento responsabile dell’impresa o meglio di responsabilità sociale di impresa, concetto divenuto tematica dominante tanto tra gli studiosi quanto tra le istituzioni internazionali e
i governi nazionali.
La RSI si realizza attraverso l’adozione di una serie di azioni volontarie tali
da migliorare la qualità sociale e ambientale delle attività imprenditoriali (Dupuis, 2005). In un ottica di gestione socialmente responsabile dell’impresa, alla
dimensione economica e sociale si affianca una terza componente, rappresentata dalla dimensione ambientale (Trisorio, 2004). Quest’ultima riveste un ruolo
centrale per l’impresa agricola (INEA, 2007).
Le imprese agricole sono sempre più sollecitate ad adottare innovazioni ambientali e, sebbene talune siano imposte attraverso la regolamentazione normativa, altre hanno carattere volontario. Tali innovazioni dettate da comportamenti
socialmente responsabili, si collocano nell’ambito della cosiddetta multifunzionalità sulla quale si fonda il modello agricolo europeo (EEA, 2006).
Obiettivo di questo capitolo è valutare come gli aspetti ambientali vengano
affrontati dall’impresa agricola responsabile. Verranno a tal fine analizzate le
esternalità positive e negative specifiche del settore agricolo1 e, messe in evi1
«La produzione di esternalità da parte dell’attività primaria è variabile e mutevole tanto nello spazio
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denza le leve d’azione che definiscono un comportamento socialmente responsabile dal punto di vista ambientale.
5.2. Agricoltura e ambiente: disaccordi concettuali e differenze interpretative
In occasione della Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo,
tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, è stato affermato il principio di sviluppo sostenibile, per la prima volta esplicitato nel Rapporto Brundtland (1987) e più
volte richiamato nel corso dei vari summit internazionali che si sono svolti in
questi ultimi anni. Tale principio ribadisce il concetto di equità intergenerazionale, in riferimento alla conservazione degli ecosistemi – e in senso più ampio
alla preservazione delle risorse naturali – affermando che i bisogni delle presenti generazioni devono essere soddisfatti senza compromettere la possibilità
di quelle future di soddisfare i propri.
Se questioni quali la sicurezza alimentare o la tutela e il sostegno delle proprie produzioni agricole e agroalimentari rientrano oggi nell’agenda politica dei
governi nella quasi totalità dei Paesi, di certo non si può affermare lo stesso per
quanto concerne il ruolo dell’agricoltura in relazione alle problematiche ambientali. Ciò deriva dal differente approccio ideologico all’ambiente e al “valore” e dalla diversa concezione del ruolo che l’attività agricola è chiamata a
svolgere2.
5.2.1. Tecnocentrismo e Ecocentrismo
Per quanto riguarda l’approccio ideologico all’ambiente, è possibile individuare due posizioni estreme: una tecnocentrica e una ecocentrica, all’interno
delle quali si inseriscono posizioni più o meno moderate. I sostenitori del tecnocentrismo, riponendo la fiducia nella possibilità della tecnologia di sostituire
o compensare il capitale naturale, promuovono un mercato delle risorse naturali
libero e non vincolato, nel quale la natura ha un valore strumentale.
I sostenitori dell’ecocentrismo, invece, non ritenendo possibile la sostituzione
2
quanto nel tempo, poiché dipende dallo sviluppo raggiunto dall’agricoltura e dal contesto sociale, economico, tecnologico, istituzionale, culturale e territoriale in cui questo avviene. I fattori che hanno determinato questa rivoluzione sono imputabili principalmente ai cambiamenti. tecnologici e alle politiche
di sviluppo a loro volta strettamente correlate con l’intensificazione delle colture» (Aimone, Bigini, 1999,
p. 51).
Per un ulteriore approfondimento in merito alla dimensione ambientale della sostenibilità in agricoltura
si rimanda a Trisorio, 2004.
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infinita delle risorse naturali, promuovono la preservazione massima dell’ambiente e un’economia rigidamente vincolata, per ridurre al minimo l’uso di risorse. Mentre l’approccio tecnocentrico, è caratterizzato da una sostenibilità debole, quello ecocentrico, che può essere definito ecologista, dà un connotato
forte alla sostenibilità (figura 7).
Figura 7 - Il grado di sostenibilità nei differenti approcci all’ambiente
Fonte: Riccardi, 2004
5.2.2. Modello agricolo americano e modello agricolo europeo
Per quanto riguarda il ruolo che l’agricoltura riveste, si possono individuare
due modelli di riferimento: il modello agricolo americano e quello europeo. Al
primo, oltre naturalmente agli Stati Uniti, fanno riferimento i Paesi del cosiddetto gruppo di Cairns, tra i quali Argentina, Australia, Brasile, Canada, Sud
Africa e Thailandia. Al modello europeo, oltre ai Paesi dell’Unione europea,
fanno riferimento invece Giappone, Corea, Norvegia e Svizzera.
Il modello di agricoltura americano si presenta fortemente orientato al mercato mondiale delle commodities e si caratterizza per un’agricoltura industrializzata e standardizzata, dove una posizione dominante è ricoperta dalle grandi
società di capitali.
A differenza del modello americano, quello europeo si contraddistingue per
un elevato numero di piccole aziende familiari, oltre che per la presenza di
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grandi aziende agricole; infatti, in Europa si riscontra una molteplicità di modelli tecnologico-organizzativi (Iacoponi, 1995): dall’agricoltura “industrializzata” ed “estensiva”, prettamente produttivistica, all’agricoltura “di qualità”,
orientata alla salvaguardia e alla valorizzazione delle produzioni tipiche, fino all’agricoltura “ecocompatibile” che trova espressione nell’agricoltura biologica e
biodinamica.
5.3. L’interdipendenza nel rapporto agricoltura ambiente
Su una superficie terrestre totale intorno ai 13 miliardi di ettari, circa 5 miliardi sono destinati all’agricoltura e al pascolo mentre altri 4 miliardi di ettari
sono occupati da foreste e boschi (FAO, 2007). Le imprese agricole, quindi, rappresentano il principale gestore di risorse naturali al mondo.
Tuttavia, le interazioni tra agricoltura e ambiente si presentano come questione assai complessa, proprio per le caratteristiche sia del settore primario che
dell’ecosistema, e in primis per i molteplici ruoli che essi rivestono, ovvero per
la loro multifunzionalità. Si riconosce, infatti, all’agricoltura una pluralità di funzioni: ecologica, economica, estetica, sociale, culturale ed etica. (Petit, Peri
2004). Nello stesso tempo, tali funzioni si intrecciano con quelle che l’ambiente
fondamentalmente assume: fornire risorse, assimilare prodotti di scarto e offrire
molteplici servizi, per esempio estetici o sociali oppure ricreativi (Bellia, 2001).
Sembrerebbe, quindi, più opportuno parlare di rapporto di interdipendenza
piuttosto che di interazioni. Ciò nonostante, con l’avvento della rivoluzione industriale prima e della “rivoluzione verde” poi, l’ammodernamento dei processi
di produzione agricola ha portato su un piano conflittuale il rapporto tra imprese
agricole e ambiente. Imprese che oggi, in un’ottica di responsabilità sociale, potrebbero rendere sinergico il loro rapporto con l’ambiente, piuttosto che rappresentare una fonte di inquinamento e di degrado ambientale (Thiébaut, 1999).
L’impatto dell’agricoltura moderna sull’ambiente si manifesta su tutte le
componenti: aria, acqua, suolo, biodiversità e paesaggio (Romano, 2000, Signorello et alii, 2004).
Indicando come esternalità gli effetti collaterali e non intenzionali della produzione e del consumo che influiscono positivamente o negativamente su terzi
(Turner, Peace, 1996), è possibile considerare l’impresa agricola, al contempo,
soggetto e oggetto di esternalità ambientali sia positive che negative3.
3
Il notevole impatto che l’agricoltura esercita sull’ambiente, attraverso le proprie esternalità, trova eco anche nelle recenti misure adottate nella Politica agricola comunitaria (PAC). A riguardo è stato inserito
102
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Infatti, a differenza di molte altre attività economiche, l’agricoltura esercita
allo stesso tempo effetti nefasti e benefici sull’ambiente (OCSE, 2006). Se, da
una parte, l’attività agricola può contribuire alla diminuzione di concentrazioni
atmosferiche di gas a effetto serra (GHG), alla conservazione di habitat e di specie selvatiche e al miglioramento della qualità dei paesaggi, dall’altra, può anche provocare danni rilevanti per l’ambiente (OECD, 2001).
Inoltre, sebbene l’agricoltura speculativa abbia avuto implicazioni negative
per l’ambiente, l’applicazione di metodi produttivi agricoli ecocompatibili favorisce non solo la tutela ma anche la valorizzazione delle risorse ambientali.
5.3.1. Le esternalità ambientali negative
Per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico, tre sono le principali fonti
di emissioni di gas a effetto serra causate dall’agricoltura:
– emissioni di N2O (ossido di azoto) dal suolo, ascrivibili principalmente all’utilizzo di concimi azotati;
– emissioni di CH4 (metano) dovute alla fermentazione enterica – il 41% di
tutte le emissioni di CH4 nell’UE proviene dal settore agricolo;
– emissioni di CH4 e di N2O dovute al trattamento del letame (Commissione
Europea, 2003).
Si stima che l’agricoltura, nei Paesi OCSE, sia responsabile di circa il 9%
del totale delle emissioni di gas a effetto serra.
L’inquinamento idrico rappresenta un’altra delle accuse mosse nei confronti
delle comuni pratiche agricole moderne. Nel caso delle acque superficiali e sotterranee, le sostanze inquinanti agricole possono essere distinte in tre categorie:
– i concimi chimici, soprattutto azotati (nitrati), molto suscettibili al dilavamento;
– gli effluenti organici degli allevamenti;
– i pesticidi, diserbanti, antiparassitari e fitofarmaci.
Anche la gestione delle risorse idriche e le conseguenze dell’irrigazione, sono
fonte di forti critiche all’attività agricola. Infatti, l’uso dell’acqua a fini agricoli
costituisce il 60% circa dell’utilizzo complessivo dell’acqua nell’Europa meridionale. L’irrigazione è anche fonte di numerose preoccupazioni di carattere ambientale, quali l’eccessiva estrazione di acqua dalle falde acquifere sotterranee,
il fenomeno dell’erosione provocato dall’irrigazione, l’alterazione di habitat se-
nella PAC il principio di “condizionalità” (regolamento (CE) n. 1782/2003 del Consiglio e regolamento
n. 796/2004 della Commissione), secondo il quale gli agricoltori devono rispettare i requisiti di protezione dell’ambiente per poter beneficiare delle misure di sostegno del mercato. Inoltre, l’Unione europea
ha introdotto “misure agro-ambientali” di sostegno alle pratiche agricole con l’obiettivo specifico di contribuire alla tutela dell’ambiente e alla salvaguardia del paesaggio.
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minaturali preesistenti e le conseguenze secondarie dell’intensificazione della
produzione agricola consentita dall’irrigazione (Commissione europea, 2003).
L’agricoltura ha un notevole impatto anche sui suoli utilizzati. Infatti, pratiche agricole inadatte possono comportare processi di degrado del suolo che ne
riducono le principali funzioni. Tali processi sono rappresentati dalla diminuzione di materia organica presente nel suolo, dall’erosione, dalla desertificazione, dalla contaminazione (ad esempio da metalli pesanti), dalla compattazione, dall’impermeabilizzazione, dall’alcalizzazione, dall’acidificazione dei
suoli, e dalla salinizzazione.
Le pratiche agricole responsabili del degrado del suolo possono essere numerose, per esempio: l’uso improprio di antiparassitari, utilizzo dei fanghi di
depurazione come fertilizzanti, il ricorso a macchinari pesanti, il sovrappascolamento, una concimazione non equilibrata e irrazionale del terreno.
L’agricoltura oggi è responsabile anche della perdita di biodiversità nel pianeta (Signorello, Pappalardo, 2003). Infatti, la maggiore riduzione di risorse genetiche nelle colture deriva dall’introduzione di moderne e uniformi varietà di
piante in sostituzione di un eterogeneo insieme rappresentato da quelle tradizionali. L’uniformità genetica e le elevate rese produttive si traducono in una
maggiore sensibilità delle piante agli attacchi di patogeni e parassiti e alle malattie. In tale situazione, questi fattori assumono facilmente carattere epidemico,
data l’uniformità genetica degli ospiti.
Anche le succitate pratiche agricole, responsabili dell’inquinamento di aria,
acqua e suolo, comportando un’alterazione delle caratteristiche chimico-biologiche degli ecosistemi, conducono a un ulteriore perdita della biodiversità.
L’agricoltura è da sempre un fattore che incide fortemente anche sul paesaggio. Lo sfruttamento agricolo intensivo, la meccanizzazione e la monocoltura hanno portato a un’omogeneizzazione strutturale del paesaggio e a una semplificazione degli ordini produttivi (Cucuzza et alii, 2007). D’altra parte, il progressivo abbandono delle aree meno redditizie – di più difficile accesso, di maggiore pendenza, di minore dimensione, più parcellizzate – può alterare il paesaggio a seguito di dissesti idrogeologici dei versanti, derivanti dalla diminuzione delle pratiche di manutenzione dei terrazzamenti. Inoltre, l’abbandono dell’attività agricola, accresce il rischio di erosione superficiale cui è esposto il
suolo, a causa della minore percentuale di copertura vegetale degli incolti, e aumenta il rischio potenziale d’incendi.
5.3.2. Le esternalità ambientali positive
I delicati equilibri ecologici che vengono coinvolti nell’attività agricola possono trovare un valido supporto proprio nella multifunzionalità dell’agricoltura.
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A questo proposito, l’agricoltura sostenibile esercita un ruolo fondamentale
nella salvaguardia dell’ambiente e nella valorizzazione delle risorse naturali.
Inoltre, è sempre crescente l’interesse dell’opinione pubblica verso metodi di
produzione a basso impatto ambientale, come le produzioni biologiche e integrate, o verso i prodotti tipici, espressione del territorio e di specifici metodi
di produzione.
L’agricoltura può contribuire ad alleviare il problema dell’inquinamento atmosferico attraverso la produzione di piante che hanno anche la capacità di fornire energia indirettamente. È infatti possibile ottenere carburanti liquidi – biodiesel o bioetanolo – da diverse specie vegetali a elevata produzione di biomassa.
Lo sviluppo delle colture da biomassa è un’opportunità per arrecare benefici
all’ambiente: riduzione delle emissioni di gas serra e dell’inquinamento atmosferico possono arrivare dalle colture agricole e forestali essiccate e sottoposte
a processi termochimici e biochimici di conversione dell’energia.
Pratiche di coltivazione più attente e metodi di irrigazione meno dispersivi
(quali l’irrigazione a goccia) possono ridurre i consumi di acqua in agricoltura,
contribuendo a una più efficace gestione delle risorse idriche. L’applicazione dei
codici delle buone pratiche agricole, invece, può rivelarsi utile nel prevenire un
ulteriore inquinamento delle acque, causato dall’uso – o abuso – di antiparassitari e nitrati provenienti da fonti agricole.
L’agricoltura può intervenire in maniera efficace anche nella protezione del
suolo. Ricorrendo, per esempio, a pratiche ecologiche di lavorazione del terreno,
riducendo il sovrappascolamento, garantendo la protezione e il mantenimento
dei terrazzamenti oppure con una gestione oculata nella somministrazione degli
antiparassitari o nell’impiego dell’acqua a uso irriguo.
Sane pratiche di gestione dell’agricoltura possono avere un’incidenza positiva sulla conservazione della flora e della fauna selvatica. Un’agricoltura di tipo
tradizionale contribuisce alla salvaguardia di certi habitat naturali o seminaturali, offrendo così un servizio di tutela della biodiversità del territorio.
L’agricoltura svolge una propria funzione nello sviluppo delle zone rurali, in
particolare nelle zone dove continua a rappresentare uno dei pilastri dell’economia locale. Esercitando una fortissima influenza sul territorio e garantendo la
continuità di talune pratiche, l’attività agricola ha un ruolo essenziale nell’assetto del territorio e nella tutela dei beni e delle tradizioni culturali.
Una migliore qualità ambientale ha un effetto positivo sia sull’immagine dell’impresa agricola, che può creare un valore aggiunto nelle produzioni di qualità, sia per le zone rurali, che possono offrire numerosi servizi – turistici, ricreativi, didattici, ecc. – permettendo così di integrare il reddito degli agricoltori e infine per la collettività, che può usufruire di un ambiente più sano.
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5.4. Conclusioni
La crescita della cosiddetta agricoltura moderna è stata accompagnata da una
pesante ricaduta sulla quantità e qualità delle risorse ambientali disponibili.
Tutto ciò è legato al carattere specifico dell’agricoltura; essa non è elemento
esterno degli ecosistemi locali ma ne fa parte. Ovviamente, quando si cerca di
trasformare la natura in produzione agricola, si introducono nel sistema una serie di elementi esterni, si usano o si consumano risorse naturali e si producono
nuovi elementi fisici o biologici. Sono necessarie informazioni piuttosto particolareggiate per caratterizzare l’uso dei fattori di produzione (sostanze chimiche, energia e risorse idriche, l’uso del suolo), la copertura vegetale (topologia,
pratiche di coltivazione e di allevamento del bestiame) e la gestione agricola.
Il riconoscimento delle esternalità del settore primario e della loro interferenza ambientale risulta quindi determinante nella pianificazione delle strategie
degli imprenditori agricoli, che devono ripensare profondamente le scelte produttive e adattare le attitudini d’impresa a uno scenario economico e sociale in
profondo mutamento, dove la tematica ambientale riveste un ruolo centrale (Di
Iacovo, 2007).
All’intervento pubblico, che fissa dei limiti e tenta di contenere gli effetti
delle esternalità negative, si associa la RSI che, in un’ottica di trasparenza e di
eticità, tenta di internalizzare il costo della “riduzione di ambiente”.
Uno dei limiti all’adozione di un approccio socialmente responsabile è che
esso determina dei costi fissi (consultazioni, certificazioni di gruppo, ecc.), che
potrebbero rivelarsi proibitivi per le imprese agricole, in particolare per le piccole e micro imprese. Tuttavia suddividendo questi costi fissi su un gruppo di
imprese si potrebbe tentare di ridurre il costo individuale in modo sensibile.
(Wall et alii, 2001). In un’ottica di sostenibilità economica oltre che ambientale,
un altro ostacolo all’adozione di un approccio socialmente responsabile è rappresentato dalla natura nascosta delle caratteristiche ambientali sul prodotto finito. In effetti è molto difficile per un consumatore verificare le caratteristiche
ambientali di un prodotto e, pertanto, occorrerebbe fornirgli un supporto cognitivo che consentirebbe, inoltre, all’impresa di migliorare la propria reputazione,
valorizzando le proprie produzioni e ottimizzando la propria competitività.
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CAPITOLO VI
RESPONSABILITÀ
SOCIALE DI IMPRESA E COOPERAZIONE
6.1. Premessa
Nell’ambito dei sistemi economici di mercato, l’impresa cooperativa rappresenta un modello di organizzazione dell’attività economica che, in ragione delle
sue caratteristiche peculiari, mostra un orientamento gestionale che si può ritenere, in prima approssimazione, aderente ai principi della responsabilità sociale
d’impresa: anzi, come è stato affermato (Vitale, 2003, p. 212), essa «è naturaliter socialmente responsabile». Tuttavia, l’orientamento sociale e solidaristico
che connota l’attività imprenditoriale cooperativa scaturisce dal principio cardine che ne orienta il funzionamento, quello della mutualità, certamente non del
tutto sovrapponibile a quello della responsabilità: di qui la maggiore intensità
dell’orientamento sociale dell’impresa cooperativa rispetto a quello derivante
dall’attuazione dei principi di responsabilità sociale da parte dell’impresa capitalistica. Tale per cui occorre definire quelli che sono i tratti di una peculiare
caratterizzazione della nozione di responsabilità sociale: la responsabilità sociale
cooperativa.
In questo capitolo si analizzano le peculiarità dell’attività imprenditoriale in
forma cooperativa proprio per rintracciarne quegli elementi che ne fanno per sua
natura un modello di organizzazione della produzione socialmente responsabile.
In questo senso, si sottolinea in modo specifico la stabilità nel tempo dell’impresa, intesa come caratteristica derivante dal tratto intergenerazionale della
stessa, nonché il suo radicamento, frutto dell’applicazione del principio mutualistico nell’ambito della comunità di riferimento. Proprio il radicamento territoriale consente alle cooperative del sistema agroalimentare di favorire non soltanto l’animazione sociale del territorio sul quale l’impresa insiste, promuovendo il mantenimento dell’equilibrio sociale e ambientale dello stesso, ma anche di sviluppare un forte orientamento alla qualità, che si basa sulla possibilità, da parte delle cooperative di trasformazione, di orientare e valorizzare i prodotti ad esse conferiti, contribuendo in questo modo alla salvaguardia della vocazione produttiva del territorio anche attraverso la valorizzazione delle produzioni tipiche locali.
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6.2. Mutualità VERSUS responsabilità sociale: i contenuti della responsabilità sociale cooperativa
L’impresa cooperativa, è stata definita come «un’associazione autonoma di
individui che si uniscono volontariamente per soddisfare i propri bisogni economici, sociali e culturali e le proprie aspirazioni attraverso la creazione di una
società di proprietà comune e democraticamente controllata (…), un’associazione basata sui valori dell’autosufficienza (il far da sé), dell’autoresponsabilità,
della democrazia, dell’eguaglianza, dell’equità e della solidarietà»1. La cooperativa rappresenta, pertanto, un modello di organizzazione della produzione che
esprime alcune caratteristiche peculiari: la risposta ai bisogni avvertiti da alcuni
soggetti all’interno di una comunità in forma autogestita da parte degli stessi;
la condivisione del rischio imprenditoriale tra tutti i soggetti che partecipano all’intrapresa economica; la negazione del profitto come fine ultimo dell’impresa
e la concezione dello stesso, invece, come strumento per il raggiungimento del
suo fine esclusivo, consistente nella soddisfazione mutualistica del bisogno. I
principi che la caratterizzano e che ne mettono in evidenza i tratti peculiari sono
stati individuati nella mutualità, nella solidarietà e nella democraticità (Matacena, 2003).
È intorno al concetto di mutualità che ruota tutto l’agire cooperativo. Tale
principio esprime quell’orientamento dell’attività economica volto a fornire beni
o servizi ai soci in proporzione al grado di bisogno da essi espresso, vale a dire
in funzione del tipo di scambio che gli stessi hanno intrattenuto con la cooperativa: l’attività mutualistica si realizza attraverso l’eliminazione degli intermediari capitalistici o nei processi di produzione o nei processi di distribuzione dei
prodotti conferiti dai soci oppure nella vendita di quelli destinati al loro consumo. Tutta l’attività mutualistica, pertanto, risulta orientata a massimizzare il
vantaggio cooperativo dei soci e non la remunerazione dell’investimento capitalistico. Gli elementi speculativi della gestione cooperativa sono ammessi soltanto in quanto accessori e strumentali al raggiungimento della finalità mutualistica, «reputandosi negativo, per la mutualità, l’intento speculativo del socio
non quello dell’impresa cooperativa» (ivi, p. 124). All’interno della cooperativa,
il concetto di mutualità si traduce nel potere dei soci di incidere attivamente e
responsabilmente nella conduzione dell’attività imprenditoriale, a cui è frequente
che partecipino in una veste duplice, che li vede coinvolti non solo in qualità
di soci, ma anche, eventualmente, di finanziatori o di lavoratori o di datori di
1
Definizione tratta dalla Dichiarazione di identità cooperativa, approvata dall’Alleanza cooperativa internazionale nel 1995, nel corso del suo XXXI Congresso. Cfr. «Rivista della cooperazione», n. 22, 1995.
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lavoro nei confronti di altri soggetti: di conseguenza, nell’ambito dei processi
decisionali, i soci sono tenuti a operare tra orizzonti temporali differenti.
Proprio alla luce di tali caratteristiche, «la cooperazione nasce responsabile
(…); si potrebbe dire che è responsabile per definizione. È strutturata per assicurare il massimo dei coinvolgimenti interni e esterni all’impresa. Per la cooperazione il dibattito sulla CSR non è teorico, è nella sua prassi attuativa» (Salani, 2003, p. 12). Tuttavia, i concetti che i termini mutualità e responsabilità
sociale veicolano non risultano identici. Infatti, mentre la mutualità presuppone
una condizione paritaria dei soggetti ai quali la nozione si applica, in un’ottica
di relazione di reciprocità tra gli stessi, parità che deve sussistere quanto meno
nella natura del bisogno che essi avvertono e alla soluzione del quale è indirizzata tutta l’attività della cooperativa, la nozione di responsabilità, invece, implica un rapporto di tipo verticale, gerarchico, tra un soggetto che assume comportamenti e ruoli nei confronti di un altro, che risulta funzionalmente sottordinato al primo e che riceve ma non può ricambiare, se non esprimendo la sua
gratitudine (Salani, 2004). Per questo i due significati non sono del tutto sovrapponibili e, per analizzare l’orientamento sociale e solidaristico insito nella
cooperazione, occorre far riferimento al concetto di responsabilità sociale cooperativa. Quest’ultimo si configura alla luce di alcuni tratti peculiari che connotano l’attività cooperativa di impresa (ibidem): il carattere strumentale del profitto; la sicurezza e la stabilità dell’attività imprenditoriale; la mutualità esterna,
intesa come attenzione alle esigenze della comunità nella quale la cooperativa
è inserita; il radicamento che, in ragione di tali caratteristiche, la cooperativa
esprime.
Come già accennato, per l’impresa cooperativa il perseguimento del profitto
è strumentale al raggiungimento della finalità per cui la stessa si è costituita: la
soddisfazione di un particolare bisogno in capo ai soci. La non centralità della
logica del profitto favorisce tra i soggetti partecipanti all’impresa il rafforzamento di un clima di fiducia, necessario ai fini della reciprocità mutualistica, e
allarga gli ambiti sui quali la cooperativa può confrontarsi con le altre imprese.
D’altra parte, il carattere strumentale del profitto si ricava anche dalla parità con
cui sono considerati i soci ai fini del processo decisionale: parità che prescinde
dall’entità del conferimento patrimoniale dei singoli, alla luce della sterilizzazione, ai fini delle decisioni, della dimensione patrimoniale della partecipazione
alla società, che porta all’applicazione del principio del voto capitario in assemblea. È proprio tale caratteristica che rende la cooperativa non contendibile
e che impedisce di percepire una componente importante del profitto, quella costituita dal capital gain. Questa peculiarità si lega al carattere intergenerazionale
dell’impresa, i cui soci ne sono soltanto gestori pro tempore, ma non proprietari in senso assoluto. D’altronde, è proprio la mancata titolarità della proprietà
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in capo ai soci a non consentire agli stessi di vendere la cooperativa e, pertanto,
a non permettere loro di percepire guadagni in conto capitale al momento dell’uscita dalla stessa. Infatti, quando il socio recede dalla società ritira il capitale
conferito senza poter godere dell’incremento di valore patrimoniale eventualmente realizzato, sia a titolo di reinvestimento che di particolare successo, se
non nella forma della rivalutazione consentita dalla legge, volta a mantenere il
valore reale della partecipazione.
Proprio il carattere intergenerazionale dell’impresa, che viene favorito attraverso la destinazione degli utili conseguiti, dedotto l’ammontare necessario alla
giusta remunerazione e alla rivalutazione del capitale, a riserva indivisibile2, rappresenta l’elemento che meglio degli altri riesce a conferire i caratteri della stabilità e della sicurezza all’impresa stessa. La continuità nel tempo di un’istituzione economica si configura come un tratto che presuppone un’attenzione rispetto al mantenimento di un tessuto economico vitale nella comunità di riferimento, oltre che un vivo interesse alla salvaguardia degli equilibri naturali dell’ambiente circostante. Tale continuità rafforza i legami tra i vari stakeholder e
media tra i diversi interessi degli stessi; inoltre, concorre a far sì che l’impresa
rifiuti l’adozione di una logica volta a massimizzare esclusivamente le convenienze di breve periodo e le convenienze opportunistiche. D’altra parte, come
ha sottolineato Sacconi (2003), le riserve indivisibili svolgono un’importante
funzione di antidoto nei confronti di eventuali rapporti del tipo “mordi e fuggi”
con l’impresa; che si verificherebbero, per esempio, nel caso in cui alcuni soci,
comportandosi in modo opportunistico, si ritirassero dalla cooperativa prima di
ricevere le eventuali sanzioni derivanti dal loro comportamento, sottraendo, in
tal modo, una parte del valore dell’impresa frutto anche del lavoro e della dedizione degli altri. Così come le stesse riserve indivisibili consentono di scongiurare l’eventualità per cui, in caso di fallimento dell’impresa generato da un
comportamento opportunistico, i responsabili del fallimento possano dividersi i
resti del valore della cooperativa.
Un’altra caratteristica che compone il contenuto della responsabilità sociale
cooperativa è data dalla pratica della mutualità esterna: quella particolare atten-
2
Proprio sugli utili destinati a riserva indivisibile, come è noto, nel nostro ordinamento è stata prevista
un’esenzione fiscale, misura sulla quale si è appuntata la critica più frequente al sistema delle imprese
cooperative. L’obiezione, infatti, sottolinea l’effetto distorcente della concorrenza che tale misura avrebbe
provocato a vantaggio delle cooperative. In realtà, l’agevolazione fiscale prevista ha mirato a favorire all’interno delle cooperative la costituzione di un patrimonio intergenerazionale, il cui valore, proprio in
ragione della necessità di renderlo disponibile per le generazioni future, non può essere goduto dai soci
che in un dato momento gestiscono l’impresa. Oggi, tuttavia, le norme fiscali in vigore (D.L. 63/2002)
prevedono per la maggioranza delle cooperative soltanto una detassazione parziale del reddito imponibile.
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zione che la cooperativa rivolge non soltanto ai fornitori e ai clienti, ma soprattutto a quei soggetti che appartengono alla medesima comunità di riferimento della stessa e sono titolari del medesimo bisogno dei soci cooperatori3.
Tale attenzione si manifesta attraverso l’applicazione del principio della “porta
aperta”, mediante l’adozione del quale avviene il riconoscimento da parte dell’impresa della centralità che il bisogno che essa soddisfa occupa all’interno
della comunità nella quale opera. Si tratta, in questo modo, di estendere a un
ambito più ampio la natura relazionale tipica del rapporto mutualistico. Di fronte
alla presenza in capo a soggetti esterni alla cooperativa di un bisogno identico
a quello che essa già soddisfa al suo interno, la cooperativa lascia la possibilità
che tali soggetti siano soddisfatti in quel loro bisogno, consentendo loro, per
esempio, di associarsi all’impresa. Soltanto nel caso in cui gli equilibri economici di quest’ultima siano tali da non poter consentire l’ingresso di ulteriori soci,
la cooperativa assume l’obbligo di promuovere nuova imprenditorialità cooperativa, con l’intento di soddisfare ugualmente, mediante la costituzione di nuove
realtà produttive, quei bisogni che non riesce a risolvere al suo interno: mettendo in pratica, in questo modo, quel particolare principio che passa sotto il
nome di “promozione cooperativa”.
Il quadro descritto sulla sua modalità di operare riflette una particolare caratteristica della cooperativa, che ne rafforza i contenuti di impresa socialmente
responsabile: essa si manifesta come una forma di impresa particolarmente radicata nella comunità di riferimento. Al suo interno si esprime un’elevata percezione delle principali problematiche del territorio, portate all’attenzione dell’impresa da parte dei soci e verso cui la cooperativa non soltanto si mostra interessata ma direttamente coinvolta nel contribuire alla soluzione delle stesse.
Anche in un’epoca dominata dal “valore” della mobilità, il radicamento si può
tradurre, comunque, in un punto di forza, se viene interpretato e sviluppato nel
contesto delle relazioni che la cooperativa può instaurare con la comunità locale, alla quale essa può offrire una «certezza di interlocuzione, una stabilità dei
rapporti di capitale relazionale ed economici che l’impresa for profit non è, strutturalmente, in grado di garantire» (Salani, 2005, p. 216).
Il carattere mutualistico dell’impresa cooperativa e la connotazione di impresa radicata sul territorio che ne deriva, rappresentano i tratti attraverso i quali
essa esprime la sua identità, manifestando la propria utilità. Come è stato affermato (Zuppiroli, Vecchio, 2006, p. 72), «nella ragion d’essere dell’impresa
cooperativa vi è la volontà di manifestare una sua utilità distintiva rispetto all’impresa for profit. Questo scopo può essere perseguito solo coniugando la di-
3
In questo caso si parla più precisamente di “mutualità ulteriore”.
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mensione economica con quella sociale e collettiva (nelle sue diverse angolazioni e prospettive)». Il tenore e la qualità del risultato economico influenzano
il tenore e la qualità degli altri aspetti derivanti dall’attività in campo sociale
della cooperativa; infatti, solo distribuendo nuova ricchezza, creata attraverso il
successo competitivo sul mercato, è possibile conferire rilevanza alle sue azioni
in campo sociale. Al contrario, nel caso in cui la cooperativa, al fine di distribuire risorse nell’ambito sociale, le assorbisse dalla collettività, si finirebbe per
allungare la catena assistenziale, con effetti redistributivi incerti (ibidem). L’“utilità distintiva” che l’impresa cooperativa è in grado di manifestare non si traduce, dunque, soltanto nell’adozione di una condotta trasparente, né tanto meno
solo nella produzione di qualità dei beni e dei servizi forniti (caratteristiche, queste ultime, che, certamente, ne possono rappresentare delle valide premesse): si
manifesta, invece, anche nella capacità di restituire ricchezza e quindi utilità al
territorio e alla comunità di riferimento4.
6.3. La cooperazione nel sistema agroalimentare: i principali fattori
costitutivi dell’azione socialmente responsabile
Comune alla gran parte dei sistemi economici è la presenza e la consistenza
significativa del modello cooperativo di impresa nell’ambito del sistema agroalimentare, in ragione dell’opportunità che la cooperativa offre agli agricoltori di
ridurre la loro vulnerabilità sul mercato. Infatti, la cooperativa (che in questo
ambito si afferma prevalentemente come cooperativa di conferimento), nella misura in cui raccoglie e valorizza i prodotti delle singole imprese agricole oppure
consente a queste ultime un approvvigionamento dei mezzi tecnici a un prezzo
più basso di quello di mercato, permette loro di gestire più agevolmente i rischi
che sono connessi a una produzione di natura biologica, caratterizzata dall’eterogeneità della qualità dei prodotti, dall’influenza delle condizioni atmosferiche
sulla qualità degli stessi e da un’inevitabile dispersione geografica. Pertanto, gli
obiettivi che l’impresa cooperativa di conferimento persegue consistono sia nella
massimizzazione del valore dei prodotti realizzati e conferiti dai soci, sia nella
minimizzazione dei costi dei servizi forniti a loro stessi, quando l’attività della
cooperativa passa alla fase di trasformazione del prodotto ad essa conferito. Attraverso l’associazionismo in cooperativa, le singole imprese agricole rafforzano
4
Convergente su tale posizione risulta la sintesi di Mazzoleni (2003, p. 147), per il quale «si potrebbe affermare che è impresa socialmente responsabile quella che restituisce alla comunità parte dei benefici che
ottiene dall’essere membro della stessa».
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la loro debole posizione negoziale di partenza; infatti, in considerazione dell’elevato frazionamento, sia dell’offerta di prodotti che della domanda di mezzi
tecnici, che caratterizza la struttura della produzione agricola, l’opportunità per
i singoli agricoltori di associarsi in cooperativa consente loro di emanciparsi dal
vincolo del monopolio, e quindi dal peso della conseguente rendita, di intermediari commerciali o di pochi grandi offerenti. Tale opportunità, pertanto, consente ai produttori agricoli di evitare il rischio di vedere espropriati i propri investimenti, permettendo loro di raggiungere una sufficiente forza contrattuale
nei confronti degli altri operatori della filiera. La conseguenza è che migliora
l’efficienza del mercato, anche a beneficio dei consumatori.
Nell’ultimo ventennio il mondo della cooperazione agroalimentare nel nostro
sistema economico ha manifestato un’evoluzione considerevole, sia dal punto di
vista del carattere strutturale delle imprese, sia dal lato delle scelte da esse compiute nell’ambito organizzativo, strategico e commerciale. È attraverso i processi di accorpamento e di concentrazione sia nella fase della trasformazione sia
in quella della distribuzione che l’impresa cooperativa ha cercato di rispondere
alle maggiori pressioni competitive scaturite dall’estensione del fenomeno della
globalizzazione. La riconversione produttiva delle cooperative di trasformazione
che talvolta ne è scaturita ha comportato l’assunzione di alcuni obiettivi di tipo
qualitativo (Giacomini, Petriccione, 1993): l’ampliamento della tipologia di prodotti offerti; il miglioramento degli standard produttivi; lo sviluppo delle attività di marketing e la fornitura di servizi accessori orientati al controllo e alla
valorizzazione della qualità. D’altra parte, la crescita dimensionale va interpretata come funzionale alla riduzione dell’incidenza dei costi fissi connaturati alle
innovazioni di processo, che la pressione competitiva della filiera agroalimentare ha reso sempre più necessarie. L’ampliamento della dimensione dell’impresa presuppone sia l’approvvigionamento del prodotto anche da soggetti terzi
non soci e sia una maggiore apertura e integrazione con il mercato, al fine di
collocare meglio il prodotto che la cooperativa gestisce (Zuppiroli, Vecchio,
2006).
Oggi, nel sistema agroalimentare italiano il panorama della cooperazione è
caratterizzato da una composizione dualistica che scaturisce, da un lato, dalla
presenza di gruppi cooperativi di dimensione significativa, consolidatisi in ragione dei fenomeni di accrescimento dimensionale, di incorporazione e di fusione che si sono verificati negli ultimi lustri e, dall’altro, dall’esistenza di quelle
cooperative che tradizionalmente si sono affermate in tale comparto, aventi specifiche caratteristiche: piccola dimensione; identità locale; scarsa autonomia, in
ragione di un legame solidaristico molto forte esistente tra le stesse; elevata specializzazione produttiva; debolezza finanziaria (ibidem). Tuttavia, le ragioni
della competitività, accentuate dalla rapida intensificazione del processo di glo-
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balizzazione, non sempre si sposano con il mantenimento dell’identità cooperativa, alla quale, come si è visto, è legato il perseguimento di una condotta socialmente responsabile. Infatti, al crescere della dimensione della cooperativa e
conseguentemente della complessità della sua gestione, nel contesto di una condotta dell’attività imprenditoriale di tipo manageriale, la cooperativa può andare
incontro ad un fenomeno di “degenerazione” (Saccomandi, 1986). In particolare, tale fenomeno sarebbe legato al cambiamento del suo modello di riferimento, da quello socio-centrico, per il quale l’impresa persegue l’unico obiettivo di valorizzare il lavoro dei soci mediante condizioni migliori di acquisto
e/o di vendita, a quello mercato-centrico, attraverso il quale la cooperativa trasmette ai propri soci le richieste del mercato, operando l’approvvigionamento
del prodotto sempre più da soggetti terzi non soci (Giacomini, Petriccione,
1993). La crescita dimensionale della cooperativa, dunque, è legata ad un progressivo processo di autonomia della stessa nei confronti del socio. In riferimento a tale fenomeno, però, la cooperativa tende ad assumere le caratteristiche di quella che è stata definita «cooperativa a conduzione lucrativa» (Matacena, 1982, p. 63): modello di impresa nel quale l’obiettivo economico passa
da quello volto a massimizzare la valorizzazione del conferimento dei soci a
quello della massimizzazione dell’utile aziendale e nel quale la direzione manageriale ridimensiona il peso dell’assemblea dei soci nella conduzione dell’attività, relegandola ad un ruolo di semplice conferma e ratifica di decisioni già
adottate5.
