Il re di Roma non morto \
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Il re di Roma non morto \
MAURO SIMEONE Il re di Roma non è morto - Anteprima UUID: 90ccf7f8-aaf3-11e4-87fe-9df0ffa51115 T h i s e b o o k w a s c r e a t e d w i t h B a c kTy p o ( h t t p : // b a c k t y p o . c o m ) by Simplicissimus Book Farm Table of contents Il re di Roma non è morto IL RE DI ROMA NON È MORTO Amo Cordella? Sì! Sinceramente? Sì! Lealmente? Sì!... In senso estetico, e ciò significa pure qualche cosa. Quale giovamento ne avrebbe tratto questa fanciulla se fosse caduta tra le braccia di un qualsiasi marito fedele? Che cosa ne sarebbe stato di lei? Nulla. Si dice che al mondo c’è bisogno di qualcosa di più della lealtà per amare siffatta fanciulla. Questo di più l’ho io: è la falsità. Eppure io l’amo lealmente. Con severità e moderazione, vigilo su me stesso affinché tutto quel che è in lei, tutta la sua ricca e divina natura, possa mostrarsi. Io sono uno dei pochi che possa riuscirci; ella è una delle poche che lo merita. Non siamo, per questo, fatti l’uno per l’altra? Søren Aabye Kierkegaard , Diario di un seduttore Quale sarà l’ultima cosa che porterò via? Ogni persona che si è spezzata la schiena in un trasloco si è posta una domanda del genere. L’orologio da taschino che ci ha regalato nonno e che teniamo chiuso da decenni nell’ultimo cassetto della scrivania, la pirofila vinta nel novantasette con i punti della Conad, il copriletto di seta con la serigrafia della torre Eiffel, la collezione dei dischi di Lou Reed, ma solo i primi però, quelli in cui suonava coi Velvet Underground, perché da solista diventò troppo commerciale, troppo Lou Reed? Che poi la stessa umanità si distingue in due sottocategorie: chi porta via per prima la cosa cui sono più affezionati e chi, al contrario, quella cosa la porta via per ultima, per sancire il momento definitivo del distacco e come buon auspicio per il nuovo inizio. Io faccio parte della seconda categoria e il diario che ho tra le mani non è soltanto ciò che mi rappresenta di più, è il racconto più o meno quotidiano di ciò che è stata la mia vita negli ultimi ventitré anni. Eccolo qui, voluminoso e pieno di macchie; macchie del succo di frutta che bevevo quando tornavo a casa di ritorno dal liceo, macchie di caffè che ingurgitavo quando tiravo fino all’alba per studiare prima degli esami, una patacca gigantesca di birra scura, forse una Guinness. E poi tanti adesivi, di quelli che trovavo nelle confezioni di detersivo sul finire dello scorso millennio. Il diario è anche pieno di domande rimaste sospese, di pensieri intimi come polluzioni notturne, di desideri abortiti per le troppe mazzate buscate dalla realtà, di casualità che mi hanno fatto diventare un uomo, nel bene e nel male. Mamma mi guarda come se fosse il 1972 e io fossi in partenza per il Vietnam. Sono andato via di casa non so quante volte, ma poi sono sempre tornato. A volte anche dopo due ore. Certe altre volte dopo tre mesi. Stavolta invece vado via per sempre. Anzi no, non è vero neanche questo, sto facendo il melodrammatico pure io perché lo so già che tornerò presto qui con Viola per un pranzo, per una cena, forse già domenica prossima. “Avete qualcosa da mangiare per questa sera?” “Credo di sì.” “Vuoi un po’ di ragù? Mi sa che ne ho fatto troppo.” “No grazie, io comunque ora vado diretto allo stadio, forse mangio un panino lì.” “Ma ci sono ancora le partite? Non era finito il campionato?” “C’è la partita d’addio al calcio del capitano ma’.” “Ah, sì. L’ho sentito in tivù.” Mamma stavolta ha viaggiato ancora più indietro nel tempo. Ora non sono più un soldato americano che parte per la guerra, sono un ragazzino di quindici anni che va allo stadio per sentirsi parte di qualcosa di più grande di lui, più grande dell’andare bene a scuola, più grande del ‘Papà mi compri il motorino?’,più grande del primo bacio con la lingua. “D’accordo, ma stai attento. Non provocare nessuno.” “Mamma, è la partita più innocua della storia. Saremo sessantamila tifosi della Roma e basta. Cosa vuoi che succeda?” “Va bene, ma non farmi preoccupare e salutami Viola.” “Sì ma’, ciao!” “Venite a pranzo domenica?” “Non lo so, forse Viola lavora. Ti faccio sapere domani.” “Hai già ritirato il vestito dalla sarta?” “Mercoledì. Ora vado che c’è Mirco che mi aspetta allo stadio.” Mentre cammino verso quella che è la nuova casa della squadra calpesto un pensiero che mi si appiccica nella testa come un chewing gum appena sputato da qualche angelo bimbominkia e che è ancora colloso di saliva e xilitolo: sono nel bel mezzo di un