Il re di Roma non morto \

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Il re di Roma non morto \
MAURO SIMEONE
Il re di Roma non è
morto - Anteprima
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T h i s e b o o k w a s c r e a t e d w i t h B a c kTy p o
( h t t p : // b a c k t y p o . c o m )
by Simplicissimus Book Farm
Table of contents
Il re di Roma non è morto
IL RE DI ROMA NON È
MORTO
Amo Cordella? Sì! Sinceramente? Sì! Lealmente?
Sì!... In senso estetico, e ciò significa pure qualche
cosa. Quale giovamento ne avrebbe tratto questa
fanciulla se fosse caduta tra le braccia di un qualsiasi
marito fedele? Che cosa ne sarebbe stato di lei? Nulla.
Si dice che al mondo c’è bisogno di qualcosa di più
della lealtà per amare siffatta fanciulla. Questo di
più l’ho io: è la falsità. Eppure io l’amo lealmente.
Con severità e moderazione, vigilo su me stesso
affinché tutto quel che è in lei, tutta la sua ricca e
divina natura, possa mostrarsi. Io sono uno dei pochi
che possa riuscirci; ella è una delle poche che lo
merita. Non siamo, per questo, fatti l’uno per l’altra?
Søren
Aabye
Kierkegaard ,
Diario
di
un
seduttore
Quale sarà l’ultima cosa che porterò via? Ogni
persona che si è spezzata la schiena in un
trasloco si è posta una domanda del genere.
L’orologio da taschino che ci ha regalato
nonno e che teniamo chiuso da decenni
nell’ultimo cassetto della scrivania, la pirofila
vinta nel novantasette con i punti della Conad,
il copriletto di seta con la serigrafia della torre
Eiffel, la collezione dei dischi di Lou Reed, ma
solo i primi però, quelli in cui suonava coi
Velvet Underground, perché da solista diventò
troppo commerciale, troppo Lou Reed?
Che poi la stessa umanità si distingue in due
sottocategorie: chi porta via per prima la cosa
cui sono più affezionati e chi, al contrario,
quella cosa la porta via per ultima, per sancire il
momento definitivo del distacco e come buon
auspicio per il nuovo inizio.
Io faccio parte della seconda categoria e il
diario che ho tra le mani non è soltanto ciò che
mi rappresenta di più, è il racconto più o meno
quotidiano di ciò che è stata la mia vita negli
ultimi ventitré anni.
Eccolo qui, voluminoso e pieno di macchie;
macchie del succo di frutta che bevevo quando
tornavo a casa di ritorno dal liceo, macchie di
caffè che ingurgitavo quando tiravo fino all’alba
per studiare prima degli esami, una patacca
gigantesca di birra scura, forse una Guinness. E
poi tanti adesivi, di quelli che trovavo nelle
confezioni di detersivo sul finire dello scorso
millennio.
Il diario è anche pieno di domande rimaste
sospese, di pensieri intimi come polluzioni
notturne, di desideri abortiti per le troppe
mazzate buscate dalla realtà, di casualità che mi
hanno fatto diventare un uomo, nel bene e nel
male.
Mamma mi guarda come se fosse il 1972 e io
fossi in partenza per il Vietnam.
Sono andato via di casa non so quante volte,
ma poi sono sempre tornato. A volte anche
dopo due ore. Certe altre volte dopo tre mesi.
Stavolta invece vado via per sempre. Anzi no,
non è vero neanche questo, sto facendo il
melodrammatico pure io perché lo so già che
tornerò presto qui con Viola per un pranzo, per
una cena, forse già domenica prossima.
“Avete qualcosa da mangiare per questa sera?”
“Credo di sì.”
“Vuoi un po’ di ragù? Mi sa che ne ho fatto
troppo.”
“No grazie, io comunque ora vado diretto allo
stadio, forse mangio un panino lì.”
“Ma ci sono ancora le partite? Non era finito il
campionato?”
“C’è la partita d’addio al calcio del capitano
ma’.”
“Ah, sì. L’ho sentito in tivù.”
Mamma stavolta ha viaggiato ancora più
indietro nel tempo. Ora non sono più un
soldato americano che parte per la guerra, sono
un ragazzino di quindici anni che va allo stadio
per sentirsi parte di qualcosa di più grande di
lui, più grande dell’andare bene a scuola, più
grande del ‘Papà mi compri il motorino?’,più
grande del primo bacio con la lingua.
“D’accordo, ma stai attento. Non provocare
nessuno.”
“Mamma, è la partita più innocua della storia.
Saremo sessantamila tifosi della Roma e basta.
Cosa vuoi che succeda?”
“Va bene, ma non farmi preoccupare e
salutami Viola.”
“Sì ma’, ciao!”
“Venite a pranzo domenica?”
“Non lo so, forse Viola lavora. Ti faccio sapere
domani.”
“Hai già ritirato il vestito dalla sarta?”
“Mercoledì. Ora vado che c’è Mirco che mi
aspetta allo stadio.”
Mentre cammino verso quella che è la nuova
casa della squadra calpesto un pensiero che mi
si appiccica nella testa come un chewing gum
appena sputato da qualche angelo bimbominkia
e che è ancora colloso di saliva e xilitolo: sono
nel bel mezzo di un giorno storico per me, per i
romani, per le romane, per la città tutta. Vedo
padri di famiglia che tengono i figlioletti sulle
spalle e questi marmocchi, ebbri di gioia,
sventolano bandiere giallorosse grandi come le
vele delle barche che partecipano all’America’s
Cup.
