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ASSOCIAZIONE ARMA AERONAUTICA
SEZIONE CESMA
GIULIO DOUHET
FILIPPINE E IL CASO “HUKBALAHAP”
CESMA
18 SETTEMBRE 2014
GEN. ISP. BASILIO DI MARTINO
Subito dopo la conclusione della 2° Guerra Mondiale si sviluppò nelle Filippine un movimento insurrezionale che, sfruttando le particolari condizioni
politico-sociali, caratterizzate da forti diseguaglianze e da una organizzazione statale inefficiente, minacciò di distruggere la fragile democrazia nata con
la dichiarazione d’indipendenza del 4 luglio 1946. La campagna di contro-insurrezione che consentì al governo di Manila di riprendere il controllo della
situazione impedendo l’instaurazione di un regime comunista, rappresenta un caso di studio esemplare sia per gli errori della prima fase, sia per la
strategia utilizzata nella seconda, con l’efficace combinazione di riforme sociali e di misure militari, in larga parte riconducibili all’ambito delle
“Information Operations”.
CONDIZIONI AMBIENTALI
Le Filippine sono un arcipelago vulcanico di oltre 7.000 isole, delle quali meno di 500 misurano più di un chilometro quadrato ed ancor meno sono
quelle abitate, con una superficie totale di circa 300.000 km2 equivalente a quella dell’Italia. Il grosso della popolazione, che all’epoca era di circa 20
milioni, si concentra in una decina di isole delle quali le maggiori sono Luzon a nord e Mindanao a sud. Il clima è tropicale con una stagione secca che
dura da novembre a giugno ed una stagione delle piogge, da luglio a ottobre, nella quale le precipitazioni assumono caratteristiche torrenziali, anche
per effetto dei frequenti tifoni che investono l’arcipelago. Il terreno, prevalentemente montuoso, era in larga parte ricoperto da una fitta foresta, con la
notevole eccezione della regione pianeggiante al centro dell’isola di Luzon, densamente coltivata, che era ed è il cuore agricolo del paese. Abitate da
popolazioni maleo-polinesiane, con una significativa presenza cinese in Luzon e minoranze autoctone come i pigmei negritos, le Filippine erano entrate
nell’orbita della Spagna nel 1565, quando i primi esploratori vi avevano messo piede battezzandole nel nome del re Filippo II. La struttura sociale era
basata sul rapporto di tipo clientelarepaternalistico, datuk, tra i proprietari terrieri, datu, tali soprattutto per diritto ereditario, e i contadini, tau, che ne
lavoravano le terre come fittavoli. Era un rapporto assimilabile alla relazione esistente nell’Europa medievale tra il signore e i suoi vassalli, e lo status di
un datu era quindi determinato non tanto dalla produttività delle sue terre quanto dal numero dei tau che vi vivevano e lo servivano lealmente,
cedendogli il 50% di quanto producevano e venendone ripagati con una forma di protezione che si estendeva a tutte le possibili minacce al loro
benessere, dagli attacchi di pirati e predoni ai cattivi raccolti.
Questa organizzazione si adattava perfettamente al modello spagnolo delle encomienda che vide perciò i tau cambiare semplicemente padrone
lavorando per i coloni ai quali la corona di Madrid aveva trasferito la proprietà dei terreni più produttivi. I vecchi signori locali furono a loro volta
integrati nel sistema con il compito di gestire le piantagioni o come mezzadri, soprattutto nelle vaste proprietà della Chiesa.
Questa trasformazione portò peraltro un peggioramento delle condizioni di vita, conseguente anche al sistema di tassazione imposto dalla Spagna,
originando un malcontento che, già a partire dal 1583, sfociò di quando in quando in rivolte subito represse dalla piccola guarnigione a presidio delle
isole con il concorso di milizie locali reclutate sfruttando con abilità le rivalità esistenti tra le diverse componenti della popolazione filippina. Con
l’eccezione di Mindanao, dove l’elemento mussulmano predominante, i moros, oppose sempre una fiera resistenza al governo spagnolo e alla
penetrazione della Chiesa Cattolica, dando vita ad una incessante guerriglia, la situazione nell’arcipelago rimase relativamente stabile per oltre tre secoli
con il risultato che, nel bene e nel male, il dominio di Madrid lasciò una traccia profonda, facendo delle Filippine l’unico paese asiatico di cultura
occidentale e nel contempo autenticamente cattolico.
Sul finire del XIX secolo, quando si era ormai formata una borghesia locale costituita dagli amministratori delle proprietà terriere e da funzionari
dell’amministrazione coloniale, l’aspirazione a una maggiore partecipazione al governo e in prospettiva all’indipendenza, nonché la mancata attuazione
delle riforme promesse dalla Spagna, determinarono l’esplosione di una serie di moti insurrezionali che nel 1898, con lo scoppio della guerra ispano
- americana, da Luzon si diffusero alle altre isole. Nel 1899 la decisione degli Stati Uniti di assumere almeno temporaneamente, il controllo
dell’arcipelago, nel timore che il crollo del dominio spagnolo potesse lasciare spazio all’iniziativa di altre potenze, fu poi all’origine di un aspro conflitto
che nel 1902 vide la definitiva sconfitta degli insorti. Questa conclusione, che nel segnare la fine delle speranze di un’immediata indipendenza lasciò in
molti filippini una profonda amarezza, poneva Washington di fronte al non facile problema di una riforma agraria in grado di risolvere la complessa
situazione sociale. Il primo passo fu quello di confiscare e porre in vendita la maggior parte delle terre della Chiesa, un’opportunità di cui peraltro
poterono giovarsi in pochi. L’obiettivo di trasferirne la proprietà ai contadini non venne quindi raggiunto e, complice anche l’elevato livello di corruzione
dell’amministrazione locale, ad avvantaggiarsene furono i proprietari terrieri che poterono ampliare ulteriormente i loro latifondi. Da decenni ormai il
termine datuk, con ciò che implicava, non aveva più significato. Nel corso dell’Ottocento, con il passaggio da un’economia destinata a soddisfare in
primo luogo le esigenze del mercato interno ad un’economia di tipo capitalistico finalizzata all’esportazione ed al profitto, l’interesse dei proprietari per
le condizioni di vita dei contadini era progressivamente svanito.
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Si perpetuava così nel modo peggiore quel rapporto tra proprietari e fittavoli che da secoli caratterizzava la società filippina accentuando uno squilibrio
nella distribuzione della ricchezza ormai insostenibile. Mentre i primi diventavano sempre più ricchi, i secondi erano sempre più in difficoltà nel pagare
l’affitto e nel restituire i prestiti chiesti per acquistare attrezzi e sementi. Si calcola che nel 1941, alla vigilia dell’invasione giapponese, l’80% dei
contadini di Luzon fosse pesantemente indebitata con i proprietari dei terreni che lavoravano, e la mancanza di prospettive per il futuro alimentava
sfiducia e risentimento nei confronti di un governo che, affidato ad amministratori locali, era inefficiente e corrotto.