giorno storico per me, per i romani, per le romane, per la città tutta. Vedo padri di famiglia che tengono i figlioletti sulle spalle e questi marmocchi, ebbri di gioia, sventolano bandiere giallorosse grandi come le vele delle barche che partecipano all’America’s Cup. I giornalisti scrivono che bisognerà attendere quarant’anni prima di vedere un altro Francesco Totti con la maglia della Roma. Eppure qui, intorno a me, di capitani ne vedo cento, mille, sessantamila anzi, quella che è la capienza massima del nuovo stadio. Tutti indossano la maglia del nostro numero dieci, alcuni quella ufficiale dello scudetto del duemilauno, altri quella con lo sponsor Barilla, laggiù c’è un ottantenne fiero che ne ha una che non ho mai visto ma che mi sembra bellissima, bianca con una duplice banda giallorossa obliqua sul davanti. Nell’aria ci sono vibrazioni intense, non ricordo di aver mai vissuto emozioni così contrastanti e simultanee. Gioia e dolore, orgoglio e tristezza, euforia e depressione. Forse solo al funerale di nonna, nonna Adeia, mi sono sentito così. Triste per il suo addio. Ora che ci ripenso, allora non riuscivo a non sentirmi felice per aver vissuto con lei non so quante giornate accese di gioia. Al Circeo, in vacanza, quando in pieno luglio, mi pare fosse l’ottantasei. Due settimane al mare; la mattina in spiaggia, il pomeriggio a spasso per il centro storico e la sera, dopo cena, le bombe calde alla crema al bar Felipe. Era bello camminare insieme lungo le siepi di Viale Argentina con la luna, alta, a farci da guardia del corpo. A fine ottobre, poi, le escursioni al parco della Caffarella a raccogliere i pisciacane e farci lo sciroppo per la tosse, quello che se ne bevi qualche sorso a inizio autunno ti protegge le vie respiratorie per tutto l’inverno. Ancora, il suo aiuto prezioso divisioni, lei nell’insegnarmi che aveva solo a la fare le licenza elementare ed era pure stata bocciata in seconda. Personalmente non conosco nessuna di queste facce eppure ci sentiamo legati come da un filo invisibile, da una passione che ci tiene vivi e ci fa sopportare il cazziatone del capo, la macchinetta del caffè rotta, il vicino che parcheggia sempre mica a spina di pesce ma a cazzo di cane, quello che taglia l’erba la domenica mattina alle otto, il fumo passivo, il crollo di Piazza Affari il venerdì pomeriggio, il ciclo delle nostre compagne. Ci vorrebbe una penna decisa e raffinata per descrivere una serata così piena di significati e che ci è stata, oggi, regalata dalla Storia. Il più grande calciatore che abbia mai vestito la maglia della Roma, romano e romanista, gioca la sua partita d’addio al calcio nella prima partita che si tiene nel nuovo stadio della squadra. La fine e l’inizio che si danno il cambio, la tristezza che cede il testimone alla speranza, il vero senso della vita è, finalmente, qui messo in scena. Dunque, chi meriterebbe di raccontarla una storia così? Forse ce ne vorrebbe qualcuno che in qualche modo abbia avuto a che fare con la città eterna. Goethe visse qui per un bel periodo, Keats addirittura ci morì. Io no. Per quanto mi riguarda, e per quanto può interessare, mi accontento di scrivere, giorno dopo giorno, un diario. L’ho iniziato che avevo sedici anni. 28 marzo 1993 Domenica a casa da solo. Ho appena finito di leggere I killer venuti dal buio. Dylan Dog deve indagare sul perché tre psicopatici col mantello nero vogliono ammazzare Jessy, una ragazza che desidera a tutti i costi diventare una showgirl. Ci sono parecchi morti ammazzati, e la cosa mi entusiasma. Ma il finale è di gran lunga la parte migliore della storia. Pare che nei sotterranei della stazione dei treni di Londra ci sia un varco temporale che si attiva durante i sogni e conduce nel futuro. Davvero una figata! Quando avrò diciotto anni voglio andare a vedere se è vero. Alessandro preferisce le trame più psicologiche, ha detto che Il lungo addio è la storia più bella che abbia mai letto. Non sono d’accordo. Dylan deve dare la caccia a mostri e fantasmi, che senso ha raccontare un amore di anni fa? Nemmeno sono andati a letto! Ora mi devo mettere a studiare perché la prossima settimana ho pure il compito in classe di matematica e martedì l’interrogazione di latino. Latino. Che palle. Forse più tardi viene Daniele a fare merenda e a farmi copiare gli esercizi di inglese per domani. Ha detto pure che forse mi vende le sue Nike Jordan, quelle nere con le strisce rosse, che figata! Abbiamo lo stesso numero e gli ho offerto sessantamila lire, speriamo che accetti. Ah, la Roma sta giocando a Brescia e vince. Alla radio Alberto