I giornalisti scrivono che bisognerà attendere
quarant’anni
prima
di
vedere
un
altro
Francesco Totti con la maglia della Roma.
Eppure qui, intorno a me, di capitani ne vedo
cento, mille, sessantamila anzi, quella che è la
capienza massima del nuovo stadio. Tutti
indossano la maglia del nostro numero dieci,
alcuni
quella
ufficiale
dello
scudetto
del
duemilauno, altri quella con lo sponsor Barilla,
laggiù c’è un ottantenne fiero che ne ha una che
non ho mai visto ma che mi sembra bellissima,
bianca
con
una
duplice
banda
giallorossa
obliqua sul davanti.
Nell’aria ci sono vibrazioni intense, non
ricordo di aver mai vissuto emozioni così
contrastanti
e
simultanee.
Gioia
e
dolore,
orgoglio e tristezza, euforia e depressione.
Forse solo al funerale di nonna, nonna Adeia,
mi sono sentito così. Triste per il suo addio. Ora
che ci ripenso, allora non riuscivo a non
sentirmi felice per aver vissuto con lei non so
quante giornate accese di gioia. Al Circeo, in
vacanza, quando in pieno luglio, mi pare fosse
l’ottantasei. Due settimane al mare; la mattina
in spiaggia, il pomeriggio a spasso per il centro
storico e la sera, dopo cena, le bombe calde alla
crema al bar Felipe. Era bello camminare
insieme lungo le siepi di Viale Argentina con la
luna, alta, a farci da guardia del corpo. A fine
ottobre,
poi,
le
escursioni
al
parco
della
Caffarella a raccogliere i pisciacane e farci lo
sciroppo per la tosse, quello che se ne bevi
qualche sorso a inizio autunno ti protegge le vie
respiratorie per tutto l’inverno. Ancora, il suo
aiuto
prezioso
divisioni,
lei
nell’insegnarmi
che
aveva
solo
a
la
fare
le
licenza
elementare ed era pure stata bocciata in
seconda.
Personalmente
non
conosco
nessuna
di
queste facce eppure ci sentiamo legati come da
un filo invisibile, da una passione che ci tiene
vivi e ci fa sopportare il cazziatone del capo, la
macchinetta del caffè rotta, il vicino che
parcheggia sempre mica a spina di pesce ma a
cazzo di cane, quello che taglia l’erba la
domenica mattina alle otto, il fumo passivo, il
crollo di Piazza Affari il venerdì pomeriggio, il
ciclo delle nostre compagne.
Ci vorrebbe una penna decisa e raffinata per
descrivere una serata così piena di significati e
che ci è stata, oggi, regalata dalla Storia. Il più
grande calciatore che abbia mai vestito la
maglia della Roma, romano e romanista, gioca
la sua partita d’addio al calcio nella prima
partita che si tiene nel nuovo stadio della
squadra. La fine e l’inizio che si danno il
cambio, la tristezza che cede il testimone alla
speranza, il vero senso della vita è, finalmente,
qui messo in scena. Dunque, chi meriterebbe di
raccontarla
una
storia
così?
Forse
ce
ne
vorrebbe qualcuno che in qualche modo abbia
avuto a che fare con la città eterna. Goethe visse
qui per un bel periodo, Keats addirittura ci
morì.
Io no. Per quanto mi riguarda, e per quanto
può interessare, mi accontento di scrivere,
giorno dopo giorno, un diario. L’ho iniziato che
avevo sedici anni.
28 marzo 1993
Domenica a casa da solo. Ho appena finito di
leggere I killer venuti dal buio. Dylan Dog deve
indagare sul perché tre psicopatici col mantello
nero vogliono ammazzare Jessy, una ragazza
che desidera a tutti i costi diventare una
showgirl. Ci sono parecchi morti ammazzati, e
la cosa mi entusiasma. Ma il finale è di gran
lunga la parte migliore della storia. Pare che nei
sotterranei della stazione dei treni di Londra ci
sia un varco temporale che si attiva durante i
sogni e conduce nel futuro. Davvero una figata!
Quando avrò diciotto anni voglio andare a
vedere se è vero. Alessandro preferisce le trame
più psicologiche, ha detto che Il lungo addio è la
storia più bella che abbia mai letto. Non sono
d’accordo. Dylan deve dare la caccia a mostri e
fantasmi, che senso ha raccontare un amore di
anni fa? Nemmeno sono andati a letto! Ora mi
devo mettere a studiare perché la prossima
settimana ho pure il compito in classe di
matematica e martedì l’interrogazione di latino.
Latino. Che palle.
Forse più tardi viene Daniele a fare merenda
e a farmi copiare gli esercizi di inglese per
domani. Ha detto pure che forse mi vende le
sue Nike Jordan, quelle nere con le strisce rosse,
che figata! Abbiamo lo stesso numero e gli ho
offerto sessantamila lire, speriamo che accetti.
Ah, la Roma sta giocando a Brescia e vince.