Dunque, la condotta socialmente responsabile dell’impresa cooperativa, anche nel sistema agroalimentare, è maggiormente legata al mantenimento del carattere mutualistico della stessa e, pertanto, alla conservazione di una dimensione aziendale che non sia particolarmente complessa. Specificamente sono diversi gli aspetti che connotano l’azione socialmente responsabile delle cooperative nel comparto in discorso. Innanzitutto, elementi di responsabilità sociale si
rintracciano già nell’obiettivo specifico della cooperativa, che nasce proprio con
l’intento di integrare le economie individuali, spesso deboli, e rappresenta in
molti casi la soluzione più efficace per frenare l’esodo dalle campagne, in difesa del mantenimento dell’identità e della vocazione produttiva di un determi-
5
Come ha sottolineato l’analisi neoistituzionalista proposta da Hansmann (1996), la crescita dimensionale,
quando è realizzata per vie interne attraverso un ampliamento della base sociale, può essere generatrice
di problemi di gestione per l’impresa cooperativa. L’omogeneità degli interessi dei soci è considerata una
condizione che la cooperativa deve soddisfare per mantenere i costi di gestione ad un livello contenuto.
Tale omogeneità, tuttavia, tende inevitabilmente a ridursi con la crescita delle dimensioni dell’impresa,
se quest’ultima si verifica mediante l’ampliamento della base sociale. L’estensione del numero dei soci
partecipanti, perciò, può determinare un aumento delle difficoltà decisionali, a causa del sopraggiungere
di una diversità negli interessi, nelle preferenze e negli orizzonti temporali dei soci stessi.
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nato territorio. In questo senso, oggi l’obiettivo mutualistico delle cooperative
agroalimentari non si limita più soltanto alla massimizzazione del valore del prodotto conferito dai soci ma si estende all’adozione di una strategia di collaborazione nel medio-lungo periodo con l’azienda agricola socia, con l’intento di
realizzare prodotti che siano particolarmente valorizzati sul territorio di riferimento e sul mercato (Zuppiroli, Vecchio, 2006).
Va considerata, quindi, la funzione di animazione della base produttiva locale che la cooperativa svolge, sostenendo le aziende agricole che sono socie
fino alla gestione in conto lavorazione dei terreni di quei soggetti che non si
presentano più nelle condizioni di seguirli direttamente (Pacciani, 2000). La
cooperativa svolge, pertanto, un’importante funzione nel favorire il ricambio generazionale delle attività agricole, anche attraverso l’inserimento di pratiche innovative dal punto di vista gestionale. La funzione di animazione sociale del
territorio di riferimento è, inoltre, favorita dal carattere intergenerazionale dell’attività; quest’ultimo, che viene promosso dall’obbligo di destinare una parte
degli utili conseguiti a riserva indivisibile (tale per cui i soci cooperatori non
possono considerarsi proprietari dell’impresa, godendo di un diritto sulla stessa
simile all’usufrutto), radica l’impresa alla comunità di riferimento, consentendo
anche alle aziende agricole finanziariamente più deboli di proseguire nell’attività agricola. La continuità generazionale, quindi, rafforza la cooperativa nel suo
ruolo di promozione della funzione di presidio degli equilibri naturali del territorio da parte delle imprese agricole socie, oltre a consentirle di salvaguardare
l’identità e la vocazione produttiva del territorio stesso, frenandone lo spopolamento o la riconversione produttiva in attività poco compatibili con le sue caratteristiche storico, culturali e ambientali e quindi distanti dalla sua vocazione
produttiva6.
Un altro aspetto che connota in senso socialmente responsabile l’attività dell’impresa cooperativa nel comparto agroalimentare è dato dall’orientamento alla
qualità (ibidem), che si configura, anche alla luce dei cambiamenti intervenuti
nell’ambito dei consumi, come elemento determinante per rafforzare la competitività dei prodotti anche a livello internazionale. Esso si traduce, da un lato, in
uno stretto controllo delle fasi del processo produttivo e dei caratteri intrinseci
del prodotto, che presuppone un’interazione rilevante tra l’impresa cooperativa
e la sua base sociale ed è finalizzato a verificare che il processo produttivo avvenga sempre in modo sostenibile, nel rispetto del naturale equilibrio dell’ambiente, dall’altro, nella valorizzazione di alcuni prodotti tipici a indicazione geo-
6
In questo senso, come ha ricordato Pacciani (cit.), le politiche di sviluppo rurale dell’Unione europea consentono alla cooperazione di rafforzare il proprio ruolo nei processi locali di sviluppo.
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grafica protetta e a denominazione di origine protetta, oltre che attraverso la realizzazione della certificazione di sistemi di qualità aziendale.
6.4. Conclusioni
L’analisi svolta sulle peculiarità del modello cooperativo di impresa è stata
condotta nell’intento di ricavare gli elementi argomentativi sufficienti per poter
suffragare la tesi per cui l’impresa cooperativa si presenta, per sua natura, socialmente responsabile. Ad ulteriore conferma della validità di tale assunto si
considerino due importanti fenomeni che hanno caratterizzato la condotta della
grande impresa capitalistica nell’ultimo ventennio: la propensione ad attuare
processi di delocalizzazione produttiva e l’adozione di orientamenti gestionali
finalizzati alla massimizzazione del valore dei titoli azionari nel breve periodo.
Fenomeni il cui effetto è stato un deterioramento del nesso di corrispondenza
tra impresa e territorio di riferimento, che ha comportato, di conseguenza, una
separazione netta tra potere economico e obblighi sociali (Zamagni, 2003a). I
contenuti della RSI, pertanto, si sono sviluppati nell’intento di consentire all’impresa capitalistica di ricomporre tali fratture, favorendo da parte della stessa
il recupero della legittimazione sociale. Proprio nel perseguire questa finalità,
tali contenuti hanno rivalutato due delle principali caratteristiche della conduzione dell’attività imprenditoriale in forma cooperativa: il radicamento territoriale che essa esprime e la propensione a conseguire una redditività secondo logiche assai distanti da quelle orientate a massimizzare il valore dell’impresa nel
breve periodo.
L’adozione delle pratiche di RSI da parte dell’impresa for profit, dunque, riconduce a un modo di svolgere l’attività imprenditoriale che tende ad avvicinarsi, ma certamente non può risultare sovrapponibile, a quello dell’impresa
cooperativa7. Infatti, come è emerso dallo sviluppo del concetto di responsabilità sociale cooperativa, indagato in riferimento alla cooperazione nel sistema
agroalimentare, l’interpretazione che la cooperativa dà al tema della responsabilità sociale risulta assai più impegnativa di quella che di tale tema riesce a
fornire l’impresa capitalistica: tentata, talvolta, a risolverne i contenuti prevalentemente in semplici operazioni promozionali. Per la cooperativa, invece, la
responsabilità sociale si realizza proprio mediante il raggiungimento di una variegata gamma di obiettivi, di forte valenza etico-sociale, che essa persegue nel7
Come ha affermato Mazzoleni (cit., p. 149), «la principale differenza tra modello di impresa socialmente
responsabile e modello cooperativo è che mentre per il primo la CSR rappresenta (…) una filosofia aziendale e una scelta, per il secondo costituisce un modo di essere, una parte dell’identità del modello stesso».
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l’ambito del processo produttivo: l’interpretazione e la soddisfazione di particolari bisogni avvertiti dalla comunità di riferimento; la salvaguardia degli equilibri ambientali, alla luce della continuità intergenerazionale dell’impresa; la
promozione della qualità e della salubrità dei prodotti; il concorso al rafforzamento del tessuto imprenditoriale a livello locale attraverso la promozione di
iniziative produttive di natura cooperativa.
È opportuno, pertanto, che da parte del mondo della cooperazione si adotti
uno strumento di rendicontazione in grado di evidenziare la specificità cooperativa in riferimento al tema della responsabilità sociale. In questo senso, l’adozione del bilancio sociale dovrebbe essere orientata a evitare che nella redazione dello stesso si giunga a una omologazione delle differenze tra impresa
cooperativa e impresa for profit. Come è stato evidenziato (Salani, 2004b), il
bilancio sociale cooperativo dovrebbe essere composto di due parti: una, compilata sottolineando gli elementi che sono confrontabili con quelli delle altre imprese; l’altra, invece, nella quale convogliare tutte le informazioni in grado di
esprimere la specificità dell’insieme dei valori cooperativi.
Dunque, la sfida che la cooperazione del sistema agroalimentare è chiamata
ad affrontare, di fronte alle crescenti pressioni competitive che scaturiscono dal
rafforzamento del fenomeno della liberalizzazione dei mercati, appare particolarmente impegnativa: salvaguardare i tratti della propria identità, cercando di
trasformare in fattore di successo la sua congenita caratteristica di condurre in
modo sostenibile e quindi socialmente responsabile l’attività imprenditoriale.
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PARTE TERZA
LAVORO
E AGRICOLTURA NON PROFIT
CAPITOLO VII
LAVORO E RESPONSABILITÀ
SOCIALE DELLE IMPRESE
DEL COMPARTO AGROALIMENTARE
7.1. Premessa
Le trasformazioni che hanno interessato il mercato del lavoro negli anni
hanno messo a dura prova la capacità di tenuta di un modello occupazionale,
quale quello italiano, tradizionalmente fondato sulla centralità del lavoro standard e sulla solidità delle tutele per il lavoratore, portando, forse per la prima
volta dal dopoguerra, al centro del dibattito la questione della qualità del lavoro. Con tale accezione s’intende non tanto e non solo l’insieme delle garanzie connesse alla condizione lavorativa ma anche tutto quel complesso di elementi che contribuiscono a determinarne il valore intrinseco, ovvero sicurezza
e salute nel luogo di lavoro, crescita professionale, organizzazione del lavoro,
contenuti professionali1.
Per avere un’idea di quanto centrale sia oggi il tema della qualità del lavoro
in Italia, basti ricordare che:
– l’Italia resta uno dei Paesi europei con la più alta incidenza di lavoro irregolare, considerato che ogni 100 lavoratori, almeno 10 sono completamente
in nero,
– l’elevata incidenza di morti e infortuni sul lavoro (solo nel 2006 si sono registrate 927mila infortuni sul lavoro di cui 1.302 mortali), sebbene in significativa diminuzione negli ultimi anni, continua a rappresentare un’emergenza per il Paese,
– circa l’11% dei lavoratori italiani, ma tra i giovani fino a 35 anni la percen-
1
Da questo punto di vista, anche l’orientamento emergente a livello europeo attribuisce sempre più rilevanza al tema della crescita della qualità del lavoro e soprattutto del ruolo che la RSI può svolgere a supporto della crescita sostenibile dell’occupazione. In particolare, come indicato nella Comunicazione del
marzo 2006, p. 6 «Le pratiche che si ispirano al concetto di RSI (…) non si sostituiscono all’azione dei
pubblici poteri ma possono contribuire a realizzare una serie di obiettivi che essi perseguono, quali: mercati del lavoro più integrati e livelli di inclusione sociale più elevati (…); investimenti destinati a favorire lo sviluppo delle competenze, l’apprendimento permanente e l’occupabilità (…); miglioramenti nella
salute pubblica; migliori prestazioni in fatto di innovazione (…); uno sfruttamento più razionale delle risorse naturali e una diminuzione dei livelli di inquinamento (…); un’immagine più positiva delle imprese
e degli imprenditori (…); un maggiore rispetto dei diritti umani, della tutela dell’ambiente e delle norme
fondamentali del lavoro, in particolare nei Paesi in via di sviluppo; riduzione della povertà e progressi
verso gli obiettivi di sviluppo del millennio».
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tuale raddoppia, ha un contratto a termine o di collaborazione, a progetto od
occasionale,
– il 18,7% dei lavoratori italiani è sottoccupato, dal momento che svolge un
lavoro inadeguato rispetto al proprio livello di istruzione. I più penalizzati
sono i laureati: il 31,9% ha un’occupazione per cui non è richiesto il diploma
di laurea e tra i giovani tale percentuale sale al 48,8%.
Tali elementi che caratterizzano il mercato del lavoro italiano sono il portato
della sedimentazione di condizioni e fattori – si pensi in particolare al lavoro
sommerso o al problema della sottoccupazione – da ricondurre alle caratteristiche stesse del sistema produttivo del Paese, le cui microdimensioni aziendali
hanno fortemente penalizzato l’emersione del lavoro irregolare e soprattutto l’innalzamento della domanda di lavoro: nel 2006, stando all’ultima rilevazione del
Rapporto Unioncamere Excelsior, “solo” l’8,5% delle assunzioni previste dalle
aziende era destinato a laureati.
Alle già penalizzanti caratteristiche di sistema negli ultimi anni si sono aggiunti dei fenomeni in larga parte nuovi, che hanno accelerato quel processo di
progressivo abbassamento della soglia di qualità del lavoro in Italia, e in particolare:
– la crescita di comparti produttivi ad alta densità di lavoro irregolare e a forte
rischio infortunistico – si pensi all’edilizia ma anche e soprattutto al lavoro
di cura e di assistenza domestico – che se da un lato ha contribuito non poco
alla contrazione dei livelli di disoccupazione, dall’altro, ha prodotto un inevitabile deterioramento delle condizioni complessive di lavoro;
– l’aumentato livello di incertezza connesso alla condizione lavorativa, legato
all’ampia diffusione di contratti flessibili, a termine e di collaborazione. L’introduzione di queste tipologie contrattuali ha consentito di dare nuovo ossigeno a un mercato del lavoro sempre più asfittico ma ha anche “congelato”
i processi di crescita professionale di quote sempre più larghe di lavoratori,
penalizzandone fortemente la condizione lavorativa;
– l’accesso sempre più numeroso al lavoro degli immigrati, che ha determinato, in molti comparti, l’abbassamento della soglia di regolarità del lavoro,
e soprattutto una diminuzione del livello di consapevolezza dei lavoratori rispetto ai propri diritti.
Va sottolineato inoltre come, negli ultimi anni, lo stesso significato del lavoro sia andato profondamente e progressivamente modificandosi, cambiando le
attese che le persone hanno rispetto a questa dimensione della propria vita. Una
dimensione che se, da un lato, risulta sempre meno centrale, perché sempre
meno “tributaria” di identità sociale dall’altro, rappresenta oggi qualcosa di più
di un modo per “guadagnarsi da vivere”, ovvero un insieme di motivazioni di
carattere espressivo – come la volontà di raggiungere particolari obiettivi per-
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sonali e ottenere risultati soddisfacenti nel proprio percorso professionale – che
assumono un valore sempre più rilevante da un punto di vista personale e sociale, anche se non economicamente quantificabile2.
7.2. La centralità della dimensione lavoro nell’azione di responsabilità sociale di impresa
La dimensione del lavoro rappresenta un aspetto relativamente poco esplorato dal dibattito sulla responsabilità sociale delle imprese, quanto meno rispetto
alla centralità che le risorse umane rivestono nella vita delle aziende e all’impatto che una strategia d’impresa anche orientata alla promozione della qualità
del lavoro e del benessere dei propri addetti può avere, non solo in termini economici, ma anche e soprattutto sociali.
Tale tendenza a “spogliare” il concetto di responsabilità sociale delle imprese
da quello che ne rappresenta l’elemento più costitutivo risente evidentemente
della minore attenzione che le stesse imprese impegnate in tema di responsabilità sociale dedicano a questo aspetto, dato che l’impegno nei confronti delle risorse umane viene considerato dalle imprese “attive” sul fronte della RSI come
l’aspetto più residuale (“solo” il 4,5% dichiara di essere impegnata in tal senso),
prediligendo al contrario strategie di responsabilità sociale più orientate verso
le rispettive comunità di riferimento dell’azienda, oppure verso gli azionisti, o
l’impegno nei confronti dell’ambiente3.
Tuttavia c’è più di una ragione per ritenere che il binomio lavoro-responsabilità sociale rappresenti oggi un tema sempre più centrale per il nostro Paese,
sia rispetto alla crescita della qualità complessiva del lavoro in Italia sia rispetto
agli effetti che questa può produrre da un punto di vista sociale e di sistema –
in termini di inclusione e integrazione soprattutto – contribuendo fattivamente
alla realizzazione, sia a livello micro che macro, di uno sviluppo socialmente
sempre più sostenibile.
A livello macro, la connessione tra la dimensione del lavoro e della responsabilità sociale di impresa rappresenta un tema di grande interesse e rilievo per
chi ha responsabilità nelle politiche attive del lavoro, perché può costituire uno
strumento valido di risposta alle domande di un territorio che è chiamato oggi
a confrontarsi con nuove sfide: il tortuoso ingresso dei giovani nel mercato occupazionale, il rischio di fuoriuscita dal lavoro che colpisce quote crescenti di
2
3
Sull’evoluzione del significato del lavoro si veda Wilson, 2004.
Per approfondimenti si veda Unioncamere, 2006.
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popolazione adulta, la propensione all’inattività che continua a interessare molte
giovani donne, anche a elevata scolarità, la tendenza di molti lavoratori a restare in attività oltre l’età di pensionamento, le uscite volontarie dal lavoro anche in giovane età. Da questo punto di vista, il connubio lavoro-responsabilità
sociale delle imprese risulta centrale da almeno due punti di vista:
– nell’improntare le politiche territoriali a logiche di coesione e di intervento
che partano dal basso, tramite il coinvolgimento attivo dei soggetti che nel
territorio operano quotidianamente,
– nel promuovere meccanismi di governance dei mercati locali del lavoro, che
tengano conto delle potenzialità della RSI e conseguentemente del ruolo
proattivo che le imprese possono giocare nell’innalzamento dei livelli di occupazione e soprattutto della qualità del lavoro.
A livello micro, se è indubbio che non possa essere demandata all’iniziativa
e alla capacità propositiva delle singole imprese la soluzione delle nuove questioni che oggi interessano la condizione di lavoro, è altrettanto evidente che
esse sono i soggetti chiamati in prima persona a svolgere uno sforzo in più per
contribuire a migliorare la qualità complessiva del lavoro nel nostro Paese. Uno
sforzo che evidentemente non può che vederle impegnate in una pluralità di direttrici: che se, da un lato, attengono anche al perseguimento degli obiettivi che
possono essere considerati di sistema – sicurezza in primis ma anche innalzamento della qualificazione dei profili richiesti – dall’altro, rimandano alla capacità di attivarsi anche in dimensioni nuove, e soprattutto di:
– arricchire la complessità della dimensione aziendale di nuovi modelli di gestione che siano in grado di stimolare in modo continuato i processi di integrazione delle risorse umane nell’impresa, nella consapevolezza che carriera
e competenze stanno crescendo insieme a benessere, stile delle relazioni e
cultura, che cominciano a rappresentare elementi importanti nel pacchetto di
offerta di politiche aziendali al pari degli altri;
– stimolare un positivo clima aziendale, promuovendo quel complesso insieme
di elementi sottesi alle performance e alla produttività del lavoro, fatto di
motivazioni, di sviluppo di relazioni per gruppi, di informalità, di investimento personale nelle vicende di impresa, di fiducia che sembra cambiare
secondo logiche autonome rispetto alle altre dinamiche interne;
– far crescere le competenze professionali, che sono attualmente il vero motore del cambiamento aziendale e della sua implementazione, soprattutto se
correlate a posizioni di responsabilità e/o di esposizione diretta del lavoratore rispetto al mercato.
Obiettivi questi che chiamano in causa, oltre alle medie e grandi imprese,
anche le piccole, che, per le loro dimensioni e caratteristiche organizzative, potrebbero sentirsi spinte a sottrarsi alle proprie responsabilità. Anzi, proprio la ca-
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pacità che queste hanno dimostrato in questi ultimi anni di sapere attivare logiche nuove di proiezione sui mercati rende per loro necessario compiere un passo
in avanti anche rispetto alle modalità di gestione delle proprie risorse interne.
7.3. Aspetti e strumenti dell’organizzazione del lavoro responsabile
Se il ruolo delle politiche per l’occupazione va assumendo sempre più una
rilevanza strategica alla luce dei nuovi scenari competitivi, internazionali e nazionali, che pongono le risorse umane al centro dei processi di sviluppo e di
competitività delle aziende e se, al tempo stesso la qualità, da intendersi nelle
sue plurime accezioni – regolarità del lavoro, sicurezza del lavoro, soddisfazione
del lavoratore, crescita professionale, condizioni di lavoro sostenibili – va sempre più affermandosi come driver delle politiche del lavoro, occorre analizzare
in che modo le aziende possono effettivamente contribuire a tale sviluppo e quali
sono conseguentemente gli aspetti entro cui si declina l’azione di responsabilità
sociale delle imprese.
Premesso che molteplici sono i fattori che influenzano la capacità e la dimensione di responsabilità sociale delle aziende, può essere utile, ai fini di un
chiarimento concettuale, distinguere gli ambiti entro cui si estrinseca e si sviluppa l’azione di responsabilità sociale dell’azienda e gli strumenti da mettere in
campo, che possono essere diversificati a seconda delle finalità da raggiungere.
Tuttavia se le sfere di interesse dell’azione di responsabilità sociale delle imprese possono essere plurime, queste non possono prescindere dal rispetto delle
regole che disciplinano il corretto funzionamento del mercato del lavoro e che
tutelano il lavoratore.
Regolarità del contratto di lavoro e delle modalità di occupazione, rispetto dei
diritti fondamentali dei lavoratori, tutela della salute e della sicurezza nel luogo
di lavoro sono pertanto gli elementi “di base”, la cui presenza, pur necessaria
allo sviluppo di azioni orientate a criteri di responsabilità sociale da parte dell’impresa, non risulta tuttavia di per sé indicativa di un orientamento in tal senso4.
4
A tal fine si è scelto di adottare un concetto di responsabilità sociale dell’impresa più ristretto rispetto all’orientamento spesso adottato in materia, considerando il principio di legalità come elemento distintivo
tra cosa non rientra nell’ambito della responsabilità sociale delle imprese (quello ovvero che le imprese
sono tenute a “fare” per legge) e quello che, al contrario, non vi rientra (quello che le imprese non sono
tenute a fare). Da questo punto di vista, tuttavia, non si può non segnalare come anche sul versante normativo ci sia stata una spinta forte in questi ultimi anni a connotare sempre più in una prospettiva di responsabilità sociale, i confini dell’attività imprenditoriale. Si pensi in particolare agli ultimi provvedimenti adottati in materia di lavoro irregolare e soprattutto di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro
(L. 123/2007), che hanno innalzato notevolmente (ampliando l’ambito di applicazione ai lavoratori autonomi, parasubordinati e alle categorie prima eluse) la soglia di tutela per i lavoratori.
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È invece da individuare nell’insieme di azioni che le imprese mettono in
campo a vantaggio dei propri lavoratori, oltre che nel semplice rispetto del principio di legalità, ossia di quanto sono tenute a fare per legge, l’esistenza di un
approccio “socialmente responsabile” verso le proprie risorse, che si sostanzia
tendenzialmente:
– nella promozione professionale del lavoratore, ovvero l’insieme di interventi finalizzati alla crescita professionale, alla costituzione di un patrimonio di competenze e conoscenze funzionale alle esigenze di crescita
professionale del lavoratore, al riconoscimento e alla valorizzazione delle
competenze del lavoratore, alla soddisfazione delle aspirazioni professionali;
– nella tutela del benessere individuale dentro e fuori l’azienda, da intendersi
come l’insieme delle misure finalizzate ad accrescere il livello di soddisfazione del lavoratore e che attengono alla motivazione, al coinvolgimento, alla
qualità delle relazioni umane presenti nell’ambiente di lavoro, al coinvolgimento rispetto alla mission aziendale, all’equilibrio tra la dimensione di vita
lavorativa e la dimensione di vita privata, all’inserimento e all’integrazione
nel contesto sociale di riferimento.
«All’impresa socialmente responsabile non si chiede di diventare altruista
bensì di coltivare un egoismo intelligente dietro la promessa che se si aprirà ai
più ampi orizzonti evocati dalla RSI, potrà svolgere ancora meglio la sua missione di creatrice di ricchezza» (Del Punta, 2006, p. 7). Per fare ciò occorre partire dall’esigenza di valorizzare il capitale umano, in quanto risorsa chiave per
la produttività e la competitività dell’impresa e del sistema nel suo complesso.
In questo quadro le leve che le imprese possono attivare sono molteplici e articolate.
La principale è rappresentata dall’organizzazione del lavoro, una variabile
che risulta centrale, nelle grandi, come nelle piccolissime aziende, per favorire quei percorsi di crescita di qualità del lavoro, e indirettamente innalzare
i livelli di produttività e competitività delle aziende. Considerando l’impatto
che l’organizzazione aziendale può avere in termini di responsabilità sociale
delle imprese, diverse sono le modalità per stimolare l’insieme di asset intangibili, legati alla motivazione individuale e alla soddisfazione, che costituiscono quel valore aziendale invisibile ma sempre più cruciale nel determinarne il successo. In particolare, gli ambiti in cui l’impresa può intervenire in
termini di RSI sono:
– l’organizzazione del processo lavorativo, attraverso l’adozione di soluzioni
organizzative che favoriscano i processi di responsabilizzazione e motivazione del personale rispetto agli obiettivi, tramite meccanismi chiari e trasparenti di valutazione del lavoro svolto, modelli organizzativi ispirati a lo-
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–
–
–
–
–
5
giche di orizzontalità piuttosto che di verticalità, team work laddove le dimensioni lo consentano5;
l’adozione di meccanismi di flessibilità che consentano di venire incontro
alle esigenze di conciliazione tra vita privata e vita professionale, espresse
sia dalle donne che dagli uomini, tramite la flessibilità negli orari di entrata
e uscita giornaliera. L’istituzione della banca delle ore o di meccanismi similari che consentano di “sottrarre” le ore di straordinario dal monte ore annuo o mensile, in modo da consentire una più agevole organizzazione dei
tempi da parte del lavoratore oppure la concessione dell’anno sabbatico per
consentire al lavoratore di assecondare anche i propri interessi di formazione
e apprendimento “fuori dal lavoro” rappresentano degli esempi concreti;
l’utilizzo di sistemi di incentivazione, tramite l’adozione di meccanismi premiali retributivi, a valere sui risultati aziendali e individuali, profit sharing,
ovvero la partecipazione dei lavoratori all’attività di impresa tramite la ripartizione dei profitti, oppure fringe benefits, vacanze premio, o altro tipo di
gratificazione che sia in grado di accrescere il livello di soddisfazione individuale del lavoratore e il coinvolgimento rispetto agli obiettivi aziendali;
l’adozione di un sistema informativo trasparente, che consenta una trasmissione chiara e completa delle informazioni aziendali ai diversi livelli dell’organizzazione, in modo da migliorare le relazioni all’interno dell’ambiente
di lavoro;
il coinvolgimento dei lavoratori nella vita aziendale, attraverso una serie di
iniziative che possano contribuire ad accrescere il senso di appartenenza all’azienda: dall’auditing interno, all’analisi di clima, da iniziative aziendali
esterne al luogo di lavoro, alla partecipazione diretta dei lavoratori, anche
tramite i propri rappresentanti, a decisioni fondamentali per l’azienda, a tutti
i meccanismi di responsabilizzazione individuale, come la creazione di spirito di squadra, riconosciuto come un asset sempre più strategico nell’organizzazione di impresa;
la formazione dei lavoratori, da intendersi come quell’insieme di pratiche,
anche non formalizzate, finalizzate alla crescita di competenze e conoscenze
da parte del lavoratore, il quale ha diritto di non rimanere “ostaggio” dell’impresa, ma di costruirsi un proprio patrimonio professionale, eventualmente spendibile altrove sul mercato del lavoro. Rientrano in tale logica non
solo le attività informative o formative realizzate all’interno dell’azienda o
su iniziativa di quest’ultima ma anche, e soprattutto, il sostegno a progetti
Per un’analisi dettagliata delle modalità di innovazione dell’organizzazione del lavoro utilizzate sia in Italia sia nei Paesi dell’UE, si rimanda all’interessante studio promosso dalla rete europea Ewon-European
Work Organization Network, 2002.
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formativi dei singoli lavoratori, non sponsorizzati o funzionali a uno specifico interesse dell’azienda.
Oltre agli aspetti elencati, che attengono più strettamente alla dimensione organizzativa del lavoro interna alle aziende, è da sottolineare come spesso le
azioni di RSI tendano a rivestire ambiti completamente esterni alla sfera professionale di diretto interesse del lavoratore. Sono pertanto inquadrabili tra le
azioni di responsabilità sociale tutti gli interventi o servizi finalizzati a dare risposta a specifiche domande dei dipendenti o a migliorarne le condizioni e la
qualità di vita. Tra questi, si segnalano a titolo esemplificativo:
– l’erogazione di specifici servizi per le famiglie dei lavoratori, come la creazione di asili nido interni, scuole estive/sportive per i figli dei dipendenti e
delle famiglie, agevolazioni/convenzioni con strutture/esercizi commerciali,
creazione di fondi/borse di studio per sostenere il percorso di studi dei figli
dei dipendenti, ecc.
– il sostegno attivo a categorie che presentano specifiche problematiche di inserimento e di integrazione lavorativa e sociale, come gli immigrati o i lavoratori disabili. In particolare per i primi, gli interventi che l’azienda può
porre in essere sono molteplici: dal fornire un alloggio all’assistenza nella
soluzione di specifici problemi abitativi, dall’organizzazione di corsi di lingua alla rimodulazione degli orari di lavoro, laddove possibile, anche sulla
base di specifiche esigenze espresse.
Al di là delle singole leve che possono essere di volta in volta attivate dalle
aziende, negli ultimi anni l’organizzazione del lavoro nel suo complesso è stata
profondamente contaminata dai nuovi orientamenti in materia di RSI, e le teorie organizzative risultano oggi tutte orientate in tal senso. Se un tempo infatti
i meccanismi di connessione interni alle imprese erano fondati su logiche condivise di divisione del lavoro, oggi poggiano su elementi di identità sempre più
immateriali: sullo scambio di conoscenze, informazioni, sulla comunicazione,
sulle relazioni e sulla capacità di rappresentazione. In questo scenario, in cui la
dimensione comunicativa-relazionale diviene centrale nell’organizzazione, l’idea
che sta passando con sempre maggiore forza è che la valorizzazione della carica emotiva rappresenti il principale catalizzatore del progresso personale e
aziendale.
In questa prospettiva gestire il personale significa stimolarne il più possibile il coinvolgimento emotivo anche con tecniche nuove: dalle attività di
tipo artistico, ai viaggi avventura, dall’outdoor training all’incentive innovative, il nuovo e sempre più accreditato must aziendale è di promuovere quanto
più possibile tutte quelle attività che possano sviluppare l’apprendimento e
l’impegno in ambito organizzativo favorendo il pieno coinvolgimento dei partecipanti.
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7.4. Quale responsabilità possibile nel comparto agroalimentare?
Nel comparto agricolo e agroalimentare l’organizzazione del lavoro assume
connotazioni del tutto peculiari, sia per i limiti strutturali di crescita che le
aziende incontrano (trattasi notoriamente di un comparto costituito in larghissima parte da aziende individuali) sia per le modalità proprie del lavoro6.
Si pensi da questo punto di vista, a quanto influenzano l’intera organizzazione del lavoro le caratteristiche della produzione agroalimentare e agricola in
particolare, legata alla ciclicità biologica e climatica, che condiziona tempi e
modalità di impiego delle risorse umane, determinando un’elevata incidenza di
lavoro stagionale; o ancora, alla piccola dimensione dell’impresa agricola, ove
il ruolo principale è svolto dal conduttore proprietario dell’impresa e dai suoi
familiari, che comporta scarsa managerialità nella gestione di impresa, spesso
bassa propensione all’innovazione e difficile orientamento nel mercato.
Si consideri poi quanto diffusi siano nel comparto agroalimentare quei comportamenti tesi a recuperare forme di competitività in maniera spesso illecita,
tramite il ricorso a lavoro irregolare, e troppo spesso al caporalato. E ancora, a
quanto rischiose risultino alcune attività lavorative, che comportano da parte di
lavoratori, spesso improvvisati, l’utilizzo di macchinari di indubbia pericolosità.
È noto che il sistema agroalimentare è il comparto produttivo che presenta
maggiori criticità sotto il profilo della qualità del lavoro, dettate dalla compresenza di almeno tre fattori determinanti:
– l’alta incidenza di lavoro irregolare (l’ISTAT stima che ogni 100 occupati,
20 siano completamente in nero) dettata non solo dall’elevata stagionalità del
lavoro, che si traduce per molti in saltuarietà, dall’informalità che caratterizza larga parte dell’attività produttiva, ma anche dall’esistenza di un sistema
di ammortizzatori sociali che incentiva fortemente il ricorso al sommerso,
stimolando i lavoratori occasionali del comparto a cumulare sussidi di disoccupazione e reddito in nero7;
6
7
Di qui l’importanza che in tale comparto rivestono le cooperative di produttori, in quanto strutture in
grado di superare i limiti della frammentazione dell’of ferta. A tal proposito si veda il capitolo VI.
Come emerso da uno studio realizzato dal Censis per conto del Ministero del welfare, (2004, p. 53) il lavoro nel settore agricolo «può essere ricondotto a una varietà molto ampia di cause, tra cui: a) il basso
livello di imprenditorializzazione dell’agricoltura italiana, che specie in alcune aree del Paese soffre ancora di eccessiva frammentazione, di carenze imprenditoriali, di difficoltà alla commercializzazione dei
prodotti e scarsa propensione alla costituzione di consorzi tra imprese; b) la conseguente estrema precarizzazione del lavoro, che risente della stagionalità dell’attività agricola e che rappresenta forse il principale ostacolo all’instaurazione di rapporti di lavoro regolari, non ricercati nella maggior parte dei casi né
da imprenditori né da lavoratori; c) la difficoltà di reperimento di manodopera, che incentiva da parte datoriale il ricorso a lavoro stagionale prestato anche da personale che, per motivi diversi (o perché in possesso di un altro lavoro o perché beneficiario di qualche forma di sussidio pubblico o perché immigrato
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– l’elevata rischiosità del lavoro svolto, considerato che in agricoltura si concentra il 6,7% degli infortuni sul lavoro ma ben il 10% di quelli mortali;
– l’alta incidenza di lavoratori immigrati, tra cui molti clandestini, che alimenta
in modo esponenziale i fattori di rischio sia di irregolarità di lavoro che di
infortunio.
Per quanto, come già sottolineato, non si possa parlare di responsabilità sociale delle imprese se non oltre il livello di legalità, perché “non si è socialmente responsabili solo se si rispettano le normative”, è indubbio che proprio
per le specifiche “condizioni” strutturali di settore un’azienda che sia completamente in regola sotto il profilo del rispetto della normativa sia quantomeno da
considerare virtuosa.
Tale approccio se, da un lato, è di stimolo all’intero settore a posizionarsi su
livelli di standard comuni ad altri comparti, dall’altro, rischia di proporre un modello di orientamento alla RSI per di più poco praticabile anche se di sicuro incentivo a migliorare dal basso il modo di fare ed essere impresa agroalimentare.
L’analisi dei casi imprenditoriali condotta nell’ambito del Progetto “Responsabilità sociale: implicazioni ed applicazioni alle imprese del sistema agroalimentare” realizzato dall’INEA8 mette in evidenza come l’attenzione verso le risorse interne sia, nel comparto agroalimentare, uno degli ambiti meno esplorati
dalle aziende su cui generalmente si interviene solo “in seconda battuta”, a seguito dell’introduzione di strumenti formalizzati di RSI – certificazione, codici
di condotta, ecc. – che sensibilizzano la direzione aziendale rispetto a questo
tema.
Ne consegue che sono per lo più le imprese di grandi dimensioni che hanno
introdotto generalmente sistemi di certificazione avanzata, quelle più impegnate
sul fronte delle risorse interne e ciò in quanto l’introduzione di un’innovazione
8
irregolarmente) non ha interesse a essere regolarizzato. Agli aspetti su citati, fa da sfondo un livello di
assistenza sociale, che rappresenta forse il tratto più problematico nell’emersione del sommerso in un settore caratterizzato da tali livelli di irregolarità. La presenza di forme di integrazione al reddito diffuse e
facilmente acquisibili da parte dei lavoratori del settore, origina infatti una pluralità di comportamenti distorsivi, che hanno come effetto il proliferare e il perpetrarsi di una situazione di irregolarità diffusa. Da
parte dei lavoratori agricoli la prospettiva di ottenere un assegno di disoccupazione con sole 51 giornate
di lavoro agricolo registrato incentiva la ricerca di formule occupazionali che consentano di cumulare reddito da lavoro e sussidio di disoccupazione. Il che li spinge a far registrare un numero di giornate necessario all’acquisizione del diritto all’assegno, salvo poi continuare a lavorare irregolarmente. Da parte
degli imprenditori l’esigenza di acquisire tempestivamente manodopera spinge a rivolgersi a persone che,
per diversi motivi non possono essere inquadrate (perché hanno già un lavoro regolare alle spalle, perché beneficiano di qualche forma di sussidio pubblico, o perché immigrate irregolarmente) e fa sì che gli
imprenditori si trovino a ricorrere ad assunzioni fittizie, ovvero assunzioni di persone (magari parenti di
coloro che lavorano effettivamente nell’impresa, ma irregolarmente, o più semplicemente dei conoscenti)
che di fatto non lavorano, per poter scaricare i costi di manodopera».
Per una visione completa dei casi di studio aziendali si veda Briamonte, 2007.
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organizzativa, magari per una certificazione, non può prescindere dalla creazione
di un maggiore livello di consenso interno.
Si può citare da questo punto di vista l’interessante caso della Melograno,
una giovane azienda riminese, leader nella trasformazione e nel confezionamento di ortofrutta pronta all’uso, che ha da anni avviato un percorso di crescita in responsabilità sociale culminato nella certificazione SA8000. Proprio
l’esigenza di far rispettare procedure e norme previste per l’ottenimento della
certificazione è stata l’occasione di avvio di una politica delle risorse umane per
molti versi rivoluzionaria, costantemente orientata al coinvolgimento dei lavoratori nelle decisioni aziendali e alla promozione di una serie di iniziative, (da
quelle formative, all’erogazione di servizi a sostegno delle famiglie dei lavoratori), che hanno contribuito in modo significativo al miglioramento del clima
interno all’azienda.
In particolare, oltre a essere impegnata nell’ambito della formazione del personale, a favore del quale vengono costantemente avviate nuove iniziative, la
Melograno ha adottato una forma di comunicazione interna che prevede box di
raccolta di reclami o lamentele da parte dei dipendenti e riunioni interne di discussione, nelle quali, oltre a dibattere delle decisioni aziendali che l’azienda intende prendere, ci si confronta apertamente sul contenuto dei reclami e delle lamentele convogliate nei box. Negli ultimi anni, l’azienda ha realizzato, in collaborazione con il Comune, un asilo interno per i figli dei dipendenti e ha ottenuto delle fermate ad hoc da parte dell’azienda locale dei trasporti per facilitare il raggiungimento del posto di lavoro ai propri addetti.
Da segnalare è anche l’esperienza di Granarolo, da anni impegnata sul fronte
della responsabilità sociale, di cui rappresenta uno dei casi più evoluti (l’azienda
è certificata SA8000, ha un codice etico, redige il bilancio di sostenibilità e ha
sviluppato una corporate culture). L’azienda, oltre a essere fortemente attiva sul
versante della formazione del personale e nel coinvolgimento dei dipendenti
(realizza dal 2005 indagini di clima interno) ha promosso una politica del personale fortemente orientata alla crescita delle professionalità, che si è tradotta
in un incremento del capitale intellettuale dell’azienda sia in termini di sistema
professionale che di ricerca.