Mandolesi dice che al posto di Rizzitelli sta entrando un ragazzino di nome Totti che ha appena sedici anni. Cioè, questo qui c’ha l’età mia e gioca in serie A e io sto qui a preoccuparmi dell’algebra. Che schifo la vita. M’intrufolo nel flusso di persone che si dirige verso i cancelli, siamo un oceano di fedeli che vuole rendere omaggio alla persona che ci ha fatto piangere, ridere, esultare e bestemmiare per quasi un quarto di secolo. Da dietro mi sento tirare i capelli, forse qualcuno che conosco vuole farmi uno scherzo. Che sia Mirco è impossibile, chi altro può essere dunque? Mi volto e scorgo una ragazza dai capelli ramati e il sorriso convinto “Ehi, ero sicura che fossi tu, come stai?” Provo a fare mente locale ma stavolta ce l’ho impastata come polenta taragna, e in tutta onestà non me ne frega niente di fare una gaffe nel non ricordare chi sia questa. Comunque piacente nei suoi quarant’anni. La mia stessa età. “Abbiamo fatto l’amore nel maggio del duemila due, ricordi?” A dire il vero no. “Ne è passato di tempo…” Più che il tempo, ne sono passate di femmine. “Eravamo in quella specie di catapecchia in campagna; mentre i tuoi amici giocavano a schiacciasette sull’erba, tu giocavi a nascondino dentro di me.” “Ah ecco” rispondo imbarazzato “è probabile che questo sia successo per davvero.” Lei abbozza un sorriso un po’ forzato e socchiude gli occhi. In quella fessura leggo la delusione di essere stata, per me, soltanto la distrazione di un pomeriggio di tarda primavera. “Mi chiamo Laura, almeno il nome potresti ricordarlo.” Ma a me non va di portare avanti la conversazione, c’è Mirco che mi aspetta non so dove e poi è la prima volta che entro nel nuovo stadio. Devo ancora capire quale sia l’ingresso giusto. “Sei sposato ora?” chiede la donna. “Non ancora, lo sarò il ventiquattro luglio però”, sorrido sperando che mi lasci entrare in curva senza ulteriori ramanzine sul mio passato di sciupa femmine. “Allora auguri! Spero che il nome di tua moglie lo ricordi. Può essere utile quando farete le partecipazioni.” Ingoio l’ultima provocazione di Claudia, credo che abbia detto di chiamarsi così, e proseguo verso quello che al ‘Corriere dello Sport’ hanno ribattezzato Colosseo 2.0 in attesa che lo stadio definitivo. adotti un nome ufficiale, Preferibilmente quello di uno sponsor. L’incontro appena terminato allunga però un’ombra fastidiosa su di me; nonostante ci siano trentacinque gradi e l’ottanta per cento di umidità, come mi informa lo smartphone, sento un brivido di freddo aggredirmi la schiena. Quante donne che ho sedotto e abbandonato venticinquennale nel corso carriera della di mia playboy potrebbero esserci qui intorno, fuori e dentro il nuovo stadio senza nome? Una volta fecero una lunga intervista a Totti, sul suo modo di vivere la città. Egli rispose che il suo più grande cruccio era quello di non poter fare una passeggiata per le vie del centro; rivelò al giornalista che erano anni che non andava a via del Corso perché nessuno gli avrebbe permesso di farlo. Uomini, donne, giovani, vecchi e bambini lo avrebbero fermato a ogni passo per chiedergli un autografo o per fare una foto insieme. Può sembrare una sciocchezza ma nelle sue parole si avvertiva tutta la frustrazione di non poter vivere fino in fondo la sua città, lui che di questa città è il simbolo più luminoso e acclamato. Con le dovute proporzioni neanche io sono tanto libero di andare allo stadio, a teatro, a un concerto di Ligabue. Quante “Claudia” ci sono in mezzo a questo oceano di tifosi romanisti? Quante volte ho fatto tana? Quante donne potrebbero fermarmi per chiedermi prima una foto da far vedere al figlio che non ha mai conosciuto il padre e subito dopo un mio autografo su un documento di un giudice che sancirebbe il riconoscimento di paternità? Non lo so, sul diario questo non c’è scritto perché i record non mi interessano, io amo la donna. A occhio potrebbero essere duecentoquarantacinque. Tante quanti i gol di Totti in serie A, forse qualcosa in meno. Però poi ci sono anche due o tre interiste, una mezza dozzina di juventine, di sicuro ce n’è una che tifa Napoli. E poi una del Bayern Monaco, un’altra del Valencia anzi, erano due quelle di Valencia! Ancora Praga, Malmoe, Parigi, New York, Bratislava, Zurigo. Riflettendoci però, più che a Totti, assomiglio a Luciano Marangon, terzino sinistro della Roma nella stagione ’81 - ‘82. In un’intervista che fece scalpore raccontò come, terminata la carriera ad appena trentun anni, fuggì a New York per accumulato: scrollarsi di “Comprai dosso lo stress un lo di trecentocinquanta metri