Alla radio Alberto Mandolesi dice che al posto
di Rizzitelli sta entrando un ragazzino di nome
Totti che ha appena sedici anni. Cioè, questo
qui c’ha l’età mia e gioca in serie A e io sto qui a
preoccuparmi dell’algebra. Che schifo la vita.
M’intrufolo nel flusso di persone che si dirige
verso i cancelli, siamo un oceano di fedeli che
vuole rendere omaggio alla persona che ci ha
fatto piangere, ridere, esultare e bestemmiare
per quasi un quarto di secolo.
Da dietro mi sento tirare i capelli, forse
qualcuno che conosco vuole farmi uno scherzo.
Che sia Mirco è impossibile, chi altro può essere
dunque?
Mi volto e scorgo una ragazza dai capelli
ramati e il sorriso convinto “Ehi, ero sicura che
fossi tu, come stai?”
Provo a fare mente locale ma stavolta ce l’ho
impastata come polenta taragna, e in tutta
onestà non me ne frega niente di fare una gaffe
nel non ricordare chi sia questa. Comunque
piacente nei suoi quarant’anni. La mia stessa
età.
“Abbiamo
fatto
l’amore
nel
maggio
del
duemila due, ricordi?”
A dire il vero no.
“Ne è passato di tempo…”
Più che il tempo, ne sono passate di femmine.
“Eravamo in quella specie di catapecchia in
campagna; mentre i tuoi amici giocavano a
schiacciasette sull’erba, tu giocavi a nascondino
dentro di me.”
“Ah ecco” rispondo imbarazzato “è probabile
che questo sia successo per davvero.”
Lei abbozza un sorriso un po’ forzato e
socchiude gli occhi. In quella fessura leggo la
delusione di essere stata, per me, soltanto la
distrazione
di
un
pomeriggio
di
tarda
primavera.
“Mi chiamo Laura, almeno il nome potresti
ricordarlo.”
Ma a me non va di portare avanti la
conversazione, c’è Mirco che mi aspetta non so
dove e poi è la prima volta che entro nel nuovo
stadio. Devo ancora capire quale sia l’ingresso
giusto.
“Sei sposato ora?” chiede la donna.
“Non ancora, lo sarò il ventiquattro luglio
però”, sorrido sperando che mi lasci entrare in
curva senza ulteriori ramanzine sul mio passato
di sciupa femmine.
“Allora auguri! Spero che il nome di tua
moglie lo ricordi. Può essere utile quando
farete le partecipazioni.”
Ingoio
l’ultima
provocazione
di
Claudia,
credo che abbia detto di chiamarsi così, e
proseguo verso quello che al ‘Corriere dello
Sport’ hanno ribattezzato Colosseo 2.0 in attesa
che
lo
stadio
definitivo.
adotti
un
nome
ufficiale,
Preferibilmente
quello
di
uno
sponsor.
L’incontro appena terminato allunga però
un’ombra fastidiosa su di me; nonostante ci
siano trentacinque gradi e l’ottanta per cento di
umidità, come mi informa lo smartphone,
sento un brivido di freddo aggredirmi la
schiena. Quante donne che ho sedotto e
abbandonato
venticinquennale
nel
corso
carriera
della
di
mia
playboy
potrebbero esserci qui intorno, fuori e dentro il
nuovo stadio senza nome?
Una volta fecero una lunga intervista a Totti,
sul suo modo di vivere la città. Egli rispose che
il suo più grande cruccio era quello di non
poter fare una passeggiata per le vie del centro;
rivelò al giornalista che erano anni che non
andava a via del Corso perché nessuno gli
avrebbe permesso di farlo. Uomini, donne,
giovani, vecchi e bambini lo avrebbero fermato
a ogni passo per chiedergli un autografo o per
fare una foto insieme. Può sembrare una
sciocchezza ma nelle sue parole si avvertiva
tutta la frustrazione di non poter vivere fino in
fondo la sua città, lui che di questa città è il
simbolo più luminoso e acclamato.
Con le dovute proporzioni neanche io sono
tanto libero di andare allo stadio, a teatro, a un
concerto di Ligabue. Quante “Claudia” ci sono
in mezzo a questo oceano di tifosi romanisti?
Quante volte ho fatto tana? Quante donne
potrebbero fermarmi per chiedermi prima una
foto da far vedere al figlio che non ha mai
conosciuto il padre e subito dopo un mio
autografo su un documento di un giudice che
sancirebbe il riconoscimento di paternità?
Non lo so, sul diario questo non c’è scritto
perché i record non mi interessano, io amo la
donna.
A
occhio
potrebbero
essere
duecentoquarantacinque. Tante quanti i gol di
Totti in serie A, forse qualcosa in meno.
Però poi ci sono anche due o tre interiste, una
mezza dozzina di juventine, di sicuro ce n’è una
che tifa Napoli. E poi una del Bayern Monaco,
un’altra del Valencia anzi, erano due quelle di
Valencia! Ancora Praga, Malmoe, Parigi, New
York, Bratislava, Zurigo.