Non mancano i casi di eccellenza anche nelle piccolissime realtà del comparto. La Paolo Bea, piccolo gioiello umbro nella terra del Montefalco, di cui
l’azienda è autorevole e rinomato produttore, è una azienda di piccolissime dimensioni (nove addetti tra familiari e operai) che esporta in tutto il mondo. L’attenzione nei confronti delle proprie risorse, maturata anche grazie all’avvio di
processi di certificazione di qualità, si concretizza nella realizzazione di iniziative formative, nel trasferimento di una cultura del fare vino, che rappresenta il
vero valore dell’azienda Bea; ma soprattutto in quell’attenzione alla persona,
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difficilmente “misurabile” in comportamenti e tanto meno in strumenti, fatta di
un mix di altruismo, di attaccamento ai valori del territorio e di solidarietà, beni
ancora preziosi della civiltà contadina.
Di quel valore intangibile, che è il senso di condivisione di un obiettivo comune, nella consapevolezza che tutti sono risorse imprescindibili per raggiungerlo e che è in definitiva il motore della responsabilità sociale dell’impresa. Un
motore invisibile, che ancora anima tante piccole realtà del mondo agroalimentare.
7.5. Conclusioni
Alla luce di quanto su esposto, il comparto agroalimentare si presenta come
un ambito estremamente complesso di attuazione per le caratteristiche stesse del
sistema.
Parlare di risorse umane in termini di RSI assume, da questo punto di vista,
una duplice importanza: non solo perché le ridotte dimensioni imprenditoriali
del sistema relegano spesso e volentieri il tema delle risorse umane in secondo
piano, ma perché le stesse caratteristiche dell’organizzazione produttiva determinano condizioni di lavoro rispetto alle quali l’adozione di comportamenti imprenditoriali improntati a principi di RSI risulta di elevata complessità.
Pertanto, parlare di strategie di RSI orientate verso le risorse umane significa, per quelle imprese del sistema agroalimentare che già rispettano i requisiti
di legalità del lavoro, implementare le azioni di promozione della qualità che,
come già sottolineato, interessano la dimensione organizzativa interna, la formazione, gli interventi e i servizi a favore del personale, declinati nelle forme
e nelle modalità che più sono funzionali alle esigenze di imprese di piccole e
piccolissime dimensioni, che si muovono spesso e volentieri più nell’ambito
delle procedure informali e non codificate, delle buone prassi, che non delle
azioni formalizzate.
Le imprese di grandi dimensioni, invece, si indirizzano prima di tutto verso
gli strumenti codificati di RSI, quali appunto i codici di comportamento e le certificazioni aziendali, per integrarli successivamente con interventi a favore delle
risorse umane.
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CAPITOLO VIII
AGRICOLTURA NON PROFIT:
ASPETTI SOCIALI, ECONOMICI
E NORMATIVI*
8.1. Premessa
Ormai l’agricoltura nei Paesi sviluppati svolge funzioni che vanno ben oltre quelle meramente produttive, funzioni per buona parte non di mercato e
che dunque richiedono un’analisi dei differenti apporti delle imprese agricole
in termini di funzioni sociali. Le nuove istanze presenti nella società chiedono
sempre più all’agricoltura di rispondere a bisogni di tipo ricreativo, culturale
e di assistenza sociale. Tali bisogni sono destinati a produrre effetti sulle scelte
imprenditoriali e, in particolare, sulla tipologia di impresa adottata.
Il contributo qui presentato ha come obiettivo quello di evidenziare le peculiarità e le ricadute per il comparto agricolo del settore non profit allo scopo di
meglio interpretare le dinamiche evolutive della componente sociale.
8.2. Il quadro di riferimento
Il complesso e articolato mondo del non profit sta assumendo sempre più un
ruolo significativo, ponendosi al centro del dibattito istituzionale, sociologico ed
economico.
Il rilievo acquisito dagli enti operanti con una logica estranea alla massimizzazione del profitto, in Italia come in altri Paesi occidentali, è sostenuto dall’irrinunciabile funzione sociale da essi esercitata e confermato dall’apporto fornito sul fronte occupazionale e quindi, più generalmente, in termini economici.
Le attività svolte dal settore non profit italiano sono ampie e diversificate:
dai servizi alla persona alla tutela del patrimonio artistico e ambientale, dalla
diffusione della pratica sportiva al sostegno lavorativo ai soggetti più deboli,
dall’assistenza sanitaria alla gestione del tempo libero.
La realizzazione di queste attività è affidata a differenti strutture organizzative; fra queste vengono di volta in volta predilette quelle più adeguate ai compiti da svolgere: organizzazioni snelle, fondate pressoché unicamente sull’im*
Il lavoro è frutto dell’impegno comune di F. Zecca ed E. Capocchi. Tuttavia le singole parti vanno così
attribuite: F. Zecca paragrafi 8.1, 8.2, 8.3; E. Capocchi 8.4 e 8.5.
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pegno dei volontari, come le organizzazioni di volontariato; vere e proprie imprese che impiegano lavoratori dipendenti e sono munite di ingenti capitali,
come alcune cooperative sociali; organismi con pochi lavoratori ma con un considerevole patrimonio, come le fondazioni.
Tratto comune di tutte queste diverse forme organizzative è la capacità di
combinare, in modi differenti, lavoro volontario, lavoro retribuito e capitale per
produrre servizi alla persona.
Le indagini più recenti svolte dall’Istat rivelano come il livello occupazionale prodotto dal settore non profit, pur piccolo se confrontato con quello di altri Paesi non dissimili dal nostro, sia niente affatto trascurabile.
Le ultime stime evidenziano, infatti, come nel 1999, nel settore non profit trovasse un impiego retribuito il 2,7% dell’occupazione complessiva non agricola,
cioè circa 630.000 lavoratori, di cui la gran parte con contratto di lavoro dipendente (circa 530.000) e, in misura minore, con contratti di collaborazione (circa
80.000) oppure distaccati da imprese private o dalla pubblica amministrazione
(circa 20.000). Ai lavoratori retribuiti vanno poi sommati circa 3,2 milioni di volontari, che ovviamente non prestano il proprio servizio a tempo pieno.
Quattro aree di attività costituiscono ben oltre i tre quarti del settore non profit:
cultura, sport e ricreazione; istruzione e ricerca; sanità e assistenza sociale. Tra
tali aree l’assistenza sociale presenta il maggiore peso, con oltre il 27% dell’occupazione complessiva. In questo senso, il settore non profit italiano si
conforma al modello più comune tra i Paesi europei, ovvero quello di “servizio
sociale”. In Italia un peso molto elevato è rivestito anche dall’area della sanità
(quasi il 21% dell’occupazione totale) dove il settore occupa da tempo un ruolo
rilevante, che lo vede affiancare, e talvolta sostituire, le istituzioni pubbliche,
specie nelle aree meridionali del Paese. Un apporto non irrilevante viene anche
dall’area dell’istruzione e della ricerca, che pesa per il 20% dell’occupazione
complessiva, mentre il comparto dell’arte, della cultura e della ricreazione riveste un ruolo più modesto (12% dell’occupazione del settore); se però si analizza il contributo dei volontari operanti in questa area, si rileverà che vi opera
circa il 50% sul totale dei volontari impegnati nel terzo settore.
Il settore non profit italiano è costituito da un insieme ampio e variegato di
organizzazioni che si differenziano una dall’altra per dimensioni, struttura organizzativa e ruolo; questi organismi sono spesso diversi anche per la natura
giuridica che li caratterizza; dal punto di vista dell’ordinamento non possono essere semplicemente definiti come “organizzazioni non profit” poiché non esiste
nel nostro sistema di leggi una simile definizione. Tuttavia è possibile individuare una serie di caratteristiche comuni a tutte le organizzazioni (ISTAT, 2001):
– costituzione formale. L’ente senza scopo di lucro deve essere formalmente
costituito, mediante la redazione di un documento (atto costitutivo, statuto,
134
STUDI
&
RICERCHE INEA
etc.) dal quale risulti l’assetto organizzativo, nonché le regole e le modalità
di funzionamento dell’ente stesso;
– natura giuridica privata, ossia non appartenenza al comparto pubblico;
– autonomia gestionale. Le organizzazioni non profit devono essere dotate di
una completa autonomia gestionale, senza pertanto vincoli di controllo da
parte di imprese for profit;
– lavoro volontario. Nelle organizzazioni non profit emerge la presenza, secondo proporzioni variabili, di fattore lavoro acquisito senza vincolo di remunerazione;
– non distribuzione degli utili. Si tratta dell’aspetto che più di ogni altro è in
grado di qualificare le realtà del non profit le quali, proprio in funzione di
questo requisito, si definiscono “senza scopo di lucro”. I profitti generati
dalla gestione non possono essere distribuiti ai soci, che quindi non vedono
remunerare il capitale apportato, ma sono reinvestiti nell’attività sociale andando così a costituire per intero flussi di finanziamento.
Il fatto che gli enti non profit non prevedano la distribuzione degli utili conseguiti non significa che la loro attività sia realizzata prescindendo dal rispetto
di qualsiasi requisito di efficacia ed efficienza gestionale. Affinché l’organizzazione possa crescere e continuare a operare è infatti indispensabile che lo svolgimento dell’attività sia improntato a principi di economicità tali da garantire la
sopravvivenza dell’ente.
Passando a esaminare più da vicino l’ordinamento giuridico, la legislazione
italiana sul settore non profit è un insieme composito di leggi cresciute in maniera disorganica nel corso del tempo e tuttora prive di un’adeguata sistematicità. Nell’assenza di un’apposita regolamentazione civilistica, la dottrina riconduce gli enti senza scopo di lucro alle figure sancite dal codice civile al libro I,
titolo II, ovvero le associazioni (riconosciute e non), le fondazioni e i comitati.
Il principale aspetto distintivo tra le associazioni e le fondazioni consiste nel
fatto che le prime basano il loro operato e la loro stessa ragion d’essere sulla
presenza di persone, i soci, che si organizzano mettendo in comune risorse, lavoro, idee per raggiungere una finalità condivisa, mentre per le fondazioni il
principale elemento costitutivo è rappresentato dal patrimonio: una fondazione
è infatti un patrimonio dedicato al perseguimento di uno scopo specificato nell’atto, lo statuto, che dà vita alla fondazione stessa. Così come per l’associazione, anche per la fondazione il riconoscimento della personalità è subordinato
a un procedimento concessorio e allo scrutinio delle finalità e dei mezzi da parte
dell’amministrazione pubblica.
A questo insieme già complesso di norme, si sono aggiunti numerosissimi
provvedimenti successivi. Alcuni di questi hanno natura ordinamentale, sono
cioè tesi a regolamentare alcune categorie di enti che si suole far rientrare nel
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&
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135
settore non profit, come ad esempio le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale (rispettivamente le leggi 266/1991 e 383/2000)
e le cooperative sociali (le quali trovano il loro fondamento giuridico nella legge
n. 381 del 1991 e nel Decreto Legislativo n. 155 del 2006). Altri ancora hanno
invece carattere fiscale (come il Decreto Legislativo n. 460 del 1997 sulle Organizzazioni non lucrative di utilità sociale). L’art. 1 della legge 381/91 afferma
che “le cooperative sociali hanno lo scopo di perseguire l’interesse sociale della
comunità alla promozione umana e all’integrazione sociale dei cittadini”. Le
cooperative sociali si distinguono in due categorie, a seconda dell’attività svolta:
le cooperative di tipo A che si occupano della gestione di servizi socio-sanitari
ed educativi; le cooperative di tipo B che svolgono attività diverse, quali attività agricole, industriali, commerciali, di servizi, al fine di inserire nel mondo
del lavoro i soggetti svantaggiati1. Un’indagine condotta dall’Istat nel 2005 e
diffusa nel 2008 (Istat 2008) sul mondo della cooperazione sociale ha rilevato
la presenza di 7.363 entità, dimostrando rispetto al precedente studio eseguito
nel 2003, una crescita del 19,5%. Dalle stime dell’Istat emerge l’impiego nelle
cooperative sociali di 278.000 lavoratori, di cui 244.000 retribuiti; il 71, 2%
delle risorse umane impiegate è costituito da donne. Il valore dei beni e servizi
erogati si attesta attorno a un volume economico di circa 6,4 milioni di euro;
per quanto riguarda la distinzione fra cooperative di tipo A e di tipo B, le prime
raggiungono la cifra di 4.345 unità, il 59%, mentre le seconde di 2.419 unità
(32%). Con riferimento alla distribuzione sul territorio nazionale, l’indagine ha
evidenziato una certa disomogeneità: il 33% circa è localizzato nelle regioni del
Sud Italia, il 19,4% al centro e il 49,8% nelle regioni settentrionali.
Per quanto concerne i provvedimenti a carattere fiscale, che mirano cioè a
regolare i rapporti tra particolari categorie di organizzazioni non profit e il fisco, il Decreto Legislativo 460/97 sulle organizzazioni non lucrative di utilità
sociale, le c.d. “Onlus”, rappresenta il primo tentativo del legislatore italiano di
introdurre nel nostro ordinamento una chiara definizione di organizzazione non
profit e allo stesso tempo di concedere estese agevolazioni fiscali al terzo settore e riconoscere più ampie detrazioni a favore di coloro che effettuano donazioni a favore delle organizzazioni non profit. Per la prima volta, con il D.Lgs.
460/97 viene codificato il divieto di distribuzione, in qualsiasi forma, dei pro-
1
La legge n. 381 sulle cooperative sociali menziona esplicitamente l’attività agricola tra quelle riconosciute
per di inserimento lavorativo di soggetti deboli. Un’indagine sulla realtà delle cooperative sociali realizzata dall’Istat nel 2001, ha rilevato come tra le cooperative di tipo B, il 46% impieghi come soggetti
svantaggiati persone affette da disabilità fisica o mentale; tra queste il 16,7% opera in ambito agricolo.
Sempre nel 2001 sono state stimate 143 cooperative, la cui presenza si registrava maggiormente in regioni come Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Lazio e Sicilia.
136
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fitti a membri e associati. Le “Onlus” devono operare in settori specificamente
prescritti dalla legislazione e devono perseguire finalità di utilità sociale, cioè il
benessere di terzi e non quello dei membri. Tuttavia non sono libere di adottare
la forma giuridica che reputino più confacente e, di fatto, si trovano vincolate
alla scelta tra le forme del libro primo del Codice civile e il modello della cooperativa sociale.
8.3. L’affermazione delle organizzazioni non profit in agricoltura
La Politica agricola comune ha subito importanti cambiamenti negli ultimi
vent’anni, passando rapidamente da intervento incentrato quasi esclusivamente
sul sostegno alle quantità prodotte, attraverso le politiche dei prezzi e dei mercati, a strumento molto più articolato e diversificato. Le nuove linee direttrici
della PAC si orientano verso politiche strutturali e regionali e incorporano gradualmente le politiche di sviluppo rurale e di tutela ambientale, contribuendo,
così, a legare la politica agricola al territorio e alle sue dinamiche.
La riforma della Politica agricola comunitaria ha cambiato radicalmente i termini della politica agraria, avendo come fondamento una percezione dell’agricoltura profondamente diversa dal passato. Alla base di questo cambiamento vi
è la consapevolezza che un modello di agricoltura incentrato esclusivamente
sulla funzione produttivistica non sia più proponibile e che a esso vada affiancata una dimensione rurale più ampia che valorizzi la capacità dell’azienda agricola di fornire non solo prodotti ma anche servizi di natura privata (attività economiche connesse a quella produttiva) e pubblica (difesa dell’ambiente, presidio del territorio). Tali attività realizzate dall’agricoltura (agriturismo, commercializzazione diretta di prodotti, artigianato, servizi ricreativi come maneggi o
pesca sportiva, organizzazione di soggiorni per gli anziani, apertura delle
aziende alle scolaresche e alle visite didattiche) sono valorizzabili sul mercato,
in quanto beneficiano della tipicità della localizzazione.
Il delinearsi di nuove funzioni dell’attività agricola ha portato a conferire all’agricoltura l’attributo di “multifunzionale”. L’agricoltura multifunzionale corrisponde a nuove aspettative presenti nella società, le quali sono soddisfatte da
imprese che, contemporaneamente, contribuiscono alla produzione alimentare,
(che continua sicuramente a costituire il nocciolo duro del settore primario), e
concorrono al mantenimento e alla gestione del paesaggio, alla riproduzione
delle risorse naturali e alla protezione dell’ambiente. L’attività agricola contribuisce, così, a stabilizzare l’occupazione e a mantenere la popolazione in aree
economicamente disagiate, esplicando una fondamentale funzione di presidio
L’importanza della multifunzionalità dell’attività agricola è stata riconosciuta
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anche a livello europeo. La volontà della Commissione di affidare nuovi compiti alla politica agricola per renderla più atta a rispondere alle aspettative della
società si esplica con una serie di nuovi orientamenti, fra cui il regolamento
1257/99, che getta le basi di una politica di sviluppo rurale globale, a completamento della politica di mercato, affinché la spesa agricola contribuisca, più
che in passato, all’assetto del territorio e alla protezione della natura; lo sviluppo
rurale diventa così il secondo pilastro della PAC. Le misure di sviluppo rurale
non riguardano solo il sostegno all’adeguamento del settore agricolo, il sostegno all’agricoltura nelle zone svantaggiate, gli aiuti per gli investimenti nelle
strutture di trasformazione e di commercializzazione, ma anche un insieme di
interventi tendenti a promuovere lo sviluppo delle zone rurali, in una logica di
riqualificazione complessiva che preveda contributi anche ad attività non agricole, sempre che queste siano in connessione con le attività agricole e con la
loro riconversione.
Il concetto di multifunzionalità, come già detto, riguarda le diverse funzioni
che il settore primario può esplicare e che di fatto già porta avanti; oltre alle
funzioni più strettamente economiche, infatti, l’agricoltura svolge importanti
funzioni sociali, culturali e ambientali. La relazione tra agricoltura e ambiente
e le sue implicazioni negl’anni sono divenute questioni centrali nell’ambito delle
politiche comunitarie. Il settore primario comporta, infatti, rilevanti conseguenze
sul piano ambientale, ma allo stesso tempo determina importanti benefici per
l’ambiente. L’agricoltura può trarre da tale ruolo positivo svolto nell’ecosistema
nuovi stimoli e opportunità di mercato, promuovendo la tutela ambientale e la
fruizione del paesaggio come fattori caratterizzanti la propria attività. Fra le attività di rilevanza pubblica che l’agricoltura è chiamata a svolgere, accanto alla
conservazione ambientale e paesaggistica, si collocano le cosiddette attività
etico-sociali, che si realizzano nelle fattorie didattiche e nelle fattorie sociali,
normali aziende in cui l’attività produttiva si concilia con l’apprendimento e con
situazioni di disabilità. Il ricorso alle attività agricole per generare benefici di
carattere sociale, non rappresenta sicuramente una novità: il diffondersi del concetto di disabilità coincide con lo svilupparsi della società industrializzata, per
cui «si può legittimamente affermare che nell’antica cultura contadina la disabilità non esisteva, almeno nei termini in cui la intendiamo noi»2 e il soggetto
debole riusciva comunque a trovare una collocazione all’interno della catena
produttiva.
L’affermarsi di esperienze e iniziative non profit in campo agricolo è stato,
da un lato, favorito dalla connaturata vocazione sociale dell’agricoltura, dall’al-
2
Vieri S., Prestamburgo M., Marotta M. (2006).
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tro, dalla crisi del sistema statale di assistenza sociale. Alla luce dell’esperienza
europea degli ultimi decenni, le organizzazioni non profit operano prevalentemente nel campo dei servizi alla persona e alla collettività quali l’istruzione,
l’assistenza e l’inserimento di soggetti deboli e svantaggiati, la sanità. Tali ambiti sono stati in passato territorio di attività esclusiva del settore pubblico e
hanno costituito il terreno prediletto di quel modello di risposta ai bisogni sociali noto come welfare state. Il welfare state ha conosciuto una fase di consolidamento nel periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà
degli anni settanta. Nel trentennio successivo, tuttavia, i modelli occidentali di
welfare state hanno dovuto fare i conti con la sempre più evidente difficoltà nel
reperimento delle risorse necessarie al loro funzionamento e con le rigidità burocratiche dell’amministrazione pubblica, che hanno reso pressoché impossibile
ogni ulteriore espansione dell’intervento diretto dello Stato; in diversi settori il
solo mantenimento del livello raggiunto ha richiesto cosi il ricorso a risorse finanziarie e professionali esterne.
È in questa fase che le organizzazioni non profit acquistano un ruolo rilevante, dapprima operando a margine delle attività del settore pubblico, successivamente guadagnando, soprattutto nel settore dei servizi personali e sociali, un
peso crescente in termini di valore aggiunto e occupazione3. L’invecchiamento
della popolazione, il maggior numero di donne che lavorano, la comparsa di
nuove esigenze nella cura dei disabili hanno infatti portato a una crescita sensibile della domanda di servizi di cura alla persona di cui, in virtù della loro
competenza specifica, le organizzazioni non profit hanno beneficiato in termini
occupazionali.
8.4. La funzione sociale delle strutture operanti nel settore agricolo
La visione dell’agricoltura in una prospettiva multifunzionale riconosce al
settore la capacità di svolgere congiuntamente più funzioni: ambientale, sociale,
paesaggistica, turistico-ricreativa. Storicamente, quella sociale, è una delle funzioni che l’agricoltura non hai mai smesso di svolgere, sebbene il passaggio da
una società prevalentemente agricola e rurale a una industriale e urbana, abbia
3
L’efficacia delle caratteristiche del terzo settore sotto il profilo occupazionale era già stata colta dall’allora presidente della Commissione europea, Jacques Delors, che, nel libro bianco della Commissione pubblicato nel 1993 e intitolato Crescita, competitività e occupazione. La sfida e le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo, aveva indicato proprio nel settore non profit una delle possibili risposte alla disoccupazione europea.
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139
sacrificato una connaturata funzione di utilità sociale a favore di una primaria
funzione reddituale. Ci si riferisce alla funzione sociale del settore primario ogni
qual volta ci si avvicini a esperienze nelle quali vengono condotte attività a carattere agricolo, o a queste strettamente connesse (agriturismo, trasformazione
dei prodotti, ecc.), che “si propongono esplicitamente di generare benefici per
determinate fasce della popolazione quali in particolare i bambini (fattorie didattiche) o persone affette da disabilità o altre forme di svantaggio (fattorie sociali)” 4. Per il raggiungimento di tale finalità, di volta in volta, vengono scelte
le modalità organizzative ritenute più idonee, sebbene la forma organizzativa più
frequentemente adottata sia rappresentata dall’impresa sociale. Le altre realtà del
terzo settore che si rivolgono a soggetti svantaggiati, infatti, a differenza dell’impresa sociale, non riescono a conciliare attività produttiva e funzione sociale, in quanto limitate dalla loro connotazione essenzialmente assistenziale.
Nell’impresa sociale viene favorita la formazione professionale, l’inserimento
lavorativo e la ricerca di un’occupazione stabile, cercando di andare oltre l’aspetto più strettamente assistenziale tipico delle organizzazioni di volontariato.
L’agricoltura sociale supera la dimensione strettamente sanitaria per comprendere le agricolture “carcerarie”, le fattorie didattiche e le “imprese sociali verdi”.
La fattoria sociale
Il connubio fra agricoltura e disabilità5 è relativamente recente, anche se in
alcune zone le fattorie etico-sociali iniziano ad avere una certa significatività6.
La Regione Veneto è stata una delle poche a riconoscere e incentivare questo
tipo di agricoltura emanando nel 2003-2004 alcuni bandi relativi alla misura 16
del PSR (diversificazione delle attività legate all’agricoltura), nei quali ha adottato come definizione quella individuata nel D.Lgs 18 maggio 2001, n. 28, precisando che “per fattorie sociali si intendono imprese agricole in grado di ospitare e svolgere attività di socializzazione rivolte a fasce della popolazione, quali
bambini in età prescolare e anziani e attività con valenza terapeutica rivolte a
persone diversamente abili”.
A livello scientifico, la ricerca e le sperimentazioni di questi ultimi decenni
hanno dimostrato come il rapporto con la natura e con gli organismi viventi,
4
5
6
Vieri S., Prestamburgo M., Marotta M. (2006).
Per individui svantaggiati si intendono persone con disabilità ma anche individui in età lavorativa privi
di occupazione e soggetti i quali hanno compiuto atti che li hanno temporaneamente esclusi dal contesto
sociale, come tossicodipendenti o detenuti
In particolare nella Provincia di Roma oltre che sui terreni confiscati alla mafia e messi in produzione
da cooperative di giovani in Sicilia e in Calabria.
140
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come piante e animali da allevamento, possa risultare utile nel trattamento terapeutico – riabilitativo di soggetti portatori di handicap fisico o mentale. A partire dagli anni trenta del secolo scorso si iniziano a diffondere sia all’interno che
all’esterno di ospedali psichiatrici programmi riabilitativi basati sulla cura delle
piante. Nel dopoguerra prende piede nei Paesi anglosassoni una vera e propria
scienza curativa che associa conoscenze mediche e botaniche e prende il nome
di Horticultural Therapy, da pochi anni tradotta come “terapia assistita con le
piante”. Similmente, negli anni ottanta si diffonde un’attenzione crescente per
forme terapeutiche assistite che prevedono nei loro programmi riabilitativi l’utilizzo di animali.
I percorsi riabilitativi programmati nelle fattorie sociali si fondano essenzialmente su due ambiti di intervento ben distinti: interventi di carattere terapeutico-riabilitativo e interventi finalizzati all’inclusione sociale di persone
svantaggiate. Il collegamento fra attività agricola e mondo dello svantaggio risulta proficuo sia in quanto offre nuove opportunità di integrazione di reddito
al mondo agricolo sia in quanto consente di recuperare soggetti altrimenti inattivi. L’efficacia di questi itinerari terapeutici si fonda su alcune peculiarità del
processo produttivo tipico delle attività colturali e di cura degli animali. Innanzitutto, caratteristica benefica delle attività agricole è quella di realizzare un rapporto molto stretto tra uomo da una parte e piante e animali dall’altra: le piante
sono elementi facilmente riconoscibili anche da soggetti con limitate capacità
psichiche o cognitive e nel rapporto con piante e animali il disabile non ravvisa
caratteri di “minacciosità” o discriminazione; nella cura degli animali, inoltre,
il disabile avverte con immediatezza il valore del proprio ruolo, poiché, in sua
assenza, gli animali morirebbero di fame. Un altro aspetto dell’attività agricola
atto a determinare benefici per soggetti affetti da disabilità riguarda le modalità
del processo produttivo. L’arco temporale durante il quale si compiono i processi di produzione agricoli, essendo legato ai tempi biologici, è generalmente
molto lungo e consente di adibire il disabile a mansioni in cui i ritmi di lavoro
prevedono pause, senza che questo comprometta la qualità del prodotto finale.
Un altro elemento che nella letteratura sulla valenza terapeutica delle attività
agricole viene spesso evidenziato è il particolare coinvolgimento della sfera sensoriale, della sfera motoria e della capacità decisionale del disabile; raramente
infatti la conduzione di attività agricole comporta lo svolgimento di mansioni
sedentarie e il soggetto si trova inevitabilmente a valutare e decidere la misura
delle proprie azioni, come ad esempio la quantità d’acqua con cui innaffiare una
pianta o la scelta di quali erbe estirpare.
Diversamente dalle altre imprese agricole, in cui ci si orienta verso una diversificazione produttiva solo e in quanto questo corrisponda a criteri di economicità, nelle fattorie sociali il grado di diversificazione produttiva è dettato
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dalla necessità di coinvolgere soggetti con particolari esigenze. La gamma delle
possibili tecniche di produzione in agricoltura è estremamente ampia e diversificata e permette di tracciare percorsi terapeutico-riabilitativi adeguati alle specifiche abilità residue, rappresentando un vantaggio rispetto ad altri tipi di interventi. La diversificazione viene anche perseguita integrando le attività agricole in senso stretto con altre attività rivolte ai cittadini: servizi di ospitalità agrituristica o vendita dei prodotti.
Le attività terapeutico-riabilitative si possono estendere, attraverso soggiorni
periodici, anche alla cura di anziani non più autosufficienti o all’ospitalità di
convalescenti per la degenza post-ospedaliera, con la possibilità di ridurre i costi del trattamento e i tempi di riabilitazione.
Non esistono dati specifici e dettagliati sull’inserimento lavorativo di persone
svantaggiate in ambito agricolo; un documento della Commissione europea del
2001, concernente la situazione occupazionale dei disabili, quantificava nella
misura del 5,7% la quota dei disabili occupati in agricoltura sul totale dei disabili occupati. Quello agricolo è un settore in cui prevale la dimensione familiare, con scarsa presenza di lavoro dipendente. Nella realtà si verifica che in
molte aziende agricole vi sia un disabile in quanto componente del nucleo familiare. In tali casi una prospettiva interessante è rappresentata da iniziative che
vedono la collaborazione tra la famiglia agricola e le associazioni o imprese del
terzo settore, che mirano a un reale inserimento lavorativo del disabile nell’impresa familiare, anche ricorrendo a investimenti in macchinari che consentano
il pieno coinvolgimento del disabile nei lavori agricoli.
Si parla di “fallimento del mercato” quando il mercato del lavoro emargina
soggetti in grado di prendere parte ai processi di produttivi. Il legislatore ha
cercato di ovviare a questa realtà con la legge n. 68 del 1999 introducendo
nel nostro ordinamento il collocamento obbligatorio, il quale prevede una
quota di assunzione obbligatoria per tutti i datori di lavoro con più di 15 dipendenti. Il settore agricolo risulta di fatto escluso da tale ipotesi in quanto le
imprese agricole raramente raggiungono tale soglia. La cooperativa sociale di
tipo B rimane l’unica via per l’inserimento lavorativo in agricoltura di soggetti deboli. La cooperativa sociale può costituire sia un momento di passaggio in un percorso che trova il suo sbocco in un’occupazione stabile nel settore pubblico o in quello privato, sia il punto di arrivo di un percorso di inserimento lavorativo. In agricoltura, infatti, l’inserimento lavorativo in una
cooperativa sociale si configura spesso come il naturale sbocco di un cammino formativo, in cui gli individui acquisiscono conoscenze specifiche inerenti gli ambiti della produzione agricola.
142
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Le fattorie didattiche
Le fattorie didattiche hanno iniziato a svilupparsi in Italia a partire dal 1996,
rendendo possibile la convergenza tra gli obiettivi del sistema scolastico e quelli
del mondo agricolo. Dal punto di vista del sistema educativo le fattorie didattiche rappresentano una sorta di “laboratorio” all’aperto dove è possibile abbinare
apprendimento teorico e pratico, entrando in contatto con un mondo rurale vivo
di cui toccare con mano i beni prodotti. Nella funzione didattica rientrano infatti le iniziative che hanno come obbiettivo l’avvicinamento dei bambini e dei
ragazzi ai processi biologici che contraddistinguono l’attività agricola e le modalità con cui vengono prodotti e trasformati gli alimenti come laboratori e aule
di ecologia all’aperto, orti scolastici e percorsi dimostrativi della coltivazione di
piante e di allevamento.
Per l’agricoltore, inoltre, le fattorie didattiche creano una possibilità di integrazione del proprio reddito sia attraverso accordi con le istituzioni scolastiche
per attività programmate durante l’anno scolastico sia attraverso la vendita diretta dei prodotti ai visitatori.
Una prima rilevazione dell’attività delle fattorie didattiche è stata effettuata
grazie al Censimento dell’agricoltura del 2000, che ne ha stimate 276 tra city
farms e fattorie didattiche propriamente dette; l’aggiornamento dei primi mesi
del 2002 ha elevato il totale a 400 aziende attive. La diffusione riguarda l’intero territorio nazionale, ma in particolare il Nord Italia (la sola Emilia Romagna ha fatto registrare 196 aziende pari al 44% del totale) dove nella maggior
parte dei casi le fattorie didattiche appartengono a una rete organizzata o operano nell’ambito di programmi promossi da enti pubblici o consorzi agrituristici,
anche se si registra un incremento delle aziende che, singolarmente, propongono
le loro attività alle scuole. Si tratta poi in genere di aziende particolarmente sensibili alle tematiche ambientali tanto che quasi la metà producono con metodo
biologico.
La sostenibilità economica dell’impresa sociale in agricoltura
Lo sviluppo, inteso in termini dimensionali, occupazionali e numerici, che
ha interessato le organizzazioni non profit in Italia negli ultimi anni, ha posto
in evidenza una problematica finora non sufficientemente approfondita, inerente
la loro gestione e la loro sopravvivenza. Per le imprese sociali attive in ambito
agricolo l’obiettivo di riabilitare, formare e occupare si integra con la conduzione di attività produttive che mettano l’impresa agricola nelle condizioni di
competere sul mercato. Ne consegue che tutte le attività agricole, anche quelle
non direttamente connesse al ciclo produttivo, finiscono per rispondere a una
STUDI
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143
logica economica in quanto danno risposte a una domanda specifica diretta (agricoltura produttiva tradizionale, agricoltura biologica, di qualità, agriturismo,
ecc.) e sono remunerate attraverso il prezzo dei prodotti scambiati sul mercato
oppure rispondono a una domanda indiretta della società (conservazione delle
risorse naturali, protezione dell’ambiente) che le remunera con politiche di sostegno specifiche.
Quindi l’impresa sociale rappresenta un’impresa economicamente e finanziariamente sostenibile, che svolge l’attività produttiva o zootecnica offrendo i
suoi prodotti sul mercato; si può anzi parlare di più mercati, con caratteristiche
e domande diversificate.
Uno di questi proviene da sistemi esterni alla filiera agroalimentare e precisamente da sistemi come quello sanitario, scolastico o carcerario, interessati a
sfruttare le opportunità offerte dal mondo rurale per il raggiungimento di finalità terapeutiche, educative e riabilitative. Il trattamento nel contesto rurale fornisce la possibilità di cure alternative a quelle tradizionali, spesso a costi economici inferiori, costituendo per l’azienda agricola una fonte aggiuntiva di reddito che si traduce in convenzioni remunerate con enti ospedalieri, aziende sanitarie, scuole, o in benefici indiretti quali sgravi fiscali o contributivi.
Esiste poi un mercato interno al sistema agroalimentare, dotato di caratteristiche proprie, legato al valore etico dei prodotti agricoli percepito dai consumatori. La tipizzazione etica dei prodotti agricoli provenienti dalle fattorie sociali soddisfa una domanda sensibile a tali valori e sta dando luogo a una filiera
specifica, quella del cosiddetto commercio “equo e solidale”. Si può prevedere
per i prodotti etici un cammino non dissimile a quello percorso dai prodotti biologici, il cui consumo, all’inizio tipicamente di nicchia, ha poi incontrato un favore del mercato sempre più esteso.
I canali distributivi in cui i prodotti etici possono essere commercializzati e
valorizzati vanno dalla vendita in azienda (o punti vendita aperti dalla stessa),
a circuiti di acquisto solidale, presenti soprattutto nelle città, fino alla grande distribuzione.
Non diversamente dalle imprese sociali attive in altri settori, per le cooperative sociali che operano in agricoltura una possibile fonte di finanziamento è
rappresentata dall’accesso ai finanziamenti pubblici. Questi possono tradursi in
sovvenzioni di enti pubblici responsabili dell’assistenza e recupero dei disabili,
in finanziamenti per la formazione e l’occupazione di lavoratori svantaggiati o,
come per ogni altra impresa agricola, in contributi pubblici previsti per l’adesione a misure di politica agricola o per la realizzazione di interventi strutturali.
Inoltre, vi è un ulteriore ruolo che il settore pubblico può svolgere a favore
delle imprese sociali agricole ed è quello di supportare la produzione dei beni
e servizi che esse offrono. Fra i soggetti pubblici capaci di svolgere una tale
144
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funzione vanno sicuramente menzionate le amministrazioni comunali. Queste
possono sostenere l’attività produttiva agricola in diverse forme, ad esempio attivando un canale di fornitura privilegiato dei prodotti agricoli per le mense scolastiche, le strutture sanitarie e le case di riposo o cedendo temporaneamente
alle organizzazioni terre pubbliche inutilizzate per lo sviluppo o l’incremento
delle attività riabilitative.
8.5. Conclusioni
L’importanza attribuita al settore non profit porta, o dovrebbe portare, a ripensare le politiche di welfare su una base pluralistica, valorizzando le interdipendenze esistenti. I vantaggi offerti dal coinvolgimento del terzo settore sono
molteplici. Le organizzazioni non profit possono contribuire a un miglioramento
dell’efficacia dei servizi grazie alle loro piccole dimensioni e al fatto di non subire i vincoli e gli obblighi di un servizio rivolto istituzionalmente a tutta la cittadinanza; inoltre il vincolo della non distribuzione degli utili costituisce per i
consumatori la necessaria garanzia in un mercato, quale quello dei servizi alla
persona, caratterizzato da una asimmetria informativa circa la qualità del servizio fornito, persistendo un rapporto fiduciario assai complesso tra fornitore e
consumatore.
La trattazione condotta ha evidenziato un quadro di riferimento che, seppur
frammentato nella sua eterogeneità, appare suscettibile di sviluppi positivi per
l’agricoltura. Ciò soprattutto se saranno identificati e implementati adeguati strumenti normativi per il terzo settore in linea con le politiche portate avanti da altri Stati dell’Unione europea.
Il bisogno ”spontaneistico” di sociale espresso dalla Comunità nei vari settori ha infatti necessità di essere canalizzato e ciò è particolarmente evidente per
la componente agricolo –rurale portatrice delle maggiori novità in tal senso.
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145
PARTE QUARTA
POLITICHE
PUBBLICHE E PRIVATE A SOSTEGNO
DELLA RESPONSABILITÀ SOCIALE DI IMPRESA
NEL SISTEMA AGRICOLO E AGROALIMENTARE
CAPITOLO IX
LA STRATEGIA EUROPEA PER LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DI IMPRESA:
RICONCILIARE L’AGENDA DI LISBONA E LA POLITICA AGRICOLA COMUNE
9.1. Premessa
Il tema della responsabilità sociale delle imprese ha assunto negli ultimi 15
anni una crescente importanza sia a livello mondiale che europeo intrecciandosi
saldamente nel dibattito internazionale su globalizzazione, competitività e sostenibilità ambientale.
Nell’Unione europea, la promozione della RSI riflette, da un lato, la necessità di difendere i valori comuni aumentando il senso di solidarietà e di coesione sociale tra i Paesi membri, dall’altro, l’esigenza di sostenere la competitività dell’economia europea nel quadro della strategia per la crescita e l’occupazione lanciata a Lisbona nel marzo 2000.
Impegnandosi attivamente nella diffusione della nozione e delle pratiche di
RSI, la Commissione ha adottato – a partire dal 2001 – un approccio “globale”
o multisettoriale invitando le imprese europee a manifestare il loro impegno a
favore dello sviluppo sostenibile, della crescita economica e di un miglioramento
qualitativo e quantitativo dell’occupazione. Considerando la RSI come un comportamento esclusivamente volontario da parte delle imprese, la Commissione
europea non ha imposto nuovi obblighi giuridici e amministrativi, bensì ha cercato di garantire una maggiore visibilità istituzionale alla RSI sfruttando le esperienze delle imprese già attive in questo campo.