quadrati su tre piani, l’ideale per le mie feste preferite: apri la casa e ti entra chiunque, dallo spacciatore al poeta, dalla modella all’attore. Ogni sera cinquecento persone e via, a divertirsi fino all’alba. È passata tutta la gente di Hollywood che ai tempi contava: Richard Gere, Oliver Stone e le modelle Linda Evangelista, Cindy Crawford, Carol Alt, Naomi Campbell. L’invito era aperto a tutti, e non c’era orario di chiusura: a volte andavo a dormire con ancora cento persone che giravano per casa.” Due anni dopo Marangon lasciò gli Stati Uniti per una nuova avventura: “Ho rilevato un chiosco a Formentera e ho inventato il ‘chiringuito’: la gente veniva per l’aperitivo, beveva e rimaneva fino all’alba. Ho aperto la stessa attività anche a Rodi e a Santo Domingo. In tutto ho girato tanto, ho contato i paesi in cui ho messo piede e sono ben centododici.” Ma anche quando era in attività il sesso, al buon Luigi, non è mai mancato: “Ho avuto tantissime donne, e sono orgoglioso. Le ragazze mi telefonavano: ‘Ho sentito parlare di te, voglio conoscerti’. E io le accontentavo. A volte, ed è successo almeno una decina di volte, mi chiamavano e dicevano: ‘Sono incinta’. Cercavano di incastrarmi, è il rischio del mestiere.” Tra le sue conquiste più di un personaggio famoso: “La figlia di Benz, quello della Mercedes, mi ha chiesto di sposarla. Mi sarei sistemato per tutta la vita, ma lei non era proprio una bellezza e poi preferivo guidare le Porsche. Sono uscito anche con Stefania di Monaco e con una soubrette di cui però non voglio dire il nome. Sono un malato del sesso, ma solo in forma classica, niente rapporti sadomaso o gay. Il sesso era il mio doping: lo facevo anche la domenica mattina, a casa o in ritiro, mi rilassava ed ero più in forma.” E Marangon non si riferisce solo a rapporti a due: “Farlo con più donne è il sogno di tutti gli uomini, e io ho un record: sette donne contemporaneamente. Mica tutti i giorni, solo una volta nella vita. Ma mi è successo.” No dai, così è troppo anche per me. Quando arrivo al cancello dedicato a Di Bartolomei mi fermo e mi guardo attorno; il flusso di tifosi non si ferma, mi scuso per la mia presenza che intralcia la loro voglia di tuffarsi dentro una festa pazzesca. Mi affaccio dentro e vedo Mirco che fuma, tossisce perché non lo sa fare, prova a tirare di nuovo ma la sigaretta gli cade dalle mani e allora lui fa una giravolta su se stesso per provare a prenderla ma non ci riesce. Un signore che ha assistito prontamente un pacchetto alla di scena Camel sfila dal taschino della camicia e glielo offre. “No grazie” intervengo io “non ha mai fumato, non vorrà farlo iniziare adesso che ha quarant’anni!” I due mi guardano con ostilità, come se fossi io quello strano. Mirco afferra comunque la sigaretta, la fa passare tra l’indice e l’anulare con una specie di gioco di prestigio ma quella mica scompare, è ancora nella sua mano. “No scusa, davvero hai iniziato a fumare?” lo assalgo con tono accusatorio. “Sì, voglio arrivare a fumare venti sigarette al giorno. Sono già a dieci”, si difende. “Non capisco, nessuno ha iniziato a fumare ponendosi un obiettivo come fai tu. Che cosa c’è sotto?” Mirco non demorde, cerca il conforto del signore che gli ha allungato il pacchetto ma quello si è dissolto nel nulla in un abracadabra. “Voglio mettermi alla prova. Voglio diventare dipendente dal fumo per scoprire se è davvero così difficile smettere come dicono…” Rimango interdetto per la seconda volta nel giro di cinque minuti. Per di più stavolta avverto un leggerissimo senso di responsabilità. “Amico, non potresti verificare la tua capacità di controllo evitando quella merda? Potresti, per esempio, cercare di evitare di comprare scarpe da maratoneta ultimo modello ogni due settimane!” e indico le orribili cose color arancione e blu che porta ai piedi. “Ah, non te l’ho detto che mi sto allenando per la maratona di Roma?” “Dovresti andare dal gommista allora, non da Decathlon” e indico le ruote della carrozzina. “E infatti queste scarpe hanno la suola fatta in collaborazione con la Continental per garantire un maggior grip sull’asfalto. Guarda tu stesso se non ci credi.” Non ci credo no, mi accovaccio sotto la sedia a rotelle e controllo i suoi piedi: cazzarola, è vero. Ancora una volta Mirco m’ha fatto il gioco di prestigio di farmi fare la figura del pollo quando invece ero io a volerlo canzonare, e lo ha fatto prendendo spunto addirittura dalle mie stesse parole. Ma come fa? Nel nuovo stadio le barriere architettoniche non esistono, provo un certo fastidio soltanto quando percepisco un’espressione di scherno nel volto di alcuni adolescenti che guardano Mirco impennare e fare una piroetta per incastrarsi nel suo box riservato. “Cos’hai portato?” chiede indicando con lo sguardo il mio diario. “È l’ultima cosa che porto via da casa dei miei; il trasloco è davvero finito.” “Da’ qua, fammelo leggere.” 