Riflettendoci però, più che a Totti, assomiglio
a Luciano Marangon, terzino sinistro della
Roma nella stagione ’81 - ‘82. In un’intervista
che fece scalpore raccontò come, terminata la
carriera ad appena trentun anni, fuggì a New
York
per
accumulato:
scrollarsi
di
“Comprai
dosso
lo
stress
un
lo
di
trecentocinquanta metri quadrati su tre piani,
l’ideale per le mie feste preferite: apri la casa e
ti entra chiunque, dallo spacciatore al poeta,
dalla modella all’attore. Ogni sera cinquecento
persone e via, a divertirsi fino all’alba. È passata
tutta la gente di Hollywood che ai tempi
contava: Richard Gere, Oliver Stone e le
modelle Linda Evangelista, Cindy Crawford,
Carol Alt, Naomi Campbell. L’invito era aperto
a tutti, e non c’era orario di chiusura: a volte
andavo a dormire con ancora cento persone
che giravano per casa.”
Due anni dopo Marangon lasciò gli Stati Uniti
per una nuova avventura: “Ho rilevato un
chiosco
a
Formentera
e
ho
inventato
il
‘chiringuito’: la gente veniva per l’aperitivo,
beveva e rimaneva fino all’alba. Ho aperto la
stessa attività anche a Rodi e a Santo Domingo.
In tutto ho girato tanto, ho contato i paesi in cui
ho messo piede e sono ben centododici.”
Ma anche quando era in attività il sesso, al
buon Luigi, non è mai mancato: “Ho avuto
tantissime donne, e sono orgoglioso. Le ragazze
mi telefonavano: ‘Ho sentito parlare di te,
voglio conoscerti’. E io le accontentavo. A volte,
ed è successo almeno una decina di volte, mi
chiamavano
e
dicevano:
‘Sono
incinta’.
Cercavano di incastrarmi, è il rischio del
mestiere.”
Tra le sue conquiste più di un personaggio
famoso:
“La
figlia
di
Benz,
quello
della
Mercedes, mi ha chiesto di sposarla. Mi sarei
sistemato per tutta la vita, ma lei non era
proprio una bellezza e poi preferivo guidare le
Porsche. Sono uscito anche con Stefania di
Monaco e con una soubrette di cui però non
voglio dire il nome. Sono un malato del sesso,
ma solo in forma classica, niente rapporti
sadomaso o gay. Il sesso era il mio doping: lo
facevo anche la domenica mattina, a casa o in
ritiro, mi rilassava ed ero più in forma.”
E Marangon non si riferisce solo a rapporti a
due: “Farlo con più donne è il sogno di tutti gli
uomini, e io ho un record: sette donne
contemporaneamente. Mica tutti i giorni, solo
una volta nella vita. Ma mi è successo.”
No dai, così è troppo anche per me.
Quando arrivo al cancello dedicato a Di
Bartolomei mi fermo e mi guardo attorno; il
flusso di tifosi non si ferma, mi scuso per la mia
presenza che intralcia la loro voglia di tuffarsi
dentro una festa pazzesca.
Mi affaccio dentro e vedo Mirco che fuma,
tossisce perché non lo sa fare, prova a tirare di
nuovo ma la sigaretta gli cade dalle mani e
allora lui fa una giravolta su se stesso per
provare a prenderla ma non ci riesce. Un
signore
che
ha
assistito
prontamente
un
pacchetto
alla
di
scena
Camel
sfila
dal
taschino della camicia e glielo offre.
“No grazie” intervengo io “non ha mai
fumato, non vorrà farlo iniziare adesso che ha
quarant’anni!”
I due mi guardano con ostilità, come se fossi
io quello strano. Mirco afferra comunque la
sigaretta, la fa passare tra l’indice e l’anulare con
una specie di gioco di prestigio ma quella mica
scompare, è ancora nella sua mano.
“No scusa, davvero hai iniziato a fumare?” lo
assalgo con tono accusatorio.
“Sì, voglio arrivare a fumare venti sigarette al
giorno. Sono già a dieci”, si difende.
“Non capisco, nessuno ha iniziato a fumare
ponendosi un obiettivo come fai tu. Che cosa
c’è sotto?”
Mirco non demorde, cerca il conforto del
signore che gli ha allungato il pacchetto ma
quello si è dissolto nel nulla in un abracadabra.
“Voglio mettermi alla prova. Voglio diventare
dipendente dal fumo per scoprire se è davvero
così difficile smettere come dicono…”
Rimango interdetto per la seconda volta nel
giro di cinque minuti. Per di più stavolta
avverto un leggerissimo senso di responsabilità.
“Amico, non potresti verificare la tua capacità
di controllo evitando quella merda? Potresti,
per esempio, cercare di evitare di comprare
scarpe da maratoneta ultimo modello ogni due
settimane!” e indico le orribili cose color
arancione e blu che porta ai piedi.
“Ah, non te l’ho detto che mi sto allenando
per la maratona di Roma?”
“Dovresti andare dal gommista allora, non da
Decathlon” e indico le ruote della carrozzina.
“E infatti queste scarpe hanno la suola fatta in
collaborazione con la Continental per garantire
un maggior grip sull’asfalto. Guarda tu stesso se
non ci credi.”
Non ci credo no, mi accovaccio sotto la sedia
a rotelle e controllo i suoi piedi: cazzarola, è
vero.
Ancora una volta Mirco m’ha fatto il gioco di
prestigio di farmi fare la figura del pollo
quando invece ero io a volerlo canzonare, e lo
ha fatto prendendo spunto addirittura dalle mie
stesse parole. Ma come fa?