Dal marzo 2000 quando il Consiglio di Lisbona ha ufficialmente rivolto un
appello a sostegno della responsabilità sociale delle imprese, numerosi sono stati
i progressi compiuti in tema di RSI. Un Libro Verde nel 2001, numerose risoluzioni del Parlamento europeo e del Comitato delle Regioni e l’istituzione nel
2004 di un forum europeo multilaterale sulla RSI, hanno segnato le tappe principali di questo processo. Infine, nel marzo 2006, la Commissione europea ha
sostenuto il lancio di un’Alleanza europea1 in materia di RSI aperta alle imprese
europee appartenenti a tutti i settori produttivi (indipendentemente dalle loro dimensioni) e volta a individuare con precisione l’insieme delle iniziative già esi-
1
Questa Comunicazione della Commissione trae ispirazione da vari anni di dibattiti e consultazioni pubbliche con le parti interessate, in particolare nell’ambito del forum europeo multilaterale sulla RSI, la cui
relazione finale è stata presentata nel 2004.
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stenti o che si intendono intraprendere in materia di RSI. Il fattivo supporto a
tale alleanza deve essere pertanto interpretato come una componente fondamentale per creare un partenariato più ampio in grado di coinvolgere attivamente
attraverso incontri periodici tutte le parti interessate alla RSI.
Alla luce di tale linea d’intervento, l’agricoltura nel suo complesso ha assunto, nell’ottica europea, una posizione strategica nell’applicazione dei principi
ispiratori della RSI. In particolare, l’implementazione di pratiche socialmente
responsabili nel sistema agricolo e agroalimentare diviene uno strumento estremamente efficace nel tentativo di migliorare la coerenza degli obiettivi di sviluppo, competitività e sostenibilità perseguiti dalla strategia di Lisbona con
quelli della politica agricola comunitaria (PAC).
9.1.1. Le tappe europee della responsabilità sociale di impresa
Nell’ambito della strategia dello sviluppo sostenibile, approvata dalla Carta
dei diritti fondamentali dell’UE2 nel 2000 e confermata l’anno successivo dal
vertice europeo di Göteborg3, l’Unione europea ha incluso per la prima volta4
le pratiche socialmente responsabili tra gli strumenti strategici in grado di perseguire e realizzare gli obiettivi prefissati dalle politiche europee.
Nel marzo 2000 il Consiglio europeo di Lisbona ponendo per l’Europa l’obiettivo di “diventare l’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita economica sostenibile accompagnata da
un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da una maggiore
coesione sociale”5, ha sottolineato il senso di responsabilità sociale delle imprese con particolare riguardo allo sviluppo di buone pratiche, il life-long learning, l’organizzazione del lavoro, le pari opportunità, l’inclusione sociale e lo
sviluppo sostenibile.
2
3
4
5
Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea, GUCE n. 364 C del 18/12/2000, pp. 1-22.
Conclusioni del Consiglio europeo di Goteborg del 15-16 giugno 2001, Bollettino UE, n. 2, 2002,
pp. 58-59.
È interessante sottolineare che qualche aspetto direttamente riconducibile alla RSI può essere individuato
in nuce già nel Trattato di Roma del 1957, istitutivo della Comunità europea. Successivamente un posto
di rilievo in tema di politiche comunitarie in materia di responsabilità sociale delle imprese è stato occupato dal Libro Bianco di Delors sul tema della crescita, competitività ed occupazione del 1993. Di
fronte alla crisi occupazionale dei primi anni novanta, il presidente della Commissione Delors proponeva
ai Paesi membri di costruire una nuova economia più aperta, decentrata, competitiva e solidale. In questo modo la Commissione Europea individuava il suo punto di forza per il potenziamento dell’occupazione, non solo nella crescita del capitale umano, ma anche nello sviluppo del senso di responsabilità collettiva di ognuno.
Conclusioni del Consiglio europeo straordinario di Lisbona del 23-24 marzo 2000, Bollettino UE, n. 3,
2000, p. 1.
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Nel giugno 2000, l’Agenda sociale europea6 ha evidenziato l’importanza
della responsabilità sociale misurandone il peso in termini di conseguenze sociali e occupazionali dell’integrazione economica e di adattamento delle condizioni di lavoro alla new economy.
Un anno più tardi, nel luglio 2001, la pubblicazione da parte della Commissione europea del Libro Verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”7 ha segnato l’avvio ufficiale del dibattito sulla
RSI in Europa.
Il documento definisce in modo puntuale la responsabilità sociale8 individuando contemporaneamente il campo di applicazione della RSI tanto dal punto
di vista della dimensione interna – gestione delle risorse umane, tutela di salute,
sicurezza e ambiente – quanto di quella esterna – rapporti con le comunità locali, costruzione di partnership commerciali, rapporti con fornitori e consumatori, rispetto dei diritti umani nella catena di fornitura. La finalità della Commissione europea è pertanto duplice: (a) attivare un dibattito sulla nozione di
responsabilità sociale delle imprese; (b) costituire un partenariato inteso a favorire lo sviluppo di una struttura europea di promozione della RSI.
Si intuisce, quindi, che la RSI è considerata un strumento indispensabile per
rafforzare la strategia europea per uno sviluppo sostenibile. La Commissione propone perciò di basare la strategia di promozione della RSI su alcune caratteristiche fondamentali: un comportamento socialmente responsabile assunto su base
volontaria che vada al di là delle prescrizioni legali e ritenuto dalle imprese profittevole nel medio-lungo periodo; una garanzia di uno sviluppo eco-compatibile
delle imprese che tenga conto delle ripercussioni sociali e ambientali.
A seguito della pubblicazione del Libro Verde anche tutti gli altri organismi
europei hanno inviato il proprio contributo sul tema della responsabilità sociale.
Nel dicembre 2001, il Consiglio dell’Unione europea ha dato mandato alla
Commissione di valorizzare le conclusioni raggiunte nelle discussioni intervenute negli Stati membri sul tema e di avviare una serie di consultazioni sia a livello nazionale che europeo al fine di raccogliere il maggior numero di contri6
7
8
Agenda sociale europea approvata dal Consiglio europeo di Nizza del 7, 8 e 9 dicembre 2000, GUCE
n. 157 C del 30/05/2001, pp. 4-12.
Commissione europea, 2001a.
“Per “responsabilità sociale delle imprese” s’intende l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali
ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate.
Le imprese hanno un comportamento socialmente responsabile se decidono di andare oltre le prescrizioni
minime e gli obblighi giuridici derivanti dai contratti collettivi per rispondere alle esigenze della società.
Scegliendo la via della responsabilità sociale, le imprese di ogni dimensione possono contribuire, in cooperazione con i loro partner, a conciliare meglio ambizioni economiche, sociali ed ecologiche”. (Commissione europea, Libro Verde Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese,
(COM) 366 del 18 luglio 2001, Bruxelles).
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buti possibili fra i partner sociali9. Il Parlamento europeo ha redatto la proposta di risoluzione sul Libro Verde10, proponendo una regolamentazione della responsabilità sociale delle imprese con la sua integrazione in tutte le politiche
europee. Tra gli strumenti proposti dal Parlamento è significativa la creazione
di un organismo di consultazione, il Foro europeo per la RSI, un luogo di dialogo tra le parti interessate (stakeholder) e strumento per la standardizzazione
delle pratiche esistenti (codici di condotta, bilanci sociali). A seguito di tali iniziative, il Comitato delle Regioni11 ha raccomandato di adottare politiche di sostegno finanziario alle imprese per accelerare il processo di adozione della RSI.
In linea con le proposte del Parlamento europeo, nell’ottobre 2002, la Commissione ha aperto il Multistakeholder Forum con la finalità di “accrescere il livello di conoscenza della RSI e facilitare il dialogo tra business-community, sindacati e organizzazioni della società civile”. Obiettivi del Multistakeholder Forum sono: migliorare la conoscenza delle relazioni tra responsabilità sociale, sviluppo sostenibile e conseguente impatto su competitività, coesione sociale e protezione dell’ambiente, con particolare riguardo alle piccole-medie imprese; valutare l’opportunità di un approccio comunitario al tema della responsabilità sociale delle imprese, tenendo presente le esperienze già realizzate sia in Europa
sia a livello internazionale.
Nel giugno 2004 il Forum ha ultimato i suoi lavori e pubblicato un Report
finale12 in cui sono stati indicati alcuni elementi comuni a tutti gli strumenti di
responsabilità sociale: l’attenzione alla catena di fornitura, l’inserimento della
responsabilità sociale nel core business, il coinvolgimento degli imprenditori e
una comunicazione chiara e trasparente sui benefici delle pratiche socialmente
responsabili. Inoltre, il documento evidenzia il ruolo delle autorità locali che,
coerentemente al principio di sussidiarietà, sono tenute ad assicurare le condizioni per lo sviluppo della RSI e il successo delle imprese che le praticano, garantendo la trasparenza e l’uso efficace dei fondi rispetto agli obiettivi di natura
sociale e ambientale.
Nonostante i miglioramenti intervenuti nell’adozione, applicazione e integrazione strategica della RSI da parte delle imprese, la Commissione nel marzo
2006 ha promosso l’istituzione di un’alleanza europea per la responsabilità sociale (cfr. box 10) con l’obiettivo di coinvolgere grandi, medie e piccole im9 Consiglio dell’Unione europea, 2002.
10 Parlamento europeo, Risoluzione del Parlamento europeo sul Libro verde della Commissione Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese (COM(2001) 366 – C5-0161/2002 –
2002/2069(COS)), GUUE n. 187 E del 07/08/2003 pp. 180-188.
11 Comitato delle Regioni, 2002, pp. 1-5 e 44-55.
12 European Multistakeholder Forum, Social Responsibility Final results & recommendations. Final report,
2004 Multistakeholder Forum 2002.
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Box 10 - L’ alleanza europea per la RSI
L’alleanza europea per la RSI mira a fare dell’Europa un polo di eccellenza in materia di RSI per sostenere
un’economia di mercato che si preoccupi delle tematiche sociali e ambientali. L’obiettivo è di costituire un
partenariato, basato sulla convinzione che le priorità della strategia europea per la crescita e l’occupazione
sono pienamente coerenti con le sfide della crescente concorrenza mondiale, dell’evoluzione demografica e
di un futuro ecologicamente sostenibile. Pertanto, la RSI diviene per le imprese e i consumatori un’opportunità economica destinata alla promozione dello sviluppo sostenibile, in grado di rafforzare, il potenziale innovativo e la competitività dell’Europa e favorire l’occupabilità e la creazione di posti di lavoro.
Tale alleanza si basa su incontri e su dibattiti svolti con le imprese e le parti interessate. In particolare, essa
prende le mosse dai buoni risultati ottenuti dal Forum europeo multilaterale sulla RSI nel 2004, che ha offerto una piattaforma ai rappresentanti europei delle imprese, ai datori di lavoro, ai sindacati e alle organizzazioni della società civile per discutere, interagire e apprendere le pratiche della RSI.
L’alleanza individua due linee d’intervento per favorire la diffusione delle best practices nel prossimo futuro.
In primo luogo, sensibilizzare tutte le parti interessate verso la RSI. L’alleanza intende individuare metodi efficaci per lo scambio e la diffusione delle pratiche migliori, iniziative e strumenti di RSI al fine di suscitare in
Europa l’interesse dei policy-makers, degli operatori commerciali, dei consumatori, dei lavoratori. L’alleanza
riafferma la necessità di incentivare ulteriormente, basandosi sulle iniziative esistenti, la ricerca multidisciplinare sulla RSI a livello europeo: una collaborazione più stretta tra imprese università e istituti di ricerca privata e la continuazione del dialogo e della cooperazione con la società civile giocano un ruolo cruciale.
Oltre a ciò, si aggiunge l’importante contributo dell’istruzione (investimento in capitale umano): l’inserimento
di temi legati alla RSI nei corsi universitari tradizionali, nei programmi di formazione del personale e nei programmi post-laurea fornirebbe un adeguato know-how, per affrontare in modo più incisivo le tematiche di RSI.
In secondo luogo, contribuire a integrare efficacemente la RSI nelle strategie operative delle imprese. In particolare, data la natura dinamica della RSI e la diversità del mondo imprenditoriale europeo e internazionale,
i partner dell’alleanza hanno individuato alcuni campi d’azione prioritari:
(a) incoraggiare l’innovazione tecnologica, i prodotti e i servizi sostenibili che rispondono a bisogni della società, con particolare riferimento alle PMI; (b) aiutare le imprese a integrare considerazioni sociali e ambientali
nella loro attività economica, in particolare in quella che riguarda la catena di approvvigionamento; (c) sviluppare adeguate competenze per l’occupabilità; (d) migliorare le condizioni di lavoro rispondendo in maniera
appropriata alla diversità e alla sfida della parità di opportunità; (e) innovare in campo ecologico concentrandosi in particolare sull’integrazione dell’eco-efficienza e del risparmio energetico nel processo produttivo;
(f) aumentare il grado di trasparenza e di comunicazione delle scelte aziendali venendo incontro ai bisogni
dei consumatori sempre più interessati all’aspetto qualitativo e di salute pubblica del prodotto commercializzato; (e) infine, con riferimento alla dimensione sovranazionale della RSI, le imprese europee dovranno operare al di fuori dei confini dell’Unione europea in modo socialmente ed ecologicamente responsabile.
prese di ciascun settore produttivo (nonché le altri parti interessate) nell’esposizione delle azioni già intraprese e da intraprendersi in questo ambito. Pur non
comportando alcun nuovo obbligo finanziario per il bilancio comunitario, la
Commissione ritiene che tale alleanza avrà un impatto significativo sul comportamento delle imprese europee nei confronti della RSI e sul loro impegno
positivo a favore delle questioni sociali e ambientali.
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L’alleanza si propone di istituire nuovi partenariati tra le parti interessate ed
è quindi un fattore di mobilitazione di risorse e capacità delle aziende europee
e dei loro partner. I risultati dell’alleanza andranno intesi come un contributo
volontario delle imprese alla realizzazione degli obiettivi della rinnovata strategia di Lisbona.
9.1.2. Gli obiettivi della responsabilità sociale di impresa nell’Unione europea
Seguendo le linee guida della Commissione europea, le pratiche socialmente
responsabili non intendono sostituire l’azione dei policy makers, piuttosto svolgono una funzione complementare di primario rilievo, contribuendo alla realizzazione di una serie di obiettivi quali: (a) assicurare mercati del lavoro più integrati e livelli più elevati di inclusione sociale; (b) favorire gli investimenti in
capitale umano attraverso l’acquisizione di nuove competenze, l’apprendimento
permanente e l’occupabilità; (c) migliorare i livelli della salute pubblica grazie
a iniziative volontarie delle imprese in settori come la commercializzazione e
l’etichettatura dei prodotti alimentari e chimici non tossici; (d) incentivare l’innovazione di processo e di prodotto; (e) garantire uno sfruttamento più razionale delle risorse naturali e una diminuzione dei livelli di inquinamento, attraverso investimenti nell’eco-innovazione e l’adozione volontaria di sistemi di gestione ambientale e di etichettatura; (f) garantire un maggiore rispetto dei diritti
umani, della tutela dell’ambiente e delle norme fondamentali del lavoro.
Alla luce degli obiettivi individuati dalla Commissione l’applicazione dei
principi e delle pratiche di RSI dovrebbe interessare le politiche europee nel loro
complesso interagendo sia a livello macro sia microeconomico. Il primo caso
riguarda le politiche dell’occupazione e degli affari sociali (educazione, formazione permanente, pari opportunità); la politica dell’ambiente (valutazione costante dei rischi e dei risultati ambientali e il contributo allo sviluppo dell’ecotecnologia); le amministrazioni pubbliche (integrazione dei principi della RSI
nell’offerta dei servizi pubblici). Il livello microeconomico interessa direttamente le strategie della singola impresa e le scelte e i diritti dei consumatori,
cercando di proporre un approccio equilibrato che massimizzi le sinergie tra le
componenti prettamente economiche (la massimizzazione del profitto) e gli
aspetti socio-ambientali.
9.1.3. Le azioni europee per la promozione dell’adozione di pratiche di responsabilità sociale di impresa
La strategia comunitaria al fine di incentivare l’adozione di pratiche social-
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mente responsabili si fonda su un insieme di azioni che indipendentemente dal
settore di appartenenza dell’impresa si articolano lungo cinque direttrici fondamentali.
In primo luogo, si intende favorire la sensibilizzazione e lo scambio delle rispettive esperienze e delle migliori prassi tra imprese e Stati membri attraverso
un maggior grado di coordinamento dei forum esistenti e la creazioni di nuovi
network informativi. All’interno delle best practices la Commissione ha continuato a incoraggiare gli strumenti ecologici volontari, come i sistemi di gestione
ambientale (EMAS)13 e il programma Ecolabel14 nonché altre iniziative di sensibilizzazione dei cittadini ai problemi sociali e ambientali e all’impatto sui consumi e sulle scelte di investimento.
In secondo luogo, si punta a sostenere le capacità di gestione della RSI, garantendo un’adeguata formazione alle imprese interessate. In tal senso, i Fondi
strutturali e in particolare il Fondo sociale europeo dovrebbero essere destinati
alla promozione della RSI nella formazione destinata al personale e alla ricerca
interdisciplinare sulla RSI che interessa numerosi aspetti tra loro interdipendenti
quali competitività e sviluppo sostenibile nonché i settori come l’innovazione, le
relazioni industriali e la catena di approvvigionamento. Basandosi sui quattro progetti di ricerca sulla RSI finanziati a titolo del sesto programma quadro di ricerca, la Commissione punta a sostenere altri progetti sulla RSI nell’ambito del
prossimo (settimo) programma quadro. Inoltre, poiché la dinamicità del concetto
di RSI presuppone un apprendimento permanente nel tempo, è necessario fornire
le conoscenze e qualifiche adeguate attraverso una strategia di life-long learning.
In terzo luogo, è necessario incoraggiare le piccole e medie imprese (PMI)
ad adottare strategie di RSI. Le PMI rappresentano, infatti, in seno all’UE una
realtà di assoluta importanza, costituendo soprattutto in alcuni Paesi e in deter-
13 Il sistema EMAS, acronimo di Eco-Management and Audit Scheme) è stato introdotto dal regolamento
(CE) n. 761 del 2001. Il sistema EMAS si propone l’obiettivo di favorire, su base volontaria, una razionalizzazione delle capacità gestionali dal punto di vista ambientale delle imprese, basata non solo sul rispetto dei limiti imposti dalle leggi, che rimane comunque un obbligo dovuto, ma sul miglioramento continuo delle proprie prestazioni ambientali, sulla creazione di un rapporto nuovo e di fiducia con le istituzioni e con il pubblico e sulla partecipazione attiva dei dipendenti. L’impresa che intende aderire al sistema EMAS è tenuta a: effettuare l’analisi ambientale iniziale; stabilire la propria politica ambientale;
elaborare il programma ambientale; attuare il sistema di gestione ambientale – ovvero struttura, pianificazione, responsabilità, pratiche, procedure, processi e risorse; effettuare l’auditing, cioè svolgere una valutazione sistematica, periodica, documentata e obiettiva delle prestazioni dell’organizzazione, del sistema
di gestione ambientale e dei processi destinati a proteggere l’ambiente; redigere la dichiarazione ambientale, rivolta al pubblico.
14 Ecolabel è il marchio europeo di certificazione ambientale per i prodotti e i servizi. È stato adottato nel
1992 con l’approvazione del regolamento (CEE) n. 880/92 e in seguito aggiornato con il nuovo regolamento (CE) n. 1980 del 17 luglio 2000. È uno strumento ad adesione volontaria concesso a quei prodotti
e servizi che rispettano criteri ecologici stabiliti dalla normativa comunitaria.
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minati settori (ad esempio, agricoltura) l’ossatura del tessuto produttivo. Tuttavia, a fronte di tale rilevanza, numerosi sono gli ostacoli che le imprese di piccole e medie dimensioni sono tenute ad affrontare nel tentativo di avviare un
percorso di RSI, quali ad esempio, la scarsa sensibilizzazione e/o informazione
sul tema, la forte limitazione delle risorse umane (insufficiente preparazione culturale sia degli imprenditori che dei lavoratori), finanziarie (difficoltà di accesso
al credito) e numerosi impedimenti amministrativi. L’impatto macroeconomico
dell’adozione di pratiche socialmente responsabili da parte delle PMI diviene,
quindi, determinante per sfruttare pienamente la capacità della RSI di contribuire alla crescita, all’occupazione e allo sviluppo sostenibile in Europa.
In quarto luogo, si ritiene necessario rafforzare la trasparenza delle pratiche
e degli strumenti di RSI. La trasparenza facilita lo scambio e il miglioramento
delle buone pratiche, consentendo alle imprese di valutare i risultati ottenuti.
L’obiettivo è di un aumentare la trasparenza dei codici di condotta (diritti dei
lavoratori, diritti dell’uomo, tutela dell’ambiente), delle norme di gestione (integrare gli aspetti sociali e ambientali nelle attività quotidiane delle imprese),
della misurazione delle prestazioni, dei marchi (diritto dei consumatori all’informazione sui prodotti tramite l’etichettatura) e dell’investimento socialmente responsabile. In tale direzione risulta fondamentale garantire un’informazione adeguata ai consumatori non solo in termini di qualità del prodotto
ma anche su questioni di salute pubblica. Potrebbero essere, infatti, gli stessi
consumatori con le proprie decisioni di spesa a veicolare le scelte produttive
delle imprese verso un comportamento e una produzione socialmente responsabili.
Infine, occorre migliorare il funzionamento dell’alleanza europea della RSI.
L’istituzione di tale forum plurilaterale a livello comunitario, come accennato in
precedenza, si pone l’obiettivo dello scambio d’esperienze, dell’omogeneizzazione
delle azioni esistenti all’interno dell’Unione europea e dell’individuazione di settori in cui un’azione a livello comunitario può essere appropriata nel rispetto del
principio di sussidiarietà. La Commissione anche sulla base dei buoni risultati ottenuti dalla Piattaforma europea sull’alimentazione, punta a organizzare periodiche riunioni di revisione del forum multilaterale al fine promuovere una maggiore
sensibilizzazione alla RSI e aumentarne ulteriormente la credibilità.
9.2. La responsabilità sociale di impresa come strumento per conciliare
la strategia di Lisbona e la politica agricola comunitaria
La crescita sostenibile e un migliore livello occupazionale costituiscono due
delle maggiori sfide che l’UE si è prefissata di affrontare fin dal 2000, al fine
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di salvaguardare il modello sociale europeo. In presenza di una forte concorrenza mondiale e di un invecchiamento della popolazione sempre più marcato,
il Consiglio europeo di primavera del marzo del 2005 ha rilanciato la strategia
di Lisbona istituendo un partenariato per la crescita, l’occupazione e la competitività e rinnovando nel dicembre dello stesso anno la sua strategia per lo sviluppo sostenibile15.
La risoluzione del Consiglio europeo si rivolge, in primo luogo, al mondo
imprenditoriale poiché è matura la convinzione che l’Unione europea ha bisogno non solo di imprese competitive su scala globale ma anche di imprese socialmente responsabili in grado di coniugare gli aspetti dell’efficienza produttiva con quelli della tutela sociale e ambientale.
Seguendo l’orientamento del Consiglio di primavera del marzo 200516, la
Commissione ha riconosciuto che la RSI può «fornire un contributo essenziale
allo sviluppo sostenibile rafforzando al tempo stesso il potenziale innovativo e
la competitività dell’Europa” invitando “gli imprenditori e gli altri principali
operatori d’Europa ad avviare con urgenza una riflessione con gli esponenti politici sulle misure a medio e lungo termine necessarie per la sostenibilità e ad
avanzare proposte imprenditoriali ambiziose che vadano oltre i requisiti legali
minimi vigenti»17.
Tale approccio deve essere applicato a tutti i settori produttivi e in particolare a quelli in cui le esternalità statiche – che intervengono all’interno dell’impresa – e dinamiche – che si manifestano al di fuori dell’impresa stessa –
sono oramai divenute sempre più forti e le interazioni tra tutte le parti interessate (produttori, fornitori, consumatori, autorità pubbliche nei loro differenti livelli) di fatto permanenti.
In tale senso l’agricoltura, data la sua importanza economica e sociale all’interno dell’Unione europea18, costituisce un settore chiave all’interno del
quale l’adozione di azioni socialmente responsabili si propone di migliorare la
coerenza tra le finalità meramente utilitaristiche e l’attenzione verso questioni
15 La rinnovata strategia di Lisbona promuove la crescita e l’occupazione in modo pienamente coerente con
lo sviluppo sostenibile, che rimane un obiettivo primario dell’Unione europea, sottolineando il ruolo delle
imprese quale motore della crescita economica, della creazione di occupazione e dell’innovazione.
16 Negli orientamenti integrati per la crescita e l’occupazione (2005-8) il Consiglio ha raccomandato agli
Stati membri di “incoraggiare le imprese a sviluppare la loro responsabilità sociale.”
17 Comunicazione della Commissione europea al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo – “Il partenariato per la crescita e l’occupazione: fare dell’Europa un polo di eccellenza in materia di responsabilità sociale delle imprese” – COM (2006) 136 def.
18 Basti pensare che ancora oggi la metà della superficie dell’Unione europea è adibita all’agricoltura. In
particolare, fin dalla nascita della Comunità europea, il settore agricolo è ritenuto fondamentale per la
crescita economica.
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quali la sicurezza alimentare, lo sviluppo rurale, la gestione del territorio, l’accesso alla terra o l’uso sostenibile delle risorse naturali.
Alla luce della profonda interazione fra agricoltura, natura e società, a partire dalla fine degli anni novanta, rilevanti sono stati i passi in avanti fatti in
seno alla politica agricola comune. La PAC ha infatti attivato un processo di integrazione di misure di tutela dell’ambiente al fine di ottenere un corretto equilibrio tra una produzione agricola competitiva e il rispetto dell’ambiente. In altre parole, la PAC si è posta l’obiettivo di perseguire un rapporto equilibrato tra
la politica agricola e quella ambientale, integrando pienamente le problematiche
ecologiche e di salute pubblica nella normativa comunitaria e nello sviluppo di
pratiche agricole.
A tale riguardo, il Consiglio europeo di Cardiff (1998) e successivamente
quello di Vienna (1999) hanno chiesto a tutti i servizi competenti del Consiglio
di delineare le loro strategie per integrare la problematica ambientale e giungere
allo sviluppo sostenibile nei rispettivi settori di pertinenza. Ciò ha dato il via al
cosiddetto processo di Cardiff e i Consigli europei successivi hanno riaffermato
l’impegno a integrare le problematiche attinenti all’ambiente in tutte le politiche comunitarie e a mettere a punto indicatori adeguati per monitorare tale processo. La Commissione, a sua volta, ha pubblicato numerose comunicazioni relative all’integrazioni di tali problematiche nella politica agricola e alla definizione di indicatori agroambientali.
Tra queste, nel gennaio 1999 la Commissione ha pubblicato la comunicazione “Orientamenti per un’agricoltura sostenibile”, che costituisce una importante base di partenza per il settore agricolo. Il Consiglio europeo di Helsinki
(dicembre 1999) ha adottato quindi la strategia per integrare la dimensione ambientale nella PAC fissando obiettivi specifici come la qualità e l’uso equilibrato
dell’acqua, la riduzione dei rischi dei prodotti agro-chimici, la riduzione del degrado del suolo, il cambiamento climatico e qualità dell’aria, tutela della biodiversità e del paesaggio.
Infine, il Consiglio europeo di Göteborg (giugno 2001), come già accennato,
ha approvato la Strategia dell’Unione europea per lo sviluppo sostenibile, affiancando la dimensione ambientale a quelle sociale ed economica (triple bottom line). Tale strategia è stata successivamente approvata anche dalle conclusioni del Consiglio agricoltura per l’integrazione della tutela ambientale e dello
sviluppo sostenibile nella politica agricola comune.
Alla luce di tali nuovi orientamenti la politica agricola comune ha affiancato
ai suoi tradizionali obiettivi19 quelli volti a prevenire i rischi di degrado am-
19 Tali obiettivi – parte dei quali già ampiamente raggiunti- erano stati fissati dal Trattato istitutivo della
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bientale, incoraggiando al tempo stesso gli agricoltori a continuare a svolgere
un ruolo positivo nella salvaguardia del paesaggio e dell’ambiente grazie a misure mirate di sviluppo rurale senza minare la redditività dell’agricoltura nelle
diverse regioni dell’UE.
Tenendo in considerazione queste nuove esigenze, si è quindi proceduto a
introdurre all’interno delle riforme della PAC, una serie di misure di sostenibilità ambientale. In particolare, mentre l’agenda 2000 aveva stabilito che la politica agricola comune doveva fondarsi su due pilastri, l’orientamento al mercato e ai redditi (“primo pilastro”) e lo sviluppo sostenibile delle zone rurali
(“secondo pilastro”), la riforma del 2003 ha effettivamente integrato in ambedue i pilastri le questioni ambientali mediante l’adozione di misure nuove o modificate proprio per promuovere la tutela dell’ambiente agricolo.
In primo luogo, è stato introdotto il principio della condizionalità quale strumento principale della politica di mercato e dei redditi e quello del disaccoppiamento della maggior parte degli aiuti diretti alla produzione. In particolare,
a partire dal 2005 (termine non prorogabile oltre il 2007), è stato adottato un
regime di pagamento unico basato sugli importi storici di riferimento. Con tale
meccanismo si mira a ridurre al massimo le distorsioni degli scambi dovute alle
misure di sostegno al settore agricolo, a facilitare l’espansione del settore agricolo nei Paesi in via di sviluppo, ad aumentare la produttività agricola promovendo il progresso tecnologico senza trascurare l’impatto socio-ambientale. Ciò
si è tradotto nella riduzione di molti degli incentivi accordati alla produzione
intensiva, ritenuti all’origine dell’aumento dei rischi ambientali.
Per quanto riguarda la politica dello sviluppo rurale, il rispetto di requisiti
ambientali minimi costituisce una delle condizioni essenziali per poter accedere
ai benefici economici e finanziari nell’ambito delle diverse misure di sviluppo
rurale, come gli investimenti nelle aziende agricole, l’insediamento di giovani
agricoltori, la trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli. Inoltre, solo un impegno in senso ambientale al di sopra del livello di riferimento
delle buone pratiche agricole20 (BPA) consente di poter usufruire dei pagamenti
agro-ambientali e ottenere il sostegno alle zone svantaggiate.
La nuova strategia agroambientale della PAC è, dunque, mirata in larga parte
Comunità europea di Roma: (a) assicurare condizioni di vita dignitose alle comunità agricole aumentando
i guadagni individuali degli addetti del settore; (b) stabilizzare i mercati agricoli; (c) raggiungere l’autosufficienza alimentare; assicurare prezzi ragionevoli dei prodotti alimentari.
20 Le buone pratiche agricole sono definite come l’insieme dei metodi colturali che un agricoltore diligente
impiegherebbe nella regione interessata. Ciò implica quantomeno il rispetto della legislazione comunitaria e nazionale in materia di ambiente. Le BPA prevedono, infatti, il rispetto delle disposizioni della direttiva sui nitrati e l’uso di prodotti fitosanitari.
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a migliorare la sostenibilità degli ecosistemi agricoli. Le misure adottate per integrare nella PAC le problematiche ambientali comprendono requisiti di tipo ambientale (condizionalità) e incentivi (ad esempio, ritiro di superfici dalla produzione) inseriti nella politica di mercato e dei redditi, come pure misure ambientali mirate nel quadro dei programmi di sviluppo rurale (ad esempio, regimi
agro-ambientali).
In tale contesto, le azioni socialmente responsabili sono destinate a giocare
un ruolo decisivo, in quanto tendono a superare l’approccio tipicamente settoriale della PAC per cogliere appieno l’aspetto multifunzionale che l’agricoltura
ricopre sempre più nella società. In altre parole, l’implementazione di pratiche
socialmente responsabili non solo garantisce alla società la produzione di alimenti sicuri e sani assicurando uno sviluppo eco-compatibile e rafforzando biodiversità dell’ambiente agricolo, ma coinvolge attivamente anche tutte le parti
interessate soddisfacendo i loro bisogni nel caso (per la verità sempre più frequente) in cui la società chieda agli imprenditori agricoli di conseguire obiettivi
di protezione dell’ambiente e di salute pubblica più elevati del livello minimo
delle buone pratiche agricole.
L’adozione su base volontaria di azioni di RSI da parte delle imprese agricole e agroalimentari, da un lato, le vincolerebbe ad adottare standard lavorativi, ambientali e di sicurezza alimentare più elevati delle BPA, dall’altro, amplierebbe gli orizzonti della politica agricola comune aumentandone la redditività e rendendola più coerente con gli orizzonti di crescita e occupazione di Lisbona.
Infatti, nonostante i costi iniziali (spesso non trascurabili), l’adozione di comportamenti socialmente responsabili attiva all’interno dell’impresa dei processi
virtuosi che si concretizzano generalmente con un prodotto di più elevata qualità ottenuto grazie a una continua opera di innovazione (di processo e/o di prodotto), a una più elevata produttività dei lavoratori (che possono usufruire di
condizioni di lavoro più favorevoli), a un rapporto stabile e di fiducia con i fornitori, a una valorizzazione delle tradizioni agroalimentari del territorio in cui
l’impresa opera e, infine, a una maggiore attenzione alle esigenze di salute pubblica dei consumatori.
La RSI in agricoltura, quindi, si pone potenzialmente come il naturale trait
d’union tra le accresciute richieste di sicurezza alimentare, difesa dell’ambiente,
valorizzazione del territorio, tutela dei diritti dei lavoratori, qualità del prodotto
e le attese di un sostenuto sviluppo economico e occupazionale riducendo al
contempo le distorsioni derivanti dagli aiuti finanziari della politica comunitaria e migliorando i risultati aziendali sia in termini di produttività del lavoro che
di innovazione tecnologica.
L’obiettivo dell’azione comunitaria in tema di RSI in agricoltura dovrebbe
160
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essere quello di abbattere le iniziali barriere (informative, economiche, finanziarie e amministrative) che impediscono alle imprese agricole e agroalimentari
di intraprendere tale percorso di RSI. Le imprese, infatti, prevalentemente caratterizzate da una piccola e media dimensione se non addirittura a conduzione
familiare, e che spesso inconsapevolmente già adottano azioni socialmente responsabili attraverso un approccio informale e intuitivo, dovrebbero poter contare su un constante flusso informativo, su un appropriato supporto finanziario
(non solo in termini di contributi a fondo perduto, ma anche su una serie di incentivi fiscali e di accesso al credito) e infine, su efficiente collegamento con
le università e/o gli istituti di ricerca pubblici e privati in grado di formare o
aggiornare costantemente il capitale umano (know how) presente all’interno dell’impresa.
9.3. Conclusioni
La RSI costituisce a pieno titolo un aspetto peculiare del modello sociale europeo poiché riflette i valori fondamentali dell’UE. Intraprendendo un percorso
di questo tipo si risponde concretamente alle sfide ambientali, rafforzando contemporaneamente il potenziale innovativo e la competitività dell’Europa. Per essere un modello di successo l’economia di mercato europea deve basarsi su alcuni presupposti essenziali: da un lato su disposizioni legislative e regolamentari efficaci e coerenti e dall’altro sull’auto-limitazione e sull’autocontrollo, nonché su un clima pro-attivo di innovazione, imprenditorialità e fiducia reciproca.
Ciò è particolarmente vero in agricoltura, dove le tematiche dell’efficienza
produttiva si incontrano con le questioni sociali (difesa dei diritti dei lavoratori
e della salute pubblica) e ambientali (tutela del patrimonio naturale e valorizzazione del territorio).
In agricoltura infatti i comportamenti socialmente responsabili riguardano
una molteplicità di soggetti tra loro interdipendenti:
– le singole imprese, grandi o piccole, che possono migliorare le loro prestazioni economiche, ambientali e sociali a breve e lungo termine grazie a prodotti e servizi innovativi e nuove competenze;
– coloro che lavorano per (fornitori) o nelle imprese (dipendenti), che possono
usufruire di un ambiente di lavoro più gratificante e stimolante;
– i consumatori, che danno un’importanza crescente alle credenziali sociali e
ambientali dei prodotti e servizi che acquistano; le comunità locali in cui
operano le imprese, che aspirano alla valorizzazione del territorio e alla promozione delle loro tradizioni agroalimentari;
– le autorità pubbliche che beneficiano di una riduzione del livello d’inquina-
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161
mento e della relativa pace sociale nelle relazioni tra le organizzazioni degli
imprenditori e i sindacati;
– la comunità internazionale, che si aspetta che le imprese europee abbiano un
comportamento eticamente corretto ed ecologicamente rigoroso;
– le generazioni future a cui vengono preservate le risorse naturali necessarie
al loro fabbisogno.
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CAPITOLO X
LE POLITICHE NAZIONALI IN TEMA DI
DI IMPRESA: STRUMENTI E FINALITÀ*
RESPONSABILITÀ SOCIALE
10.1. Premessa
Il seguente capitolo presenta un quadro delle politiche e delle azioni concernenti la promozione della responsabilità sociale d’impresa con riferimento al
sistema agroalimentare nazionale e regionale.
Il tema della responsabilità sociale d’impresa, da tempo argomento di discussione in Europa, da qualche anno si sta diffondendo anche in Italia come
nuovo approccio alla gestione d’impresa. Sono diverse le ricerche italiane ed
europee che dimostrano come i consumatori, attraverso atteggiamenti e comportamenti, premino le aziende socialmente responsabili L’argomento si inserisce nel più vasto ambito del concetto di sviluppo sostenibile, venuto ormai alla
ribalta anche tra l’opinione pubblica. L’impegno dei decisori pubblici sui temi
della responsabilità sociale nasce da considerazioni che attengono sinteticamente
a un rafforzamento del sistema produttivo che abbia come cardine la sostenibilità in tutte le sue declinazioni: sociale, ambientale ed economica1. L’attività
agricola racchiude molte delle questioni attinenti la responsabilità sociale, la
quale rappresenta per il settore primario una vocazione innata e naturale. Per il
suo forte impatto ambientale, per lo stretto legame con il territorio che caratterizza la sua produzione e per i risvolti sociali e occupazionali che presenta avviare e approfondire la discussione sui temi legati alla responsabilità sociale in
agricoltura diventa elemento centrale e strategico di ogni politica di sviluppo
che voglia accogliere le istanze presenti nella società. Il sistema agroalimentare
è oggi fattore di sviluppo economico e sociale e efficace strumento di salvaguardia ambientale e per questo è chiamato a dare risposta ad alcune grandi questioni: il bisogno di sicurezza alimentare, la richiesta di prodotti di qualità, la
*
1
Il lavoro è frutto dell’impegno comune di L. Briamonte, M.A. D’Oronzio e di R. Pergamo. Tuttavia, le
singole parti vanno così attribuite: Lucia Briamonte, paragrafi 10.1 e 10.4; Raffaella Pergamo, paragrafo
10.2; Maria Assunta D’Oronzio, paragrafo 10.3.
In tal senso vanno le conclusioni raggiunte a Dresda nel vertice 8 maggio 2007 dei Ministri del lavoro
e delle politiche sociali del G8, i quali, parlando di responsabilità sociale dell’impresa, affermano che la
capacità delle imprese di agire in modo economicamente, socialmente e ambientalmente responsabile nei
Paesi in cui operano non costituisce un onere, bensì un valore aggiunto per la qualità dell’attività economica e per i benefici derivanti alla collettività e al territorio in cui essa ha sede.