I successi ottenuti dagli Stati Uniti in altri campi, ad esempio nella lotta all’analfabetismo e nella sanità, e la promessa della piena indipendenza, che nel
1934 il congresso americano, con il Tydings-McDuffie Act, fissò per il 4 luglio 1946 stabilendo che nel frattempo il cosiddetto Philippine Commonwealth
avrebbe avuto piena autorità nella politica interna, potendo anche eleggere un proprio presidente e un proprio parlamento sul modello statunitense,
non potevano modificare una realtà sociale in cui trovò modo di radicarsi il partito comunista, o Partido Komunista ng Pilipinas (PKP), costituito nel
1930 sulla base del preesistente Partito del Lavoratori.
La corte suprema di Manila dichiarò illegale il PKP nel 1932, con l’accusa di operare nell’ombra per rovesciare il governo legittimo, ma questa mossa
ottenne solo l’effetto di aumentare il numero degli attacchi organizzati dai suoi militanti contro i proprietari terrieri e delle manifestazioni di protesta
ispirate dagli agitatori del partito. A nulla valse il tentativo di riforma agraria voluto dal presidente Manuel Quezon, fissando tra l’altro a un massimo
del 30% la percentuale del raccolto che poteva essere pretesa dal proprietario, anche perché queste misure rimasero per lo più inapplicate. Ancora
una volta i contadini non videro alcun miglioramento nella loro condizione e, nonostante il rispetto e la stima per la figura di Quezon, la sfiducia nei
confronti del governo aumentò ulteriormente.
L’invasione giapponese del dicembre 1941 creò le condizioni affinché un movimento ancora diviso e disorganizzato si trasformasse in un efficiente
esercito di guerriglieri. I combattenti comunisti avevano le loro basi operative nella regione del Monte Arayat e delle paludi di Candaba, a cavallo delle
provincie di Pampanga, Tarlac, Nueva Ecija e Bulacan, una vasta regione preminentemente agricola a nord di Manila, al centro dell’isola di Luzon,
delimitata a ovest dai Monti Zambales e ad est dalla Sierra Madre. Protetti dalla giungla e dalla palude gli uomini del PKP, che il 29 marzo 1942 diedero
vita ufficialmente all’Esercito Popolare Anti-Giapponese, Hukbo ng Bayan Laban sa Hapon, o più semplicemente Hukbalahap, furono inizialmente la
componente più attiva e numerosa della resistenza, arrivando a schierare tra il 1944 e il 1945 un massimo di 15.000 combattenti. Il movimento, che
non poteva contare sul supporto di cui godevano le formazioni guerrigliere facenti capo alle U.S. Army Forces Far East (USAFFE) ed era anzi spesso in
aperto contrasto con queste, sul finire del 1944, quando le sorti della guerra erano ormai segnate, si impegnò soprattutto a consolidare le sue posizioni
e ad espandere l’area sotto il suo controllo nelle regioni centro-meridionali di Luzon. A tal fine poteva valersi di un’organizzazione politico-militare
che, alle dipendenze di un quartier generale strutturato in cinque dipartimenti, addestramento, rifornimenti, informazione e propaganda, comunicazioni,
intelligence, vedeva cinque comandi regionali, agli ordini dei quali erano le pedine operative, “squadron”, della forza di un centinaio di uomini, e le
unità di difesa locale, composte da membri del partito, che ne concretizzavano la capillare presenza nei villaggi costituendone la struttura
amministrativa. Il presidente del comitato militare, che dal 1942 si identificava con il quartier generale, era Luis Taruc, uno dei fondatori del PKP, e il
carattere politico dell’organizzazione era sottolineato dalla presenza di commissari politici a tutti i livelli di comando, con competenza specifica
sull’indottrinamento e sugli affari civili. Le sue difficile relazioni con le formazioni di USAFFE, e la crescente diffidenza per un movimento che mirava
apertamente all’instaurazione di un regime comunista, portarono i comandi statunitensi a trattare gli Hukbalap come potenziali avversari e quando le
forze americane sbarcarono a Luzon il 9 gennaio 1945 la situazione era ormai compromessa. In un contesto che risentiva materialmente e moralmente
delle devastazioni della guerra, e nel quale ulteriori tensioni nascevano dall’esigenza di reintegrare nella struttura amministrativa i molti che avevano
collaborato con l’occupante, la decisione di Washington di mantenere la data del 4 luglio 1946 per l’indipendenza totale delle Filippine, senza però
promuovere nel frattempo alcun serio tentativo di riforma e limitandosi a ripristinare lo status quo ante, diede nuovo slancio al movimento, tanto più
che i programma di aiuti economici ed alimentari avviati nel 1945 naufragavano nella corruzione imperante.
Nonostante lo stesso generale Douglas MacArthur ne comprendesse le motivazioni, arrivando a dichiarare che lui stesso, se fosse stato filippino e
avesse dovuto lavorare nelle piantagioni sarebbe stato uno di loro, politici e diplomatici statunitensi non riuscirono a cogliere la natura del fenomeno
degli Hukbalahap, un movimento rivoluzionario di matrice comunista alimentato dalle condizioni socioeconomiche, e si ostinarono a trattarli come
banditi, sottovalutandone il supporto popolare. L’insensibilità dei decisori statunitensi fu sottolineata dal rifiuto del Congresso di estendere ai
combattenti filippini i benefici previsti per i reduci dal G.I. Bill, una decisione rivista soltanto in parte negli anni seguenti, e dall’approvazione nell’aprile
del 1946 del Philippine Trade Act che, nell’intento di facilitarne la ripresa economica, finiva nei fatti con il sancire l’egemonia di Washington nel paese,
fissando un tasso di cambio e un regime di libero commercio che favorivano gli interessi americani.