Nel nuovo stadio le barriere architettoniche
non esistono, provo un certo fastidio soltanto
quando percepisco un’espressione di scherno
nel volto di alcuni adolescenti che guardano
Mirco impennare e fare una piroetta per
incastrarsi nel suo box riservato.
“Cos’hai portato?” chiede indicando con lo
sguardo il mio diario.
“È l’ultima cosa che porto via da casa dei miei;
il trasloco è davvero finito.”
“Da’ qua, fammelo leggere.”
4 settembre 1994
Iniziano gli esami di riparazione e io mi sto
cacando sotto. Domani ho latino, martedì
matematica e giovedì disegno tecnico! Questa
estate non ho fatto altro che prepararmi per
essere promosso in quinto liceo. Ho pregato
tutti i giorni, mattina e sera, ho recitato fioretti
in onore di tutti i Santi del calendario. Tempo
per lo studio invece quasi niente, io e Marta
abbiamo sperimentato tutte le posizioni e
abbiamo scoperto che fra noi c’è una grande
intesa sessuale. Spero con tutto il cuore di essere
anche quest’anno il suo compagno…di banco.
Vorrebbe dire che sono stato promosso, per
quanto riguarda invece le conquiste femminili
mi piacerebbe uscire con Tamara, la tettona
mora della quinta B.
“Ah ah” Mirco esplode in una risata fragorosa
“eri
davvero
divertente
ventidue
anni
fa!
Quand’è che invece sei diventato il pesantone
che sei oggi?”
La partita non è ancora iniziata, al centro del
campo sfilano i calciatori più rappresentativi
della Roma degli ultimi due decenni. C’è
Batistuta che sembra aver mantenuto un buon
peso forma, Cervone ha sempre la faccia da
bandito mentre Abel Balbo, dopo anni di
inattività, è grasso come lo era Adriano dopo
trenta
giorni
di
ritiro.
Alcune
majorette
mostrano cosce lunghe e culetti tonici, se non
mi
sposassi
fra
due
settimane
farei
un
pensierino su quella biondina al centro, la terza
da sinistra. Forse potrei suggerire a Mirco di
andare da lei e invitarla alla festa d’addio al
celibato che mi stanno preparando.
Lui
continua
a
leggere
interessato;
all’improvviso realizzo che quest’oasi di pace e
di sorrisi potrebbe presto essere spazzata via da
un sentimento di rimorso e di senso di colpa
provocato dalla lettura del mio diario. Cerco di
distrarlo ma l’inizio del match va per le lunghe
e, sebbene la visione del nuovo stadio sia una
succulenta novità, avverto dalla tensione sulle
sue braccia che Mirco si sta pericolosamente
avvicinando, nella lettura, alla data che ha
interrotto. la sua vita. Fino a cambiarla per
sempre.
10 ottobre 1998
Un cazzo di incidente del cazzo! Gliel’avevo
detto che quella moto era troppo potente per
lui. Ma come si fa a passare da un Booster,
seppur modificato, ai centocinquanta cavalli di
una Yamaha R1? Servono pratica, esperienza,
sensibilità. Per fortuna è uscito dal coma, ma
adesso i medici dicono che ha delle lesioni alla
colonna vertebrale. Gli si è rotta una vertebra, si
è scheggiata e ha fatto danni. Difficilmente
potrà tornare a camminare. Che ingiustizia, ha
appena ventidue anni! Non posso dire che non
se la sia cercata, è sempre stato un pazzo a
guidare il motorino ma il prezzo che sta
pagando è troppo alto. Tremo a scriverlo ma
sarebbe stato meglio per lui se fosse morto…
Getto uno sguardo sul mio diario, a giudicare
dalle pagine che ha sfogliato Mirco sta leggendo
proprio il pezzo che lo riguarda, che ci
riguarda. Io mi sento poco bene, nonostante
Antonio Cassano stia facendo il clown al centro
del campo, mi viene da piangere.
“Roberto, vieni qua.”
Mi volto verso di lui, mi sento colpevole
come se fossi un cucciolo di labrador che ha
appena devastato le gardenie appena piantate
in giardino.
Mirco però sorride “Hai visto che scemo
Cassano?” e poi indica pure la majorette che per
qualche
istante
aveva
catturato
la
mia
attenzione.
“Sono troppo felice di essere qui con te, e
godermi questo spettacolo.”
Scoppio a ridere e a piangere nello stesso
istante, anche questa è una cosa che non mi
succedeva da un sacco di tempo; è come
quando piove col sole, in quella circostanza mi
viene voglia di volgere lo sguardo verso l’alto e
chiedere come sia possibile una cosa del
genere,
se
l’universo
nel
grande
quello
non
ingranaggio
sia
un
che
bug,
è
un
malfunzionamento improvviso e imprevisto.
Poi
la
partita
inizia,
il
risultato
non
è
importante ovviamente; ci divertiamo a vedere
giocate che nelle partite serie non verrebbero
neanche tentate, Samuel non ha perso lo spirito
di grande guerriero argentino e infatti, per
evitare che Delvecchio vada dritto in porta lo
stende a terra con un brutto fallo che rischia di
stroncargli per sempre la carriera di opinionista
alla radio.