4 settembre 1994 Iniziano gli esami di riparazione e io mi sto cacando sotto. Domani ho latino, martedì matematica e giovedì disegno tecnico! Questa estate non ho fatto altro che prepararmi per essere promosso in quinto liceo. Ho pregato tutti i giorni, mattina e sera, ho recitato fioretti in onore di tutti i Santi del calendario. Tempo per lo studio invece quasi niente, io e Marta abbiamo sperimentato tutte le posizioni e abbiamo scoperto che fra noi c’è una grande intesa sessuale. Spero con tutto il cuore di essere anche quest’anno il suo compagno…di banco. Vorrebbe dire che sono stato promosso, per quanto riguarda invece le conquiste femminili mi piacerebbe uscire con Tamara, la tettona mora della quinta B. “Ah ah” Mirco esplode in una risata fragorosa “eri davvero divertente ventidue anni fa! Quand’è che invece sei diventato il pesantone che sei oggi?” La partita non è ancora iniziata, al centro del campo sfilano i calciatori più rappresentativi della Roma degli ultimi due decenni. C’è Batistuta che sembra aver mantenuto un buon peso forma, Cervone ha sempre la faccia da bandito mentre Abel Balbo, dopo anni di inattività, è grasso come lo era Adriano dopo trenta giorni di ritiro. Alcune majorette mostrano cosce lunghe e culetti tonici, se non mi sposassi fra due settimane farei un pensierino su quella biondina al centro, la terza da sinistra. Forse potrei suggerire a Mirco di andare da lei e invitarla alla festa d’addio al celibato che mi stanno preparando. Lui continua a leggere interessato; all’improvviso realizzo che quest’oasi di pace e di sorrisi potrebbe presto essere spazzata via da un sentimento di rimorso e di senso di colpa provocato dalla lettura del mio diario. Cerco di distrarlo ma l’inizio del match va per le lunghe e, sebbene la visione del nuovo stadio sia una succulenta novità, avverto dalla tensione sulle sue braccia che Mirco si sta pericolosamente avvicinando, nella lettura, alla data che ha interrotto. la sua vita. Fino a cambiarla per sempre. 10 ottobre 1998 Un cazzo di incidente del cazzo! Gliel’avevo detto che quella moto era troppo potente per lui. Ma come si fa a passare da un Booster, seppur modificato, ai centocinquanta cavalli di una Yamaha R1? Servono pratica, esperienza, sensibilità. Per fortuna è uscito dal coma, ma adesso i medici dicono che ha delle lesioni alla colonna vertebrale. Gli si è rotta una vertebra, si è scheggiata e ha fatto danni. Difficilmente potrà tornare a camminare. Che ingiustizia, ha appena ventidue anni! Non posso dire che non se la sia cercata, è sempre stato un pazzo a guidare il motorino ma il prezzo che sta pagando è troppo alto. Tremo a scriverlo ma sarebbe stato meglio per lui se fosse morto… Getto uno sguardo sul mio diario, a giudicare dalle pagine che ha sfogliato Mirco sta leggendo proprio il pezzo che lo riguarda, che ci riguarda. Io mi sento poco bene, nonostante Antonio Cassano stia facendo il clown al centro del campo, mi viene da piangere. “Roberto, vieni qua.” Mi volto verso di lui, mi sento colpevole come se fossi un cucciolo di labrador che ha appena devastato le gardenie appena piantate in giardino. Mirco però sorride “Hai visto che scemo Cassano?” e poi indica pure la majorette che per qualche istante aveva catturato la mia attenzione. “Sono troppo felice di essere qui con te, e godermi questo spettacolo.” Scoppio a ridere e a piangere nello stesso istante, anche questa è una cosa che non mi succedeva da un sacco di tempo; è come quando piove col sole, in quella circostanza mi viene voglia di volgere lo sguardo verso l’alto e chiedere come sia possibile una cosa del genere, se l’universo nel grande quello non ingranaggio sia un che bug, è un malfunzionamento improvviso e imprevisto. Poi la partita inizia, il risultato non è importante ovviamente; ci divertiamo a vedere giocate che nelle partite serie non verrebbero neanche tentate, Samuel non ha perso lo spirito di grande guerriero argentino e infatti, per evitare che Delvecchio vada dritto in porta lo stende a terra con un brutto fallo che rischia di stroncargli per sempre la carriera di opinionista alla radio. A metà del primo tempo mi arriva un messaggio da Viola, vuole sapere a che ora torni; ma io non lo so perché stasera ho voglia di stare con Mirco, di sicuro