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Il PKP fu pronto a cogliere l’opportunità offerta da queste decisioni per ampliare la sua base di consenso, riuscendo poi a riunire sotto la sua guida le
principali organizzazioni sindacali ed a costituire così in vista delle elezioni generali del novembre 1946 un nuovo soggetto politico di sinistra, l’Alleanza
Democratica. Nella consapevolezza che ben difficilmente avrebbe potuto scalzare il Partido Nacionalista dal governo, il movimento mirava alla conquista
del potere con un processo articolato in tre fasi : rafforzare la presenza nelle istituzioni conquistando il supporto e la rappresentanza delle classi
lavoratrici, dei contadini e degli intellettuali, in un secondo tempo, a partire dal 1949, lanciare un’“offensiva politica” attaccando le istituzioni sia
dall’interno che dall’esterno, con l’entrata in campo della struttura militare degli Hukbalahap, per creare le premesse per il terzo tempo, l’insurrezione
popolare che nel 1952 avrebbe dovuto dare la spallata decisiva. In settembre una serie di dimostrazioni indussero l’allora presidente Sergio Osmena a
rilasciare Taruc e il suo vice, Casto Alejandrino, arrestati in aprile dagli statunitensi. I due, una volta liberi, si impegnarono a fondo nel preparare le
elezioni capitalizzando l’ansia di riforme sociali con slogan tanto semplici quanto efficaci come “terra per i senza terra” e “prosperità per le masse”. Data
l’impossibilità di un successo elettorale, l’Alleanza Democratica decise di sostenere la candidatura alla presidenza di Osmena, ritenuto più sensibile a
questi temi del rivale Manuel Roxas, capo del partito liberale nato da una scissione del partito nazionalista, e di presentare propri candidati per il
Congresso nelle province centrali di Luzon. Le elezioni, che si svolsero in un clima di violenza generalizzata e di assoluta illegalità, con centinaia di
morti, videro la vittoria di Roxas, ma l’Alleanza Democratica ebbe un ottimo risultato in “Huklandia”, aggiudicandosi sei seggi nelle province di Nueva
Ecija, Tarlac, Pampanga e Bulacan. Il primo passo sembrava fatto ma il nuovo presidente negò ai sei eletti, uno dei quali era Taruc, la possibilità di
prendere possesso dei loro seggi, dichiarando guerra aperta agli Hukbalahap. Nel maggio del 1947 Taruc tornò così tra i suoi uomini nella zona del
Monte Arayat e con il supporto degli abitanti dei villaggi riprese la lotta.
Nel 1947 gli Hukbalahap potevano schierare circa 15.000 combattenti, in buona parte veterani della lunga guerriglia contro i giapponesi, con
armamento leggero della più varia provenienza ma comunque idoneo per un tipo di lotta fatto di rapide incursioni seguite da altrettanto rapide ritirate,
imboscate, omicidi mirati e rapimenti. La mancanza di rifornimenti dall’esterno di armi e munizioni, le cui scorte potevano essere rimpinguate solo con
quanto veniva catturato o sottratto all’avversario o acquistato sul mercato nero, fu sin dall’inizio uno dei punti deboli del movimento la cui vera forza
era l’ampio sostegno di cui godeva tra le masse contadine ridotte alla disperazione. Si calcola che oltre ai combattenti vi fossero non meno di 250.000
sostenitori attivi, una parte dei quali, oltre a prendere all’occorrenza le armi, svolgeva compiti che si potrebbero definire di “combat support”, agendo
come esploratori e guide, mentre il grosso svolgeva funzioni di “service support”. Questa componente garantiva il supporto logistico con la raccolta di
fondi e viveri, dava rifugio ai combattenti e soprattutto forniva staffette e informatori, rappresentando gli occhi e gli orecchi dei guerriglieri. A questa
funzione di importanza vitale concorreva anche il terzo livello costituito dai semplici simpatizzanti, calcolati nel 1950 in oltre un milione e presenti non
solo nei distretti rurali ma anche nei quartieri più degradati di quella che una volta era “la perla dell’oriente”, Manila, una città distrutta dalla guerra e
oggetto di un troppo rapido processo di urbanizzazione.
A rafforzare la presa degli Hukbalahap sulla popolazione rurale, oltre a una propaganda che sfruttava in modo quanto mai efficace la situazione sociale,
la corruzione dilagante e l’illegalità diffusa basata su un’amministrazione arbitraria della giustizia, contribuiva il comportamento delle forze governative.
Nel 1946 queste ultime, malpagate, mal equipaggiate e mal guidate, contavano circa 37.000 uomini, dei quali ben 24.000 inquadrati nel Military Police
Corps (MPC) a cui spettò inizialmente il compito di reprimere l’insurrezione considerata un problema di ordine pubblico. Fin dai primi scontri, già nel
maggio del 1946, era emersa la tendenza di questi reparti a interpretare in modo statico il loro ruolo, rimanendo a presidio delle istallazioni e dei punti
sensibili, incluse le residenze dei maggiorenti locali, cedendo l’iniziativa all’avversario. Dopo una pausa che aveva coinciso con le elezioni inducendo in
gennaio il nuovo presidente a dichiarare che il problema era in via di soluzione, il fenomeno si ripresentò con un susseguirsi di incursioni e imboscate
nelle province centrali di Luzon che spinse Roxas a ordinare nel marzo del 1947 una massiccia operazione di rastrellamento nella zona del Monte
Arayat, con l’impiego di circa 2.000 uomini. L’operazione si protrasse per due settimane e si concluse con un sostanziale fallimento potendo segnare
all’attivo soltanto l’uccisione di 21 guerriglieri e la cattura di qualche piccolo deposito di riso e di armi.
Di contro, come era loro costume, le forze governative si comportarono in modo tale da alienarsi del tutto le simpatie degli abitanti dei villaggi, I loro
metodi brutali, che includevano la tortura come mezzo per ottenere informazioni e il saccheggio e la devastazione dei villaggi come strumento di
pressione finalizzato anche ad integrare le magre razioni, ricordavano i momenti più bui dell’occupazione giapponese, e la posizione degli Hukbalahap
ne uscì se possibile rafforzata.
Nel tentativo di renderne più efficace l’azione, all’inizio del 1948 Roxas riorganizzò l’MPC dando vita al Philippine Constabulary, (PC), riesumando con
mossa poco felice la denominazione delle forze di polizia che avevano operato affianco e per conto dei giapponesi, e affidandone per di più il comando
ad Alberto Ramos, un ufficiale che ne aveva fatto parte. Le operazioni di controguerriglia continuarono così a essere condotte con gli stessi metodi,
interrompendo la routine del compiti di presidio solo per azioni di rastrellamento condotte secondo la tattica “a zone” già utilizzata dagli occupanti, che
prevedeva l’isolamento ora di questo ora di quel villaggio per ispezionarne le abitazioni e interrogarne gli abitanti, considerati tutti potenzialmente ostili.
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Nell’aprile del 1948 l’improvvisa morte di Roxas per un attacco di cuore mentre era in visita alla base statunitense di Clark Field portò alla presidenza
Elpidio Quirino che tentò di assumere un atteggiamento più conciliante. Una tregua di quattro mesi avrebbe dovuto favorire un accordo, ma al tavolo
dei negoziati Taruc e Alejandrino si presentarono con richieste irricevibili e del resto i leader della rivolta ritenevano di non aver motivo per scendere a
patti. Nel corso del 1947 e dei primi mesi del 1948 l’insurrezione si era infatti estesa alle province di Zambales e Bataan e formazioni ribelli operavano
anche nel sud dell’isola di Luzon e alla periferia stessa di Manila.