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sostenibilità ambientale, lo sviluppo degli spazi rurali e la valorizzazione del territorio. Le imprese agricole si fondono strettamente con il territorio in cui operano, andando ad incidere sul tessuto locale. Diventa, quindi, sempre più importante, da un lato, promuovere il dibattito sul concetto di responsabilità sociale delle imprese anche in agricoltura e, dall’altro, definire le modalità di costituzione di un partenariato pubblico-privato inteso a favorire la creazione di
una struttura di sviluppo e diffusione di tale concetto. Le Istituzioni possono
creare un contesto di norme, standard volontari, sistemi e incentivi che risulta
fondamentale per orientare e contestualizzare l’operato delle imprese2. Tali strumenti hanno la capacità di incoraggiare l’attivazione di comportamenti aziendali responsabili, nonché costituire un giusto freno alle pratiche più spregiudicate sotto il profilo sociale e ambientale (Molteni 2008). A fronte di una crescente attenzione dell’opinione pubblica verso le tematiche concernenti la tutela
dell’ambiente, la sicurezza dei prodotti, il rispetto dei diritti umani e dei lavoratori, anche i soggetti pubblici si sono attivati in diverse forme per promuovere
tra le imprese comportamenti socialmente responsabili, in primo luogo attraverso l’attività normativa e regolamentare che costituisce senza dubbio un forte
impulso nell’indirizzare l’operato dell’azienda verso pratiche socialmente responsabili. Infatti, se le legislazioni sociali, del lavoro e ambientali non possono
disciplinare ogni dettaglio delle decisioni di impresa, possono comunque definire un quadro di contorno e stabilire condizioni minime obbligatorie. Allo
stesso tempo, i miglioramenti nelle relazioni interne all’azienda contribuiscono
alle finalità che le singole normative si pongono3. Il rapporto fra le azioni di responsabilità sociale e la normativa dovrebbe essere quindi guidato dall’obiettivo
di sistematizzare le prime all’interno delle politiche di sviluppo. Le pratiche che
2
3
L’UNI – Ente Nazionale di Unificazione è riconosciuto come Ente Italiano per la normazione; svolge attività normativa in tutti i settori industriali, commerciali e del terziario ed è presente a livello internazionale come membro italiano dell’ISO-Organizzazione internazionale sulla Standardizzazione. In ambito
UNI è stato costituito un apposito gruppo di lavoro dal nome “Responsabilità sociale delle organizzazioni”, con la partecipazione bilanciata di tutte le parti interessate, coinvolgendo i Ministeri competenti
(Ambiente, Sviluppo economico, Lavoro e Welfare).Il gruppo si interfaccia con l’ISO, che sta sviluppando una guida alla responsabilità sociale, che avrà come nome ISO 26000. La norma non sarà pronta
prima del 2010 e sarà uno standard internazionale per le linee guida di responsabilità sociale; non sarà
uno standard di certificazione, non costituirà cioè un sistema di gestione e non sarà certificabile, ma si
porrà piuttosto come strumento di adesione volontaria e conterrà le linee guida su concetti, definizioni e
metodi di valutazione.
Nel Libro Verde della Commissione europea del 18 Luglio 2001 si legge “Affermando la loro responsabilità sociale e assumendo di propria iniziativa impegni che vanno al di là delle esigenze regolamentari
e convenzionali, cui devono comunque uniformarsi, le imprese si sforzano di elevare le norme collegate
allo sviluppo sociale, alla tutela dell’ambiente e al rispetto dei diritti fondamentali, adottando un sistema
di governo aperto in grado di conciliare gli interessi delle varie parti interessate nell’ambito di un approccio globale della qualità e dello sviluppo sostenibile
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si ispirano al concetto di RSI, infatti, possono contribuire ad una serie di obiettivi perseguiti dai poteri pubblici. Un utile esempio è costituito dalla politica nazionale in materia di sicurezza alimentare, la quale ha operato per armonizzare
e rafforzare i sistemi di controllo e per favorire il processo di estensione del sistema di rintracciabilità nelle produzioni agroalimentari, privilegiando nella concessione dei contributi nazionali, le imprese che hanno adottato un sistema volontario di rintracciabilità, opportunamente certificata. Tale politica, che ha contribuito a declinare il concetto di produzione in una dimensione più ampia di filiera e territorio è stata affiancata dalla promozione di marchi identificativi e di
etichettature per l’origine e la rintracciabilità delle produzioni e da forme di comunicazione istituzionale volte a valorizzare e a dare riconoscibilità alla qualità
dei prodotti agroalimentari italiani, a creare la consapevolezza dell’evoluzione
dell’agricoltura tra tradizione e innovazione e a valorizzare il “made in Italy”
quale stile di vita e di consumo. Anche sul fronte sociale l’adozione di percorsi
di responsabilità sociale si rivela efficace strumento di tutela. I mutamenti che
hanno interessato il modello occupazionale italiano portano infatti a riflettere
sulla questione della qualità del lavoro, non solo come insieme delle garanzie
relative alla condizione lavorativa ma anche come sicurezza e salute sul luogo
di lavoro e come crescita professionale. Il tema delle risorse umane assume nel
sistema agroalimentare particolare importanza per alcune peculiarità che caratterizzano l’organizzazione del lavoro in agricoltura: basso livello di sicurezza,
elevata stagionalità, ampio utilizzo di manodopera immigrata, lavoro irregolare.
Le pratiche che si ispirano al concetto di RSI possono contribuire a una serie
di obiettivi già perseguiti dai poteri pubblici4 quali mercati del lavoro più integrati e livelli più elevati di inclusione sociale, investimenti destinati a favorire
lo sviluppo delle competenze, l’apprendimento permanente e l’occupabilità.
Se le politiche pubbliche devono assumere come obiettivo il tema della responsabilità sociale è necessaria un’attività preliminare di programmazione, che
in Italia si svolge a più livelli. Le molte competenze del Governo nazionale sono
infatti decentrate a livello regionale e per alcuni aspetti anche a livello locale.
I piani nazionali in cui le tematiche della responsabilità sociale trovano accoglienza vanno dal risparmio energetico allo sviluppo di tecnologie per la difesa
dei beni ambientali, fino a istanze di inclusione sociale. L’individuazione dei
4
Il governo italiano ha ratificato le linee guida dell’OCSE del giugno 2000, dettate per le imprese multinazionali ma che sono adattabili senza dubbio anche alle piccole e medie imprese. Le linee guida dell’OCSE sono raccomandazioni indirizzate dai governi alle imprese multinazionali. Esse enunciano principi e norme per il comportamento responsabile delle imprese, il cui rispetto è volontario e non obbligatorio. Le Linee guida mirano ad assicurare che le operazioni di queste imprese siano in armonia con le
politiche dei governi per rafforzare la fiducia reciproca tra le imprese e le società in cui esercitano la loro
attività e aumentare il contributo delle imprese multinazionali allo sviluppo sostenibile.
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temi ritenuti prioritari da parte del Governo favorisce un’affermazione degli
stessi nell’intero territorio nazionale. Le amministrazioni centrali hanno la possibilità di promuovere l’impegno da parte delle Istituzioni e delle Associazioni
attorno ai temi della responsabilità sociale, favorendo lo sviluppo di politiche
locali autonome, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e sostenibilità5. Sono
auspicabili a riguardo norme nazionali che assistano le Istituzioni pubbliche locali fornendo loro il supporto necessario all’attivazione di tali politiche. Tuttavia, a livello territoriale, si registrano spesso difficoltà nel disporre delle risorse
necessarie per realizzare quanto indicato a livello nazionale. Può risultare opportuno colmare tali lacune attraverso il ricorso alle opportunità offerte dall’Unione europea: il Fondo Sociale europeo (FSE), il Fondo europeo di Sviluppo
Regionale (FESR), il Fondo europeo per lo Sviluppo Rurale (FEASR) e i Piani
di Sviluppo Rurale (PSR).
Ci si chiede dunque quali possano essere i migliori strumenti a disposizione
delle Istituzioni pubbliche per promuovere la responsabilità sociale d’impresa.
L’efficacia delle iniziative di promozione della responsabilità sociale d’impresa
è ravvisabile in tre distinti modelli tra loro complementari: integrazione fra diversi soggetti di uno stesso territorio (orizzontale), integrazione fra i diversi livelli territoriali di Istituzioni e Associazioni (verticale); integrazione tra i differenti soggetti operanti in differenti ambiti territoriali (di rete) (Quaderni Osservatorio Operandi, 2008).
Un percorso interessante riguarda la prima dimensione di integrazione fra
gli attori e dà luogo all’evoluzione del concetto di responsabilità sociale d’impresa in quello di responsabilità sociale coniugata a livello di territorio6. La
forza della responsabilità sociale sta anche nella sua estensione applicativa dalle
singole imprese a tutto il territorio, avendo la RSI come obiettivo il miglioramento della qualità della vita della comunità e quindi il suo sviluppo. Tale sviluppo è particolarmente significativo perché si avvicina al modello reticolare
che caratterizza lo sviluppo in distretti e perché si dimostra direttamente indi-
5
6
Nella relazione “Howitt” sulla responsabilità sociale delle imprese: un nuovo partenariato si legge: “Il
Parlamento europeo (…) chiede alla Commissione di invitare i rappresentanti di un certo numero di Governi nazionali, regionali e locali che si sono impegnati ad utilizzare gli strumenti per la RSI, a costituire
veri e propri laboratori e integrare le loro conclusioni all’interno della sua futura attività (…) e rileva che
occorre adottare delle misure idonee a convincere le varie parti che avrà luogo un dialogo reale che inciderà effettivamente sulle politiche dell’Unione europea, volte ad incentivare e applicare la RSI nelle
imprese.
Il Comitato europeo economico e sociale nell’Opinione dell’8 giugno 2005, in tema di “Strumenti di misura e di informazione sulla responsabilità sociale delle imprese in un’economia globalizzata”, ha precisato che gli indicatori devono rispettare la diversità, tenendo conto della situazione socio-economica,
legale e culturale così come del tipo e della dimensione dell’impresa in aree geografiche diverse e in diversi territori.
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rizzato a realizzare un obiettivo ritenuto strategico: la competitività responsabile di territorio. Un territorio è competitivo quando è in grado di fare sistema
a livello locale con le Istituzioni pubbliche, le associazioni agricole, le aziende
e le industrie di trasformazione, nel rispetto della sostenibilità economica, ambientale, sociale e culturale. Questo porta a muoversi in una dimensione diversa di RSI, in cui al centro non si trova più solo la singola impresa, che si
relaziona con i suoi stakeholder, fra cui la comunità locale: l’impresa da centro della strategia diventa a sua volta uno stakeholder e condivide la responsabilità con la propria comunità territoriale di riferimento. Gli attori di un territorio, imprese, lavoratori, Istituzioni pubbliche, associazionismo, scuola, università, sono fortemente legati l’uno all’altro, in quanto “costretti” a stare insieme. Allo stesso tempo, sono inevitabili i limiti di ogni singolo attore (le
aziende, lo Stato, la società civile) nel fornire riposte adeguate ai problemi posti dalla collettività. Si riscopre allora indispensabile stabilire valori condivisi,
che costituiscano il collante che tiene uniti diversi soggetti, che si sentono per
questo comunità territoriale. In questa ottica, un importante ruolo è ricoperto
dalle Istituzioni pubbliche in quanto, rappresentando l’intera comunità territoriale, sono portatrici dei valori collettivi del corpo sociale. La stretta relazione
che lega il sistema agroalimentare al suo territorio di riferimento può produrre
una catena di valore che va al di là della semplice realtà aziendale ed estendere i suoi benefici sulla globalità del contesto economico-sociale. I vantaggi
che derivano dall’adozione di una strategia di RSI nell’ambito del territorio
sono molteplici. In primo luogo, l’impresa agricola e agroalimentare valorizza
i suo beni primari (le materie prime) ma allo stesso tempo esalta anche beni e
servizi secondari di vario genere. L’impresa, infatti, assolve compiti di tutela
del paesaggio, praticando un uso corretto della terra, limitando l’utilizzo di pesticidi e elementi inquinanti, valorizzando gli spazi rurali. Inoltre, il territorio
acquista un valore competitivo e diventa per l’opinione pubblica una sorta di
denominazione d’origine che assicura un valore aggiunto ai prodotti. Data la
particolarità del nostro sistema produttivo, costituito in gran parte da piccole e
medie imprese, la produzione di prodotti tipici diventa per queste un elemento
strategico di competitività, simboleggiando il valore del territorio di provenienza ed esprimendo l’insieme di conoscenze, tradizioni e cultura che rendono
il prodotto “unico”nel suo genere. Si tratta quindi di saper coniugare nelle
scelte di pianificazione dello sviluppo di un territorio la dimensione economica
con quella sociale e ambientale. A livello territoriale risulta, infatti, più agevole includere attori pubblici e privati nella promozione di politiche di sviluppo
territoriale.
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10.2. Esperienze e iniziative a livello nazionale
Nel presente paragrafo si intende analizzare le esperienze e le iniziative realizzate a livello nazionale, considerando la possibilità che le Istituzioni pubbliche hanno di incentivare comportamenti socialmente responsabili al di là dell’osservanza delle norme e a prescindere dalla aspettativa relativa di un qualche
incentivo economico. Poco è stato fatto in ambito nazionale e ancora meno nel
settore agricolo e agroalimentare. Quanto realizzato in questi anni costituisce,
però, un importante passo verso l’introduzione dei principi di responsabilità sociale nella nostra cultura economica e sociale e rappresenta un punto da cui continuare la riflessione sul tema.
Fra gli strumenti di promozione della RSI vi è la capacità che gli enti pubblici
hanno di fornire maggiori informazioni riguardo gli effetti positivi della responsabilità sociale, sulle imprese e sulla società. Le Istituzioni possono instaurare un quadro di riferimento omogeneo, destinato a favorire la qualità e la convergenza delle
procedure osservate, grazie all’individuazione e diffusione di principi, approcci e
strumenti e alla promozione di nuove prassi e idee innovative. L’affermazione delle
buone prassi assicura una valutazione efficiente in termini di costi e una verifica
indipendente delle procedure di responsabilità sociale delle imprese, garantendo in
questo modo la loro efficacia e la loro credibilità. Compito delle Istituzioni è attivare e favorire la costituzione di una rete di attori per implementare il sistema e
rafforzare lo scambio di esperienze e buone pratiche, dando così, da un lato, impulso allo sviluppo di capacità di gestione della RSI e permettendo, dall’altro, la
formazione delle politiche pubbliche anche attraverso l’apporto delle imprese.
10.2.1. La proposta di legge di Legambiente
Un primo tentativo volto alla maggiore affermazione della responsabilità sociale delle imprese è il contributo posto in essere con la proposta di legge “Disposizioni per la promozione e lo sviluppo della responsabilità sociale delle imprese” presentata dall’On. Realacci nel Marzo 2004. Il disegno di legge si
uniforma agli obiettivi delineati in sede europea per la RSI, riconoscendo a questa un ruolo come elemento di crescita economica e come contributo per una
maggiore coesione sociale. Nel contenuto della proposta è fatto esplicito riferimento ai principi costituzionali, in particolare quelli contenuti nell’articolo 41,
il quale afferma che l’iniziativa economica “non può svolgersi in contrasto con
l’utilità sociale, anzi deve essere indirizzata e coordinata a fini sociali”7. Il te7
Definizione mutuata dal Libro Verde della Commissione europea del 18 Luglio 2001 “Promuovere un
quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”.
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sto definisce la responsabilità sociale delle imprese come l’integrazione volontaria da parte delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti
con le parti interessate di finalità di tutela degli interessi sociali e ecologici. La
proposta di legge prevedeva l’istituzione di un’Autorità per la responsabilità sociale delle imprese a cui affidare, tra l’altro, l’individuazione di indicatori o standard per la definizione dei comportamenti socialmente responsabili e per valutare l’effettività di tali comportamenti e i risultati raggiunti e la costituzione di
un Forum consultivo con lo scopo di coadiuvare l’Autorità nell’adempimento
dei suoi compiti e di assicurare la più ampia partecipazione delle parti interessate alla definizione degli indicatori. Il disegno di legge si preoccupava di assicurare alle imprese socialmente responsabili strumenti di visibilità e di divulgazione delle loro iniziative, anche attraverso la facilitazione all’accesso ai programmi televisivi e radiofonici del servizio pubblico. Era, inoltre, prevista la delega al Governo per l’emanazione di norme recanti agevolazioni fiscali per le
imprese socialmente responsabili. Si tratta di una proposta che, al di là del valore del suo contenuto, non ha avuto seguito parlamentare.
10.2.2. Il progetto CSR-SC del Ministero del Welfare
Nel corso del 2002 il Ministero del Welfare ha istituito un gruppo di lavoro
interamente dedicato allo sviluppo del tema della responsabilità sociale delle imprese.
Condividendo le indicazioni della Commissione europea, il Ministero ha ravvisato che l’attuazione di pratiche di CSR da parte di un’impresa debba avvenire esclusivamente su base volontaria e ha riconosciuto come principi fondamentali il bisogno di credibilità e trasparenza delle pratiche di CSR e l’attenzione alle caratteristiche e ai bisogni delle piccole e medie imprese.
Al fine di promuovere la cultura della CSR e le buone pratiche tra le imprese e le organizzazioni italiane il Ministero ha, all’interno del progetto, intrapreso alcune iniziative. Degna di nota è l’istituzione del Forum Italiano MultiStakeholder per la CSR, la prima piattaforma di dialogo nazionale sulla CSR.
L’organismo è costituito da 50 organizzazioni nazionali a rappresentanza diffusa, equamente suddivisi in quattro macrocategorie: datori di lavoro, sindacati,
istituzioni e società civile. Il Forum si riuniva in Assemblea Generale e Tavoli
Tecnici. L’Assemblea generale ha valutato e discusso obiettivi strategici, identificato eventuali temi da sviluppare e analizzato i risultati conseguiti. Per proseguire con la sensibilizzazione di tutti gli stakeholder nel corso del biennio
2004-2005 sono stati siglati dei Protocolli d’Intesa con alcune associazioni di
categoria: con Confapi, che associa 50 mila PMI, con Assolombarda che riunisce più di 5.700 imprese dell’area milanese, e con Federambiente: con tutte le
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associazioni è stata prevista la diffusione della cultura della RSI e la realizzazione di numerose iniziative per il coinvolgimento e la formazione degli associati. In attuazione del protocollo di intesa con Unioncamere, firmato nel novembre 2003, il Ministero ha collaborato all’apertura degli Sportelli CSR-SC,
punti informativi a tutt’oggi esistenti e operanti su tutto il territorio nazionale.
Elemento centrale del Progetto CSR-SC era il Social Statement, uno strumento
nuovo, semplice e innovativo di autovalutazione delle prestazioni di responsabilità sociale, che è stato proposto alle imprese per intraprendere il percorso della
CSR. Il Ministero ha fornito una griglia di lettura che permette a tutte le aziende
(con una particolare attenzione alle PMI) di avere una guida per valutare la propria performance in ambito di RSI e di comunicarla a tutti gli stakeholder di riferimento in maniera completa e consapevole, favorendo forme di confronto dei
risultati ottenuti. Le attività del progetto si sono concluse nel 2006 con la fine
della XIV legislatura.
10.2.3. Il progetto Q-RES del CELE
Il CELE8 ha sempre sostenuto la fondamentale funzione delle norme morali,
giuridiche e sociali nel promuovere la razionalità e l’efficienza economica e la
loro indispensabilità nel dare al sistema delle imprese la necessaria legittimità
morale e sociale.
Nel 1999 su iniziativa del CELE è stato concepito un Tavolo per definire gli
strumenti per la promozione della RSI, per garantire alle imprese un operato rispondente alle direttive suggerite e, ancora, dei criteri di eccellenza, utilizzando
un modello di gestione dell’impresa di fatto mutuato dal contratto sociale con
gli stakeholder. Si è così definito un nuovo standard di qualità della responsabilità etico-sociale d’impresa, che ne tuteli la reputazione, l’affidabilità, la qualità e l’immagine. In sostanza, l’attenzione non è più solo rivolta al risultato economico, ma anche alle modalità operative con cui lo si è perseguito tenendo
conto della qualità dei prodotti, dei servizi e della trasparenza e correttezza nell’operare.
Il progetto ha posto la reputazione fra le risorse più importanti per il successo dell’impresa. La reputazione, come riconoscimento della “licenza di operare” nasce, in primis, dall’interazione ripetuta e dal rapporto di fiducia che si
crea necessariamente tra l’impresa e i suoi stakeholders, sia interni (i collaboratori e il gruppo manageriale) che esterni (fornitori, investitori, clienti, le comunità locali, la pubblica amministrazione, ecc.). Le attività del progetto hanno
8
CELE, Centre for Ethics Law & Economics dell’Università Cattaneo (LIUC) di Castellanza.
170
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evidenziato come il comportamento dell’impresa viene osservato dallo stakeholder, per poi dare luogo ad un aggiornamento delle sue credenze circa i comportamenti futuri dell’impresa; è stato analizzato in questo modo il fattore che
rende credibile il commitment, cioè l’impegno, dell’impresa in tale direzione.
Gli strumenti indicati dal gruppo di lavoro del CELE per comunicare un commitment credibile e verificabile sono l’adozione di un codice etico aziendale, la
sua attuazione tramite la formazione e il controllo (auditing interno), le attività
di reporting periodico e la certificazione indipendente. La formazione etica mette
tutti i collaboratori in condizione di far fronte a potenziali conflitti tra autonomia individuale e punto di vista organizzativo.
Altri strumenti definiti dallo studio efficaci nell’attuazione della responsabilità etico-sociale dell’impresa sono i sistemi organizzativi di attuazione e di controllo: a priori, introducendo strutture organizzative di supporto e integrando le
strategie, le politiche e gli obiettivi del business con i principi del codice etico;
a posteriori, valutando il grado di raggiungimento degli obbiettivi e monitorando
le conformità di pratica, comportamenti e procedure operative, svolgendo indagini e, se del caso, suggerendo adeguate azioni correttive.
La conoscenza da parte degli stakeholder del soddisfacimento effettivo delle
loro legittime aspettative avviene tramite la rendicontazione etico-sociale, grazie alla quale, il management dell’impresa, conosce i giudizi, le reazioni e le
aspettative e viene messo in condizione di migliorare le strategie per gestire al
meglio gli effetti che si ripercuotono sulla reputazione. Viene predisposto un sistema di misurazione e di raccolta sistematica, organizzazione e comunicazione
dei dati rilevanti relativi all’impatto delle attività dell’impresa sul benessere dei
vari stakeholder e viene valutata la coerenza tra i risultati conseguiti e gli obiettivi derivanti dalla missione, dai valori e dal codice etico.
10.2.4. Il progetto INEA-MIPAAF sulla responsabilità sociale per le imprese del
sistema agroalimentare
Nel sistema agroalimentare la crescente sensibilità per la salute e la sicurezza
alimentare, l’ambiente e il territorio pone un forte accento sui temi della RSI,
con particolare riferimento al valore e alla qualità delle produzioni, al loro legame con il territorio, ai processi produttivi che ne stanno alla base, agli assetti
di governo, alla definizione delle strategie aziendali e, non ultimo, alla capacità
dell’impresa di veicolare un’immagine compatibile con i propri valori e principi. Ciò si inserisce in una prospettiva che tende a promuovere sempre più una
logica di rete, tra imprese, settori e territori, al fine di aggiungere valore alle
produzioni, rafforzare le economie locali e nazionali e affermare il ruolo che le
imprese rivestono come motore di sviluppo.
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In questo contesto è auspicabile che aumenti l’attenzione delle imprese verso
quei comportamenti e quegli strumenti che promuovono il rispetto dei diritti e
della sicurezza dei lavoratori, dell’ambiente, della salute e della sicurezza delle
produzioni, oltre alla cooperazione con le comunità locali.
È in questo ambito che l’INEA sta realizzando il progetto “Responsabilità
sociale: implicazioni e applicazioni per le imprese agricole e agroalimentari”,
finanziato dal MIPAAF e, finalizzato all’approfondimento, alla promozione e all’applicazione dei temi e delle metodologie di RSI. Questi obiettivi, uniti alle
specificità del settore, hanno spinto l’INEA a sviluppare un insieme articolato
di strumenti a favore delle imprese e degli operatori del settore. L’elaborazione
delle Linee guida “Promuovere la responsabilità sociale delle imprese agricole
e agroalimentari” che, costituiscono il principale supporto operativo, volto a favorire l’adozione di percorsi socialmente responsabili per le imprese del settore,
ha tenuto conto della complessità del sistema agroalimentare e, in particolare,
della pluralità degli ambiti di intervento (aree protette, aree urbane e periurbane,
aree rurali, aree a forte specializzazione, distretti produttivi, ecc.), della tipologia produttiva, delle differenti classi dimensionali delle imprese (micro, piccola,
media e grande) e dei diversi gradi di concentrazione (cooperative, consorzi, associazioni, ecc.). A tal fine, è stata adottata una logica di “gradualità” che consente a ciascuno di utilizzare i concetti e gli strumenti proposti in base alle proprie specificità.
Ciò allo scopo di promuovere un percorso individuale ma coerente con il
modello di orientamento alla RSI proposto. Le Linee guida, dunque, costituiscono uno strumento finalizzato a fornire proposte operative, concrete e flessibili, che lascino a ciascuna impresa l’autonomia di scegliere il percorso di RSI
ritenuto più adatto alla propria realtà aziendale, all’interno di un quadro di riferimento unitario capace di cogliere le principali peculiarità del sistema agroalimentare (approccio modulare).
Alle Linee guida sono stati affiancati altri strumenti come elementi complementari9 per consentire ai diversi attori del sistema agroalimentare un agevole
avvicinamento alla responsabilità sociale in base al proprio grado di maturazione
sul tema10.
L’approccio che l’INEA propone per intraprendere un percorso di responsabilità sociale può essere schematizzato in due linee di azione:
9
Si fa riferimento a un glossario e un’appendice sugli strumenti di RSI, al sito www.agres.inea.it, a un volume su casi studio di aziende di settore che consente di individuare i percorsi attuati dalle stesse e al
presente volume di approfondimento.
10 Per un approfondimento sul lavoro svolto dall’INEA si vedano le linee guida, i casi studio e il sito internet citati.
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– i comportamenti di responsabilità sociale, ovvero il complesso delle motivazioni, delle azioni e degli strumenti che sostanziano l’impegno dell’impresa
ad essere socialmente responsabile;
– il sistema, ovvero la capacità di fare “rete” con i diversi attori che compongono o si relazionano con il sistema agroalimentare.
Tali elementi sono stati utilizzati per realizzare una “griglia di auto-diagnosi”
che permetta a ogni singola impresa di costruire una propria strategia di orientamento alla responsabilità sociale.
10.3. Le Regioni italiane e le politiche per la responsabilità sociale di
impresa
Di seguito vengono riportate le iniziative più significative svolte a livello locale, in particolare in ambito regionale. Non si tratta di esperienze specifiche
realizzate in campo agricolo e agroalimentare, ma i risultati delle loro attività
possono avere importanza e influenza per il settore.
10.3.1. Regione Toscana
Una delle Regioni che più ha dato rilievo ai temi della responsabilità sociale
d’impresa e cercato di dare impulso a una loro affermazione sul territorio è la
Regione Toscana. L’Amministrazione regionale ha, infatti, ritenuto la responsabilità sociale un valore strategico e ha scelto di acquisirne gli indirizzi nelle proprie scelte e strategie di politica economica e industriale.
La regione Toscana, nell’ambito del Completamento di programmazione
Obiettivo 2, 2000-2006 e relativamente agli investimenti per i servizi di consulenza, ha previsto finanziamenti alle PMI che si sono orientate e che si orienteranno verso la certificazione SA 800011. Dal giugno 2002, ha attivato il progetto “Fabrica Ethica per la diffusione, soprattutto tra le PMI, della certificazione SA 8000, che prevede l’attivazione di servizi formativi e informativi di
supporto e l’erogazione di fondi alle imprese.
La Toscana ha, successivamente, elaborato la legge regionale 8 maggio 2006
11 SA 8000 è uno standard internazionale di certificazione sociale e etica delle organizzazioni (pubbliche e
private) sviluppato dall’ente americano SAI-Social accountability International nel 1997; è il primo standard volontario che intende, attraverso le relative procedure di accreditamento e certificazione, garantire
il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori, la tutela contro lo sfruttamento dei minori, le garanzie
di sicurezza e salubrità sul posto di lavoro. Stabilisce, in sintesi, una serie di prescrizioni cui una azienda
socialmente responsabile deve attenersi.
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n. 17 che prevede interventi e agevolazioni a favore delle imprese di tutti settori economici che adottano volontariamente standard relativi a modelli di rendicontazione e sistemi di gestione aziendale certificabili delle pratiche di responsabilità sociale.
La Regione Toscana ha favorito uno sviluppo fondato sulla non discriminazione, la promozione delle pari opportunità, la valorizzazione delle persone, la
coesione sociale e territoriale e ne promuove l’attuazione e il rispetto attraverso
la diffusione di una cultura della responsabilità sociale. La Regione riconosce
la responsabilità sociale come un processo che, attraverso il miglioramento continuo, assicura all’interno delle organizzazioni il perseguimento dei diritti umani,
economici, del lavoro e sociali. Inoltre, ha sostenuto l’attuazione e la diffusione
delle pratiche e della cultura di responsabilità sociale nelle organizzazioni e tra
i cittadini riconoscendone il ruolo dei soggetti coinvolti e favorendone, sia la
funzione di portatori di interessi sia il coinvolgimento nella definizione delle
buone pratiche di responsabilità sociale.
La Toscana nel rispetto della normativa comunitaria in materia di aiuti di
stato a favore di piccole e medie imprese:
– promuove le imprese che adottano volontariamente gli standard internazionali, europei o nazionali, relativi all’introduzione e allo sviluppo di modelli
di rendicontazione nonché sistemi di certificazione di prodotto o di servizio
che assicurino la trasparenza e la credibilità delle pratiche in materia di responsabilità sociale; tra gli strumenti di promozione potranno anche essere
previste semplificazioni amministrative e agevolazioni fiscali;
– prevede, nell’ambito delle politiche e delle azioni a sostegno dei servizi reali
alle piccole e medie imprese, misure di agevolazioni che orientano le imprese all’adozione di sistemi di gestione aziendale certificabili, anche integrati tra loro, della qualità ambientale, della responsabilità sociale e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Il sostegno alle organizzazioni orientate alla RSI si concretizza in un sistema
di aiuto diretto alle PMI nella misura del 50% della spesa complessiva prevista. In questo modo si tende a premiare le aziende certificate rispetto alla qualità ambientale (EMAS o ISO 14001) e alla responsabilità sociale (SA 8000).
Inoltre, è stata istituita una Commissione Etica Regionale (CER) nominata
dal Presidente della Giunta regionale con decreto proprio, con le seguenti funzioni:
– formulare pareri e proposte alla Giunta regionale in materia di progetti per
la diffusione, l’incoraggiamento e lo studio delle pratiche di responsabilità
sociale delle imprese;
– analizzare la realtà imprenditoriale toscana anche attraverso studi e indagini;
– proporre strumenti per garantire la trasparenza e la funzionalità del processo
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di miglioramento graduale e di coinvolgimento della catena di fornitura che
accompagna le imprese all’introduzione di sistemi di gestione certificabili,
anche attraverso accordi con organismi terzi;
– operare per la trasparenza e la qualità dei processi di certificazione e di rendicontazione delle imprese anche attraverso la piena acquisizione della relativa documentazione.
La CER, quale organo consultivo della Giunta regionale, collabora con la
struttura regionale competente in materia di responsabilità sociale delle imprese
per presenziare, monitorare, svolgere attività di tutoraggio e verificare il processo graduale tramite cui le imprese e le organizzazione attivano azioni di miglioramento continuo volte all’introduzione di sistemi di gestione della certificazione di responsabilità sociale. La Commissione ha attivato tre gruppi di lavoro:
– certificazione di distretti e di filiera;
– etica in economia e finanza;
– strumenti della RSI e adattabilità alle PMI.
La Commissione entro il 31 dicembre di ogni anno presenta alla Giunta e al
Consiglio una relazione sulla propria attività. Resta in carica tre anni ed è presieduta dall’Assessore regionale alle Attività produttive.
10.3.2. Regione Veneto
L’impegno della regione Veneto sulle questioni legate alla responsabilità sociale nasce da considerazioni attinenti il rafforzamento del sistema produttivo e
le modalità con cui affrontare la crescente sfida del mercato globale, nel rispetto
di uno sviluppo economico e sociale sostenibile. In questa ottica, la Regione si
è attivata su numerosi fronti, fra i quali il più significativo è costituito dall’iniziativa “Veneto Responsabile”. “Veneto Responsabile – Rete regionale per la responsabilità sociale d’impresa” è un’associazione senza scopo di lucro, costituita nel 2003 per promuovere una cultura d’impresa orientata a un maggior
coinvolgimento e attenzione alle problematiche del sociale12. L’associazione Veneto responsabile “vuole essere rete tra diversi soggetti, luogo di confronto tra
gli attori del un territorio, tavolo multi-stakeholder” (Peraro, 2007). Il tavolo territoriale multi-stakeholder si propone di rappresentare un luogo di costruzione
di relazioni effettive in cui si cerca di individuare un bene comune, il giusto
equilibrio e la cooperazione tra i diversi attori economici, sociali e istituzionali
12 Veneto Responsabile «…si propone di promuovere una cultura d’impresa orientata alla responsabilità sociale e quindi facilitare la diffusione di buone pratiche attraverso la costruzione di una RETE tra i soggetti del contesto economico-sociale e istituzionale» (art 2 dello Statuto di “Veneto Responsabile”).
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del territorio. Ciò al fine di stimolare l’adesione, da parte delle imprese, agli
strumenti di responsabilità sociale attraverso un percorso che coinvolga tutti gli
attori socio-economici del Veneto. Per raggiungere tale obiettivo Veneto Responsabile ha adottato un vero e proprio piano strategico pluriennale, articolato
in due fasi: una prima fase di sensibilizzazione e comunicazione, una successiva di definizione e adozione di linee guida
10.3.3. Regione Marche
Significativa è anche l’esperienza della Regione Marche che ha emanato la
legge regionale n. 11 del 23 febbraio 2005 recante “Interventi per la promozione
di prassi socialmente responsabili, per la certificazione dei sistemi di qualità, del
rispetto dell’ambiente, della sicurezza e dell’etica di amministrazioni pubbliche
locali e loro enti e consorzi, di organizzazione non lucrative d’utilità sociale
(ONLUS) e delle piccole e medie imprese marchigiane”. La legge introduce una
serie di interventi per la promozione di prassi socialmente responsabili. In particolare, all’articolo 3, tra i soggetti potenzialmente beneficiari degli interventi
di finanziamento include anche le imprese operanti in agricoltura.
Per realizzare tali azioni, la Regione ha istituito l’albo regionale per le piccole e medie imprese, per le imprese agricole, per le ONLUS e per le pubbliche amministrazioni che promuovono e adottano prassi socialmente responsabili così come indicato dal Libro Verde della Commmissione europea.
L’iscrizione all’albo regionale (articolo 4 della legge citata), costituisce titolo
di priorità per la concessione di incentivi finanziari, contributi e agevolazioni
previsti dalla normativa regionale. La Regione, infatti, concede aiuti finanziari
al fine di sostenere i soggetti responsabili socialmente iscritti all’albo che intendono aderire e attuare processi di certificazione di carattere internazionale,
comunitario e nazionale attinenti la qualità, la parità di trattamento e non discriminazione, il rispetto ambientale, la sicurezza, la responsabilità sociale e corretta gestione delle risorse umane, il bilancio etico e la responsabilità sociale
d’impresa.
La Giunta regionale entro novanta giorni dall’approvazione della legge finanziaria annuale determina, sentita la competente commissione consiliare, le
modalità e i criteri per l’erogazione dei contributi. Inoltre, il Consiglio regionale promuove a favore dei giovani e dei cittadini marchigiani una capillare
informazione per la diffusione della cultura della qualità, della parità di trattamento e non discriminazione, del rispetto ambientale, della sicurezza, di comportamenti socialmente responsabili e dell’etica d’impresa. Infine, il Consiglio
determina le modalità di attuazione degli interventi menzionati entro sessanta
giorni dall’approvazione della legge finanziaria annuale.
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10.3.4. Regione Umbria
Un’altra esperienza da segnalare è quella della regione Umbria, che con la
legge regionale n. 20 del 2002 ha istituito l’albo delle imprese certificate SA
8000 al fine di favorire lo sviluppo tra i cittadini umbri di una maggiore sensibilità nei confronti delle problematiche relative alla responsabilità sociale degli
operatori economici e di promuovere le attività delle imprese di produzione e
di commercializzazione che rispettano detti principi.
Da sottolineare che l’iscrizione all’albo costituisce titolo di priorità per:
– la concessione di incentivi finanziari, contributi e agevolazioni previste dalla
normativa regionale;
– il rilascio delle autorizzazioni amministrative previste dalla normativa regionale;
– la selezione dei soggetti da invitare alle gare di appalto per lavori pubblici
o forniture di beni e servizi, fermi restando i requisiti richiesti dalla vigente
normativa in materia.
Inoltre, la Regione ha emanato la legge n. 21 del 2001 “Interventi per la certificazione di sistemi della qualità, del rispetto ambientale, della sicurezza e dell’etica nelle imprese umbre”, con la quale ha previsto contributi a fondo perduto pari al 50% delle spese di consulenza e certificazione per quelle imprese
che implementano sistemi di gestione aziendali certificabili.
10.3.5. Regione Emilia Romagna
Nel 2001, ben 45 Comuni della provincia di Reggio Emilia hanno dato vita
ad AGAC- Servizi energetici e ambientali, ora Enìa, società di servizi energetici e ambientali, il cui azionariato è distribuito tra tutti i partecipanti, che ha
gestito all’interno del territorio provinciale il ciclo integrato dell’acqua, la distribuzione di gas naturale, il servizio di teleriscaldamento e i servizi di igiene
ambientale. Oltre alla redazione ogni anno del Bilancio di Sostenibilità, AGAC
ha costituito nel corso degli anni un rapporto molto radicato con il territorio
della provincia di Reggio Emilia, attivando una serie di partnership con gli attori istituzionali (Provincia, ARPA, Osservatorio Provinciale dei Rifiuti, scuole
di ogni ordine e grado) e con i soggetti facenti parte del terzo settore (enti di
volontariato, cooperative sociali, associazioni ambientaliste, ecc.). AGAC/Enìa
partecipa ad attività di partenariato con la Pubblica Amministrazione.
10.4. Conclusioni
L’impresa agricola si colloca oggi in un complesso sistema di relazioni con
vari portatori di interesse (stakeholder) ognuno dei quali esercita specifiche pres-
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sioni. Un sistema in cui si aprono per le imprese nuove minacce e opportunità
che non possono essere ignorate. La sfida consiste nel saper coniugare competitività e responsabilità sociale. L’importanza della responsabilità sociale per
un’impresa nasce dalla consapevolezza che l’ambiente economico e sociale in
cui essa opera ha un ruolo fondamentale per definire i “parametri reali” entro i
quali potersi muovere. Il tema della responsabilità sociale si impone come strategia innovativa per il recupero e il rafforzamento di alcuni elementi di coesione
centrati sulla sostenibilità economica, sociale e ambientale nel contesto territoriale di riferimento attraverso un percorso che garantisca un’alta qualità sociale
e stimoli le imprese a introdurre “modelli sostenibili” nelle loro strategie e politiche.