dopo ci andiamo a mangiare un panino dallo zozzone, quello che apre una ciriola e poi tu ci puoi mettere quello che ti pare: peperoni, formaggio asiago, melanzane sottolio, salame ungherese, alici, lattuga, zenzero, nutella. Pure tutto insieme sì, la leggenda narra che lo zozzone non abbia mai suggerito alcun abbinamento e non abbia mai storto il naso di fronte a una richiesta, neppure alla più esotica. Il primo tempo finisce con un autogol di Annoni contrario che e dribbla poi i suoi simula una compagni al perdita di conoscenza che provoca una ola di risate e applausi; gli altoparlanti sparano a tutto volume Roma capoccia, la qualità del suono è tale che mi vien da pensare che qui, ogni tanto, si potrebbero anche tenere dei concerti. Mirco rimane a bocca aperta osservando il colpo d’occhio di quello che è già stato ribattezzato il Gigante, il pezzo di curva stracolmo di tifosi che tutti insieme sembrano un unico, altissimo ultrà della Roma che canta e che sembra davvero invalicabile, mette i brividi. Speriamo che lo stesso effetto lo faccia agli avversari che verranno a giocare qui. Le coppiette se ne vanno via, io faccio fatica a pensare che esista un tipo di amore più grande di questo; o forse è l’amore a essere unico, così come quei ventimila scalmanati in curva mi appaiono essere un tifoso solo? Durante l’intervallo Voeller viene acclamato, noi intoniamo lo stesso coro che gli cantavamo nel millenovecento ottantotto, alla sua seconda stagione qui. “Tedesco vola, sotto la curva vola, lo stadio s’innamora, tedesco… vola!” Lui si commuove, si porta le mani sul volto e ringrazia il pubblico indicandosi il cuore. Il tempo per lui s’è fermato lì, per Mirco giusto un decennio dopo. Per me invece continua a correre come faceva Cafu sulla fascia destra e lo fa senza darmi un attimo di tregua per riflettere, per capire se sto prendendo una decisione saggia o se sto compiendo la più grande stronzata della mia vita. “Quanto manca?” m’interroga Mirco come faceva la professoressa Bisegni al liceo. “Due settimane, più o meno.” “Porca riconsegna vacca, il ci siamo diario allora!” che per e mi oltre quarantacinque minuti ha custodito tra le gambe addormentate, sicuro che da lì nessuno lo avrebbe trafugato. Mi sento in colpa come se la Prof mi avesse rimandato al posto con un brutto tre sul registro, per non aver aperto bocca. No, non sono felice di sposarmi. Sono solo confuso. 29 giugno 2000 Che giornata stupenda! Stamattina ho dato Diritto penale I (ho preso ventisette) e ora mi mancano tre esami per terminare il terzo anno. È la prima volta da quando ho iniziato l’Università che intravedo una possibilità di arrivare alla fine di questo percorso. La scorgo, è ancora piuttosto indefinita nella forma ma la intuisco! Il pomeriggio ho fatto di nuovo l’amore con Alice, che femmina spettacolare! Mi esalta il suo profumo, lei dice di non usare il deodorante perché le irrita le ascelle e a me piace così. L’ho annusata e leccata a lungo, mi eccita da morire. Quasi mi dispiace partire per gli Stati Uniti cogli amici, come farò a stare senza di lei per venti giorni? In più, come se tutto ciò non bastasse, è appena finita la partita dell’Italia contro l’Olanda ai campionati europei. Ai rigori Totti ha calciato un cucchiaio che ha mandato Van der Saar a farfalle ah ah! Che spettacolo, ho festeggiato con tutti gli amici a casa di Tommaso, ci siamo ubriacati e adesso sono ancora ciucco, già non mi ricordo più quello che o scritto e se ho comesso erori. Siamo in finale, ora dobbiamo battere la Francia. Daje! Il secondo tempo scorre via veloce e su tutti noi cala il gelo, rabbrividiamo come se Capello avesse deciso di sostituire Vincenzo Montella con Massimo Marazzina e dentro lo stadio cresce la consapevolezza che la carriera quasi venticinquennale del nostro capitano sta finendo per davvero e noi siamo i testimoni oculari di un altro pezzo di storia della città eterna, al pari di Porsenna che vide Muzio Scevola bruciarsi la mano per aver sbagliato bersaglio, come i fortunati che assistettero alla costruzione della fontana dei Quattro Fiumi da parte del Bernini, come quelle persone che all’idroscalo di Ostia videro uccidere Pier Paolo Pasolini e non sentirono mai l’urgenza di rivelare alla magistratura il nome dei veri assassini. A un certo punto lo schermo gigante inquadra la tribuna d’onore; tra politici che vogliono accattivarsi le nostre simpatie e tronfi personaggi dello spettacolo, scorgo il viso dolcissimo di Ilary Blasi. Ne ho avute di donne altrettanto affascinanti ma lei ha qualcosa di proibito, e questo ne accresce