Qualche problema c’era semmai all’interno del movimento per il contrasto tra la componente “politica” del PKP, di ispirazione marxistaleninista, e la
componente “militare” degli Hukbalahap, di ispirazione maoista. In futuro questi attriti, che animavano la discussione all’interno del Congresso
Nazionale e del Comitato Centrale, avrebbero indebolito la compattezza del movimento ma per il momento a prevalere era la seconda che aveva il
controllo dell’organo esecutivo, il Politburo. Non a caso nel novembre del 1948 la struttura militare assunse il nome di Esercito Popolare di Liberazione,
o Hukbong Magalapaya ng Bayan, a sottolinearne il collegamento ideale con la rivoluzione cinese. Per tutti gli insorti continuarono però ad essere gli
Hukbalahap, o “Huk”, con un ulteriore abbreviazione del complesso acronimo.
Il 28 novembre 1948, scaduta la tregua, le ostilità ripresero con gli insorti ormai convinti di poter passare alla fase due, caratterizzata da operazioni su
vasta scala, ma il 28 aprile 1949, quando la loro ascesa sembrava inarrestabile e le forze governative erano ovunque costrette sulla difensiva,
commisero un grave errore attaccando su una strada della Sierra Madre, nella provincia di Nueva Ecija, il convoglio con cui viaggiava Aurora Quezon,
vedova del primo presidente delle Filippine. La morte della signora Quezon, molto amata dal popolo e insieme al marito emblema della resistenza
contro l’invasore nipponico e dell’unità nazionale, fu un duro colpo per il prestigio del movimento. L’accaduto spinse poi Quirino ad ordinare nella Sierra
Madre un’altra massiccia operazione di rastrellamento con l’impiego di due battaglioni del PC e uno dell’esercito che si concluse l’11 settembre con
l’uccisione del comandante Alexander Viernes, alias Stalin, che aveva guidato l’attacco al convoglio. Nell’arco di cinque mesi i regolari avevano ucciso
146 insorti, ne avevano catturati 40 e, almeno temporaneamente, ne avevano scompaginato l’organizzazione nella regione della Sierra Madre. Conclusa
l’operazione le forze governative tornarono però al loro stato di apatia e inefficienza, senza fare alcun tentativo per accattivarsi le simpatie dei contadini
e abbandonandosi anzi a sanguinose rappresaglie caratterizzate anche da esecuzioni di massa.
Gli Hukbalahap erano ovunque ancora all’offensiva e giocarono un ruolo importante nelle elezioni presidenziali del novembre 1949, in cui il Politburo,
l’ufficio politico del movimento, decise di sostenere la candidatura di Quirino nei confronti del candidato del Partido Nacionalista, José Laurel, già a
capo del governo collaborazionista durante l’occupazione giapponese. In una tornata elettorale ancora una volta caratterizzata da violenze, intimidazioni
e brogli che segnò il punto più basso della storia della giovane democrazia, Quirino si aggiudicò la vittoria mentre gli attacchi della guerriglia si
intensificavano e nel gennaio del 1950 il Politburo avviva la fase due proclamando l’esistenza di una “situazione rivoluzionaria”, destinata a concludersi
con la presa del potere. Il presidente decise allora di abbandonare qualunque tentativo di conciliazione, di affidare la responsabilità primaria della
contro-insurrezione all’esercito e di rilanciare la strategia del terrore già utilizzata dal suo predecessore. Il risultato fu soltanto quello di rinsaldare il
supporto popolare per gli “Huk” che nel frattempo, coerentemente con le indicazioni dell’ufficio politico, affiancavano alle azioni terroristiche dirette
contro singoli individui, operazioni su vasta scala contro guarnigioni e presidi condotte da centinaia di guerriglieri e azioni di disturbo, come imboscate
e blocchi stradali, intese a ribadire il controllo del territorio. Le forze armate filippine, continuando a comportarsi più come un esercito di occupazione
che come un esercito nazionale, sembravano inesorabilmente destinate alla sconfitta. Alla mancanza di una strategia adeguata si accompagnava ai
livelli di comando inferiori una totale mancanza di iniziativa ed a peggiorare le cose era l’assenza di motivazioni nella truppa, che non capiva per chi o
per cosa stesse combattendo. Tutto questo si traduceva in un atteggiamento passivo, ben evidente nella tendenza delle pattuglie inviate in ricognizione
a rimanere nelle vicinanze degli accantonamenti ed a rientrare prima del tramonto.
In una situazione che sembrava senza speranza, l’autunno del 1950 portò una svolta inattesa, non tanto con l’arresto degli 11 membri del Politburo che
in ottobre fu un duro colpo per la struttura politica del movimento e fruttò la cattura di importanti documenti, quanto per la nomina di Ramon
Magsaysay a Segretario di Stato per la Difesa, chiamato da Quirino a sostituire Ruperto Kangleon, dimissionario per divergenze sulla strategia da
adottare.
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Figlio di un falegname della provincia di Zambales, Magsaysay lavorava come meccanico in una compagnia di trasporti pubblici di Manila quando lo
scoppio della guerra lo aveva spinto ad arruolarsi. Dopo la caduta della penisola di Bataan, ultimo bastione statunitense nell’arcipelago, si era dato alla
guerriglia con le formazioni di USAFFE facendosi rapidamente apprezzare fino ad avere il comando dei 10.000 uomini che operavano nella provincia di
Zambales, di cui era poi stato nominato governatore militare da MacArthur. In questo ruolo si era fatto notare per la dedizione al bene comune e per
l’integrità morale, tanto che nel 1946 Roxas gli aveva chiesto di candidarsi per un seggio al congresso nelle elezioni di novembre. Puntualmente eletto,
si era battuto per i diritti dei veterani ed era entrato a far parte della Commissione per la Difesa Nazionale di cui aveva assunto la presidenza dopo le
elezioni del 1949. Come tale aveva avviato la riorganizzazione dell’esercito in Battalion Combat Team (BCT), con una forza di 1.047 uomini l’uno,
equipaggiati in modo da enfatizzarne mobilità e flessibilità operativa, e si era adoperato affinché la responsabilità della lotta agli Hukbalahap passasse
dal Philipine Constabulary all’esercito. Nell’aprile del 1950 si era recato a Washington dove aveva ottenuto le risorse finanziarie necessarie per
aumentare la paga dei soldati, eliminando una delle cause di corruzione e delle motivazioni al saccheggio, ricompensare adeguatamente gli informatori
ed avviare una efficace campagna di “Cash for Guns”, nonché la promessa di ulteriori aiuti nell’ambito del Military Assistance Agreement del marzo
1947. Nell’occasione aveva conosciuto il tenente colonnello Edward G. Lansdale, un ufficiale dell’USAF specializzato in operazioni di guerra psicologica
destinato a diventare un suo amico personale e il suo più stretto consigliere nell’ambito del Joint US Military Advisory Group (JUSMAG), attivo a Manila
dal 1° novembre 1947.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che Magsaysay avesse sin dal primo momento le idee chiare sul da farsi, e in primo luogo sulla necessità di una profonda
riforma delle forze armate con l’obiettivo di eliminare corruzione e incompetenza, diffuse a tutti i livelli, e di modificarne l’immagine, avvicinandole alla
popolazione e inquadrandone l’azione in un programma di riforme sociali. Cominciò quindi con il dare l’esempio, rifiutando qualunque regalia e
comparendo sempre in pubblico in una tenuta molto semplice, camicia bianca senza cravatta e un paio di comodi pantaloni. Nel contempo rimosse il
capo di stato maggiore, generale Castaneda, e il capo della Philippine Constabulary, Alberto Ramos, trasferì ad incarichi operativi molti degli ufficiali che
prestavano servizio negli organi centrali e fece congedare all’istante quelli sui quali gravavano pesanti sospetti di corruzione e di pratiche illegali. Inoltre
selezionò personalmente i comandanti di battaglione, scegliendoli tra gli ufficiali più giovani e dinamici, e si preoccupò di assegnare ai reparti nuove
aree di operazione, facendoli ruotare periodicamente per allentare le tensioni che si erano create con le popolazioni ed evitare nel contempo
l’instaurarsi di relazioni locali troppo strette. In questo modo riuscì a scardinare il sistema di potere esistente all’interno della struttura ed a contrastare
l’influenza degli “Huk” su alcune delle sue componenti.
