un mio ricordo del pittore manlio alfieri

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un mio ricordo del pittore manlio alfieri
UN MIO RICORDO DEL PITTORE MANLIO ALFIERI
Per lunghi anni ho dimorato in un palazzone che abbracciava quattro strade.
Dimora sfarzosa, edificata in pieno Ottocento da un cardinale del mio paese che non riuscì
mai ad abitare per molte ragioni: una delle quali, la meno dilazionabile, la morte. Fece
scomparire la porta medioevale di San Pancrazio e altri edifici, incorporandone altri,
addirittura del Cinquecento, sono spesso strati d’intonaco. L’unica bicocca che dové
rispettare, arretrando in parte un così ambizioso progetto, fu quella sulla via principale
dove trovava ricetto la feccia del paese. Contribuirono, oltre alle pressioni, vere e proprie
minacce al cardinale che prudentemente non desiderava finire, tanto per restare in
argomento, infilzato come una quaglia allo spiedo, dato che Quaglia si nomava appunto il
suo casato.
Ebbene, come dicevo, la mia numerosa famiglia abitò per una quarantina d’anni in
questo palazzone che gli eredi Bruschi-Falgari, non sapendo a un certo momento come
utilizzarlo per una maggior resa patrimoniale, lo suddivisero in più appezzamenti,
affittandolo anche a chi non sapeva apprezzare la solennità dello scalone, del cortile
carrozzabile, della cappella gentilizia e di un salone di rappresentanza al primo piano dove
anch’io, per anni, ho calpestato un grosso stemma in mosaico in mezzo al quale, all’ombra
del cappello cardinalizio e dei fiocchi rosso-porpora, era effigiata una piccola quaglia.
Stanze con ampie volte a crociera, finestre altissime da cui filtravano d’inverno gli spifferi
della tramontana, battenti di porte finemente lavorati, tutto quanto insomma doveva
servire di prestigio ad un porporato. Lo stesso cenotafio nella chiesa dell’Addolorata sarà
costato agli eredi un occhio della testa.
Ebbene, in un lato del palazzo trovammo ricetto noi di casa, il Circolo Tarquinia che
ospitava la buona borghesia cornetana, le famiglie di Salvatore Antonelli, irritabile papista,
e di Gioacchino Alfieri, romano, funzionario del Municipio; e su in soffitta, attraverso due
rampe di scale di legno, Neno Alessi, uno degli spiriti più scanzonati del paese: avevamo
tutti in comune la scala di servizio, con tanto di ringhiera, della quale Manlio Alfieri, sia
nello scendere che nel salire, metteva a prova la resistenza delle strutture murarie. Sia
nello scenderle che nel salirle ci si poteva aggiustare il quadrante dell’orologio, giacchè il
suo impiego in una banca locale esigeva rigorosissima puntualità. E Manlio Alfieri, quasi
ventenne, per quell’esigenza che gli impediva d’indugiare fra le lenzuola tanto quanto lo
stato giovanile richiedesse, doveva, con i minuti contati, saltare a pie’ pari le otto rampe di
scale.
M’incuteva, oltre la paura di rimaner travolto, un sacro rispetto per il fatto che lui
godeva fama di abile disegnatore; ma soprattutto quella differenza d’età che passava fra
me, ragazzo di scuola media, e lui uomo maturo. Che poi nel tempo andò annullandosi per
via di quei rapporti amicali che a lungo andare vanno instaurandosi fra persone dello
stesso paese e della stessa dimora. Avevo, lo confesso, una certa invidia, io che a scuola ero
uno dei più bravi in disegno, nel vederlo seduto al caffé a mettere in caricatura sui tavoli di
marmo i personaggi del paese: che finivano poi sempre sotto lo straccio bagnato del
ragazzo di bottega: emulando in ciò un altro strano individuo, abilissimo cacciatore, che gli
amici, per un suo modo di squagliarsela al momento di pagare, soprannominarono “il
focatico”.
A parte questa disposizione naturale all’uso della matita, Manlio Alfieri si giovò
della considerazione e dell’insegnamento di un grande disegnatore del luogo, Pietro
Ghignoni, che aveva frequentato l’Accademia di Belle Arti in Roma, ed esercitato la sua
professione e specializzazione nei Paesi Bassi. Così che seppe apprendere i suggerimenti e
quei segreti del mestiere che Alfieri sviluppò non appena decise di spiccare il volo per un
suo “gradus ad Parnassum”. Infatti un bel giorno, ad insaputa di tutti, espose in una
vetrina del signor Alessandro Nardi, sul corso, un ritratto ad olio dell’allora Vescovo
Diocesano. Cosa che gli procurò le felicitazioni ed il rispetto di buona parte della
popolazione.
Da questo esordio, cominciò a dipngere tutto quel che gli capitava sotto mano,
oggetti, fiori, nature morte e, con particolare studio, i ritratti dei suoi famigliari: primo fra
tutti suo padre, che rimase per alcuni anni inchiodato su di una poltrona, e quello della
madre sempre in atteggiamento di rassegnata mestizia. Tutti studi che poi elaborò nella
maturità della professione in un grande quadro di famiglia, così come aveva fatto, ma con
tutt’altro gusto, Armando Spadini.