A metà del primo tempo mi arriva un
messaggio da Viola, vuole sapere a che ora
torni; ma io non lo so perché stasera ho voglia
di stare con Mirco, di sicuro dopo ci andiamo a
mangiare un panino dallo zozzone, quello che
apre una ciriola e poi tu ci puoi mettere quello
che
ti
pare:
peperoni,
formaggio
asiago,
melanzane sottolio, salame ungherese, alici,
lattuga, zenzero, nutella. Pure tutto insieme sì,
la leggenda narra che lo zozzone non abbia mai
suggerito alcun abbinamento e non abbia mai
storto il naso di fronte a una richiesta, neppure
alla più esotica.
Il primo tempo finisce con un autogol di
Annoni
contrario
che
e
dribbla
poi
i
suoi
simula
una
compagni
al
perdita
di
conoscenza che provoca una ola di risate e
applausi; gli altoparlanti sparano a tutto volume
Roma capoccia, la qualità del suono è tale che mi
vien
da
pensare
che
qui,
ogni
tanto,
si
potrebbero anche tenere dei concerti. Mirco
rimane a bocca aperta osservando il colpo
d’occhio di quello che è già stato ribattezzato il
Gigante, il pezzo di curva stracolmo di tifosi che
tutti insieme sembrano un unico, altissimo
ultrà della Roma che canta e che sembra
davvero invalicabile, mette i brividi. Speriamo
che lo stesso effetto lo faccia agli avversari che
verranno a giocare qui.
Le coppiette se ne vanno via, io faccio fatica a
pensare che esista un tipo di amore più grande
di questo; o forse è l’amore a essere unico, così
come quei ventimila scalmanati in curva mi
appaiono essere un tifoso solo?
Durante l’intervallo Voeller viene acclamato,
noi intoniamo lo stesso coro che gli cantavamo
nel millenovecento ottantotto, alla sua seconda
stagione qui.
“Tedesco vola, sotto la curva vola, lo stadio
s’innamora, tedesco… vola!”
Lui si commuove, si porta le mani sul volto e
ringrazia il pubblico indicandosi il cuore.
Il tempo per lui s’è fermato lì, per Mirco
giusto un decennio dopo. Per me invece
continua a correre come faceva Cafu sulla
fascia destra e lo fa senza darmi un attimo di
tregua
per
riflettere,
per
capire
se
sto
prendendo una decisione saggia o se sto
compiendo la più grande stronzata della mia
vita.
“Quanto manca?” m’interroga Mirco come
faceva la professoressa Bisegni al liceo.
“Due settimane, più o meno.”
“Porca
riconsegna
vacca,
il
ci
siamo
diario
allora!”
che
per
e
mi
oltre
quarantacinque minuti ha custodito tra le
gambe addormentate, sicuro che da lì nessuno
lo avrebbe trafugato.
Mi sento in colpa come se la Prof mi avesse
rimandato al posto con un brutto tre sul
registro, per non aver aperto bocca.
No, non sono felice di sposarmi. Sono solo
confuso.
29 giugno 2000
Che giornata stupenda!
Stamattina ho dato Diritto penale I (ho preso
ventisette) e ora mi mancano tre esami per
terminare il terzo anno. È la prima volta da
quando ho iniziato l’Università che intravedo
una possibilità di arrivare alla fine di questo
percorso.
La
scorgo,
è
ancora
piuttosto
indefinita nella forma ma la intuisco!
Il pomeriggio ho fatto di nuovo l’amore con
Alice, che femmina spettacolare! Mi esalta il suo
profumo, lei dice di non usare il deodorante
perché le irrita le ascelle e a me piace così. L’ho
annusata e leccata a lungo, mi eccita da morire.
Quasi mi dispiace partire per gli Stati Uniti
cogli amici, come farò a stare senza di lei per
venti giorni?
In più, come se tutto ciò non bastasse, è
appena
finita
la
partita
dell’Italia
contro
l’Olanda ai campionati europei. Ai rigori Totti
ha calciato un cucchiaio che ha mandato Van
der Saar a farfalle ah ah! Che spettacolo, ho
festeggiato
con
tutti
gli
amici
a
casa
di
Tommaso, ci siamo ubriacati e adesso sono
ancora ciucco, già non mi ricordo più quello
che o scritto e se ho comesso erori.
Siamo in finale, ora dobbiamo battere la
Francia. Daje!
Il secondo tempo scorre via veloce e su tutti
noi cala il gelo, rabbrividiamo come se Capello
avesse deciso di sostituire Vincenzo Montella
con Massimo Marazzina e dentro lo stadio
cresce la consapevolezza che la carriera quasi
venticinquennale
del
nostro
capitano
sta
finendo per davvero e noi siamo i testimoni
oculari di un altro pezzo di storia della città
eterna, al pari di Porsenna che vide Muzio
Scevola bruciarsi la mano per aver sbagliato
bersaglio, come i fortunati che assistettero alla
costruzione della fontana dei Quattro Fiumi da
parte del Bernini, come quelle persone che
all’idroscalo di Ostia videro uccidere Pier Paolo
Pasolini e non sentirono mai l’urgenza di
rivelare alla magistratura il nome dei veri
assassini.