Dopo i primi venti giorni l’impatto della sua azione era già evidente, accentuata dall’abitudine, che avrebbe sempre mantenuto, di condurre continue e
frequenti ispezioni anche nei più remoti avamposti, punendo inesorabilmente i negligenti e gli inetti e premiando all’istante i meritevoli. Come ebbe a
dire uno dei comandanti di battaglione da lui selezionati, il colonnello Napoleon Valeriano del 7th BCT, nessun ufficiale, anche nel distaccamento più
isolato, poteva coricarsi la notte con la certezza di non essere svegliato all’alba da un furioso Magsaysay. La sua azione fu favorita anche dal fatto che a
Washington l’importanza del tema delle riforme e la natura politica del problema erano ormai ben chiare. Il 10 novembre 1950 il presidente Truman
approvò infatti il memorandum NSC 84/C con cui, sulla base di un puntuale apprezzamento della situazione, il National Security Council, pur
soffermandosi più sulla matrice comunista del movimento che sulle ragioni del suo successo, individuava la soluzione soprattutto in riforme di natura
politica e sociale. Tenuto conto del fallimento della politica del pugno di ferro del presidente Quezon nel 1939, della strategia dei rastrellamenti “a
zona” giapponesi tra il 1942 e il 1944 e dell’azione repressiva ordinata da Roxas nel 1946, il documento concludeva pragmaticamente : “To accomplish
objectives, the United States should … persuade the Philippine Government to effect political, financial, economic and agricultural reforms in order to
improve stability in the country”. In linea con questo obiettivo nel 1951, sulla scia del Mutual Defense Assistance Act approvato dal Congresso il 4 luglio
1951, il JUSMAG venne potenziato e posto non più alle dipendenze del comandante in capo del Pacifico ma dell’ambasciatore a Manila, pur rimanendo
un organismo militare. Inoltre tra il 1951 e il 1954 le Filippine ricevettero quasi 95 milioni di dollari in aiuti di carattere non militare, mentre tra il 1947
e il 1954 gli aiuti di carattere militare ammontarono a 87 milioni di dollari, coprendo buona parte delle spese necessarie a far fronte all’insurrezione e
permettendo così a Manila di spendere per la difesa meno del 50% del proprio bilancio.
IL RIFLUSSO DELLA MAREA (1951 - 1955)
Dal punto di vista della tattica Magsaysay, in un primo momento favorevole alle grandi operazioni di rastrellamento, cambiò rapidamente parere dopo
aver riflettuto sulla sua personale esperienza di guerrigliero. Si orientò così verso l’impiego di piccole unità costantemente impegnate in un
pattugliamento aggressivo, a saturazione d’area, con l’obiettivo di negare libertà di movimento agli “Huk” e di far sentire con continuità la presenza del
governo anche nei più remoti villaggi. Come ebbe a dire in una conferenza tenuta allo stato maggiore, gli ufficiali dovevano dimenticare quanto
avevano appreso nelle accademie e nelle scuole militari, in patria e negli Stati Uniti. L’avversario combatteva una guerra non convenzionale e doveva
essere combattuto con metodi altrettanto non convenzionali : “ciò che più mi ha ferito come guerrigliero, è ciò che noi faremo agli “Huk”.
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Per dare concretezza a questi piani, entro il 1951 Magsaysay portò a 26 i BCT distribuiti in quattro aree d’operazioni, schierandone ben 23 nelle due
aree che comprendevano le isole di Luzon, Mindoro e Palawan, e due soltanto nelle isole più meridionali, trattenendone uno a Manila come unità
addestrativa. Inoltre, con l’obiettivo di rilanciarne l’azione, il 23 dicembre 1950 i reparti del Philippine Constabulary vennero posti sotto il controllo
dell’esercito, affidando a questo la responsabilità dell’addestramento e dell’impiego e attribuendo a suoi ufficiali i posti di comando.
L’iniziativa, certo non accolta di buon grado dalla polizia, forte del suo status di più antica forza paramilitare delle Filippine nata nel 1901, era in linea
con la volontà di riforma di Magsaysay che incise rapidamente sulla struttura delle forze armate filippine. Alla fine del 1951 queste contavano in tutto
53.700 uomini e ai 26 BCT si affiancavano 91 compagnie della PC, oltre ad una serie di reparti di supporto, ad una piccola marina e a una piccola
aeronautica.
Sempre nel dicembre del 1950 Magsaysay lanciò un progetto di cooperazione civile-militare parte integrante della sua strategia di contro-insurrezione.
La conoscenza della realtà del mondo rurale gli aveva suggerito che, fino a quando i contadini non avessero sentito alcun obbligo nei confronti del
governo, i guerriglieri avrebbero potuto contare sulla loro complicità. Frutto di questa consapevolezza fu l’Economic Development Corps (EDCOR), una
iniziativa che, sotto la diretta responsabilità del capo di stato maggiore, vedeva i militari intervenire per migliorare le condizioni di vita degli abitanti dei
villaggi con la costruzione delle necessarie infrastrutture. Componente non secondaria del progetto era il ricollocamento in altre zone dell’arcipelago di
quei guerriglieri, o loro simpatizzanti, che decidevano di abbandonare la lotta e di accettare l’offerta del governo di stabilirsi su appezzamenti di terreno
destinati a diventare di loro proprietà. Era una misura che si inquadrava in un più vasto progetto di riforma agraria inteso a garantire ai contadini la
proprietà delle loro terre e ad annullare quindi la forza di uno dei messaggi più ossessivamente utilizzati dalla propaganda del PKP e degli Hukbalahap.