Un certo giorno Alfieri espatriò per motivi di lavoro. Ma gli restò dentro la nostalgia
della sua terra nativa che ritrasse attraverso il filtro della memoria, avendone assorbito
tutti i colori nel variare delle stagioni: ma più di tutto, rimasero sulle sue tele il colore
maturo della terra appena arata, il cielo d’una profondità cristallina e il verde degli olivi
che ritrasse più e più volte, secondo il taglio del paesaggio e del mutare in tempo.
Anche se la professione lo portò a Gaeta, dove concluse, l’anno scorso, i suoi giorni,
Tarquinia rimase sempre il miraggio nostalgico della sua terra, anche quando entrò nel
giro dei mercanti d’arte che esigevano da lui un numero sempre maggiore di opere da
esporre e mettere all’asta nelle varie gallerie di Roma, di Fiuggi, di Montecatini, di
Chianciano dove i suoi quadri non restavano mai a lungo.
Bisogna anche considerare che Alfieri veniva da una terra dove l’arte figurativa si
era manifestata per secoli sulle pareti di tanti ipogei etruschi, come arte autoctona. Arte
che prima di lui aveva ispirato artisti come Campigli, Cesetti, Marini. Nè dobbiamo
dimenticare che nel ‘500 Corneto fu patria di un tal Monaldo che ha lasciato opere di
valore; e nell’Ottocento, di altri pittori come Filippo Grispini che si affermò nella
ritrattistica in Gran Bretagna, ed Egidio Querciola che in Argentina finì con l’essere
riconosciuto come il ritrattista dei Presidenti. Senza escludere, come già accennato, Pietro
Ghignoni.
Manlio Alfieri un giorno incontrò Domenico Purificato che era di Fondi, a un tiro di
schioppo da Gaeta; ed i loro rapporti di amicizia divennero alla fine vere e proprie relazioni
d’arte.
Ricordo di averlo incoraggiato, non appena cessò fra noi quel distacco dovuto all’età,
per una sua prima mostra a Tarquinia nella sala di Santa Croce, approfittando dell’amicizia
di don Sandro Massari. Fu un successo ed una rivelazione; specie alcuni cartoni di studio
dove era segnato il volto della madre che raramente ho visto sfiorato da un sorriso; quasi
una Mater Dolorosa, chiusa nella rassegnazione di un destino poco benigno.
Dopo altri decenni, gli organizzammo una sua personale nell’Auditorium di San
Pancrazio dove ebbe, diciamolo pure, la sua consacrazione in un paese di miscredenti che
mettevano in dubbio, per un loro paganesimo artistico, che lui potesse rappresentare
l’eccezione del “nemo propheta in patria”.
Altre volte lo seguimmo nelle varie mostre a Roma nella galleria dei fratelli Russo
dove accorrevamo in gruppo per dimostrargli solidarietà e quel sicuro sentimento patrio
che allora si chiamava campanilismo.
Spesso amava ricordare un episodio della sua vita, sempre nella grande venerazione
verso il pittore Pietro Ghignoni. Gli venne dato il caso di vedere in una vetrina di una
galleria d’arte di Roma un quadro che, secondo un preciso intuito, doveva appartenere al
pennello di quel suo primo maestro. Entrò e s’accorse che quel dipinto portava in calce
un’altra firma. Dopo ripensamenti e forse pentimenti, Alfieri ritornò in quella galleria per
acquistarlo, ma non ve lo trovò più. Secondo lui, era stata una manovra poco corretta di
quel mercante che temeva di essere scoperto come falsificatore di firme. E ne portò a lungo
il rammarico per aver lasciato cadere l’occasione di rimirare sulle pareti domestiche
un’opera del suo primo maestro.
Negli ultimi tempi della sua vita terrena, cominciò a diradare le sue visite a
Tarquinia, un po' per la salute ma più per quell’indifferenza e quel distacco che incontrava
nelle generazioni giovanili. Le quali, per loro inevitabile destino, son portate a correre
dietro al fenomeno dell’effimero e della superficialità che non chiede impegno, studio e
tanto meno emulazione.
Da quasi un anno Manlio Alfieri non è più fisicamente fra noi, superstiti da tragedie,
conflitti, sovvertimenti. Ma la sua opera rimane, pure se sparsa, un po' da per tutto, come è
destino dei veri pittori. E, incredibile quasi a dirsi, anche in alcuni uffici e in alcune
abitazioni della nostra città, dove approdarono in parte per ammirazione e in parte per
amicizia.
Però, prima che egli lasciasse questo mondo di terra, un mecenate fece stampare
una bella e voluminosa fotografia dove sono riprodotte le opere più significative del suo
estro e del suo pennello. Noi che non l’abbiamo dimenticato e sempre lontani da ogni
interessato encomio, conserviamo nel ricordo fugace e provvisorio della nostra memoria,
oltre le sue opere, quel suo scanzonato sorriso prorompente, le sue battute salaci e
l’impegno che ha sempre messo nell’incoraggiare altri a non far morire, fra le tante cose
scomparse, quella tradizione dell’arte figurativa, intesa in senso vero, che lui, in
successione di tempo, ha sempre esercitato con scrupolo e amore fino in fondo.
Bruno Blasi