ancora di più lo charme. Potrei tornare indietro agli ingressi, i controlli a questo punto della partita sono meno rigorosi; dopo potrei scalare i gradini come uno sherpa metropolitano e raggiungere la tribuna vip, presentarmi come un ex compagno di Francesco, uno che giocava con lui ai tempi della squadra giovanile, prendere prima spazio e poi confidenza fino a… Il pensiero di quello che farei a Ilary mi entra in testa a gamba tesa, il mio sacro rispetto per il capitano lo butta fuori con un cartellino rosso diretto e così trascorro gli ultimi minuti del match col capo chino, in religioso silenzio per aver fatto tale pensiero peccaminoso. Mirco si sgancia dalla postazione, sappiamo già che per evitare problemi col deflusso è meglio anticipare l’uscita dallo stadio; siamo sicuri che la maggior parte dei presenti rimarrà qui il più a lungo possibile perché andare via significherebbe dare l’addio definitivo al Totti calciatore. Nella nuova casa non mi trovo a mio agio. Mi devo ambientare. Certe sere torno ancora da mamma, con la scusa che devo incontrare un cliente di Prati dico a Viola che dormo lì per evitare il traffico della mattina. In verità non è una scusa, da lì faccio prima e quindi perché dovrei stare in macchina quaranta minuti in più? Certo, Viola non è contenta di dormire da sola. Dopo il matrimonio sarà tutto diverso, mi obbligherò a comportarmi da marito, ma finchè non siamo sposati ufficialmente mi sento libero di decidere in piena autonomia orari e luoghi in cui trascorrere al meglio la mia vita da celibe. A proposito di celibato… “Ciao, sono io. Mi dici che cosa avete in mente di fare per la mia festa? Devo saperlo in anticipo, la prossima settimana ho due udienze in tribunale e poi forse devo andare pure a Velletri… no, non è che voglia saperlo prima… sì, lo so che è una sorpresa però ho degli impegni di lavoro che devo spostare se partiamo all’improvviso, capisci? Ok dai, ciao.” Viola si affaccia nel salottino con un grembiule da cucina che le censura le splendide gambe, la parte del suo corpo che ho notato per prima, e ha un’espressione di curiosità dipinta sul volto che è color rosso pachino. Dunque, è così che la vedrò per i prossimi trenta o quarant’anni? “Parlavi forse dell’addio al celibato?” “Sì. Ma ancora niente di certo.” “Fra cinque minuti vieni in cucina amore, è quasi pronta la cena.” Di nuovo quella strana sensazione di disagio. Sono sempre stato bravissimo a intrattenere una conversazione a tavola, specialmente con una donna. Ma di cosa dovrei parlare con quella che fra dieci giorni esatti sarà mia moglie? Se avessimo già un figlio sarebbe facile, parleremmo di lui, della marca migliore di pannolini, se ha fatto il ruttino, se il numero di poppate consigliate dal pediatra è corretto o se è meglio consultare il forum di neomamme.it. Ma io e lei, soli, di cosa potremmo discutere? Ho un’ansia da conversazione, vedo gli ultimi minuti del telegiornale sportivo in apnea. Poi mi alzo indolente dalla poltrona che ho comprato all’Ikea e che ho pure montato male e infatti traballa come una finta di Garrincha e mi reco claudicante nella cucina che c’è costata la bellezza di duemila quattrocento novantanove euro. Mercoledì pomeriggio, subito dopo aver messo in ordine le carte per il processo Castelli, sono dalla sarta. “Forza Signor Roberto, lo provi ancora una volta…” Il tight color fumo di Londra è perfetto in vita ma forse scende troppo, mi arriva fin sotto le ginocchia e, guardandomi allo specchio, mi sembra di indossare il mantello di Superman anziché un abito nuziale. Mi lamento con Maria ma lei non sente ragioni, dice che va bene così. “Non sia così impostato di spalle, più rilassato, su!” Facile a dirsi, io mi sento avvolto come una melanzana nel Domopak. Non lo capisce, signora Maria, che per me compiere questo passo è come per un supereroe sconfiggere il più cattivo dei cattivi? È una prova ardua, difficile, problematica. “Forse va alleggerito poco poco sul petto; mi raccomando, Signor Roberto, la cravatta non la metta di colore nero altrimenti gli invitati la scambiano per il maggiordomo e la guardano storto se non gli versa continuamente lo champagne. Le consiglio un Plastron in tessuto di microfibra, se vuole gliene faccio provare uno già adesso.” Non afferro neanche una parola di quello che Maria sta dicendo, l’unica cosa su cui concordo è che tutta questa recita è un plastrocchio gigantesco. “E poi la tuba, tassativamente di colore grigio per smorzare i toni.” “Ah ecco, smorzare i toni; questa cosa qui, sì che mi calzerebbe a pennello.” Mentre cammino verso casa, casa