Per i guerriglieri “pentiti” nel febbraio del 1951 fu attivato nell’isola di Mindanao un primo sito di ricollocamento, per il quale l’esercito, utilizzando
risorse fornite dagli Stati Uniti, realizzò le necessarie opere civili, disboscò il terreno e aiutò i nuovi coloni a costruirsi una casa e ad avviare l’attività
agricola. A ogni famiglia veniva assegnato un appezzamento di dimensioni variabili dai 6 ai 10 ettari, erano garantiti i servizi di base, scuola, assistenza
sanitaria, elettricità, acqua potabile, ed era data la possibilità di ottenere a credito bestiame, sementi e attrezzi da lavoro, in cambio dell’impegno a non
vendere o subaffittare la terra.
Inizialmente accolto con qualche perplessità dalle autorità di Manila e dal presidente Quirino, il programma ebbe un grande successo, potendo sfruttare
l’attaccamento alla proprietà della terra tipico dei contadini filippini. Nel novembre del 1951 fu necessario aprire un secondo sito, sempre a Mindanao, e
nel 1954 altri due nella stessa Luzon, in aree lontane da “Huklandia”. Più di 1.200 famiglie e oltre 5.200 persone vennero trasferite in questi
insediamenti, e si valutò che non meno di 1.500 guerriglieri avessero rinunciato alla lotta per sfruttare l’opportunità offerta da EDCOR. Il programma
suscitò un forte interesse anche al di fuori delle Filippine e a studiarne contenuti e modalità furono soprattutto i britannici che in Malesia erano alle
prese con un problema analogo.
In tutto questo un ruolo importante lo ebbe Lansdale, al quale va riconosciuta la capacità di aver saputo svolgere la sua azione di consigliere in modo
quanto mai discreto, rimanendo costantemente in secondo piano e lasciando che fosse sempre Magsaysay ad occupare la scena. Lansdale trattò con i
filippini da pari a pari, lasciando che, una volta individuato il problema, sulla base dei suoi suggerimenti fossero loro stessi a definirne la soluzione e
soprattutto ad averne il merito. Inoltre, mentre altri membri del JUSMAG non andavano oltre le rituali riunioni presso il quartier generale, Lansdale
accompagnava Magsaysay nelle quotidiane visite in zona d’operazioni, aiutandolo ad individuare punti deboli e carenze del dispositivo schierato sul
terreno. Da queste visite, e dal continuo dialogo tra i due, scaturirono iniziative come l’EDCOR e misure che oggi definiremmo di “Information
Operations”, centrali nella strategia di contro-insurrezione non convenzionale di Magsaysay. Il pattugliamento aggressivo, condotto da piccole unità che
operavano spingendosi per più giorni lontano dalle loro basi e dalle vie di comunicazioni, ed anche le azioni intraprese a vantaggio delle popolazioni,
non potevano infatti prescindere sia da un’accurata attività di intelligence, sia dalla capacità di neutralizzare le analoghe potenzialità dell’avversario
riuscendo nel contempo ad indurlo in errore con l’obiettivo di disseminare nel suo campo sfiducia e insicurezza. In altre parole si trattava di attaccare il
“sistema” nemico agendo non tanto sulle unità operative quanto sulla rete che permetteva a queste di agire in modo coordinato, per minarne la
coerenza e disarticolarlo. Prima ancora di “trovarli e distruggerli” bisognava “ingannarli”, inducendoli in errore o accecando la loro struttura informativa
e di sicurezza”. Come è noto l’attività di “Military Deception” (MILDEC) è finalizzata a fornire all’avversario informazioni tali da spingerlo ad agire
secondo le nostre intenzioni. Questo tipo di misure fu largamente utilizzato dalle forze regolari filippine quando, sotto la direzione di Magsaysay,
cominciarono a prendere con decisione l’iniziativa dando ben presto risultati che le operazioni convenzionali non avevano mai dato. Oltre a ricorrere
all’aiuto di quelle minoranze che come i Negritos, i pigmei delle montagne, erano spesso maltrattate dagli “Huk”, traendone guide e informatori, i
plotoni esploratori dei BCT vennero addestrati ad agire come i loro avversari e addirittura a vestirsi ed a comportarsi come loro per sviluppare
un’attività di “controbanda”. Camuffati, penetravano in profondità in “Huklandia” e, dopo essersi finti per qualche tempo semplici contadini raccogliendo
così le informazioni necessarie, entravano improvvisamente in azione organizzando imboscate, sistemando trappole esplosive nei depositi di viveri e
munizioni, eliminando membri dell’organizzazione e, in un’ultima analisi, generando un diffuso stato di insicurezza e diffidenza che in qualche caso
portò gli insorti a giustiziare alcuni dei loro compagni e addirittura alcune formazioni Hukbalahap a scontrarsi tra loro, ritenendo di avere di fronte
soldati regolari sotto mentite spoglie.
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Un’altra tecnica di inganno era mirata a compromettere con false informazioni la posizione di simpatizzanti dal movimento, tanto da indurli a fornire
informazioni di ogni genere pur di avere la possibilità, per loro stessi e le loro famiglie, di essere trasferiti in un’altra isola nell’ambito del programma
EDCOR. Gli abitanti di un villaggio furono ad esempio convocati nella piazza dove il loro sindaco fu pubblicamente ringraziato per aver permesso
l’eliminazione di un corriere della guerriglia. La cosa non era vera ma il sindaco, noto simpatizzante degli Hukbalahap, nel timore di rappresaglie nella
notte si presentò al comando disposto a parlare pur di essere portato al sicuro con la famiglia.
L’esito delle operazioni di infiltrazione e di inganno non fu e non avrebbe potuto essere sempre clamoroso e non mancarono gli insuccessi, anche
perché non esisteva una specifica dottrina e molto era lasciato alla improvvisazione ma nel complesso raggiunsero lo scopo di minare le certezze dei
guerriglieri e di radicare l’idea di una onnipresenza delle forze governative, rovesciando la situazione preesistente. A questo risultato contribuirono
anche tattiche meno sofisticate come quella che vedeva le forze governative abbandonare al tramonto l’area pattugliata durante il giorno per tornarvi
improvvisamente nella notte, cogliendo di sorpresa gli “Huk” che avevano commesso l’imprudenza di farvi ritorno. I guerriglieri si videro costretti a
muoversi con circospezione, con un impatto negativo sulle caratteristiche di agilità e flessibilità della loro azione, e ad adottare misure di sicurezza più
stringenti, cosa che, insieme a crescenti difficoltà nel procurarsi viveri, li portò spesso ad agire brutalmente nei confronti della popolazione
alienandosene progressivamente le simpatie.