A
un
certo
punto
lo
schermo
gigante
inquadra la tribuna d’onore; tra politici che
vogliono accattivarsi le nostre simpatie e tronfi
personaggi dello spettacolo, scorgo il viso
dolcissimo di Ilary Blasi. Ne ho avute di donne
altrettanto affascinanti ma lei ha qualcosa di
proibito, e questo ne accresce ancora di più lo
charme. Potrei tornare indietro agli ingressi, i
controlli a questo punto della partita sono
meno rigorosi; dopo potrei scalare i gradini
come uno sherpa metropolitano e raggiungere
la
tribuna
vip,
presentarmi
come
un
ex
compagno di Francesco, uno che giocava con
lui ai tempi della squadra giovanile, prendere
prima spazio e poi confidenza fino a…
Il pensiero di quello che farei a Ilary mi entra
in testa a gamba tesa, il mio sacro rispetto per il
capitano lo butta fuori con un cartellino rosso
diretto e così trascorro gli ultimi minuti del
match col capo chino, in religioso silenzio per
aver fatto tale pensiero peccaminoso.
Mirco si sgancia dalla postazione, sappiamo
già che per evitare problemi col deflusso è
meglio anticipare l’uscita dallo stadio; siamo
sicuri che la maggior parte dei presenti rimarrà
qui il più a lungo possibile perché andare via
significherebbe dare l’addio definitivo al Totti
calciatore.
Nella nuova casa non mi trovo a mio agio. Mi
devo ambientare. Certe sere torno ancora da
mamma, con la scusa che devo incontrare un
cliente di Prati dico a Viola che dormo lì per
evitare il traffico della mattina. In verità non è
una scusa, da lì faccio prima e quindi perché
dovrei stare in macchina quaranta minuti in
più? Certo, Viola non è contenta di dormire da
sola. Dopo il matrimonio sarà tutto diverso, mi
obbligherò a comportarmi da marito, ma
finchè non siamo sposati ufficialmente mi sento
libero di decidere in piena autonomia orari e
luoghi in cui trascorrere al meglio la mia vita da
celibe. A proposito di celibato…
“Ciao, sono io. Mi dici che cosa avete in
mente di fare per la mia festa? Devo saperlo in
anticipo, la prossima settimana ho due udienze
in tribunale e poi forse devo andare pure a
Velletri… no, non è che voglia saperlo prima… sì,
lo so che è una sorpresa però ho degli impegni
di lavoro che devo spostare se partiamo
all’improvviso, capisci? Ok dai, ciao.”
Viola
si
affaccia
nel
salottino
con
un
grembiule da cucina che le censura le splendide
gambe, la parte del suo corpo che ho notato per
prima, e ha un’espressione di curiosità dipinta
sul volto che è color rosso pachino.
Dunque, è così che la vedrò per i prossimi
trenta o quarant’anni?
“Parlavi forse dell’addio al celibato?”
“Sì. Ma ancora niente di certo.”
“Fra cinque minuti vieni in cucina amore, è
quasi pronta la cena.”
Di nuovo quella strana sensazione di disagio.
Sono sempre stato bravissimo a intrattenere
una conversazione a tavola, specialmente con
una donna. Ma di cosa dovrei parlare con quella
che fra dieci giorni esatti sarà mia moglie? Se
avessimo
già
un
figlio
sarebbe
facile,
parleremmo di lui, della marca migliore di
pannolini, se ha fatto il ruttino, se il numero di
poppate consigliate dal pediatra è corretto o se
è meglio consultare il forum di neomamme.it.
Ma io e lei, soli, di cosa potremmo discutere?
Ho un’ansia da conversazione, vedo gli ultimi
minuti del telegiornale sportivo in apnea. Poi
mi
alzo
indolente
dalla
poltrona
che
ho
comprato all’Ikea e che ho pure montato male e
infatti traballa come una finta di Garrincha e mi
reco claudicante nella cucina che c’è costata la
bellezza di duemila quattrocento novantanove
euro.
Mercoledì
pomeriggio,
subito
dopo
aver
messo in ordine le carte per il processo Castelli,
sono dalla sarta.
“Forza Signor Roberto, lo provi ancora una
volta…”
Il tight color fumo di Londra è perfetto in vita
ma forse scende troppo, mi arriva fin sotto le
ginocchia e, guardandomi allo specchio, mi
sembra di indossare il mantello di Superman
anziché un abito nuziale. Mi lamento con Maria
ma lei non sente ragioni, dice che va bene così.
“Non
sia
così
impostato
di
spalle,
più
rilassato, su!”
Facile a dirsi, io mi sento avvolto come una
melanzana nel Domopak. Non lo capisce,
signora Maria, che per me compiere questo
passo è come per un supereroe sconfiggere il
più cattivo dei cattivi? È una prova ardua,
difficile, problematica.
“Forse va alleggerito poco poco sul petto; mi
raccomando, Signor Roberto, la cravatta non la
metta di colore nero altrimenti gli invitati la
scambiano per il maggiordomo e la guardano
storto se non gli versa continuamente lo
champagne. Le consiglio un Plastron in tessuto
di microfibra, se vuole gliene faccio provare
uno già adesso.”
Non afferro neanche una parola di quello che
Maria sta dicendo, l’unica cosa su cui concordo
è che tutta questa recita è un plastrocchio
gigantesco.
“E poi la tuba, tassativamente di colore grigio
per smorzare i toni.”
“Ah ecco, smorzare i toni; questa cosa qui, sì
che mi calzerebbe a pennello.”
