Una carriera nei videogiochi

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Una carriera nei videogiochi
Una carriera nei videogiochi
UNA CARRIERA NEI VIDEOGIOCHI
Cerchiamo una persona in forma, entusiasta,
per sviluppare un nuovo videogioco.
Non si richiedono esperienza o qualifiche.
Massima paga più extra.
Telefono: 0181 340 1225
Era solo un foglietto come tanti nella vetrina dell'edicola, ma Kevin capì subito che
quello era il lavoro per lui.
Aveva sedici anni, aveva appena lasciato la scuola e possedeva almeno due delle
caratteristiche richieste. Non aveva esperienza e non aveva qualifiche. A Kevin piacevano i
videogiochi.
L'anno prima, fregandosene delle regole, si era portato a scuola il suo computer
tascabile ogni santo giorno, e quando un insegnante esasperato glielo aveva confiscato nel bel
mezzo di una lezione di geografia (proprio quando stava per trovare l'ultima stella d'oro in
Moon Quest!), Kevin era uscito dall'aula ed era andato a comprarsene un altro con lo schermo
a colori. Aveva trascorso il resto del trimestre passando da un videogioco all'altro. Poi, una
volta a casa, scaraventava lo zaino in un angolo e, ignorando i compiti, accendeva il portatile
del padre per una partita di Brain Dead o Blade of Evil, o il suo per una di Road Kill 2.
La sua stanza era stipata di riviste sui computer. E va anche detto che non aveva mai
incontrato la maggior parte dei suoi migliori amici. Si limitava a scambiare messaggi con loro
via Internet... soprattutto dritte sui videogiochi: i codici, le scorciatoie.
E non solo. Ogni sabato prendeva il bus per Londra e si tuffava nelle sale giochi. Ce
n'era una fantastica a Piccadilly, su tre piani e zeppa di tutte le ultime versioni. Kevin entrava
nell'ascensore con le tasche gonfie di monete. Per lui non esisteva suono più bello di una
moneta che rotolava nella fessura. Alla fine della giornata tornava a casa barcollando, con le
tasche e la testa vuote, un sorriso inebetito stampato sulla faccia.
Di conseguenza, aveva lasciato la scuola ignorante come quando l'aveva iniziata. Aveva
fallito tutti gli esami... quelli ai quali si era preso il disturbo di presentarsi, cioè. L'università
era ovviamente fuori discussione... neanche conosceva l'ortografia. E, come aveva cominciato
a scoprire, c'erano scarse opportunità di lavoro per tipi come lui.
Non che la cosa lo turbasse. Da quando aveva tredici anni non si era mai trovato a corto
di denaro, e non vedeva perché le cose non dovessero continuare così. Kevin era il minore di
quattro figli e la sua famiglia viveva in una grande casa a Camden Town, un quartiere a nord di
Londra. Suo padre, un uomo tranquillo dall'aria triste, faceva il turno di notte in una
panetteria e dormiva per la maggior parte del giorno, perciò loro due non s'incrociavano mai.
Sua madre lavorava come commessa in un negozio. Kevin aveva un fratello nell'esercito, una
sorella sposata e l'altro fratello che si preparava a diventare tassista.
Quanto a lui, era un ladro. E bravo, per giunta. Era così che si era procurato i soldi per il
computer e i videogiochi. Così si pagava le sale giochi. Aveva cominciato col taccheggio: il
supermercato, negozietti di quartiere, la libreria, la farmacia in High Street. Poi aveva
conosciuto altri ragazzi che gli avevano insegnato la più rischiosa - ma assai più fruttuosa arte del furto d'auto e del furto con scasso. In un certo pub di Camden Town poteva intascare
cinque sterline per un'autoradio, venti per uno stereo o una videocamera decente, e domande
zero. Non lo avevano mai preso. E, per come la vedeva lui, se fosse stato cauto non l'avrebbero
preso mai.
Stava passando davanti all'edicola quando vide il foglietto. Il lavoro - lavoro onesto,
cioè - non lo interessava. Ma in quell'annuncio c'era qualcosa che stuzzicò la sua curiosità. Per
cominciare, la parte su "massima paga più extra". E non solo. Sapeva d'essere in forma. In fin
dei conti, si era allontanato a tutta velocità da un buon numero di finestrini d'auto spaccati e
porte sul retro scassinate. E di sicuro era entusiasta, almeno riguardo ai videogiochi.
Naturalmente poteva essere una perdita di tempo... per esempio se cercavano un
programmatore o simili. Ma... Perché no. Che diavolo! Perché no?
Fu così che, tre giorni dopo, si trovò davanti a un ufficio in Rupert Street, nel cuore di
Soho. Per incontrare una certa Miss To. Così gli aveva detto di chiamarsi. Kevin aveva
telefonato da una cabina pubblica, ed era stato talmente soddisfatto di avere ottenuto un
appuntamento che, una volta tanto, non aveva distrutto il telefono.
Adesso, però, non si sentiva più così sicuro. L'indirizzo che gli era stato fornito era
quello di un palazzo di mattoni rossi stretto fra una pasticceria e una tabaccheria. Così stretto,
in effetti, che c'era passato davanti due volte prima d'individuarlo. Ed era anche vecchio, con
finestre polverose e un portone degno di una segreta medievale. Sul muro lì accanto, piuttosto
in basso, c'era una targa d'ottone. Kevin dovette chinarsi per leggerla.
GALACTIC GAMES LTD
Non era un buon inizio. Non aveva mai letto quel nome in nessuna rivista. E a pensarci
bene... quale compagnia di computer metterebbe un annuncio nella vetrina di un'edicola a
Camden Town? Quale compagnia di computer avrebbe un ufficio così squallido? Fu tentato di
lasciar perdere.