Se nei primi tre anni di campagna si può parlare di operazioni di guerra psicologica a senso unico, con gli Huk costantemente all’offensiva anche in
questo campo, dopo il 1950 le cose cambiarono e una campagna di PSYOP diretta sia verso la popolazione che verso i combattenti avversari e non
soltanto, come avevano fatto gli “Huk”, verso la prima, diede risultati significativi. Magsaysay, proponendo in diverse forme un unico messaggio, che
cioè il governo avrebbe combattuto senza quartiere chi avrebbe persistito nella lotta ma accolto e aiutato chi si fosse arreso, “All-out Force or All-out
Friendship”, sviluppò una strategia che considerava diversi “gruppi obiettivo”, i militanti comunisti, i semplici combattenti, i contadini che in qualche
modo li sostenevano, il grosso della popolazione, tendenzialmente neutrale, e le stesse forze armate. Dal momento che, almeno in parte, alcuni
“gruppi-obiettivo” erano mescolati fra loro, il messaggio doveva essere veicolato a tutti indistintamente e lo strumento più idoneo erano proprio le forze
armate, le quali dovevano però essere intrinsecamente convinte, a tutti i livelli, della sua utilità. A tal fine, nel mantenere nelle sue mani la direzione
strategica delle PSYOPs, Magsaysay istituì nel 1952 il Public Affairs Office (PAO) quale organo intermedio, a livello operativo, con il compito di
indirizzare l’azione a livello tattico dei team di 8-10 specialisti integrati nelle compagnie dei BCT e costituiti da dattilografi, disegnatori, e tecnici con una
dotazione di macchine da scrivere, ciclostili, sistemi di diffusione sonora, cineprese.
L’impiego di questi elementi era lasciato alla discrezione dei comandanti di compagnia in funzione della situazione locale e del loro estro creativo. Le
“Information Operations” nelle loro diverse forme risultarono determinanti per la sconfitta degli Hukbalahap.
Le misure di inganno permisero di sconvolgere l’organizzazione di supporto del movimento insurrezionale e ne minarono coesione e capacità operativa,
mentre le operazioni di guerra psicologica, insieme con una ben orchestrata campagna di interventi a favore degli abitanti delle zone rurali,
capovolgendo l’immagine negativa dei militari e quindi del governo, ne accelerarono la disgregazione, alienandogli il sostegno della popolazione e
inducendo un numero crescente di combattenti ad arrendersi. Nel 1954 l’operazione Thunder-Lightining, che con l’impiego di oltre 5.000 uomini fu
l’ultima vera operazione di rastrellamento, si sviluppò tra febbraio e settembre nell’area ad ovest del Monte Arayat annullando la residua capacità
operativa degli “Huk”. Il 17 maggio Luis Taruc venne catturato e le rese in massa che seguirono segnarono la fine del movimento. Anche le perdite in
combattimento erano state fortissime, in linea con un’altra parte del programma di Magsaysay : dare la caccia agli “Huk” e ucciderli. Tra il 1946 ed il
1954 sembra che siano stati uccisi circa 12.000 guerriglieri, mentre altri 4.000 furono catturati e 16.000 si arresero spontaneamente. Nel 1955 restava
alla macchia meno di un migliaio di uomini, con una base di simpatizzanti che dai 250.000 del 1949 era scesa a meno di 30.000, e un anno dopo
l’emergenza poteva dirsi conclusa. Ramon Magsaysay era stato nel frattempo eletto alla presidenza della repubblica nelle prime elezioni, quelle del
novembre del 1953, che si svolsero senza il consueto contorno di brogli e violenze. La sua popolarità era alle stelle e il programma di riforme da lui
fortemente voluto stava modificando radicalmente la società filippina. Purtroppo per la giovane repubblica e per il suo popolo sarebbe morto il 17
marzo 1957 nello schianto del C-47 presidenziale contro una montagna dell’isola di Cebu.
IL RUOLO DEL POTERE AEREO
Un embrione di forza aerea era stato creato il 2 gennaio 1935, nell’ambito delle forze paramilitari incaricate di mantenere l’ordine interno, con la
costituzione del Philippine Constabulary Air Corps (PCAC). Poco più di un anno dopo, il 23 dicembre del 1936, mentre sul Pacifico cominciavano a
soffiare venti di guerra, gli Stati Uniti autorizzarono la
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formazione di un esercito nazionale e il PCAC diventò il Philippine Army Air Corps (PAAC). Forte di circa 1.800 uomini con una dozzina di velivoli da
osservazione 0-1, altrettanti bombardieri B-10 e una mezza dozzina di caccia Boeing P-26, il PAAC operò alle dipendenze di USAFFE durante l’invasione
delle Filippine uscendo rapidamente di scena sopraffatto dalla superiorità numerica e tecnica dell’aviazione giapponese. Nel dopoguerra il corpo aereo
fu riattivato con la costituzione nel settembre del 1945 sull’aeroporto di Lipa, nella provincia di Batangas, del 1st Troop Carrier Squadron, montato su
C-47 con personale addestrato negli Stati Uniti. Il 1° luglio 1947, sulla scia dell’USAF, il corpo aereo dell’esercito si trasformò nella Philippine Air Force
(PAF), con lo status di forza armata indipendente. Nel frattempo, con l’insorgere dell’emergenza Hukbalahap, e a seguito dell’attivazione del JUSMAG,
ai C-47 cominciarono ad affiancarsi dei biposto North American T-6, velivoli da addestramento tuttofare, e dei bimotori Vultee BT-13, ma il ruolo
principale nell’attività di contro-insurrezione, lo ebbero i velivoli da collegamento Piper L-4 Grasshoppers e soprattutto Stinson L-5. Disponibili in gran
numero, queste semplici e robuste macchine furono impiegate in ogni sorta di ruolo, dal collegamento al trasporto leggero, dalla ricognizione alla
guerra psicologica, sfruttando il fatto che le loro caratteristiche di atterraggio e di decollo permettevano di operare a stretto contatto con i reparti
dell’esercito.