Inoltre, di fronte a consumatori sempre più attenti e critici, le imprese sono
chiamate a rendere conto dei propri comportamenti e ad adottare iniziative che
ne migliorino l’immagine complessiva presso i clienti, i fornitori, le Istituzioni,
ecc.
Se l’adozione di una politica di RSI è una decisione che spetta alle imprese
(principio di volontarietà), visto che essa contribuisce al beneficio della società
rafforzando uno sviluppo sostenibile è indispensabile che le Istituzioni pubbliche incoraggino l’adozione di pratiche responsabili da parte delle stesse. In tale
ottica, una strategia nazionale, in linea con quanto portato avanti a livello europeo, potrebbe completare le misure esistenti su scala locale e contribuire così
allo sviluppo della RSI. Il ruolo delle Istituzioni pubbliche nazionali e locali nel
costruire un quadro favorevole alla sensibilizzazione e promozione di principi
responsabili13 si può concretizzare attraverso assistenza alle imprese, da un lato,
e integrazione degli stessi principi nelle attività dei poteri pubblici, dall’altro.
Trovare il giusto mezzo tra incentivazione verso percorsi/pratiche di RSI nell’ambito di un quadro omogeneo, condiviso ma non obbligatorio che consenta
alle imprese di risolvere il problema di autoreferenzialità e la messa a punto di
specifiche politiche di coinvolgimento dell’impresa e di ottimizzazione delle iniziative nate spontaneamente in tema di RSI contribuirebbero sicuramente a migliorare il clima e la diffusione di tale approccio.
Un altro contributo può venire da un effettivo coinvolgimento dei vari
stakeholder con la creazione di un luogo di confronto (es. forum multi-stakeholder). L’obiettivo è quello di influenzare il sistema produttivo, i consumatori, le
pubbliche amministrazioni, ecc. e creare un positivo “effetto domino”.
13 Il Comitato Economico e Sociale europeo ha specificato che i principi di azione volontaria e di sviluppo
sostenibile in campo ambientale, economico e sociale, associati agli orientamenti degli accordi esistenti
tra le organizzazioni internazionali possono costituire un quadro di riferimento per nuove azioni tese a
sostenere lo sforzo delle imprese europee nel campo della RSI.
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Tutto ciò deve mirare a stimolare/promuovere la cultura della responsabilità
sociale dei diversi soggetti privilegiando approcci omogenei al fine di garantire
la qualità e l’efficacia degli interventi stessi; ciò implica che, partendo da tali
indicazioni, ogni “soggetto” possa intraprendere un proprio percorso di RSI, diventando altresì promotore di un modello di condotta virtuoso nei confronti dei
propri stakeholder.
In sintesi, viste le iniziative sopra presentate, spesso nate dalla volontà di singoli attori, le Istituzioni possono promuovere i principi della responsabilità sociale attraverso una serie di azioni:
– la definizione di un quadro di riferimento generale (non obbligatorio);
– la promozione del dialogo con e fra i diversi stakeholder;
– l’utilizzazione di incentivi economici e/o premi per le imprese socialmente
responsabili;
– la predisposizione di linee guida per il comportamento etico delle imprese e
dei temi che esse devono affrontare per essere socialmente responsabili;
– un’attività di promozione finalizzata alla diffusione dei principi di responsabilità sociale e delle buone prassi, alla predisposizione di campagne di informazione e formazione per le imprese e per i funzionari pubblici, alla predisposizione di campagne di informazione per i consumatori in modo da creare
domanda verso prodotti, servizi e investimenti socialmente responsabili.
In questa prospettiva, le Istituzioni, le associazioni di categoria e i diversi
esperti in materia sono senz’altro chiamati a giocare un ruolo fondamentale e,
a questo proposito, appare di fondamentale importanza il dibattito sulla loro capacità di learning attraverso la quale i problemi delle politiche passate devono
aiutare a rettificare le strategie del futuro.
Il suggerimento di policy del lavoro è dunque un’azione congiunta al fine di
favorire e accompagnare le iniziative che nascono dal basso, coinvolgendo le
comunità locali, attraverso un miglioramento del contesto istituzionale e un investimento in capitale umano. Tutto ciò anche grazie al contributo diretto della
comunità locale.
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CAPITOLO XI
LA FINANZA PRIVATA
NEL SISTEMA AGRICOLO E AGROALIMENTARE
E LA RESPONSABILITÀ SOCIALE DI IMPRESA
11.1. Premessa
Il sistema agroalimentare italiano ha vissuto negli ultimi anni una congiuntura
economica non particolarmente favorevole1. Una quota crescente di imprese agricole sta attraversando un momento di difficoltà e incertezza, in cui si registra un
calo della redditività – secondo un trend consolidato negli ultimi anni – associato
a un progressivo e generalizzato calo di prezzi nel settore agricolo. Molte imprese
agricole hanno sperimentato difficoltà crescenti dovute alla maggiore complessità
di collocamento dei propri prodotti sul mercato e in situazioni di ridotta redditività hanno registrato fenomeni di aumento del proprio livello di indebitamento,
associati al contempo a una ridotta capacità di finanziare gli investimenti innovativi necessari al rafforzamento della competitività aziendale. Il settore agricolo ha
accresciuto la propria produttività attraverso una razionalizzazione delle strutture
produttive, l’espulsione dal sistema delle imprese marginali aventi redditività negativa o contenuta e una consistente riduzione dell’occupazione, da ricondursi
principalmente a fenomeni di invecchiamento e pensionamento degli addetti, con
una maggiore concentrazione sulle unità di lavoro non dipendente.
L’analisi della situazione strutturale e dell’andamento congiunturale del settore agricolo a livello nazionale consente, quindi, di porre in evidenza con sufficiente chiarezza gli aspetti che costituiscono un ostacolo e determinano un ritardo nelle scelte imprenditoriali, rappresentando elementi di criticità per lo sviluppo del settore. Tale analisi descrive la situazione dell’intero sistema agroalimentare nazionale sia per quanto concerne le aree più marginali sia per quelle
più ricche; descrive inoltre le difficoltà incontrate all’interno delle filiere produttive sia dalle imprese di produzione che da quelle di distribuzione, nonché
dalle imprese agroalimentari.
11.2. Il rapporto banca-impresa nel settore agricolo e agroalimentare
Una delle principali criticità che le imprese nel sistema agroalimentare de1
Per un’analisi dettagliata si veda il Rapporto sullo Stato dell’Agricoltura Italiana, novembre 2006, INEA.
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vono affrontare è di carattere economico-finanziario: l’impresa agricola vive con
sempre maggiore urgenza la necessità di effettuare investimenti idonei per ammodernare le strutture e adeguare e diversificare i processi produttivi. Secondo
i dati del 20052, gli investimenti fissi lordi in agricoltura – pari a 11,8 miliardi
di euro – si sono ridotti rispetto all’anno precedente, in termini reali, in misura
pari al 5,7%, mentre si è registrata una sostanziale stabilità degli stessi a livello
nazionale per il complesso dell’economia italiana (per cui si è registrato un calo
dello 0,6%). Gli investimenti sono destinati per la maggior parte all’acquisto di
macchine e attrezzature, alle costruzioni e solo in misura minore all’acquisto di
servizi e mezzi di trasporto. Lo stato prolungato di crisi che ha investito in questi ultimi anni il settore agricolo, determinando serie difficoltà finanziarie e una
consistente riduzione del reddito prodotto, è stato acuito da un insieme di cause
di natura congiunturale che hanno colpito l’economia italiana ed europea su vasta scala nell’ultimo triennio. Ciò ha determinato un’ulteriore contrazione della
capacità delle imprese agricole di effettuare i necessari investimenti, tanto che
per la prima volta dal 2001 gli investimenti a livello nazionale sono calati in
valore assoluto e il settore primario ha ridotto la propria incidenza sul totale degli investimenti produttivi nazionali al 4,2%.
Negli ultimi anni le condizioni di accesso al credito delle aziende agricole
hanno visto la presenza di importanti novità che derivano da cambiamenti sia
nella normativa comunitaria per gli aiuti al settore agricolo3 sia nella normativa
nazionale sulle agevolazioni creditizie4. A livello comunitario, la Riforma Fischler del 2003 che ha introdotto la pratica del disaccoppiamento, ha avviato un
progressivo smantellamento delle protezioni al settore rendendo sempre più urgente la necessità delle imprese di orientare le produzioni verso quelle a maggiore valore aggiunto e profittabilità, mediante un ridimensionamento progressivo di quelle più dipendenti da contributi finanziari pubblici. La normativa comunitaria accresce quindi ulteriormente la necessità di rendere sempre più concorrenziale e vitale l’azienda agricola attraverso l’introduzione di nuove tecnologie, l’adozione di strategie di qualificazione delle produzioni e il perseguimento di strategie di filiera volte a favorire l’integrazione sia tra imprese operanti in fasi diverse della filiera sia tra imprese operanti nella stessa fase. Le imprese agricole, quindi, non possono più limitarsi alla richiesta dell’aiuto nella
consueta forma del fondo perduto ma devono sviluppare la capacità di accedere
2
3
4
Dati tratti dal capitolo VIII dell’Annuario dell’Agricoltura Italiana, anno 2005, volume LIX, INEA.
Si vedano i capitoli IX e X del presente volume per un’approfondimento delle politiche pubbliche nel
settore agricolo a livello comunitario e nazionale e delle relative riforme.
La riforma della normativa nazionale sulle agevolazioni creditizie sarà oggetto di analisi approfondita nel
secondo paragrafo del presente capitolo.
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al credito a condizioni sostenibili e fare fronte autonomamente con il proprio
patrimonio alle garanzie richieste dalle banche.
Pertanto, uno dei fattori chiave per la crescita e lo sviluppo futuro del settore agricolo risulta essere l’accesso a risorse e strumenti finanziari che garantiscano agli operatori del settore la possibilità di indirizzare la propria attività
produttiva, in modo da mantenere e accrescere il proprio livello di competitività alla luce delle crescenti sfide nazionali e internazionali poste dalla globalizzazione dei mercati e dal processo di revisione della normativa comunitaria.
I profondi mutamenti sociali, economici e politici che il settore agricolo e agroalimentare ha attraversato hanno progressivamente spinto le imprese a una maggiore razionalizzazione delle proprie attività e strutture produttive, che ha determinato la tendenza a concentrarsi nelle produzioni con maggiore valore aggiunto, migliori possibilità di collocamento sul mercato e migliori prospettive
di crescita. Nel quadro delineato le Regioni hanno operato per orientare le imprese verso produzioni agricole coerenti con gli obiettivi strategici regionali,
nella forma di erogazioni in conto capitale per il co-finanziamento a progetti di
investimento presentati da aziende agricole, forestali e agroalimentari.
Per l’azienda agricola e agroalimentare è quindi di fondamentale importanza
avere la possibilità di accedere al credito agrario in tempi rapidi, seguendo procedure con un grado di complessità ridotto, e avere a disposizione strumenti
finanziari innovativi in grado di soddisfare le nuove necessità gestionali e finanziarie dettate dai cambiamenti di scenario economico e di politica agraria
nazionale e comunitaria. A tal fine le imprese del sistema agroalimentare devono sviluppare con il sistema bancario un rapporto proattivo, all’interno del
quale presentare i propri progetti di investimento in modo strutturato e professionale e comunicare le proprie esigenze finanziarie con strumenti organizzativi e di rendicontazione non più elementari ma trasparenti e progressivamente
più avanzati.
La situazione del mercato del credito in Italia non risulta, tuttavia, particolarmente positiva alla luce dei meccanismi che ne regolano il funzionamento. Il
settore agricolo viene ritenuto dal mondo bancario e finanziario di scarsa rilevanza strategica, in quanto caratterizzato da un basso livello di redditività e da
maggiori tassi di insolvenza rispetto alla media nazionale e per settore produttivo. Le imprese agricole, inoltre, si trovano in una oggettiva situazione di svantaggio rispetto a quelle degli altri comparti produttivi per una serie di ragioni.
Le imprese agricole sono, anzitutto, meno organizzate sotto il profilo amministrativo, non dispongono di strumenti contabili e di rendicontazione, quali il bilancio di esercizio e il budget di pianificazione intrannuale, utilizzati come prassi
negli altri settori produttivi e tali da garantire il controllo e la pianificazione
strategica dei flussi di cassa aziendali. La mancanza di strumenti organizzativi
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e amministrativi rende le imprese del settore agricolo meno capaci di dimostrare
in modo attendibile nei confronti del mondo bancario i propri livelli di redditività su base annuale, le disponibilità finanziarie e le esigenze di finanziamento
nel momento della richiesta di credito. È opportuno osservare come l’applicazione della riforma dell’Accordo sul Capitale, noto come Basilea 2 – che sarà
oggetto di analisi specifica nel paragrafo 4 del presente capitolo – costituisca
uno stimolo ulteriore per le imprese agricole a dotarsi di strumenti amministrativi e contabili, indispensabili al fine del soddisfacimento dei requisiti minimi
imposti per l’accesso al credito bancario, e per l’attestazione della propria solvibilità.
Il settore agricolo, inoltre, è caratterizzato da una strutturale carenza di capacità manageriale: molto spesso le imprese sono gestite allo scopo di acquisire
un reddito destinato al mantenimento della famiglia e l’attività produttiva è
orientata in modo prevalente all’ottenimento di sovvenzioni pubbliche, nella modalità del finanziamento a fondo perduto. Alla luce del trend decrescente atteso
per i finanziamenti pubblici, quale effetto della riforma della politica agraria europea, risulta ancora più urgente per gli imprenditori agrari sviluppare una mentalità più orientata al mercato, volta all’acquisizione di strumenti di analisi per
individuare i possibili mercati di sbocco e i punti di forza e debolezza della concorrenza nazionale ed estera, secondo una logica di marketing. Le imprese agricole presentano una dimensione economica più ridotta, il che comporta un minor peso contrattuale nei confronti delle banche e un conseguente maggior costo nella provvista del denaro. Le obiettive difficoltà di accesso al credito incidono, pertanto, negativamente sulla stabilità economico-finanziaria delle imprese agricole, condizionando gravemente lo sviluppo dell’intero comparto agricolo.
11.3. Gli strumenti finanziari nel mondo agricolo
Nell’ultimo quinquennio il settore agricolo e agroalimentare ha conosciuto
un processo complessivo di riorganizzazione del credito iniziato con il decreto
legislativo n. 102 del 29 marzo 2004. Tale processo ha previsto, in primo luogo,
l’introduzione del Piano assicurativo agricolo basato su informazioni e dati di
natura assicurativa e statistica rilevati dalla Banca dati sui rischi agricoli e la
costituzione della Sezione speciale del Fondo Interbancario di Garanzia (FIG).
Con il D.Lgs. n. 102/2004 le imprese agricole possono ricorrere all’uso di
polizze pluririschio e multirischio, che consentono alle stesse di prevenire i rischi di possibili calamità metereologiche. La polizza pluririschio consente all’imprenditore agricolo di disporre di una copertura assicurativa su una plura-
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lità di fattori meteorologici con effetti negativi e dannosi sulla produzione ed è
strutturata con caratteri modulabili, che consentono di ottenere garanzie aggiuntive a partire da un rischio iniziale. La polizza multirischio prevede l’assicurazione di una resa media (quintali a ettaro prodotti mediamente dalla coltura)
a fronte del verificarsi di qualsiasi evento climatico avverso; ai fini dell’eventuale risarcimento occorre confrontare la resa effettiva post evento climatico negativo con quella media assicurata ex ante.
L’ISMEA svolge un ruolo di primaria importanza nel campo dell’assicurazione nel settore agricolo e agroalimentare: il Fondo per la Riassicurazione dei
rischi in agricoltura è stato istituito dal D.Lgs. n. 419/99 presso l’ISMEA ed è
stato consolidato e rafforzato dalla Finanziaria 2001 (art. 127 della legge
388/2000), attribuendo all’Istituto un ruolo operativo nella sperimentazione di
nuovi strumenti assicurativi. Tale Fondo provvede alla compensazione dei rischi
agricoli coperti da polizze assicurative agevolate da un contributo pubblico sulla
spesa per il pagamento dei premi; in tale modo il Fondo opera allo scopo di sostenere la maggiore competitività delle imprese agricole e ridurre eventuali conseguenze negative derivanti dai rischi atmosferici. Attraverso lo strumento della
riassicurazione dei rischi agricoli agevolati contrattati dalle imprese di assicurazione, il Fondo introduce una collaborazione tra settore pubblico e settore privato e favorisce una crescente diffusione dei prodotti assicurativi tra gli imprenditori agricoli, come evidenziato dalla figura 8. Nell’ultimo triennio alla
maggiore partecipazione degli operatori agricoli sul mercato assicurativo si è accompagnata una consistente riduzione del Loss Ratio5, con conseguenti benefici
in termini di minore incidenza economica dei premi assicurativi.
Il processo di riorganizzazione del credito ha riguardato, in secondo luogo,
la creazione di strumenti volti a favorire la capitalizzazione delle imprese agricole attraverso la concessione di garanzie. A tale scopo, il D.Lgs. n. 182/2004
– in conformità alla comunicazione della Commissione europea 2001/C 235 03
del 23 maggio 2001 – ha previsto l’istituzione del Fondo di investimento nel
capitale di rischio, affidato all’ISMEA, con la finalità di promuovere programmi
di investimento di piccole e medie imprese agricole e agroalimentare che favoriscano la nascita, lo sviluppo e la creazione di nuova occupazione nel settore.
Secondo le disposizioni del D.Lgs. n. 58/1998 è stata costituita la Società Gestione Fondi per l’Agroalimentare” (SGFA) – società a responsabilità limitata
per la gestione del risparmio al 100% di proprietà dell’ISMEA – che gestisce:
– il Fondo per la riassicurazione dei rischi;
5
Il Loss Ratio è definito come il rapporto tra i reclami annuali delle compagnie assicurative e i premi pagati dagli assicurati.
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Figura 8 - Risultati del Fondo di Riassicurazione (periodo 2004-2006)
Fonte: www.ismea.it
– il Fondo Interbancario di Garanzia e la sezione speciale del Fondo Interbancario di Garanzia;
– il Fondo di Investimento nel capitale di rischio.
Alla SGFA sono state conferite, con decorrenza 1 gennaio 2005, le attività
di garanzia sul credito agrario attribuite all’ISMEA dal D.Lgs. 102/2004, che ha
previsto l’incorporazione della Sezione Speciale del Fondo Interbancario di Garanzia e dalla legge n. 311/2004, che stabilisce il subentro dell’ISMEA nei diritti e negli obblighi del Fondo.
L’ISMEA può quindi operare per migliorare la gestione finanziaria delle imprese agricole e favorirne un più facile accesso al credito agrario attraverso la
concessione di garanzie dirette (decreto del 14 febbraio 2006 del Ministero delle
Politiche Agricole e Forestali di concerto con il Ministro dell’Economia e delle
Finanze) e di garanzie sussidiarie (regolate dall’articolo 43 del decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385).
L’ISMEA può concedere garanzia diretta nel processo di erogazione del credito agrario in tre forme: fideiussione, controgaranzia6 e cogaranzia7 alle micro,
piccole e medie imprese, che soddisfano i requisiti contenuti nella definizione
6
7
La controgaranzia di ISMEA è sancita dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35 (articolo 10, comma 7), convertito
in Legge 14 maggio 2005, n. 80 ed il suo funzionamento è disciplinato dal Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze 24 marzo 2006.
I criteri e le modalità applicative per la prestazione di garanzie da parte dell’ISMEA sono stabiliti nel
D.M. 14 febbraio 2006 in base a quanto disposto dal comma 5 dell’art. 17.
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di imprenditore agricolo in conformità con la normativa comunitaria in materia
che rientrino tra i soggetti di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228. La garanzia può essere rilasciata nei limiti del 70% dell’importo del finanziamento, ma può essere elevata all’80% nel caso in cui il soggetto beneficiario sia un giovane agricoltore, secondo la definizione del regolamento (CE) 1257/1999 e degli articoli 1 e 2 della legge 15 dicembre 1998,
n. 441. In ogni caso, la garanzia rilasciata dalla SGFA per conto dell’ISMEA
non può superare il limite di 1 milione di euro nel caso di micro o piccole imprese e di 2 milioni di Euro nel caso di medie imprese.
I finanziamenti destinati alle attività agricole o ad attività connesse possono essere assistiti dalla garanzia diretta della SGFA nel caso in cui si tratti di
interventi finalizzati a:
– opere di miglioramento fondiario;
– attività di ricerca, sperimentazione, innovazione tecnologica e valorizzazione
commerciale dei prodotti;
– costruzione, acquisizione o miglioramento di beni immobili per lo svolgimento delle attività agricole o di quelle connesse;
– acquisto di nuove macchine e attrezzature per lo svolgimento delle attività
agricole o di quelle connesse;
– operazioni di ristrutturazione delle passività aziendali, con la trasformazione
in debito a lungo termine di esposizioni debitorie precedentemente contrattate a breve e a medio termine.
Per quanto attiene le modalità tecniche di concessione delle garanzie dirette,
ISMEA rilascia la propria fideiussione a fronte di finanziamenti bancari a medio e lungo termine in favore delle imprese del settore agricolo nel caso in cui
il beneficiario non disponga di garanzie tali da assistere integralmente il finanziamento richiesto. La fideiussione emessa dall’ISMEA – come qualsiasi fideiussione di natura bancaria – serve a integrare la capacità dei soggetti beneficiari di offrire garanzie alle banche finanziatrici.
L’ISMEA interviene attraverso il rilascio di controgaranzia e cogaranzia in
collaborazione con confidi agricoli e altri fondi di garanzia pubblici e privati,
aventi anche carattere regionale. Mentre la cogaranzia serve ad ampliare la capacità dei confidi agricoli di sostenere gli imprenditori agricoli nell’accesso al
credito, la controgaranzia protegge la banca dal rischio di inadempimento dei
confidi in qualità di garante principale, in quanto qualifica, per la quota controgarantita, la garanzia prestata dal confidi agricolo come garanzia dello Stato.
Ad oggi alcune Regioni hanno sottoscritto la convenzione con l’ISMEA per
cofinanziare il Fondo attivato a livello nazionale: Sardegna, Lombardia e Calabria. In questo caso sarà la SGFA a prestare garanzie e controgaranzie ai Consorzi fidi nelle suddette regioni.
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L’ISMEA può concedere una garanzia sussidiaria, che è rilasciata in modo
automatico dalla SGFA a fronte di operazioni di credito agrario nei confronti
sia di persone fisiche che giuridiche, ai sensi dell’art. 43 del TUB, in cui il finanziamento è finalizzato alle attività agricole e zootecniche nonché a quelle
connesse e collaterali. La garanzia sussidiaria può essere rilasciata unicamente
in presenza di una valida e congrua garanzia primaria acquisita dalla banca finanziatrice a fronte del finanziamento erogato. La garanzia sussidiaria ha carattere obbligatorio per le banche che eroghino i finanziamenti con caratteristiche
di garantibilità previste dalla normativa di riferimento. In particolare, sono assistiti da garanzia sussidiaria della SGFA i finanziamenti posti in essere dalle
banche di durata superiore a diciotto mesi per una percentuale di perdita rimborsabile pari al 75%, quelli di durata superiore a sessanta mesi destinate all’investimento per una percentuale di perdita rimborsabile pari al 75, e quelli di
durata fino a diciotto mesi in caso di un contributo pubblico in qualsiasi forma
per una percentuale di perdita rimborsabile pari al 55%. Specifiche deroghe all’obbligatorietà di segnalazione di finanziamenti ai fini dell’operatività della garanzia sussidiaria si segnalano in presenza di inesistenza o incapienza dei cespiti patrimoniali ipotecabili per finanziamenti di durata superiore ai cinque anni,
di sofferenze bancarie, o per i soggetti aventi a bilancio un rapporto debiti a
breve/ricavi lordi superiore al 60% o l’iscrizione a bilancio di perdite per un
triennio consecutivo.
Le imprese agricole che possono usufruire di una o entrambe le forme di garanzia sussidiaria e diretta possono godere di un miglioramento delle condizioni
sul prestito erogato dagli istituti di credito, con un conseguente abbassamento
del tasso d’interesse. In particolare, le garanzie sussidiarie – di tipo mutualistico
– servono a ripianare le perdite subite dalle banche finanziatrici al termine delle
procedure esecutive nei confronti dell’imprenditore mutuatario. Le garanzie dirette – costituite da fideiussioni, cogaranzie e controgaranzie – servono a integrare la capacità dei soggetti beneficiari di offrire garanzie alle banche finanziatrici e assolvono a un ruolo di protezione diretta della banca erogatrice il credito dal rischio di insolvenza bancaria (default) per la quota del finanziamento
garantita.
Tra le iniziative finalizzate al miglioramento dell’accesso al credito delle imprese agricole si nota quella proposta da Agripart, in collaborazione con Partecipare all’Agricoltura S.p.A e AGEA, che offre la possibilità agli agricoltori di
ottenere una anticipazione dei contributi PAC a un tasso del 3,7% su tutto il territorio nazionale. In seguito all’avvio della nuova politica comunitaria, con questa iniziativa si intende facilitare l’attuazione di politiche di riconversione delle
produzioni e i necessari investimenti a tale scopo.
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11.4. La responsabilità sociale di impresa nel mondo bancario: una duplice prospettiva
Il tema della responsabilità sociale d’impresa è oggetto di un crescente interesse nel settore bancario, come attestano le numerose iniziative di sensibilizzazione a opera dell’Associazione Bancaria Italiana, il moltiplicarsi di attività a
carattere etico-sociale, nonché di quelle volte ad aumentare la trasparenza informativa sui prodotti e servizi bancari, come ad esempio l’iniziativa di “Patti
Chiari”8. Il settore bancario sta attraversando negli ultimi anni una fase particolarmente delicata, segnata da un sostanziale cambiamento del rapporto che intercorre tra i comportamenti delle banche e l’atteggiamento dell’opinione pubblica. Il rapporto di natura fiduciaria tra banca e cliente si è progressivamente
incrinato: gli istituti di credito non hanno mai potuto vantarsi di una buona reputazione, in quanto percepiti dalla collettività in una qualche misura come un
soggetto con un forte potere economico e una elevata influenza nei settori strategici della società. Il verificarsi di alcuni scandali finanziari eclatanti, come i
casi Parmalat e Cirio, ha prodotto un’ulteriore frattura nella fiducia dei clienti
verso le banche e ha aumentato il livello di attenzione verso i comportamenti
degli istituti di credito. Data la centralità del ruolo dell’intermediazione creditizia nella società contemporanea e sul piano economico, i clienti delle banche e,
in generale, la collettività hanno iniziato a domandarsi non solo “quanto buoni”
siano i risultati economici realizzati da ciascun istituto bancario, ma anche come
questi sono ottenuti. Hanno cominciato a valutare il livello di trasparenza nella
conoscenza e nell’informazione sui prodotti e servizi bancari, in termini di costo, rischio e rendimento. La globalizzazione economico-finanziaria, che ha accresciuto in modo esponenziale l’interdipendenza dei mercati nazionali, impone
alle imprese anche del settore bancario di rispondere a giudizi di eticità della
propria condotta aziendale non solo a livello nazionale, ma anche a livello internazionale, come dimostrano i casi di Ennron o Parmalat. Nel contesto delineato, la RSI è stata progressivamente percepita come sempre più attraente dal
mondo bancario: si tratta di un orientamento strategico aziendale che pone al
centro i propri stakeholder, ovvero quei portatori di interesse, tra cui rientrano
clienti e dipendenti, al cui giudizio di valore ogni impresa, bancaria e non, è
soggetta. L’impresa socialmente responsabile genera valore con i propri
stakeholder, attraverso la relazione e l’apertura all’ascolto strutturato delle loro
esigenze, seguendo una condotta ispirata alla massima trasparenza. Nel medio
8
Patti chiari è un consorzio di 167 banche sul territorio italiano con l’obiettivo di fornire strumenti che
accrescano la comprensione e la comparabilità dei prodotti bancari, ampliando la libertà di scelta del
cliente nella piena trasparenza informativa.
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lungo periodo, tra i principali effetti positivi di strategie aziendali socialmente
responsabili si registra un aumento della fiducia, della credibilità e della reputazione dell’azienda che pratica RSI.
Come mette in luce Maurizio Sella, già Presidente dell’Associazione Bancaria Italiana (ABI), “il tema della responsabilità sociale di impresa costituisce una
forte leva di innovazione e un’opportunità per le banche e i loro diversi stakeholder, per le altre imprese, per il Paese, di condividere un progetto di “essere impresa” capace di promuovere uno sviluppo economico e sociale competitivo e
sostenibile”9. Il settore bancario ha già dimostrato la propria sensibilità verso i
temi socialmente responsabili: presso l’ABI è stato costituito un gruppo di lavoro interbancario dedicato alla RSI, attivo già da diversi anni, che ha portato
alla pubblicazione, nel 2005, di Linee Guida operative sulla responsabilità sociale d’impresa in banca. L’approccio alla RSI proposto da ABI richiede agli
istituti bancari il ripensamento delle proprie strategie aziendali per accogliere la
RSI come orientamento strategico di fondo e rimodulare gradualmente le politiche aziendali e le proprie decisioni secondo un approccio multistakeholder, al
fine di implementare in maniera graduale la propria strategia socialmente responsabile10.
L’Istituto per i Valori d’Impresa (ISVI) realizza a cadenza annuale un’analisi sulla diffusione della RSI in Italia, condotta secondo la modalità di interviste dirette a imprese che abbiano intrapreso percorsi di RSI e dedica una sezione intera del rapporto al sistema bancario. Nel Primo Rapporto sulla responsabilità sociale d’impresa in Italia (Molteni, 2006), otto banche, tra quelle
che dimostrano maggiore sensibilità alle tematiche socialmente responsabili,
sono state intervistate e la documentazione interna prodotta sulla RSI è stata studiata con attenzione. L’analisi – condotta a un anno dalla pubblicazione delle
Linee Guida sulla RSI nel settore bancario – pone in luce che l’adesione a un
orientamento strategico di RSI, espresso in termini di sensibilità per i temi socio-ambientali, viene esplicitato dalle banche principalmente attraverso stru-
9
Citazione tratta dall’introduzione alle Linee guida operative sulla responsabilità sociale di impresa per il
settore bancario (2005).
10 Le tappe principali del percorso di RSI di una banca individuate nelle Linee Guida ABI possono essere
sinteticamente indicate nel modo seguente:
– gestione strategica della banca orientata in senso multistakeholder;
– identificazione dei propri stakeholder chiave e delle loro aspettative legittime;
– identificazioni di soluzioni aziendali di bilanciamento degli interessi coinvolti dall’attività bancaria;
– analisi dei rischi e delle opportunità connesse al proprio caso aziendale;
– rivisitazione delle singole strategie e politiche in base alla propria mappa delle criticità e alle aree
sensibili nelle relazioni con gli stakeholder;
– elaborazione di indicatori specifici da abbinare agli indicatori di performance finanziaria più classica.
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menti quali lo statuto, la definizione della missione aziendale e il codice di comportamento, il bilancio sociale e l’adesione a dichiarazioni programmatiche di
organismi sopranazionali (quali, ad esempio, il Global Compact dell’ONU, il
World Business Council of Sustainable Development, o il Programma Green Light della Commissione europea). Gli strumenti socialmente responsabili maggiormente diffusi tra le banche intervistate sono il codice di comportamento e
il bilancio sociale; fondamentale è risultato il ruolo dell’ABI nello stimolare l’adozione di tali strumenti, con l’elaborazione di modelli di riferimento adottati
dall’80% delle banche intervistate e in generale a favore della diffusione di comportamenti socialmente responsabili presso gli istituti bancari. In termini di struttura organizzativa, non emerge un modello unico di banca socialmente responsabile: alcune non hanno ancora trovato un referente per i temi della RSI, altre
invece distinguono il livello di vertice nella gestione dell’orientamento strategico alla RSI con la nomina di un comitato etico e il livello operativo, a cui la
gestione della RSI è affidata; in questi casi si tratta di solito di un soggetto che
opera nelle funzioni più vicine alla RSI, come ad esempio le Risorse Umane,
l’ufficio Marketing o a quello di Audit.
Sul fronte della collocazione del risparmio aumenta il numero di banche con
un’offerta di fondi etici; aumentano, inoltre, le banche che scelgono di intraprendere il percorso della certificazione: tra quelle più diffuse si annoverano la
ISO 9000 per la qualità dei processi e dei prodotti, la EB Trust che attesta il
possesso dei requisiti che garantiscono credibilità, affidabilità e professionalità
per servizi di e-business, la ISO 14001 e la EMAS per quanto concerne le tematiche ambientali. I servizi di social banking e attività a favore del territorio
di riferimento costituiscono una fetta significativa delle azioni socialmente responsabili adottate dagli istituti di credito; si tratta di attività poste in essere a
favore di soggetti che di solito non avrebbero accesso ai servizi bancari perché
non in grado di offrire garanzie reali, personali proprie o di terzi o perché appartenenti a categorie svantaggiate e socialmente deboli. Tipicamente si tratta di
pacchetti di servizi bancari per immigrati per favorirne l’inclusione nel sistema
bancario ed economico oppure di attività di microcredito, di progetti per lo sviluppo del Mezzogiorno (ad esempio, nella forma del project financing, patti territoriali, contratti d’area, ecc.) o ancora linee di credito agevolate per coloro che
sono stati colpiti da calamità naturali.
Occorre sottolineare un aspetto di fondamentale importanza: la banca è
un’impresa che svolge una funzione economica, quella di intermediazione creditizia, che ha un ruolo cruciale nella società al fine di garantire lo sviluppo economico. Per questo si può affermare che la banca ha una “responsabilità sociale
al quadrato” come impresa e come impresa che svolge una specifica funzione
con grande impatto sulla società, che è riconosciuta e regolamentata dagli ordi-
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namenti giuridici in tutto il mondo per la tutela del risparmio. La RSI nel settore bancario può quindi essere letta in una duplice prospettiva: come RSI dell’impresa banca (oggetto di analisi sino ad ora) e come RSI di un’impresa che
finanzia altre imprese e come tale assolve un ruolo per la sostenibilità e lo sviluppo del sistema economico nazionale.
Orientare l’attività bancaria a comportamenti socialmente responsabili determina cambiamenti a molteplici livelli nella gestione della banca: la tipologia e
le modalità di gestione degli impieghi, dal portafoglio di finanziamenti alle imprese al risparmio gestito, possono mutare in modo profondo. Tra le politiche
socialmente responsabili in termini di risparmio gestito, le banche possono muoversi nella direzione di convogliare flussi di risparmio verso il risparmio gestito
ambientale, ossia in quelle imprese che hanno adottato in modo strutturato politiche di gestione dell’impatto ambientale e verso i fondi etici11; questi ultimi
hanno offerto performance non inferiori al rendimento medio di lungo periodo
dei mercati finanziari, attestando che investimenti che rispettano criteri etici
quali la scelta di non finanziare produttori di armi non penalizzano il rendimento. Si osservi che i fondi etici – che si erano diffusi inizialmente solo tra risparmiatori con una sensibilità etica – sono attualmente presenti anche nei portafogli degli investitori istituzionali, quali i fondi pensione, caratterizzati da una
bassa propensione speculativa e orientati a un orizzonte di medio lungo termine.
Gli intermediari finanziari assolvono al ruolo di convogliare i flussi di risparmio verso gli impieghi: è allora fondamentale che le banche – in un’ottica di responsabilità sociale – scelgano di incanalare direttamente o indirettamente i flussi
di risparmio verso impieghi più compatibili con la sostenibilità dello sviluppo.
Una delle dimensioni di maggiore importanza in cui la banca esercita il suo delicato ruolo di intermediazione creditizia consiste nelle scelte di finanziamento alle
imprese. La scelta di quali imprese finanziare, a quale costo e in quali modalità,
incide sulla capacità del tessuto economico di innovare e rispondere ai cambiamenti economici in modo efficace; influenza, inoltre, a livello di sistema il grado
complessivo di sviluppo che l’economia nazionale raggiunge, e conseguentemente, la sostenibilità economica nel suo complesso. Dalle banche e dal modo in
cui esercitano la propria attività di intermediazione creditizia dipende in modo cruciale la sostenibilità delle altre imprese e dello stesso sistema economico.
Una banca socialmente responsabile deve muoversi nella direzione di definire con trasparenza i criteri di selezione dei progetti da finanziare; ad esempio
dovrebbe scegliere di non finanziare progetti ad alto rischio ambientale12, ossia
11 Si veda Del Maso (2005) per un approfondimento sulla finanza etica e, in particolare, sui fondi etici.
12 Si osservi che una recente giurisprudenza statunitense e in alcuni Paesi dell’Europa del Nord riconosce la
responsabilità indiretta del finanziatore di progetti che hanno determinato un elevato danno ambientale.
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associati alla potenziale realizzazione di un elevato impatto ambientale negativo. Le banche socialmente responsabili possono arrivare a introdurre il criterio di sostenibilità nella selezione delle imprese da finanziare. Un’impresa che
adotta la responsabilità sociale come orientamento strategico di fondo è “intrinsecamente” sostenibile, ossia è un’impresa che adotta nelle sue procedure
decisionali un orizzonte di lungo periodo e prende le decisioni più opportune
tenendo conto degli interessi di tutti gli stakeholder aziendali. L’implementazione di strategie socialmente responsabili garantisce insieme alla sua sostenibilità quella dell’intera economia, se diffusa in modo sufficientemente ampio tra
gli attori del sistema economico-produttivo. Come auspica Sen (1991), le informazioni dei rapporti di RSI devono diventare criterio di scelta dei prodotti e servizi, degli investimenti, delle opportunità di lavoro di un’azienda piuttosto che
di un’altra, condizionando così in modo molto concreto la performance, anche
reddituale, dell’azienda.
Tuttavia, l’adozione su base sistematica del criterio di sostenibilità e dell’orientamento socialmente responsabile come parametri di valutazione della
scelta di finanziare i progetti di investimento di un’impresa – o, più in generale, come criterio di selezione degli impieghi – può essere decisa in modo credibile e fondato solo a condizione che la banca scelga di valutare la propria
condotta con eguale rigore. Significa, cioè, che la banca implementa politiche
socialmente responsabili, a seguito di una seria valutazione delle conseguenze
ambientali e sociali da esse derivanti. Significa, inoltre, che la banca provvede
all’autovalutazione tramite la redazione di un rapporto di sostenibilità che consenta al management aziendale di prendere coscienza delle proprie politiche e
dei loro effetti. La banca socialmente responsabile deve divenire una “casa di
vetro” (cfr. Vercelli, 2005): deve cioè dotarsi di un reporting strutturato di RSI,
in un dialogo continuo con gli stakeholder, ispirandosi alla massima trasparenza
informativa.
Avendo chiaro il quadro generale in cui una banca si orienta alla responsabilità sociale, è interessante investigare quali nuovi scenari possono aprirsi nel
rapporto banca-impresa agricola a seguito di un orientamento alla RSI. Se è vero
in generale che le banche assolvono al ruolo cruciale nel garantire la sostenibilità dello sviluppo, questa affermazione risulta essere ancora più fondata nel caso
del sistema agroalimentare, che vive una situazione di maggiore difficoltà nell’accesso alle risorse finanziarie necessarie ad alimentare la crescita e l’innovazione (come messo in luce nel paragrafo 1 del presente capitolo).