mia non quella di schifosissima mamma, calpesto preoccupazione, un’altra molle e puzzolente: il mio vero problema non sarà né la festa d’addio al celibato né tantomeno il giorno del matrimonio dove sarò impegnato a stringere le mani dei parenti e ad ammettere di fronte agli amici che la carriera del più grande seduttore che sia mai esistito, il re di Roma, è finalmente terminata. A provocarmi ansia è la prospettiva di dover trascorrere ventiquattro giorni in Polinesia, io e Viola. Da soli. Lei dice che è il coronamento di un sogno, io non sono dello stesso avviso; il viaggio di nozze lo vedo più come un test drive per capire se la macchina, in questo caso il partner, risponde perfettamente alle esigenze. Del resto, proprio come succede con una nuova automobile, il viaggio andrebbe definitivo. Perché fatto prima invece si fa dell’accordo dopo? Sì, abbiamo convissuto per qualche settimana ma non è la stessa cosa perché tante pecche escono fuori solo in circostanze particolari. E se in Polinesia scoprissi che lei soffre di meteorismo, ma solo quando c’è un alto tasso di umidità nell’aria e solo dopo aver mangiato mango e papaya insieme? Cosa dovrei fare in questo caso, riportare Viola dal prete che ha officiato la cerimonia e dirgli che non va bene, che deve risolvere la sua flatulenza e se proprio non può, allora che mi desse una moglie sostitutiva? Entro in casa e Viola è ancora una volta ai fornelli; spero che non sia una messinscena prematrimoniale che preveda che lei si stufi di cucinare il giorno dopo il rientro dal viaggio di nozze per essere poi invitata a vita nel ristorante più caro del quartiere che, guarda caso, è proprio qui sotto. “Ciao amore mio, bentornato! Come è andata la giornata? Sei riuscito a passare dalla signora Maria?” “Sì, ti saluta.” “Oh che tenera… e il vestito? L’hai preso?” “Ancora no, aveva bisogno di ulteriori piccole modifiche.” Lei non sembra preoccupata, torna a sminuzzare le carote e a mescolare, con la cucchiarella di legno, qualcos’altro che bolle in pentola. Come un mentalista di professione cerco di individuare il momento ideale per farle la proposta che non si aspetta e che la lascerà a bocca aperta. Ecco, adesso che si sta per mettere seduta a tavola, “Vi…” no cazzo, ha dimenticato il sale e quindi torna indietro; aspetto qualche secondo, sento il cuore battere più forte, faccio un lungo respiro, vedo che torna e perciò mi tuffo in ginocchio ai suoi piedi, in mano ho una fetta di pane di Lariano luccicante d’olio extravergine d’oliva: “Vogliamo portare… Mirco con noi, in viaggio di nozze?” Viola si guarda intorno, leggo nei suoi occhi verdi l’aspettativa di vedere un’amica con una telecamera nascosta, pronta a registrare la sua reazione dopo lo scherzo. “Scusa?” “Ho pensato che potremmo farlo felice…” “Roberto, te l’ho sempre detto che di te amo la fantasia e l’originalità ma credo che tu stia esagerando; nessuno, nessuno ha mai osato fare un viaggio di nozze in tre. Certe volte ho l’impressione che tu non sia pronto a sposarmi.” “Ma che dici amore? Certo che sono pronto, è solo che lo vedo così triste.” “Non mi pare proprio. Anzi, Alessia mi ha detto che è pazzo ogni giorno di più, tu lo sapevi che si è fatto costruire in giardino un promontorio di terra alto tre metri e che da quindici giorni si sta esercitando a fare un salto mortale con la sedia a rotelle?” Stavolta sono io a controllare che non ci sia una telecamerina GoPro installata dietro il tostapane, accesa per riprendere il mio stupore. “Lo sai come s’è giustificato lui? Lo vuoi sapere?” “Bè, a questo punto…” “Mirco ha detto che è nelle condizioni ideali per provarlo perché tanto, anche se si rompe l’osso del collo durante il salto, è comunque già paralizzato!” Sì, in effetti è una cosa che potrebbe aver detto. “Vabbe’, quindi non lo vuoi portare con noi perché è disabile?” Adesso Viola cambia tono ed espressione, è davvero incazzata. “Non lo voglio portare perché il viaggio di nozze, da che mondo è mondo, si fa in due: marito e moglie.” “Non è perché lo discrimini quindi?” “Lo discrimino perché è completamente fuori di testa, non perché sia disabile! Quello è capace di farci fare il bungee jumping dal Monte Orohena mentre io la cosa più adrenalinica che ho in mente di fare è osservare le foglie di una palma che oscillano di fronte a me per la brezza marina.” “Che figata” rifletto “questo è sicuramente uno dei nostri ultimi litigi da fidanzati”.Mi vien voglia di trascriverlo sul diario tanto è emozionante e allora corro in camera da letto, apro il cassetto e lo tiro fuori per leggere qualche altro passo.