In un primo tempo non c’era alcuna forma strutturata di aerocooperazione e tutto dipendeva dai rapporti personali tra gli ufficiali e dalle relazioni che si
erano stabilite durante il tempo trascorso insieme all’Accademia Militare o all’università nei ranghi del Reserve Officer Training Corps. A partire dal 1950
le cose cambiarono e presso i comandi dell’esercito fino al livello di battaglione venne attivata una struttura di collegamento con personale della PAF
specificamente addestrato e dotato di mezzi di trasporto e di comunicazione. Ai comandi dei settori in cui erano divise le quattro aeree d’operazione, in
ciascuno dei quali operavano tre o più BCT, furono aggregati dei “gruppi di controllo aereo tattico”, mentre “squadre di controllo aereo tattico” erano
presenti presso i BCT, svolgendo all’occorrenza funzioni di Forward Air Controller. I battaglioni avevano poi una propria componente aerea, costituita da
qualche L-5, per soddisfare con immediatezza le esigenze di collegamento e soprattutto di ricognizione. A sottolineare l’importanza del contributo
dell’aeronautica in questo campo, e più in generale all’attività di “Information Operation”, quando i BCT ruotavano da un settore all’altro, secondo la
prassi instaurata da Magsaysay, lasciavano sul posto la loro aliquota di aviazione e la sezione intelligence, due elementi per i quali era considerata
assolutamente prioritaria una perfetta conoscenza dell’ambiente e della situazione locale.
Gli L-5 furono utilizzati anche per missioni di attacco al suolo, impiegando come proiettili di caduta bombe di mortaio da 50 mm, rappresentando l’unica
effettiva capacità in questo campo fino all’arrivo nel 1950 di 34 caccia F-51 Mustang, seguiti da altri 50 l’anno dopo.
L’impiego di questi velivoli fu comunque soggetto a forti restrizioni dal momento che gli “Huk” operavano anche in zone fittamente abitate nelle regioni
centrali e meridionali di Luzon e il governo intendeva evitare “danni collaterali” che avrebbero potuto rendere ancora più difficile il rapporto con le
popolazioni. Quando però i guerriglieri cominciarono ad essere progressivamente sospinti al fuori di queste aree verso il Monte Arayat, le paludi di
Candaba e la Sierra Madre le cose cambiarono, e nell’estate del 1952 gli F-51 appoggiarono per la prima volta in forze un’operazione di rastrellamento
proprio nei pressi del Monte Arayat, nel cuore di “Huklandia”.
Nel complesso le operazioni di attacco al suolo furono però una componente secondaria dello sforzo della PAF, sia per esplicita volontà del governo, sia
per la limitata disponibilità di velivoli, piloti e soprattutto munizionamento di caduta. Nell’ottica di Magsaysay questa fu probabilmente una fortuna,
come lo fu l’impossibilità degli Stati Uniti, all’epoca duramente impegnati in Corea, di sopperire a questa mancanza. Il contributo maggiore fu dunque
fornito dagli L-5, in grado tra l’altro di garantire la necessaria autonomia logistica ai reparti impegnati in missioni di pattugliamento a lungo raggio,
grazie alla possibilità di portare oltre due quintali di rifornimenti, rendendoli così indipendenti dalle basi e dalle vie di comunicazione, e nel contempo di
permettere ai comandanti, e soprattutto al Segretario di Stato per la Difesa, di essere continuamente e costantemente presenti nel teatro d’operazioni.
Le sue frequenti visite ai villaggi più remoti davano per la prima volta ai contadini la sensazione che il governo si preoccupasse di loro, ed essendo di
solito seguite da misure immediate per la soluzione di specifici problemi locali, non ultimi quelli derivanti dalle cause in corso con i proprietari terrieri,
furono determinanti ai fini del processo di pacificazione.
ALCUNE CONSIDERAZIONI
Se la campagna di contro-insurrezione condotta dalle forze armate filippine contro il movimento di ispirazione comunista degli Hukbalahap può essere
senz’altro interpretata come una campagna di “Information Operations”, il ruolo del potere aereo deve essere valutato più in funzione dei suoi effetti
psicologici che in termini di potenza di fuoco. Il successo della campagna fu il risultato dell’integrazione di misure di carattere civile e militare in un
piano d’azione finalizzato in primo luogo ad allontanare la popolazione dai guerriglieri e in secondo luogo ad annullarne le capacità operative. In questo
contesto, se le missioni di ricognizione armata e di attacco al suolo valsero a limitare la capacità di movimento degli “Huk” e a impedire che si
raggruppassero in grosse formazioni, l’ossessiva presenza degli L-5 e le azioni di guerra psicologica opportunamente mirate valsero a minarne il morale.
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Le lezioni che si possono trarre da quel conflitto lontano nel tempo e nello spazio, sono innanzitutto relative alla necessità di impiegare in modo
integrato tutti gli strumenti, civili e militari, a disposizione dell’autorità nazionale. Il secondo insegnamento scaturisce proprio da questo aggettivo,
“nazionale”. Una campagna di contro - insurrezione può avvalersi del supporto di forze esterne ma deve essere condotta primariamente da forze locali,
allo scopo di non mettere a disposizione degli insorti un’altra potente arma, quella del sentimento patriottico. Se questo è possibile o meno dipende
dalla situazione contingente ma è comunque un fatto che il fattore patriottico e quello religioso, là dove entrano in gioco, rendono molto più difficile il
compito della contro-insurrezione. In ogni caso, ed è questa la terza lezione, è fondamentale la presenza di una leadership ispirata, in grado di dare
una scossa all’ambiente e di lasciar intravvedere la possibilità di un futuro migliore, assicurandosi la lealtà delle forze armate e il convinto supporto della
maggioranza della popolazione. Infine la campagna deve essere condotta con un “end state” ben chiaro e soprattutto definito in termini politici e non
puramente militari. Per quanto riguarda l’uso del potere aereo, questo deve concorrere a creare nei guerriglieri una permanente sensazione di
insicurezza e, con il localizzarne e colpirne le strutture logistiche, contribuire a indebolirne il morale. Le forze aeree possono scoprire e attaccare le
formazioni combattenti autonomamente o in cooperazione con i reparti dell’esercito, ai quali può assicurare una maggiore flessibilità operativa. Di tutto
questo avrebbe potuto e dovuto far tesoro gli Sati Uniti nel non lontano Vietnam, dove la situazione cominciava a farsi difficile, cosa che invece non
avvenne. L’importanza di un programma organico di riforme non venne compresa come non lo fu il ruolo di una valida leadership locale. Distratto dagli
eventi di Corea, e assorbito dalla prospettiva di un possibile conflitto in Europa, il mondo militare statunitense prestò poca attenzione a quanto avveniva
nelle Filippine, dove forse non a caso il ruolo principale fu svolto da una figura atipica come quella di Lansdale, un ufficiale dell’aeronautica lontano
dalle stanze del potere, e si apprestò ad affrontare in termini convenzionali e nel rispetto del dogma della potenza di fuoco il problema Vietcong.
BIBLIOGRAFIA
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Counterinsurgency Campaign”, Iosphere, Joint Information Operations Center, 2003.
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