Il sistema agroalimentare riveste da sempre un ruolo centrale per la collettività in quanto risponde ai bisogni primari dell’individuo ed è decisivo per lo
sviluppo socio-economico di un territorio. Le imprese del sistema agroalimentare non solo devono fare i conti con le riforme delle politiche pubbliche a li-
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vello comunitario e nazionale, volte ad accrescere la competitività del sistema
nel suo complesso, ma sono chiamate a rispondere all’accresciuta consapevolezza dei consumatori, i quali hanno sviluppato negli ultimi anni una sempre
maggiore sensibilità verso tematiche quali la sicurezza alimentare, l’ambiente,
il benessere animale, la biodiversità e i valori etici del consumo. In un contesto
economico in cui, da un lato, le imprese agricole sono chiamate sempre più ad
interfacciarsi in modo positivo con le banche e, dall’altro, a reagire alle sfide
poste dal mercato, il tema della RSI può costituire un orientamento strategico
vincente nel sistema agroalimentare italiano, che consenta di fare un salto di
qualità decisivo per accrescerne la competitività e la capacità di innovazione.
Le imprese del settore si collocano come attori di vitale importanza per l’implementazione di politiche di sviluppo sostenibile, attraverso la realizzazione di
processi produttivi sostenibili sia dal punto di vista ambientale sia in termini di
qualità e sicurezza sia di sostenibilità sociale, attraverso la valorizzazione della
territorialità di cui i prodotti alimentari sono espressione in quanto prodotti locali, frutto delle tradizioni e dei saperi a esso legati. Le imprese agricole, inoltre, assolvono in modo determinante alla funzione di salvaguardia dell’ambiente
e di valorizzazione degli spazi rurali, attraverso le modalità della pluriattività e
della multifunzionalità che da sempre contraddistinguono l’operare degli agricoltori nello spazio economico e rurale. La RSI offre anche agli operatori del
sistema agricolo e agroalimentare la possibilità di “fare impresa” in modo differente, nel rispetto della vocazionalità della singola impresa e delle specificità
dei propri stakeholder, del particolare contesto economico-produttivo e periodo
storico in cui la singola impresa opera.
Una banca orientata alla responsabilità sociale può allora iniziare a prendere
in considerazione tali aspetti per “ripensare” il rapporto tra banca e impresa agricola; una delle direzioni in cui muoversi è ad esempio la valorizzazione di quelle
imprese che dimostrano una consapevolezza socio-ambientale e si fanno interpreti in modo strutturato di tale ruolo attraverso l’implementazione di politiche
sostenibili sotto il profilo socio-ambientale. Un’impresa agricola dotata di una
certificazione ambientale, operante nel biologico, orientata a soddisfare le nuove
esigenze di una clientela sensibile alle tematiche di tutela dell’ambiente e della
naturalità delle produzioni è in grado di presentare progetti a ridotto impatto
ambientale e una banca socialmente responsabile può valorizzare tali iniziative
garantendo l’accesso al credito necessario alla loro realizzazione.
Le banche socialmente responsabili dovrebbero tendere a realizzare una politica di investimenti proattivi, volti ad aprire nuovi mercati nati come risposta
ai nuovi bisogni di consumatori consapevoli o come nuove risposte a problemi
ambientali e sociali oppure consolidare i mercati tradizionali, operando allo
scopo di conferire un vantaggio competitivo a quelle imprese più sensibili a te-
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matiche etico-ambientali attraverso facilitazioni nell’accesso al credito, ad esempio in termini di migliori condizioni economiche.
Risulta quindi evidente che le banche hanno un grande impatto a livello macroeconomico in termini di sostenibilità dello sviluppo, sia a livello finanziario
che strutturale: in tutti i settori si ravvisa l’esigenza di finanziare investimenti
ambientali di valore enorme. L’implementazione di politiche sostenibili sotto il
profilo ambientale, sociale e di sistema richiede un massiccio e contestuale investimento nel capitale umano della forza lavoro, con il potenziamento delle
competenze e lo sviluppo di know how specialistici. Nel sistema agroalimentare investire sia in capitale umano che in tecnologia è divenuto centrale per la
sopravvivenza del sistema stesso di fronte alle spinte della competitività internazionale e alla progressiva trasformazione del sistema di aiuti pubblici riorientato ad offrire risorse secondo schemi di incentivazione premianti l’efficienza e l’innovazione in agricoltura. Un altro ambito di applicazione è rappresentato dalla tutela della territorialità dei prodotti agroalimentari: finanziare progetti di investimento di imprese agricole volte a potenziare il valore aggiunto
che ha l’essere espressione di una terra, dei saperi tradizionali consente di avere
effetti positivi in termini di stabilità occupazionale, di tutela degli spazi rurali,
con il contemporaneo accrescimento del valore turistico ed eno-gastronomico
della regione di riferimento.
Il sistema bancario può fare molto per aiutare le imprese del sistema agroalimentare a muoversi in questa direzione. Man mano che le stesse banche si
orientano alla RSI e introducono criteri di selezione dei progetti di investimento
basati sulla sostenibilità e sull’orientamento socialmente responsabile, possono
operare per promuovere percorsi di RSI per le imprese agricole e agroalimentari. Le possibili applicazioni sono molte e variegate.
Il sistema bancario, che si orienta alla RSI, non deve tuttavia dimenticarsi
che le imprese italiane sono in maggioranza di media e piccola dimensione e
che, quindi, non sono in grado di implementare politiche di responsabilità sociale con livelli di sofisticazione elevata, avvalendosi di strumenti di reporting
complessi e articolati che le mettano in grado di offrire stime precise ad esempio del rischio ambientale e in generale dell’impatto economico e sociale delle
proprie attività. La banca quindi, se vuole davvero muoversi in un’ottica di RSI,
deve compiere uno sforzo ulteriore: sviluppare modelli di scoring delle politiche aziendali che tengano in debito conto la piccola e media dimensione delle
aziende che presentano domanda di finanziamento attraverso il ricorso a modelli oggettivi (di natura territoriale, settoriale, organizzativa) al fine di valutare
in modo consono il reale orientamento alla RSI e la sostenibilità dei processi
produttivi di cui l’impresa chiede il finanziamento. In modo circolare, le piccole e medie imprese agricole devono strutturarsi al fine di accrescere la pro-
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pria capacità di utilizzo di strumenti contabili, amministrativi e organizzativi,
investendo in modo adeguato in capitale umano, per riuscire a fornire alle banche informazioni sempre più articolate e credibili, senza nascondersi dietro l’alibi della piccola e media dimensione.
11.5. Basilea II e il mondo agricolo
Le imprese agricole devono affrontare un’ulteriore sfida nel prossimo futuro
nel rapporto con gli istituti di credito: a partire dal primo gennaio 2007 il Nuovo
Accordo sul Capitale di Basilea, noto come Basilea II, è entrato in vigore in Italia, in conformità alla circolare della Banca d’Italia n. 263 del 27 dicembre
200613. Il nuovo Accordo, che sostituisce quello di Basilea I in vigore dal 1988,
introduce regole in merito ai requisiti patrimoniali delle banche, che dipendono
in misura crescente dal grado di rischiosità dei portafogli di esposizione creditizia e dai rischi operativi.
Uno dei punti principali dell’Accordo di Basilea II consiste nella valutazione
della rischiosità dei portafogli di impieghi bancari e, per quanto concerne i portafogli di esposizioni creditizie, nel diverso trattamento riconosciuto a imprese
di dimensione diversa, a cui sono associati requisiti patrimoniali differenti per
tipologia di impresa affidata. Il Nuovo Accordo sul capitale richiede di definire
classi di rating per le imprese di piccole dimensioni, che non sono quotate nel
mercato azionario. L’assegnazione a una classe di rating – che costituisce un
esercizio standard per imprese di dimensione elevata, con accesso libero al mercato dei capitali – rappresenta una novità per le piccole e medie imprese. Gli
Accordi di Basilea II distinguono, all’interno della classe di piccole e medie imprese, quelle corporate da quelle retail; in particolare un’impresa viene classificata come piccola e media impresa corporate nel caso di un livello annuale di
fatturato compreso tra 5 e 50 milioni di euro e un’esposizione bancaria superiore a 1 milione di euro. Un’impresa viene classificata come piccola e media
impresa retail in caso di un livello annuale di fatturato inferiore a 5 milioni di
euro e un’esposizione bancaria inferiore ad 1 milione di euro.
Basilea II impone requisiti patrimoniali più morbidi per portafogli di piccole
e medie imprese, tali per cui per ciascuna classe di rating i livelli di patrimonio di vigilanza da accantonare a protezione del rischio operativo sono inferiori
13 Secondo la circolare della Banca d’Italia n. 263, le banche possono optare per il rinvio di un ulteriore
anno, sino al 1° gennaio 2008, dell’applicazione della normativa di Basilea II, rimandando l’effettivo utilizzo di un modello interno di rating per le imprese nel processo di erogazione del credito.
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rispetto ad imprese corporate. Tale aspetto della normativa14 è di fondamentale
importanza per quelle economie, come quella italiana, in cui le imprese di piccola e media dimensione costituiscono, in ogni settore produttivo, l’ossatura
principale del tessuto produttivo e innovativo dell’economia nazionale, con contributi importanti al Prodotto Nazionale Lordo e alla sostenibilità dei livelli di
impiego. La maggior parte delle imprese italiane, e non solo nel settore agricolo, sono a conduzione familiare e di piccola dimensione, con un turnover inferiore ai 5 milioni di euro. La valutazione dell’impatto dell’accordo di Basilea
II per le piccole e medie imprese è stato di fondamentale importanza negli anni
precedenti l’approvazione e l’entrata in vigore dell’Accordo a causa del rischio
di razionamento del credito e quindi di rallentamento nei processi produttivi e
di innovazione, da ricondurre alla generale percezione che le piccole e medie
imprese sono caratterizzate da un livello di rischio più elevato15.
L’assegnazione di ciascuna impresa a classi di rating costituisce una valutazione della bontà del richiedente il prestito sulla base di criteri meno inclini a
caratteristiche idiosincratiche o soggettive rispetto a parametri non economici.
Tra le principali novità nelle procedure operative bancarie introdotte dall’accordo di Basilea II rientra l’obbligo di valutazione del merito creditizio
sulla base di criteri oggettivi, quantitativi e standardizzati, attraverso l’uso di
sistemi di rating interni, volti alla stima di parametri di rischiosità delle esposizioni creditizie, tra i quali la probabilità di default bancario e la perdita attesa in caso di insolvenza. Nelle pratiche di fido bancario, le imprese sono chiamate a presentare progetti di investimento che contengano informazioni trasparenti sulla profittabilità corrente e passata, sulla redditività attesa e sui costi dell’investimento per il quale si chiede il finanziamento bancario. Durante
il procedimento di concessione del credito, all’impresa viene conferito un rating, ossia una valutazione sulla bontà del suo merito creditizio, dal quale dipendono sia l’esito dell’istruttoria creditizia sia le condizioni economiche del
finanziamento, in caso di esito positivo. A seguito dell’entrata in vigore degli
Accordi di Basilea II diventa fondamentale per l’impresa – e quindi anche per
l’impresa agricola – sapersi interfacciare in modo nuovo con le banche, sapendo comunicare con trasparenza e chiarezza informazioni di natura patrimo-
14 Gli studi di valutazione dell’impatto di Basilea II (di cui l’ultimo è il QIS 3, Third Quantitative Impact
Study pubblicato il 5 maggio 2003) sono stati mirati alla calibrazione di eventuali problemi connessi con
i requisiti patrimoniali ed hanno portato a revisioni successive dell’Accordo, sino alla versione finale oggi
in vigore, che hanno teso ad ammorbire tali requisiti per le piccole e medie imprese.
15 Gli studi di valutazione preparatori alla versione finale dell’Accordo hanno teso ad accertare che i requisiti patrimoniali per portafogli di esposizioni creditizie di piccole e medie imprese non eccedano rispetto a quelli di Basilea I, allo scopo di evitare fenomeni diffusi di razionamento del credito.
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niale, reddituale e organizzative, nonché le valutazioni prospettiche sulle future
opportunità di investimento.
La valutazione dell’impatto di Basilea II è particolarmente importante per il
mondo agricolo, in cui la piccola e media dimensione costituisce un tratto caratterizzante della struttura produttivo-economica. Inoltre, la carenza di managerialità, il fenomeno diffuso della conduzione familiare e l’assenza di obblighi
legislativi sulla tenuta della contabilità per le piccole e medie imprese nel sistema agroalimentare costituiscono fattori di ostacolo ulteriore che le imprese
sono chiamate ad affrontare nel rapporto banca-impresa in seguito all’applicazione di Basilea II. Il nuovo rapporto banca-impresa improntato sulla valutazione della rischiosità attraverso il conferimento di un rating rischia, quindi, di
condizionare in misura elevata l’accesso al credito da parte di quegli imprenditori agricoli che non saranno in grado di acquisire in tempi rapidi una cultura
d’impresa diversa, passando da una conduzione a base familiare, poco orientata
all’utilizzo di strumenti contabili-amministrativi a una logica di programmazione
e trasparenza nella gestione, volta a difendere e accrescere la competitività
aziendale sui mercati nazionali e internazionali in una dimensione di reale affidabilità rispetto al mercato in generale. Diviene, quindi, sempre più urgente promuovere, sia a livello nazionale che su base regionale e locale, un’azione di sensibilizzazione e di informazione tra gli operatori del sistema agroalimentare da
parte di istituzioni e associazioni in modo da creare le condizioni più idonee per
supportare le imprese nel percorso della modernizzazione e della competitività
oltre che della qualità e dell’eccellenza.
Nel quadro delineato, ISMEA, assolve al ruolo fondamentale di supportare
le imprese agroalimentari attraverso l’erogazione di finanziamenti e la prestazione di garanzie fideiussorie, offre servizi finanziari a favore delle imprese del
settore attraverso una gamma di strumenti innovativi e conformi alla normativa
di Basilea II. Tali strumenti consentono di valutare la struttura finanziaria, il rischio di credito e la solvibilità, a partire dalla gestione economica dell’impresa
e di identificare le leve operative principali per accrescere la competitività delle
aziende agricole e agroalimentari. ISMEA ha sviluppato in partnership con
Moody’s KMV un sistema di rating specifico per il sistema agricolo e agroalimentare italiano, avente quale obiettivo la valutazione dell’affidabilità e della
solidità patrimoniale ed economica delle aziende del sistema. Tale sistema rappresenta anche un punto di riferimento per rafforzare il rapporto del sistema
agroalimentare con il mondo creditizio, allo scopo di aiutare le imprese del settore ad affrontare le novità introdotte da Basilea II, facilitandone l’accesso al
credito e, al contempo, il superamento delle difficoltà indotte dalla despecializzazione del credito bancario, che si è verificata a seguito della scomparsa delle
banche un tempo specializzate nell’assistere le imprese del settore agricolo. At-
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traverso il modello di rating ISMEA-Moody’s KMV si vuole, inoltre, offrire un
valido strumento agli istituti finanziari nei processi interni di valutazione del rischio alla luce del Nuovo Accordo di Basilea.
Tale modello di rating, costruito sulla base delle tecnologie moderne di stima
della probabilità di insolvenza e basato sui dati settoriali del patrimonio informativo dell’ISMEA, è stato elaborato per valutare l’affidabilità bancaria delle
aziende del settore tenendo conto della loro specificità all’interno del sistema
economico. In quest’ottica, sono stati sviluppati tre modelli di rating per la valutazione della probabilità di insolvenza delle aziende agricole, distinti per le seguenti tipologie aziendali:
– azienda di capitale con obbligo di bilancio;
– piccola e media azienda agricola senza obbligo di bilancio;
– cooperativa agricola.
Il modello di rating – basato su modelli statistici che usano dati sia qualitativi che quantitativi – è in grado di fornire una stima della probabilità di insolvenza, offrendo la possibilità di determinare la rischiosità delle imprese su base
mensile. Le principali informazioni utilizzate consistono in dati di natura finanziaria disponibili pubblicamente, il patrimonio informativo dell’ISMEA e variabili economiche volte a quantificare il grado di competitività, le caratteristiche
organizzativo-gestionali e di solidità strutturale dell’azienda. Accanto al modello
di rating, Moody’s KMV offre a ISMEA un insieme articolato di servizi volti a
consentire l’utilizzo del modello secondo ogni sua potenzialità in risposta alle
esigenze specifiche di ISMEA, tra cui uno strumento per la raccolta, l’analisi e
la conservazione dei dati finanziari, economici e di trend, per realizzare rating
aziendali specifici e un’attività di formazione volta a consentire un uso ottimale
della piattaforma tecnologica realizzata da Moody’s KMV.
Il modello di rating di ISMEA-Moody’s KMV non si rivolge in via esclusiva al mondo bancario e alle singole imprese agricole ma vede quali interlocutori sia le Regioni che gli Agrifidi, ossia i Consorzi di garanzia collettiva dei
fidi (Confidi) in agricoltura. Regioni molto attive, come la Sardegna e la Lombardia, stanno lavorando alla stima di un modello su base regionale, in grado di
cogliere le specificità dell’economia regionale.
L’introduzione dell’Accordo di Basilea II non deve tuttavia essere letto unicamente in chiave negativa, come possibile fonte di razionamento del credito
e/o di peggioramento delle condizioni economiche di finanziamento per le imprese piccole e medie nel mondo agricolo. Basilea II offre, al contrario, nel complesso quadro di mutamenti normativi ed economico-politici, una spinta ulteriore alla crescita delle imprese agricole sia in termini di professionalità manageriale sia di dimensione patrimoniale. Attraverso il monitoraggio del rischio di
default esercitato dal sistema bancario, le imprese sono chiamate ad autovalu-
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tarsi e a prestare molta attenzione al loro rating anche del sistema agroalimentare. Questo costituisce un nuovo incentivo, che potrà fungere da stimolo positivo per la crescita dell’intero sistema agroalimentare italiano: a seconda dell’esito del processo di valutazione, l’impresa può essere indotta ad avvertire l’esigenza di patrimonializzarsi per ottenere rating più favorevoli e accedere a condizioni migliori nel credito. In modo analogo, l’impresa agricola può essere stimolata a una maggiore trasparenza nella comunicazione dei propri risultati contabili, a una maggiore professionalità nella conduzione manageriale o a maggiori livelli di innovazione produttiva.
Il profondo mutamento in atto nello scenario finanziario e normativo ha effetti che si ripercuotono anche sui Confidi e sul loro ruolo nel prossimo futuro
– e non solo sulle singole imprese del sistema agroalimentare. La legge quadro
nazionale sui Confidi (n. 326/2003), assieme all’accordo di Basilea II e al
comma 881 della legge finanziaria 2007 rendono il ruolo degli Agrifidi ancora
più attivo e centrale, ma al tempo stesso richiedono di raggiungere livelli di efficienza operativa per questi organismi tali da comportare l’avvio di processi di
fusione e aggregazione. Molte Regioni cercano di favorire processi di aggregazione e di fusione tra i Confidi agricoli e, nel contempo, aumentare la loro capacità di garantire finanziamenti, allargare il campo delle attività al credito a
breve e a lungo termine e sviluppare servizi di assistenza e di consulenza economico- finanziaria verso le aziende socie. La necessità di rafforzare la rete di
garanzie a favore delle imprese agricole, favorendone l’accesso al mercato finanziario è stata avvertita da tutte le Regioni italiane che attraverso l’istituzione
di aiuti di stato ad hoc o la definizione dei piani operativi regionali e dei piani
di sviluppo regionale hanno individuato nei Confidi agricoli strumenti di supporto che si muovono in questa direzione. Attraverso gli Agrifidi le singole Regioni potranno attuare, con risorse aggiuntive proprie, azioni complementari o
integrative a quelle del PSR per migliorare il contesto economico agendo sulle
due leve strategiche:“garanzia” e “credito agevolato”.
11.6. Conclusioni
Il miglioramento delle condizioni di accesso al credito agrario, con il superamento di eventuali fenomeni di razionamento, costituisce la condizione necessaria per realizzare a livello di singola impresa e di sistema agroalimentare
gli investimenti necessari a tutelare e rafforzare i livelli di competitività e innovatività. Nel processo di istruttoria creditizia le banche possono richiedere alle
imprese agricole il rilascio di garanzie reali o personali, al fine di ridurre eventuali perdite in caso di insolvenza. La rimozione di barriere all’accesso al cre-
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dito agrario può essere realizzato attraverso il rafforzamento del ruolo dei Consorzi di garanzia collettiva dei fidi, ossia dei Confidi in agricoltura (chiamati
anche Agrifidi), che sono chiamati ad essere – se già non lo sono – i principali
interlocutori del sistema finanziario regionale. In Italia i Confidi hanno quale
funzione principale l’eliminazione degli impedimenti incontrati dalle imprese
nell’accesso al finanziamento bancario utilizzando come strumento il proprio
fondo rischi a garanzia delle imprese richiedenti il finanziamento. Alla luce della
riforma della politica agricola comunitaria, è infatti sempre più importante per
le imprese accedere al credito a condizioni sostenibili e far fronte autonomamente, con il proprio patrimonio, alle garanzie richieste dalle banche.
Il mondo bancario sta mostrando segnali di apertura verso le imprese agricole italiane, attraverso l’introduzione di strumenti finanziari in linea con l’Accordo di Basilea II; in particolare, alle imprese agricole a cui sono riconosciuti
gli aiuti della PAC in regime di pagamento unico sono concessi anticipi pluriennali fino a 5 anni di utili. Tali strumenti consentono agli agricoltori di ottenere i fondi liquidi necessari per lo svolgimento dell’attività produttiva e il riassesto di quella economico-finanziaria. Alternativamente, le imprese agricole possono chiedere mutui a copertura dei finanziamenti dei PSR, previo il rilascio di
garanzie, da parte del Fondo di Garanzia, per la concessione del credito.
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PARTE QUINTA
GLI
SVILUPPI FUTURI DELLA RESPONSABILITÀ SOCIALE
DI IMPRESA IN AGRICOLTURA LEGATI ALL’EVOLUZIONE
DEL SISTEMA ECONOMICO INTERNAZIONALE
CAPITOLO XII
RESPONSABILITÀ
UN’OPPORTUNITÀ
SOCIALE DI IMPRESA E GLOBALIZZAZIONE:
DA SFRUTTARE?
12.1. Premessa
Globalizzazione rappresenta uno dei termini più usati e abusati nel linguaggio
politico ed economico odierno, utilizzato sempre più spesso per indicare fenomeni
di varia natura (economici, sociali, politici, ecc.) che hanno in comune la caratteristica di una crescita progressiva e apparentemente inarrestabile delle relazioni a
livello planetario, resa possibile dall’incremento dei contatti e degli scambi tra le
diverse aree del pianeta e soprattutto dallo sviluppo di tecnologie che riducono,
fino ad annullarle, le distanze fisiche tra economie, società e culture.
Nel contesto internazionale l’impresa rappresenta ormai un attore la cui influenza è innegabile: in questo scenario caratterizzato da un panorama di opportunità e rischi a livello mondiale e da nuove tecnologie e maggiori possibilità di rapporti di scambio con l’estero, le imprese sono portate ad adottare scelte
di varia natura, che solitamente vengono identificate come attività di internazionalizzazione. In tal modo esse contribuiscono a loro volta ad alimentare ulteriormente i processi di globalizzazione. Il dato relativo ai fondi investiti dalle
imprese a livello internazionale è del resto largamente superiore a quello relativo ai fondi governativi destinati agli aiuti ai PVS.
12.2. La crescita della competizione e la globalizzazione
Sebbene il fenomeno non sia del tutto nuovo, è soprattutto a partire dalla
fine del XX secolo che, in particolare nel settore economico, si iniziano a spiegare i nuovi rapporti ed equilibri internazionali facendo ricorso alle teorie della
globalizzazione, riferendosi in particolare alla grande espansione subita dal mercato, inteso quale “spazio sociale dei rapporti di scambio”, che lo ha portato a
coincidere con i confini demografici e territoriali del mondo1.
1
La definizione del mercato quale “spazio sociale dei rapporti di scambio” fornita da Gallino (2000) lo
identifica sulla base di quattro dimensioni: quantità di individui coinvolti, ampiezza del territorio occupato, quantità di merci scambiate, tipologia delle merci. L’espansione avvenuta nel corso del Novecento,
e in particolare negli ultimi decenni, ha coinvolto tutte le quattro dimensioni e oggi è possibile affermare
che non esistono aree del pianeta che non subiscano l’influenza del mercato mondiale.
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In generale, la globalizzazione – intesa come il risultato del superamento di
barriere materiali e immateriali, dell’uniformarsi al modello economico che
tende ad affermare su scala planetaria l’organizzazione capitalistica, dell’applicazione della rivoluzione telematica a tutti gli aspetti della vita economica e sociale – ha comportato un rapido cambiamento nella struttura dei rapporti tra i
sistemi economici, tanto che può essere identificata come un fenomeno di integrazione e interdipendenza economica mondiale.
Tutto questo ha dato origine a un forte incremento delle opportunità economiche (maggiori investimenti, produzione, consumi, ecc.) ma allo stesso tempo
ha generato anche un inasprimento della concorrenza, maggiori ripercussioni dei
fenomeni più rilevanti a livello mondiale sui singoli sistemi economici, favorendo la concentrazione del potere nelle mani di poche lobby economiche. Questi effetti positivi e negativi vengono sottolineati, a seconda dei casi, dai sostenitori della globalizzazione o dai movimenti che l’avversano, i cosiddetti movimenti no-global e new-global2. In particolare, questi ultimi tendono a sottolineare gli effetti negativi che la globalizzazione ha generato sulle economie dei
Paesi in via di sviluppo (PVS), per i quali la globalizzazione si traduce soprattutto nella ricezione passiva della volontà delle economie del mondo ricco industrializzato e delle imprese multinazionali che ne rappresentano uno dei fenomeni più rilevanti.
Ma quali elementi hanno portato al decollo dell’Occidente come lo vediamo
oggi e hanno decretato la nascita della nuova società globalizzata? A partire dalla
fine del Settecento si è assistito a fenomeni qualitativamente diversi rispetto alle
precedenti fasi di crescita: mentre queste ultime presentavano un carattere spesso
più congiunturale che strutturale, essendo confinate in aree ristrette, nell’età contemporanea si assiste a un aumento della produttività che mette in moto un meccanismo di sviluppo autosostenuto che permette una più rapida accumulazione
del capitale. Il forte incremento della produttività durante la cosiddetta “rivoluzione industriale”, dovuto all’introduzione di innovazioni tecnologiche, di una
nuova organizzazione del lavoro, di novità nel sistema che regola i mercati, la
finanza, ecc., ha portato a una discontinuità che ha dato avvio a un processo ir-
2
I movimenti no-global o new-global sono costituiti da diverse sigle e organizzazioni che hanno in comune la critica mossa nei confronti dell’attuale assetto economico mondiale, in particolare riguardo agli
aspetti considerati più dannosi per i lavoratori in generale e per le popolazioni dei Paesi poveri in particolare. Tali movimenti (e lo stesso termine no-global con cui vengono etichettati) sono nati a partire dalla
seconda metà degli anni novanta del secolo scorso e hanno mosso i primi passi sviluppando le loro attività di protesta soprattutto nei confronti dei processi di globalizzazione dell’economia e dei fenomeni
connessi, nonché nei confronti dei Paesi più ricchi e delle più potenti istituzioni internazionali considerate come i tutori dell’attuale ordine mondiale.
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reversibile con una forte crescita della produzione industriale in tutti i Paesi sviluppati (Macry, 1992).
Successivamente, nel corso del Novecento, la fine degli anni ottanta ha visto il trionfo dell’economia capitalistica di mercato, considerata capace di assicurare benessere e libertà alle popolazioni e indicata come modello tendenziale
di sviluppo anche ai PVS. Malgrado ciò i Paesi sviluppati hanno spesso conservato sistemi di protezione sociale che, se da un lato possono essere considerati come ostacoli al libero funzionamento del mercato, dall’altro sono gli strumenti concepiti per ovviare ai problemi generati da quelli che Keynes considerava i due vizi del mondo economico in cui viveva, ovvero il fatto che il pieno
impiego non è assicurato e che la distribuzione della ricchezza non si realizza
in modo equo (Fitoussi, 1997). Invece, i PVS, che sono spinti ad adottare l’organizzazione capitalistica dell’economia3, non sono dotati degli stessi sistemi di
protezione sociale, fattore che aggrava i problemi causati dalle sperequazioni
generate dalla distribuzione diseguale della crescita economica.
Tale modello di sviluppo economico si è presto trasformato in un modello
culturale, una proposta di società con un insieme di valori, anche essa caratterizzata da forti capacità espansionistiche4. Tale trasformazione ha poi portato a
un ulteriore mutamento nello stesso capitalismo, passato da un sistema basato
sulla produzione di merci a uno basato sulla produzione di valori immateriali,
la cui ricchezza si concentra nelle aree ricche del pianeta5.
Da quanto detto fino a ora si potrebbe desumere soprattutto un aspetto di
ineluttabilità del processo di globalizzazione, che poi influenzerebbe l’attuale
conformazione dell’intera società contemporanea. A ben guardare, invece, l’espansione dei confini dei mercati rivela anche una partecipazione attiva delle
imprese, mosse dalla necessità di competere per sopravvivere in un sistema economico internazionale completamente differente dal passato.
Pertanto, una volta assodato cosa si intende per globalizzazione e come si è
giunti alla forma attuale del fenomeno, bisogna chiedersi cosa si intende per im-
3
4
5
Dopo il secondo conflitto mondiale l’adozione del capitalismo è stata indicata ai Paesi del terzo mondo
come la via per superare l’arretratezza economica e la povertà. Nello stesso tempo, proprio agli interessi
dei Paesi capitalisti e al mantenimento del loro alto tenore di vita e di consumi, viene imputata l’esistenza
e l’aggravarsi di questi fenomeni di povertà.
Del resto, tra le principali critiche mosse al capitalismo a partire già da Marx, c’era proprio la tendenza
degli Stati capitalisti ad espandersi nel resto del mondo con nuove forme di colonialismo o imperialismo.
Un’accurata analisi del fenomeno del “branding” (ovvero dell’importanza dei valori immateriali dell’impresa) e delle sue ripercussioni sulle dinamiche del lavoro è stata condotta da Naomi Klein (2001), che
afferma che negli ultimi anni lo sforzo crescente delle imprese concentrato sul marchio e sulla proposta
di valori immateriali a esso collegati ha dato un nuovo volto al capitalismo, ben peggiore del precedente,
in quanto le risorse monetarie richieste per sviluppare il branding verrebbero recuperate dislocando la
produzione nei Paesi poveri con manodopera sottopagata.
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presa globalizzata e quali sono le attività nell’ambito delle quali essa si trova
nella condizione di scegliere se comportarsi in maniera responsabile o no.
Un’impresa globalizzata è quella sensibile alle dinamiche internazionali, sia
dal punto di vista dei fattori produttivi che da quello dei mercati di sbocco dei
beni e servizi offerti. Ma quale tipo di attività imprenditoriale comporta questa
caratteristica per un’impresa? In realtà esistono numerose fattispecie che, per livelli crescenti di coinvolgimento nelle dinamiche internazionali, possono essere
considerate come identificative dell’impresa globalizzata.
Sicuramente un primo e più immediato esempio è quello che riguarda le imprese multinazionali, ovvero le imprese con impianti di produzione in diversi
Paesi, operative su più mercati e che si confrontano per loro stessa natura con
ambienti a volte molto differenti tra loro da un punto di vista economico, sociale
e culturale. Strettamente collegato a questo ambito è quello delle imprese che effettuano investimenti diretti esteri (IDE), ovvero quella forma di investimento
che assicura all’impresa investitrice un certo livello di controllo sulle attività oggetto dell’investimento. Ci sono poi le classiche attività di import-export, nonché gli accordi stipulati con altre imprese. Sempre più spesso si parla poi di delocalizzazione, intesa come l’insediamento della capacità produttiva all’estero,
che può limitarsi anche a singole fasi del processo di produzione, fenomeno che
va intensificandosi e consolidandosi. Infine, l’impresa che opera in un comparto
che dipende dal commercio internazionale di materie prime è anch’essa soggetta
a rischi e opportunità legati a dinamiche che travalicano i confini nazionali.
Dal momento che in numerosi casi le imprese sono spinte verso queste forme
di internazionalizzazione proprio per motivi legati all’abbattimento dei costi di
produzione6, è facile intuire come tutto ciò sia strettamente legato al tema della
responsabilità sociale. Una corsa senza regole verso bassi costi di produzione
non può che portare a una globalizzazione che produce danni maggiori rispetto
ai benefici auspicati.
12.3. L’internazionalizzazione tra principi etici universali e culture
locali
Il rispetto di standard etici internazionali nell’ambito dei processi di internazionalizzazione va considerato in relazione al dualismo esistente tra principi uni-
6
Sono molte le evidenze empiriche e le ricerche che attestano come le imprese delocalizzano prevalentemente nei Paesi con un basso livello di reddito, confermando un modello di decentramento produttivo
basato più sulla riduzione dei costi di produzione che su altri fattori, quali la volontà di presidiare i mercati di sbocco, ovviare alla presenza di barriere materiali o immateriali alle attività di import-export, ecc.
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versalmente applicabili e cultura e legislazione locale, nonché alla necessità per
l’azienda di gestire responsabilmente tutte le attività correlate al proprio business. Quest’ultimo tema viene identificato soprattutto nel controllo non solo dei
vantaggi ma anche dei rischi sociali e ambientali connessi alle attività della cosiddetta catena di fornitura che, soprattutto nel sistema agroalimentare, si caratterizza per una stretta interdipendenza tra le singole fasi della filiera di produzione (Valentini, 2004)7.
Esaminando le diverse forme che può assumere il processo di internazionalizzazione o di globalizzazione dell’attività imprenditoriale, partiamo innanzitutto dai fenomeni di delocalizzazione della produzione, come si diceva, sempre più diffusi anche tra le aziende italiane, che cercano di risolvere i problemi
legati alla competitività nel mercato mondiale dirigendosi verso Paesi nei quali
è possibile ridurre i costi di produzione dei prodotti finali o dei beni intermedi.
Il principale rischio che si corre in questi casi è quello di spostare i problemi
legati alla gestione dell’ambiente, dei diritti dei lavoratori, ecc., in luoghi diversi da quello di provenienza dell’impresa e in cui spesso le autorità pubbliche preferiscono perseguire la crescita economica anche a discapito della tutela
di aspetti ambientali e sociali. Infatti, solitamente tale movimento avviene in direzione dei PVS, nei quali sempre più spesso vengono delocalizzate le fasi della
produzione caratterizzate da una maggiore necessità di manodopera o a maggiore impatto ambientale.
Se questa scelta di spostare parte dell’attività di impresa all’estero è legata
ai differenti comportamenti che le imprese adottano nel loro Paese di origine e
a quelli richiesti dalle diverse condizioni che l’impresa trova all’estero, i danni
arrecati al sistema mondiale nel suo complesso possono avere un impatto ancora più negativo per la collettività in genere.
Nella maggioranza dei casi limitarsi al rispetto della normativa vigente nel
PVS che “ospita” l’attività delocalizzata non è di per sé sufficiente ad assicurare il rispetto di quei comportamenti che l’impresa adotterebbe sicuramente nel
suo Paese di provenienza perché obbligata per legge8 o perché si tratta di prin-
7
8
Come fa notare l’autore, il settore agroalimentare più di altri si caratterizza per un forte legame tra le varie fasi della filiera, dato che anche una sola falla nel sistema può portare alla compromissione dell’intero processo produttivo. Per approfondimenti sulla filiera agroalimentare si veda il capitolo II del presente lavoro.
Recentemente approvata nel Regno Unito, la nuova legge sulle imprese, il Companies Act 2006, ha dato
vita a un’ampia riforma del settore, comprendendo, tra le principali novità introdotte, molte fattispecie
che riguardano ruolo e compiti dell’alta dirigenza, tra i quali figura l’obbligo di redigere il rapporto annuale sulla responsabilità sociale. In particolare, l’articolo 417 stabilisce che, nel caso di aziende quotate,
il rapporto, al fine di rendere comprensibili sviluppo, performance e situazione degli affari dell’azienda,
deve contenere l’indicazione delle principali tendenze e dei fattori che ne influenzeranno gli sviluppi
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cipi etici ormai considerati imprescindibili. Si parla infatti spesso di pratiche di
dumping sociale o ambientale, proprio per identificare comportamenti scorretti
che puntano a rendere più competitiva una determinata area abbattendo i costi
di produzione attraverso il ricorso a normative che potremmo definire “molto
elastiche” riguardo al trattamento dei lavoratori, al rispetto dell’ambiente, ecc.9.
In questa corsa per accaparrarsi i migliori investitori, un PVS rischia non solo
di smantellare le poche tutele sociali e ambientali a salvaguardia delle proprie
risorse ma anche di peggiorare la situazione delle imprese locali, che possono
vedersi depauperate delle migliori risorse, attratte dalle imprese entranti, e di
fette di mercato domestico.
L’impresa che delocalizza all’estero si trova pertanto ad agire in un contesto
legale a volte totalmente nuovo, nel quale gli interessi degli stakeholder dovrebbero essere tutelati dall’ordinamento giuridico del Paese di approdo, spesso
non sufficiente, o da accordi e normative internazionali, spesso inesistenti o non
efficaci. Per sopperire a tale carenza istituzionale, dovrebbe subentrare la scelta
eticamente consapevole dell’azienda di orientare alla qualità sociale e ambientale il sistema di gestione dell’attività propria e dei suoi fornitori. A volte invece è proprio l’imprenditore che decide coscientemente di sfruttare la situazione e ricorrere a pratiche che nel suo Paese di origine sarebbero vietate dalla
legge o aggirando le stesse leggi del Paese ospitante. È proprio in queste situazioni che il quadro competitivo internazionale sempre più complesso e dinamico
e caratterizzato da queste forme di dumping, può permettere all’impresa responsabile di differenziarsi attraverso elementi qualificanti del suo comportamento10, senza trascurare anche i benefici che l’impresa stessa può ottenere lavorando in un contesto con più regole e tutele per tutti, maggiore coesione sociale e perciò minore rischio di instabilità.
futuri, nonché le informazioni sugli aspetti ambientali (incluso l’impatto del business sull’ambiente), sui
lavoratori impiegati nell’azienda e su aspetti sociali e legati alla comunità in cui essa opera. È stato inoltre inserito l’obbligo di includere le informazioni sugli aspetti che riguardano la catena di fornitura e il
rapporto dovrà inoltre indicare quali delle informazioni richieste non sono state incluse perché considerate sensibili dall’azienda. Infine, per far sì che i rapporti siano accurati e significativi, essi dovranno contenere analisi effettuate attraverso l’uso di indicatori che permettano la misurabilità delle performance finanziarie e, quando opportuno, di quelle legate ad aspetti ambientali e del lavoro.
9 Tali pratiche sono note anche nell’ambito della teoria economica come “race to bottom”, ovvero il progressivo smantellamento del sistema di standard e regole (nell’ambito delle politiche del welfare, delle
barriere al commercio, della tassazione, ecc.) finalizzato ad ottenere posizioni di vantaggio nella competizione tra Stati (ad esempio tra quelli che si contendono le scelte di insediamento dei gruppi multinazionali) e che porta a un incremento della povertà forzando anche gli altri concorrenti a eliminare i loro
sistemi di protezione al fine di sopravvivere.
10 Secondo Valentini (2004) le pratiche considerate dumping vanno rapportate alle condizioni prevalenti sia
a livello locale che internazionale e solo il contesto dell’impresa può relativizzare al suo interno le differenze tra comportamenti assunti in Paesi diversi.
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In altri casi le attività dell’impresa in campo internazionale sono tali da configurarla come impresa multinazionale con un suo maggiore coinvolgimento nell’ambiente in cui si trova a operare.