Mentre cammino verso casa, casa mia non
quella
di
schifosissima
mamma,
calpesto
preoccupazione,
un’altra
molle
e
puzzolente: il mio vero problema non sarà né la
festa d’addio al celibato né tantomeno il giorno
del
matrimonio
dove
sarò
impegnato
a
stringere le mani dei parenti e ad ammettere di
fronte agli amici che la carriera del più grande
seduttore che sia mai esistito, il re di Roma, è
finalmente terminata.
A provocarmi ansia è la prospettiva di dover
trascorrere ventiquattro giorni in Polinesia, io e
Viola. Da soli.
Lei dice che è il coronamento di un sogno, io
non sono dello stesso avviso; il viaggio di nozze
lo vedo più come un test drive per capire se la
macchina, in questo caso il partner, risponde
perfettamente alle esigenze. Del resto, proprio
come succede con una nuova automobile, il
viaggio
andrebbe
definitivo.
Perché
fatto
prima
invece
si
fa
dell’accordo
dopo?
Sì,
abbiamo convissuto per qualche settimana ma
non è la stessa cosa perché tante pecche escono
fuori solo in circostanze particolari. E se in
Polinesia scoprissi che lei soffre di meteorismo,
ma solo quando c’è un alto tasso di umidità
nell’aria e solo dopo aver mangiato mango e
papaya insieme?
Cosa dovrei fare in questo caso, riportare
Viola dal prete che ha officiato la cerimonia e
dirgli che non va bene, che deve risolvere la sua
flatulenza e se proprio non può, allora che mi
desse una moglie sostitutiva?
Entro in casa e Viola è ancora una volta ai
fornelli; spero che non sia una messinscena
prematrimoniale che preveda che lei si stufi di
cucinare il giorno dopo il rientro dal viaggio di
nozze
per
essere
poi
invitata
a
vita
nel
ristorante più caro del quartiere che, guarda
caso, è proprio qui sotto.
“Ciao amore mio, bentornato! Come è andata
la giornata? Sei riuscito a passare dalla signora
Maria?”
“Sì, ti saluta.”
“Oh che tenera… e il vestito? L’hai preso?”
“Ancora no, aveva bisogno di ulteriori piccole
modifiche.”
Lei
non
sembra
preoccupata,
torna
a
sminuzzare le carote e a mescolare, con la
cucchiarella di legno, qualcos’altro che bolle in
pentola.
Come un mentalista di professione cerco di
individuare il momento ideale per farle la
proposta che non si aspetta e che la lascerà a
bocca aperta.
Ecco, adesso che si sta per mettere seduta a
tavola, “Vi…” no cazzo, ha dimenticato il sale e
quindi torna indietro; aspetto qualche secondo,
sento il cuore battere più forte, faccio un lungo
respiro, vedo che torna e perciò mi tuffo in
ginocchio ai suoi piedi, in mano ho una fetta di
pane di Lariano luccicante d’olio extravergine
d’oliva: “Vogliamo portare… Mirco con noi, in
viaggio di nozze?”
Viola si guarda intorno, leggo nei suoi occhi
verdi l’aspettativa di vedere un’amica con una
telecamera nascosta, pronta a registrare la sua
reazione dopo lo scherzo.
“Scusa?”
“Ho pensato che potremmo farlo felice…”
“Roberto, te l’ho sempre detto che di te amo
la fantasia e l’originalità ma credo che tu stia
esagerando; nessuno, nessuno ha mai osato fare
un viaggio di nozze in tre. Certe volte ho
l’impressione che tu non sia pronto a sposarmi.”
“Ma che dici amore? Certo che sono pronto, è
solo che lo vedo così triste.”
“Non mi pare proprio. Anzi, Alessia mi ha
detto che è pazzo ogni giorno di più, tu lo
sapevi che si è fatto costruire in giardino un
promontorio di terra alto tre metri e che da
quindici giorni si sta esercitando a fare un salto
mortale con la sedia a rotelle?”
Stavolta sono io a controllare che non ci sia
una telecamerina GoPro installata dietro il
tostapane, accesa per riprendere il mio stupore.
“Lo sai come s’è giustificato lui? Lo vuoi
sapere?”
“Bè, a questo punto…”
“Mirco ha detto che è nelle condizioni ideali
per provarlo perché tanto, anche se si rompe
l’osso del collo durante il salto, è comunque già
paralizzato!”
Sì, in effetti è una cosa che potrebbe aver
detto.
“Vabbe’, quindi non lo vuoi portare con noi
perché è disabile?”
Adesso Viola cambia tono ed espressione, è
davvero incazzata.
“Non lo voglio portare perché il viaggio di
nozze, da che mondo è mondo, si fa in due:
marito e moglie.”
“Non è perché lo discrimini quindi?”
“Lo discrimino perché è completamente
fuori di testa, non perché sia disabile! Quello è
capace di farci fare il bungee jumping dal
Monte
Orohena
mentre
io
la
cosa
più
adrenalinica che ho in mente di fare è osservare
le foglie di una palma che oscillano di fronte a
me per la brezza marina.”
“Che figata” rifletto “questo è sicuramente
uno dei nostri ultimi litigi da fidanzati”.Mi vien
voglia
di
trascriverlo
sul
diario
tanto
è
emozionante e allora corro in camera da letto,
apro il cassetto e lo tiro fuori per leggere
qualche altro passo.