Tra le multinazionali è ormai prassi consolidata quella di dedicare uno spazio sempre più rilevante alla diffusione delle loro attività etiche11. Attaccate da
più parti e sempre più spesso coinvolte in scandali internazionali legati soprattutto allo sfruttamento del lavoro minorile o alle cattive condizioni di lavoro degli operai, le multinazionali si sono infatti avvicinate alla cultura della responsabilità sociale d’impresa molto prima rispetto alla sua diffusione in molti Paesi:
“lo zucchero delle Indie orientali non è il prodotto dello sfruttamento di schiavi”
era lo slogan utilizzato già nel XVIII secolo dalla Compagnia britannica delle
Indie orientali per battere la concorrenza nel commercio mondiale dello zucchero (Dufty, 2005)12. L’esigenza di coniugare spirito imprenditoriale, etica e sostenibilità ambientale è stata per alcune multinazionali quasi una scelta obbligata, in quanto alla globalizzazione e alle maggiori opportunità di profitto realizzabili si è associata una maggiore circolazione delle informazioni sui comportamenti tenuti dalle aziende anche in luoghi remoti. Ne consegue che per alcune di esse è stato forte il sospetto che le pratiche socialmente responsabili,
molto spesso consistenti piuttosto in attività filantropiche13 propagandate attraverso campagne pubblicitarie sui principali mezzi di comunicazione, fossero
solo un comportamento di facciata a beneficio dei consumatori e dei media,
mentre in realtà l’attività imprenditoriale non avesse assunto i connotati di responsabilità sociale che si contraddistinguono per le buone pratiche da adottare
nell’esercizio delle operazioni aziendali, a cominciare dal trattamento dei lavoratori e dalla trasparenza della catena produttiva, fino alla tutela dell’ambiente
e alla rintracciabilità del prodotto.
In questo ambito risulta impossibile non riferirsi anche ai problemi legati alla
gestione della catena di fornitura (o supply chain management), ovvero l’insieme
11 Un recente comunicato stampa di una delle maggiori multinazionali del settore alimentare, “The CocaCola Company”, informa gli stakeholder e il pubblico in generale delle attività ambientali intraprese dall’azienda al fine di proteggere le risorse del pianeta e, in particolare, per limitare lo spreco di acqua riducendone il consumo, riciclando l’acqua utilizzata e ricostituendo le risorse per le comunità interessate.
12 L’autore cita inoltre la dicitura riportata sulle zuccheriere in vendita nei magazzini di porcellane Henderson: «Utilizzando per 21 mesi lo zucchero delle Indie orientali invece di quello delle Indie occidentali, una famiglia che consumi 2 chili di zucchero la settimana salverà la vita a una creatura umana. Otto
di queste famiglie, in 19 anni e mezzo, eviteranno la schiavitù e l’uccisione di cento esseri» (cit., p. 34).
13 Un recente volume (Benioff, Adler, 2007) spiega come, in particolare negli USA, il volontariato sia ormai diventato parte integrante dell’attività di alcune aziende e propone un modello per altre imprese che
vogliano integrare la filantropia nell’esercizio della loro attività economica anche attraverso lo scambio
dei propri “segreti” di filantropia aziendale e per spiegare come un’azienda possa avviare un proprio progetto in questo ambito e ottenere risultati positivi.
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dei processi di gestione finalizzati a ottimizzare le varie fasi dell’attività aziendale che coinvolge un numero man mano crescente di fornitori e subfornitori
localizzati in aree diverse del pianeta. Sempre di più negli ultimi anni tale tentativo di ottimizzazione è coinciso con uno snellimento delle strutture produttive e con una crescita dell’outsourcing, in modo da concentrare l’impegno della
sede centrale sulle attività a maggiore valore aggiunto. In tal modo, si esternalizzano le fasi che hanno un minore valore aggiunto e che vedono nei PVS una
corsa al ribasso dei costi perseguita attraverso una minore tutela dei lavoratori
e dell’ambiente.
Si tratta di una questione di primaria importanza, dal momento che l’impresa
non può dirsi estranea ai comportamenti dei propri fornitori, quanto meno su un
piano etico, e sempre più spesso le imprese vengono considerate corresponsabili di eventuali violazioni e abusi compiuti in una delle fasi della catena di fornitura e sono oggetto di campagne di boicottaggio, ovvero l’interruzione organizzata e temporanea dell’acquisto di uno o più prodotti legati al marchio dell’impresa.
Esistono nel settore agricolo dei PVS dei comparti caratteristici che rappresentano il primo anello della filiera di produzione che poi giunge fino al prodotto finito venduto e consumato quasi esclusivamente nei Paesi ricchi. Basta
pensare alla produzione del cacao, tipica di Paesi tropicali, che è alla base dell’industria dolciaria del mondo occidentale. Sono numerosi i rapporti che raccontano di sfruttamento del lavoro, di lavoro minorile, di lavoratori tenuti al limite della schiavitù. In questi casi ci si domanda se l’impresa non sia obbligata
a chiedersi quali condizioni di lavoro debbano essere applicate dai propri fornitori di materie prime. E inoltre, anche da parte dei consumatori occidentali,
come è possibile ignorare che in un Paese africano il commercio del cacao è
alla base di traffici che alimentano la guerra?14.
In numerosi casi, inoltre, è la stessa impresa committente che assume comportamenti che inducono le violazioni e gli abusi, ad esempio imponendo condizioni contrattuali che prevedono clausole troppo stringenti su costi, tempi di
consegna, ordini di acquisto, ecc., e ciò porta i fornitori a ribassare ulteriormente
le tutele per i lavoratori.
Per rispondere a questi problemi è stato sviluppato un modello di conformità
(o compliance model) finalizzato a verificare la conformità dei fornitori e dei
subfornitori rispetto agli ordinamenti nazionali in tema di relazioni di lavoro e
al codice di condotta delle imprese. Il modello di conformità implica la definizione di un codice di condotta che espliciti gli standard minimi in materia di di-
14 Si veda in proposito il rapporto 2007 dell’ONG Global Witness dedicato alla Costa d’Avorio.
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ritti dei lavoratori che l’impresa si impegna a implementare all’interno della propria catena di fornitura, la predisposizione di programmi di risk assessment volti
a identificare i fornitori connotati da un più alto profilo di rischio, il monitoraggio del rispetto del codice da parte dei fornitori, la definizione di remediation plan e di azioni correttive che definiscono anche le sanzioni somministrate
in caso di mancato adeguamento e, infine, le attività di comunicazione e di reporting (Guidotti, 2006).
È interessante notare come proprio l’attività di comunicazione e reporting
nata dalla necessità di proteggere la reputazione e l’immagine dell’azienda ha
assunto un valore e una rilevanza crescente e ha spinto all’introduzione di criteri etici nella gestione della catena di fornitura15. Sono sempre più numerose le
aziende che pubblicano all’interno del sito istituzionale la propria politica in
tema di responsabilità sociale, di gestione dei rapporti con i fornitori, oltre che
il codice di condotta e le pratiche adottate16.
Sempre riguardo alle imprese multinazionali, un aspetto essenziale è il rapporto dell’impresa con il contesto che la ospita: se, da un lato, comportamenti
etici da parte dell’impresa possono avere effetti positivi anche sulle istituzioni
dei Paesi dove essa opera, dall’altro, l’incontro tra sistemi culturali differenti
può costituire un momento di arricchimento per la stessa impresa, un momento
per cercare punti di contatto e non di contrapposizione. Anche in tal modo si
può dare vita a quella che è stata definita “internazionalizzazione sostenibile”17.
Passando, infine, ad analizzare una delle forme più classiche di produzione
di reddito, ossia il commercio internazionale, da più parti è stato sottolineato il
legame positivo esistente tra l’apertura di un Paese al commercio internazionale
e la sua performance economica. Allo stesso tempo si pone però il tema dell’adozione di politiche che salvaguardino il Paese stesso dai possibili danni che
15 In tal senso al fine di aumentare la trasparenza delle comunicazioni aziendali verso gli stakeholder, Guidotti (2006) sottolinea come il punto di maggiore rilievo sia quello denominato “Supply Chain Disclosure”, ovvero la pubblicazione della lista completa dei propri fornitori, che permetterebbe anche una condivisione dell’attività di monitoraggio su tali fornitori da parte delle imprese di un medesimo settore industriale.
16 A titolo di esempio si può citare il caso di una delle principali aziende a livello mondiale per la produzione e commercializzazione di frutta e verdura, la Dole Food Company Inc., che ha ultimamente messo
on line una nuova sezione del sito aziendale finalizzato a porre in risalto gli sforzi compiuti dall’azienda
per garantire un alto livello di conformità alle normative e agli standard internazionali, in uno dei settori
interessato spesso da feroci critiche e contestazioni riguardo al trattamento degli operai che coltivano le
piantagioni nei PVS in cui nascono le produzioni che poi raggiungono i mercati dei Paesi sviluppati
(http://www.dole.com/corporateresponsibility).
17 Valentini (cit., p. 86) definisce il concetto di “internazionalizzazione sostenibile” come quello che «si traduce nella volontà di considerare le azioni di impegno sociale e ambientale d’impresa anche e soprattutto
quando si opera su mercati esteri, poiché gli stessi processi di internazionalizzazione sono fenomeni multidimensionali e complessi che coinvolgono e hanno impatti rilevanti su imprese e comunità».
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una liberalizzazione incontrollata dei flussi commerciali potrebbe provocare,
nonché il problema del controllo etico della catena di fornitura anche nelle attività di import-export.
I movimenti internazionali di merci sono in continua crescita, motivati da ragioni che spaziano dall’apertura di nuovi mercati di sbocco all’incremento delle
possibilità di trasporto delle merci stesse. L’attenzione alle pratiche socialmente
responsabili nell’ambito dei negoziati internazionali si muove su molteplici binari: da un lato, la necessità di salvaguardare la salubrità dei prodotti (in particolare quelli agroalimentari) quale interesse dei Paesi sviluppati, dall’altro, la
riduzione del divario esistente in termini di condizioni di lavoro e di legislazione ambientale e sociale tra il Nord e il Sud del pianeta quale interesse delle
comunità dei PVS ma anche degli stakeholder del mondo ricco e delle imprese
dei Paesi sviluppati che vogliono contrastare pratiche di dumping sociale e ambientale.
In tale ambito, in sede di Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO)
è stato proposto più volte l’inserimento obbligatorio della “clausola sociale” negli accordi internazionali, ovvero la possibilità di esportare beni solo se prodotti
nel rispetto dei diritti umani e delle normative dell’International Labour Organization.
Anche l’UE ha cercato più volte di inserire negli accordi del WTO disposizioni a difesa dei diritti fondamentali del lavoro quali il divieto dello sfruttamento del lavoro minorile. Risale a circa un decennio fa l’approvazione da parte
del Parlamento europeo di una “Risoluzione sulle delocalizzazioni e gli investimenti esteri diretti nei Paesi terzi” (Parlamento europeo, 1998) mentre è stata
recentemente approvata una nuova “Proposta di risoluzione sull’interesse europeo: riuscire nell’epoca della globalizzazione”18.
I PVS sono stati tra i principali oppositori della “clausola sociale”, temendo
l’applicazione di meccanismi sanzionatori in caso di mancato rispetto degli impegni assunti e ritenendo, invece, di aver diritto a poter utilizzare “vantaggi” in
termini di costi sociali e ambientali sfruttati in passato anche dai Paesi industrializzati.
18 La “Proposta di risoluzione sull’interesse europeo: riuscire nell’epoca della globalizzazione” presentata a
seguito di dichiarazioni del Consiglio e della Commissione a norma dell’articolo 103, paragrafo 2, del
regolamento 7.11.2007 – B6-0435/2007, sottolineando l’importanza crescente delle questioni normative
nel commercio internazionale, auspica una maggiore coerenza tra le norme e le pratiche dell’Unione europea e quelle dei principali partner commerciali, sottolineando che ciò non dovrebbe determinare un’armonizzazione al ribasso delle norme e dei regolamenti e che occorrerebbe aumentare gli sforzi per garantire il riconoscimento e l’attuazione di tali norme e pratiche da parte dei principali partner commerciali dell’UE, per non minare la fiducia dei cittadini per quanto riguarda la salute, la sicurezza e l’ambiente.
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Una risposta, seppure spesso considerata quasi di “nicchia”, è rappresentata dal commercio equo e solidale (o fair trade), una forma di attività commerciale nella quale l’obiettivo primario non è la massimizzazione del profitto, bensì la lotta allo sfruttamento e alla povertà legate a cause economiche,
politiche o sociali. Si tratta di una forma di commercio internazionale nella
quale si cerca di garantire ai produttori e ai lavoratori dei PVS un trattamento
economico e sociale equo e rispettoso, instaurando relazioni dirette con organizzazioni di piccoli produttori e sostenendo progetti di sviluppo locale da essi
stessi gestiti. Il commercio equo e solidale si sostanzia nell’acquisto diretto
presso piccoli produttori e nella vendita diretta ai consumatori soprattutto di
prodotti agroalimentari e artigianali, con l’obiettivo di eliminare svantaggi per
produttori e consumatori causati dall’organizzazione del commercio mondiale19. Nei mercati agroalimentari mondiali sono infatti presenti monopolisti
e cartelli di imprese multinazionali, che operano come intermediari tra i produttori dei PVS e i distributori nei Paesi di arrivo e che rappresentano l’anello
forte della catena che impone agli altri le proprie regole. Con il commercio
equo e solidale, invece, ai produttori viene garantito un reddito migliore e il
reinvestimento di parte degli utili in programmi di auto-sviluppo, mentre la
trasparenza che accompagna questa forma di organizzazione commerciale rappresenta la garanzia per il consumatore riguardo a tutta la catena di produzione, descrivendo anche la composizione delle varie voci che vanno a costituire il prezzo finale. Non va infine dimenticato che spesso al commercio equo
e solidale si accompagnano metodi di coltivazione biologici, che garantiscono
al consumatore finale l’acquisto di prodotti alimentari provenienti da agricoltura biologica a prezzi inferiori rispetto a quelli praticati nel commercio tradizionale.
Naturalmente al comportamento dell’impresa deve corrispondere la risposta
positiva da parte del consumatore. In questo senso di parla di consumo critico,
inteso come l’atteggiamento che consiste nel comprare un prodotto sulla base
non solo del prezzo e della qualità, ma anche di una serie di altri criteri, legati
alla storia del prodotto (dal consumo energetico della tecnologia impiegata alle
condizioni del lavoro nella catena produttiva, dalla possibilità di smaltimento
del prodotto e delle materie prime utilizzate per la sua produzione alla percen-
19 Sono oltre 20 le organizzazioni che garantiscono e certificano le pratiche di commercio equo e solidale
a livello mondiale e che fanno parte del coordinamento internazionale dei marchi di garanzia FLO (Fairtrade Labelling Organization International), il quale stabilisce i criteri del commercio equo e solidale e
ne controlla il rispetto da parte dei produttori e degli importatori. Secondo il rapporto 2007 di Fairtrade
Italia sono quasi 70 le aziende licenziatarie in Italia che acquistano materie provenienti da produttori certificati dal sistema FLO – Fairtrade (erano 2 nel 1994, anno di fondazione del marchio).
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tuale del prezzo che andrà al produttore). A ciò si aggiunge la valutazione della
condotta della casa produttrice in campo politico, economico e sociale: ad esempio, una multinazionale che controlla la casa di produzione che cos’altro produce? Sostiene governi repressivi? Gestisce i suoi interessi nel terzo mondo con
metodi speculativi? È coinvolta nell’industria degli armamenti o in scandali?
(Boscaro, 2002).
Va sottolineato tuttavia che alla base del consumo critico c’è la trasparenza
delle informazioni, mentre di solito si registra un’asimmetria informativa tra offerenti e consumatori, con l’offerta che esita a fornire molte informazioni poiché potrebbero alterare la disponibilità a pagare da parte della domanda.
Però, soprattutto nei confronti dei prodotti immessi sul mercato da grandi imprese multinazionali, sono in molti a chiedersi se in presenza di una corretta
informazione il consumatore si comporterebbe da “consumatore socialmente responsabile”20.
Uno studio della Stanford University21 ha esaminato i comportamenti di acquisto dei consumatori e la discrepanza degli stessi con i risultati di numerose
indagini, nelle quali i consumatori esprimono il desiderio di poter essere socialmente responsabili nei loro acquisti. Non sono pochi, infatti, i casi di campagne di vendita di prodotti socialmente responsabili che hanno visto un livello
di acquisti poco significativo, a fronte di numerose inchieste che descrivevano
una larga presenza di “consumismo etico”. Per fare in modo che il consumatore
si comporti in maniera responsabile, gli autori dello studio suggeriscono che si
debbano comprendere le motivazioni che sottostanno alle scelte di consumo e
si debba trasmettere ai consumatori la convinzione che la componente sociale è
funzionale allo stesso modo di tutti gli altri aspetti che essi valutano nel momento in cui compiono una scelta di acquisto.
20 Basta citare in tal senso il caso della multinazionale Nestlé, oggetto di boicottaggio a livello internazionale a causa delle campagne promozionali ingannevoli a favore del latte in polvere, in particolare nei
Paesi del Sud del Mondo.
21 Pubblicato in Stanford Social Innovation Review (2006, p. 32), lo studio, basandosi su esperimenti ed indagini condotte in diversi Paesi del mondo, parte proprio da alcune domande fondamentali quali: «esiste
il consumatore responsabile?» e se esiste: «perché non lo è anche nel momento dell’acquisto?»; al contrario, se non esiste: «perché i risultati delle indagini sono così diverse dai comportamenti di acquisto?».
Nel rispondere a tali domande, le aziende possono basarsi su quella che viene chiamata “L’Altra CSR”,
ovvero la CnSR (Consumer Social Responsibility), definibile come «la scelta consapevole e deliberata di
effettuare determinate scelte di consumo basate su convinzioni personali e morali». In tal modo sarebbe
possibile creare prodotti e servizi che anticipano la domanda, dato che nei comportamenti di acquisto risultano più rilevanti le conoscenze dei consumatori rispetto alle caratteristiche dei prodotti anziché quelle
sugli “attributi sociali” degli stessi.
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12.4. Una globalizzazione responsabile e sostenibile
Nel World Economic Outlook 2007 del Fondo Monetario Internazionale
(FMI, 2007, p. 31) si legge che «l’integrazione dell’economia mondiale attraverso la progressiva globalizzazione del commercio e della finanza ha raggiunto
livelli senza precedenti, sorpassando il picco registrato prima del primo conflitto
mondiale. Questa nuova ondata di globalizzazione sta avendo implicazioni di
ampia portata per il benessere economico dei cittadini in tutte le regioni e tra
tutte le classi di reddito ed è il tema di un attivo dibattito pubblico». Il FMI ha
rilevato come nell’ultimo ventennio la globalizzazione dell’economia abbia
comportato un incremento del reddito pro-capite per la maggior parte dei Paesi
mondiali, anche per le fasce più povere della popolazione.
Ma, a fronte di questo incremento di reddito generalizzato, a livello mondiale cresce anche la sperequazione tra ricchi e poveri. Allora, in presenza di un
effetto positivo della globalizzazione sui redditi, quale fattore ha contribuito a
far aumentare le disuguaglianze? Secondo il FMI i redditi dei ricchi crescono a
un tasso di crescita più rapido grazie al progresso tecnologico e all’incremento
della globalizzazione finanziaria. Infatti, distinguendo tra globalizzazione commerciale (intesa come incremento del commercio mondiale) e globalizzazione
finanziaria22, i dati dimostrano come la seconda, in particolare nella forma degli investimenti diretti esteri, insieme al progresso tecnologico, siano le cause
dell’aumento dei divari di reddito. Per compensare questo gap i governi dovrebbero impegnarsi in politiche che favoriscano l’innovazione e il progresso
tecnologico, nonché il miglioramento del cosiddetto capitale umano attraverso
l’incremento della formazione tra le fasce di reddito più basse.
Gli effetti asimmetrici della globalizzazione sui diversi Paesi, in genere avversi ai PVS, sono spiegati anche da altri (Romano, 2007) con la diversità nella
dotazione infrastrutturale e istituzionale, con la composizione del commercio internazionale in cui pesano sempre di più beni immateriali e ad alto valore aggiunto e con la liberalizzazione dei mercati dei capitali in presenza di valute
forti e deboli.
In particolare per il sistema agroalimentare dei PVS, gli effetti benefici della
globalizzazione sulla sicurezza alimentare e sulla redditività della produzione
agricola sarebbero limitati proprio dalla carenza di infrastrutture, dall’incremento degli scambi internazionali di beni dotati di un alto valore in termini di
reputazione e dal diverso ruolo assunto dall’agricoltura a livello mondiale, sem-
22 Il commercio mondiale è cresciuto di cinque volte in termini reali dal 1980 e il suo peso sul PIL mondiale è passato dal 36 al 55%. Le attività finanziarie hanno a loro volta più che raddoppiato il volume,
passando dal 58% del PIL mondiale del 1991 al 131% del 2004.
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pre più basata sullo sviluppo di nuovi prodotti, sull’uso di nuove tecnologie e
sulle produzioni di qualità. Non si può inoltre dimenticare il fatto che il settore
agricolo di molti Paesi poveri è ulteriormente danneggiato dall’arrivo di “scarti”
delle produzioni agricole provenienti dall’estero, che risultano molto più competitivi rispetto ai prodotti offerti dai contadini locali.
Altro aspetto che riguarda in particolare il settore agricolo e la tutela ambientale è legato al fatto che dal momento che alcuni PVS che aprono i loro
mercati possono essere disposti a incrementare a dismisura le loro produzioni
agricole per esportare maggiori quantità di prodotto, possono causare un degrado
irreversibile al loro territorio.
Ma le preoccupazioni per l’evoluzione del sistema economico mondiale non
sono limitate ai PVS. Da un sondaggio condotto in sei Paesi industrializzati
emerge l’insicurezza manifestata anche dai cittadini dei Paesi ricchi nei confronti di una globalizzazione non regolamentata, che possa acuire le disuguaglianze a discapito delle fasce più deboli23.
In questo contesto si inserisce il dibattito sulla global governance, ovvero la
necessità espressa da più parti di delineare un ordinamento costituito da un insieme di regole e introdotto in seguito ad accordi stipulati a livello internazionale, che agisca per regolamentare e indirizzare le questioni sempre più complesse che animano il mondo globalizzato, controllando in qualche misura i
flussi dell’economia mondiale. Ciò significa che la globalizzazione, a fronte
della spontaneità e della ineluttabilità delle sue conseguenze, dovrebbe essere
meglio orientata attraverso l’adozione di interventi correttivi che permettano di
indirizzare i vantaggi dello sviluppo economico in maniera equilibrata ed equa
verso tutte le aree del pianeta e tutte le fasce di reddito, in modo da evitare che
alla divisione dei benefici da essa apportati, e che possono essere individuati in
un’estensione dei diritti fondamentali e non solo (diritti civili, diritto alla salute,
alla difesa dell’ambiente, eliminazione della povertà, ecc.), partecipino solamente in pochi.
Se infatti l’economia corre spesso molto più velocemente rispetto alle necessarie risposte politiche e se, come si è detto, gli aspetti negativi sono quelli
che vengono più facilmente “esternalizzati” verso le economie più deboli, la
nuova governance dovrebbe ricercare nuovi obiettivi che al profitto e alla crescita economica associno la ricerca del bene comune attraverso un comportamento aziendale etico.
A questa sorta di governance di sistema si associa poi la governance azien23 Il sondaggio è stato realizzato dal Financial Times/Harris su un campione di 1.000 persone per ognuno
dei seguenti Paesi: USA, Regno Unito, Spagna, Francia, Germania e Italia. I dati sono stati pubblicati nel
luglio 2007.
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dale, che dovrebbe improntare eticamente tutte le azioni compiute nell’attività
d’impresa, a partire da quelle che sono sotto la responsabilità degli alti vertici
aziendali.
Nonostante l’interesse suscitato dal tema, stenta però a decollare la costruzione di un vero e proprio sistema di governance globale, anche a causa della
difficoltà di individuare e poi di condividere obiettivi concreti. Pertanto, nell’auspicio di arrivare a una global governance nell’ottica del rispetto degli standard internazionali sui diritti umani e sullo sviluppo sostenibile e della lotta alla
povertà e alla disuguaglianza, si assiste a una continua ricerca di un “grado accettabile” di disuguaglianza, che può essere regolamentata anche grazie alla
complessità e ricchezza istituzionale che caratterizza il sistema mondiale: diventa essenziale, in un mondo in cui non possono essere verificate tutte le condizioni di equilibrio dei mercati, che intervengano istituzioni e politiche capaci
di assicurare un grado minimo di coesione sociale.
In questa ottica si spiegano anche i continui tentativi di definire degli standard condivisi, da offrire alle imprese come quadro di riferimento per assumere
comportamenti responsabili e agli stakeholder come prova oggettiva delle pratiche responsabili adottate dall’impresa. Ma malgrado sia riconosciuta da molti
l’importanza di un sistema globale di valutazione dei comportamenti, l’individuazione di tali standard risulta essere un compito arduo dal momento che tutti
gli attori coinvolti, imprese e stakeholder, partono da culture e tradizioni spesso
molto distanti tra loro, il che rende difficile parlare di valori comuni24.
Tra le numerose iniziative a sostegno della ricerca di un quadro condiviso
per la dimensione internazionale della RSI, si possono citare inoltre la dichiarazione di principi tripartita dell’ILO concernente le imprese multinazionali e la
politica sociale, il contributo che le imprese possono dare al raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del millennio delle Nazioni Unite, l’elaborazione da
parte dell’ISO di una norma di orientamento sulla responsabilità sociale
ISO2600025, gli orientamenti dell’OCSE per le multinazionali, l’Alleanza europea per la RSI proposta in seno all’Unione europea e il patto mondiale delle
24 Heidi Von Weltzien Hoivik (2005) sottolinea questo aspetto partendo dalla differente evoluzione subita
dai diversi sistemi politici ed economici e dalle filosofie sociali e dai valori di fondo che vi corrispondono, per affermare che oggi una regola che in un sistema potrebbe essere considerata un’ingiusta imposizione in termini sociali e ambientali, in un altro sistema potrebbe essere già un obbligo di legge.
25 L’Organizzazione Internazionale sulla Standardizzazione (ISO) sta lavorando alla stesura delle linee guida
per il futuro standard ISO26000 sulla responsabilità sociale. Il lavoro di preparazione è portato avanti da
gruppi di lavoro di cui fanno parte tutti gli stakeholder: industria, autorità, consumatori, lavoratori, ONG,
ecc.; la leadership dei gruppi è suddivisa tra Paesi in via di sviluppo e Paesi sviluppati. La nuova norma,
che non conterrà requisiti che permettano il suo utilizzo a scopi certificativi, dovrebbe essere pronta per
il 2010.
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imprese (UN Global Compact), oltre che le numerose iniziative settoriali, che
offrono anche criteri di riferimento internazionali per il comportamento responsabile delle imprese26.
Sempre nell’ambito dell’Unione europea si cerca di elaborare una soluzione
che recepisca i principali strumenti internazionali sulla tutela dei diritti umani,
attivando nel contempo un meccanismo di controllo della loro applicazione anche nelle fasi di produzione e fornitura che le imprese europee attivano nei Paesi
terzi27.
Uno dei tentativi più autorevoli di dotare le imprese multinazionali di un riferimento in relazione alla salvaguardia dei diritti umani è sicuramente quello
elaborato in sede ONU con le “Norme delle Nazioni Unite sulla responsabilità
delle imprese transnazionali e altre imprese riguardo ai diritti umani”28, nate
proprio in considerazione della natura e delle dimensioni assunte dal fenomeno
della globalizzazione economica, dell’esplosione del commercio internazionale
e delle relazioni finanziarie, del crescente potere delle grandi imprese multinazionali e delle istituzioni finanziarie. Pur trattandosi di un documento giuridico
non vincolante per le imprese multinazionali, le norme sono chiaramente più autorevoli di singoli codici di condotta aziendali e costituiscono un passo in avanti
per la collettività mondiale, riunendo in un unico documento una lista di obblighi in materia di diritti umani unanimemente riconosciuti dalla comunità internazionale e contenuti in accordi, convenzioni, principi e dichiarazioni internazionali, regionali e multilaterali. Lo sforzo compiuto con l’elaborazione di queste Norme consiste proprio nel fatto che gli standard contenuti in questi documenti (a partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948) sono
stati messi in relazione con precise responsabilità delle imprese nel campo dei
diritti umani.
Peraltro, sono numerosi anche i sostenitori della necessità di non compromettere l’aspetto libero e volontaristico della RSI imponendo approcci, procedure e regole standardizzate, in quanto nel contesto globale le imprese si
26 Per un’analisi degli strumenti di RSI si veda nel testo il capitolo III, mentre per le iniziative in ambito
UE si veda il capitolo IX.
27 La Relazione del Parlamento europeo sulla responsabilità sociale delle imprese: un nuovo partenariato
(2006/2133(INI)) del 19 dicembre 2006 è stata elaborata dalla Commissione per l’occupazione e gli affari sociali del Parlamento europeo con relatore Richard Howitt in seguito alla decisione della Commissione europea di istituire un’alleanza europea in materia di responsabilità sociale delle imprese in collaborazione con diverse reti imprenditoriali. La relazione sulla responsabilità sociale delle imprese è stata
adottata in occasione della sessione plenaria del Parlamento europeo del marzo 2007.
28 Le norme sulle responsabilità delle società multinazionali e di altre imprese in relazione ai diritti umani
(UN Doc. E/CN.4/Sub.2/2003/38/Rev.2) sono state approvate il 13 agosto 2003 dalla Sotto-Commissione
delle Nazioni Unite sulla Promozione e Protezione dei Diritti Umani.
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trovano ad affrontare sfide che richiedono soluzioni pratiche e innovative e
inoltre non si può prescindere dal considerare gli aspetti di carattere locale:
governare la globalizzazione deve comportare politiche di sviluppo e politiche di impresa specifiche per il contesto in cui esse sono applicate e sufficientemente flessibili da evolvere con il cambiamento del contesto sociale ed
economico.
Ma oltre al livello istituzionale e politico, sono le stesse imprese private
che operano nel contesto internazionale che possono contribuire a dare un
nuovo volto alla globalizzazione. In particolare, imprese di ogni dimensione
possono contribuire a diffondere comportamenti che conciliano esigenze etiche in campo economico, sociale e ambientale, in cooperazione con i propri
partner. Anche la Commissione europea in diverse occasioni ha ribadito il suo
impegno nell’incoraggiare la soluzione delle questioni riguardanti la RSI nell’ambito di un dialogo bilaterale tra le parti (Commissione europea, 2006).
Inoltre, la cooperazione sta conquistando terreno come importante strategia di
business per affrontare i temi sociali e ambientali e le imprese uniscono le
loro forze non solo con i loro competitor ma anche con attivisti dei diritti
umani e della difesa dell’ambiente, prima considerati quasi come nemici, con
investitori socialmente responsabili, mondo accademico e organizzazioni governative29.
Anche nell’ambito del controllo etico delle catene di fornitura, a cui si è già
fatto cenno in precedenza, è la soluzione multistakeholder quella considerata più
efficace, dal momento che riunisce competenze e interessi differenti e a volte
apparentemente contrapposti – imprese, ONG, associazioni di categoria, rappresentanti dei lavoratori, autorità governative e locali, ecc. – e ciò rende anche
più credibile l’azione di controllo30.
Ad esempio, la World Cocoa Foundation, istituita nel 2000 per rafforzare
la partnership tra l’industria e i produttori di cacao, che ha posto in essere
numerose iniziative e interventi che mirano a educare i produttori di cacao
su pratiche di lavoro sicure e responsabili, formarli attraverso istruzioni sul
29 Sono numerose e riguardano sempre più settori queste “coalizioni”, basta citare, per il settore della Grande
Distribuzione Organizzata (GDO), il Programma Globale per il Rispetto Sociale sottoscritto all’inizio del
2007 tra i quattro maggiori rivenditori della GDO a livello mondiale e che, sebbene oggetto di critiche
per l’esclusione degli stakeholder dall’iniziativa, vuole sviluppare standard di lavoro basati su principi di
difesa della salute, divieto di lavoro minorile e discriminazioni sessuali e razziali, garanzia di giuste remunerazioni (GreenBiz.com).
30 Guidotti (2007) elenca le caratteristiche che rendono più efficace l’azione multistakeholder rispetto a una
stand alone adottata dall’impresa singola, che comprendono lo sviluppo di codici di condotta condivisi e
di linee guida per l’implementazione, la condivisione di best practices, programmi di formazione rivolti
ai fornitori, monitoraggio indipendente, progetti sperimentali, sistemi di reporting trasparenti e credibili.
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miglioramento delle tecniche agricole per coltivare responsabilmente il cacao, il tutto partendo dall’ascolto e dalla comprensione delle sfide che i produttori si trovano a dover affrontare. Inoltre per eliminare lo sfruttamento del
lavoro minorile la WCF nel 2001 ha siglato un protocollo con l’Associazione
dei Produttori di Cioccolato USA, che si basa sulle norme della Convenzione
ILO 18231.
12.5. Conclusioni
Muovendosi in un contesto internazionale in continuo mutamento, tra volontarietà della scelta di assumere un comportamento etico e norme cogenti che
obbligano al rispetto di determinati standard, l’impresa che sceglie la via dell’internazionalizzazione si trova davanti alla duplice necessità di adottare una
condotta che assicuri il mantenimento della sua competitività, fattore principale
che l’ha spinta ad allargare all’estero la sfera dei suoi interessi e di assumere
allo stesso tempo un comportamento che assicuri lo sviluppo e il mantenimento
di un giusto livello di salute e sicurezza sul luogo di lavoro e di tutela dell’ambiente, nonché il coinvolgimento delle comunità locali ospitanti, attraverso
la costruzione di un dialogo che le renda parte attiva nell’incremento del proprio benessere e sviluppo sociale.
La soluzione collaborativa per dare un “volto responsabile” alla globalizzazione sembra essere preferibile rispetto all’imposizione di una rigida regolamentazione anche riguardo all’autorità che dovrebbe imporre il rispetto di determinati standard a livello internazionale: è davvero possibile pensare a una
forma di regolazione sovranazionale diversa dall’auto-regolamentazione? Chi
avrebbe l’autorità di imporre tale regolazione e punire i comportamenti devianti,
in particolare quando tali azioni si compiono anche in aree remote del pianeta?
Non va peraltro dimenticato l’effetto reputazionale dell’adozione di pratiche
responsabili o comunque di comportamenti paragonabili a quelli adottati nel
Paese di provenienza con regole più stringenti e controlli più efficaci: tale fattore da un lato può influire positivamente sulla competitività dell’impresa migliorando i suoi rapporti con tutti gli stakeholder, dall’altro potrebbe risultare
più efficace rispetto all’imposizione di regole viste come un limite alla libertà
di impresa. Del resto un’azienda consapevole dell’influenza non solo economica
ma anche sociale, ambientale e culturale del suo operato non dovrebbe atten-
31 La Convenzione ILO 182 sulle peggiori forme di lavoro minorile è stata adottata il 17 giugno 1999 ed
è entrata in vigore il 19 novembre 2000.
222
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dere imposizioni legislative per adottare un comportamento etico ma dovrebbe
utilizzare un criterio di sostenibilità come linea guida per tutte le attività aziendali. In questo modo si può dar vita a un nuovo tipo di concorrenza basata sui
valori, che arricchisce il marketing mix dell’impresa di nuove variabili32 e fa sì
che tutti gli stakeholder privilegino le aziende che creano valore duraturo anche
nel lungo periodo.
32 Tra le nuove variabili del marketing mix (ovvero la combinazione di variabili controllabili che le imprese
impiegano per raggiungere i propri obiettivi) Valentini (cit., 2004) indica la salubrità per i prodotti alimentari, la provenienza da fonti rinnovabili per il comparto del legno, il comportamento futuro dei prodotti e dei loro componenti dal punto di vista del rilascio di sostanze nocive.
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ACRONIMI
ABI: Associazione bancaria italiana
AGEA: Agenzia per le erogazioni in agricoltura
APAT: Agenzia per l’ambiente e per i servizi tecnici
ARPA: Agenzia regionale protezione ambiente
BPA: Buona pratica agricola
BRC: British retail consortium
BSE: Bovine Spongiform Encephalopathy (Encefalopatia spongiforme bovina)
CE: Comunità europea
CEE: Comunità economica europea
CEFS: Comitato europeo dei produttori di zucchero
CELE: Centre for ethics law & economics
CENSIS: Centro studi investimenti sociali
CEP: Council of economical priorities
CEPAA: Council of economical priorities accreditation agency
CER: Commissione etica regionale
CERES: Coalition for environmentally responsible economics
CnSR: Consumer social responsibility
CSR: Corporate social responsibility
CSR-SC: Corporate social responsibility – Social Commitment
DOC: Denominazione di origine controllata
DOCG: Denominazione di origine controllata e garantita
DOP: Denominazione di origine protetta
ECRA: Ethical consumer research association
EEA: Agenzia europea per l’ambiente
EFFAT: Federazione europea dei sindacati del settore alimentare, agricolo e turistico
EFSA: Autorità europea per la sicurezza alimentare
EMAS: Eco-management and audit scheme
EPD: Dichiarazione ambientale di prodotto
FAO: Food and agriculture organization
FEASR: Fondo europeo per lo sviluppo rurale
FESR: Fondo europeo di sviluppo regionale
FIG: Fondo interbancario di garanzia
FLO: Fairtrade labelling organization
FMI: Fondo monetario internazionale
FSC: Forest stewardship council
FSE: Fondo sociale europeo
STUDI
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GAS: Gruppo di acquisto solidale
GBS: Gruppo di studio per la statuizione dei principi di redazione del Bilancio Sociale
GDO: Grande distribuzione organizzata
GHG: Gas effetto serra
GRI: Global reporting iniziative
GUCE: Gazzetta ufficiale delle comunità europee
HACCP: Hazard analysis critical control point
IDE: Investimenti diretti esteri
IFS: International food standard
IGP: Indicazione geografica protetta
ILO: International labour organization
INEA: Istituto nazionale di economia agraria
ISEA: Institute of social and ethical accountability
ISMEA: Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare
ISO: International standard organization
ISTAT: Istituto nazionale di statistica
ISVI: Istituto per i valori d’impresa
KPI: Key performance indicators
MIPAAF: Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali
OCM: Organizzazione comune di mercato
OCSE: Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico
OECD: Organization for economic co-operation and development
OGM: Organismo geneticamente modificato
OHSA: Occupational health and safety act
OIL: Organizzazione internazionale del lavoro
OMC: Organizzazione mondiale del commercio
ONG: Organizzazione non governativa
ONLUS: Organizzazione non lucrativa di utilità sociale
ONU: Organizzazione delle nazioni unite
PAA: Politica agroambientale
PAC: Politica agricola comune
PEFC: Programme for the endorsement of forest certification
PIL: Prodotto interno lordo
PMI: Piccole e medie imprese
POR: Programma operativo regionale
PSR: Piano di sviluppo rurale
PVS: Paesi in via di sviluppo
RSI: Responsabilità sociale di impresa
SA: Social accountability
SAI: Social accountability international
SGA: Sistema di gestione ambientale
SGFA: Società gestione fondi per l’agroalimentare
SGQ: Sistema per la gestione della qualità
STG: Specialità tradizionali garantite
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STUDI
&
RICERCHE INEA
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Finito di stampare nel mese di dicembre 2008 per conto dell’INEA - Roma
e delle Edizioni Scientifiche Italiane s.p.a. - Napoli
da Legatoria Industriale Mediterranea s.r.l. - Salerno