Per la precisione se ne stava già andando, quando cambiò idea. Già che c'era, tanto
valeva entrare. In fin dei conti, per arrivare lì, aveva comprato un biglietto della metropolitana
(anche se, imbrogliando, ne aveva preso uno ridotto). E poi non aveva altri impegni. Tanto
valeva farsi quattro chiacchiere con quella gente... e magari fregare un posacenere.
Suonò il campanello.
"Sì?". La voce era acuta e un po' cantilenante.
"Kevin Graham. Sono qui per il lavoro..."
"Oh sì. Prego, sali. Primo piano". Si sentì un ronzio; Kevin spinse il portone ed entrò.
Vide un atrio vuoto, buio, e una stretta rampa di scale. L'intera faccenda lo convinceva
sempre meno. Le scale erano sbilenche. Quel posto aveva l'aria di essere vecchio di cent'anni.
E il portone massiccio gli si era richiuso alle spalle, cancellando ogni suono dalla strada.
Ancora una volta provò la tentazione di girare sui tacchi e filarsela, ma era troppo tardi.
Una porta si aprì in cima alle scale, e un fiotto di luce dorata si riversò nell'oscurità. Una figura
si affacciò alla ringhiera. "Prego. Da questa parte..."
Kevin salì e si trovò davanti una donnina - giapponese, sembrava - che indossava un
semplice vestito nero e scarpe nere dai tacchi così alti da farla inclinare in avanti. Aveva il viso
tondo e pallido, seminascosto da grossi occhiali neri. Ed era davvero piccola. Gli arrivava a
malapena al mento.
"Lei sarebbe...?" domandò Kevin.
"Io sono Miss To" si presentò la donnina. Aveva un accento strano. E lasciava una pausa
quasi impercettibile fra una parola e l'altra. "Io... sono... Miss... To. Abbiamo... parlato... al...
telefono". Chiuse la porta.
Kevin si trovò in un ufficio con una scrivania, una sedia e un telefono. Nient'altro. Sulle
pareti, imbiancate di fresco, non c'era neanche un calendario. E niente da sgraffignare da
nessuna parte.
"Il signor Go ti vede ora" disse la donnina.
Miss To e Mr Go se ne stanno a Soho. Ci sarebbe stato da ridere, ma chissà perché Kevin
non ne aveva voglia. Era tutto troppo strano.
Il signor Go occupava l'ufficio accanto a quello di Miss To. Si aveva quasi l'impressione
di attraversare uno specchio. La stanza era identica all'altra, con pareti bianche, una scrivania
e un telefono, ma due sedie. Il signor Go era piccolo quanto la sua assistente, e anche lui
portava grossi occhiali neri. Indossava un maglione un po' troppo piccolo e pantaloni a coste
un po' troppo grandi. Si muoveva a scatti, e anche lui lasciava una pausa fra una parola e
l'altra.
"Prego... entra" invitò Kevin, che esitava sulla soglia. Sorrise, esibendo una fila di denti
con più argento che bianco. "Siedi!". Gli indicò la sedia.
Kevin si sedette, più sospettoso di minuto in minuto. C'era decisamente qualcosa di
strano. Qualcosa fuori posto. Il signor Go frugò in un cassetto e ne tirò fuori una specie di
modulo. Kevin non era un gran lettore e il foglio era capovolto, ma, per quanto poteva vedere,
non era scritto in inglese. Le parole erano composte più da disegni che da lettere, e
sembravano andare più dall'alto verso il basso che da un lato all'altro della pagina. Doveva
essere giapponese, pensò.
"Come ti chiami?" chiese il signor Go.
"Kevin Graham".
"Età?"
"Sedici anni".
"Indirizzo?"
Kevin lo fornì.
"Hai lasciato la scuola?"
"Sì. Un paio di mesi fa".
"Dimmi, prego. Un buon diploma?"
"No". Kevin sbuffò. "Il vostro annuncio diceva `non si richiedono qualifiche'. Allora
perché perde tempo a chiederle?"
Il signor Go alzò la testa di scatto. Con quegli occhiali non era impossibile esserne certi,
però sembrava soddisfatto. "Hai ragione" disse. "Proprio ragione. Sì. Qualifiche non richieste.
Niente affatto. E referenze?"
"Sarebbe?" Kevin si stravaccò sulla sedia. Aveva deciso che non gli importava ottenere
o no il lavoro... e voleva che quel tappo ridicolo ricevesse il messaggio forte e chiaro.
"Referenze... di insegnanti. Genitori. Altri datori di lavoro. Per sapere che tipo sei".
"Non ho mai avuto un datore di lavoro. I miei insegnanti non farebbero che sputare
idiozie. E i miei genitori non hanno tempo da perdere. Al diavolo le referenze! Tanto a che
servono?" E con questo, pensò, il colloquio era chiuso.
Ma in quella stanza vuota e in quell'ometto c'era qualcosa che lo innervosiva. Con sua
sorpresa, il signor Go sorrise di nuovo e annuì vigorosamente. "Giusto! Le referenze possono
pure andare al diavolo. Anche se ti conosco da appena ventinove secondi e mezzo, già so che
tipo sei. E mio caro Kevin... posso chiamarti Kevin?... sei proprio il tipo che cerchiamo.
Esattamente!"
"Ma chi sareste, voialtri?"
"Galactic Games. I migliori videogiochi dell'universo. Di sicuro i più all'avanguardia da
questa parte della Via Lattea. Il nostro Smash Crash Slash 500 ha vinto innumerevoli premi. E
la nuova versione avanzata (Smash Crash Slash 500 Plus) andrà anche meglio".
"Smash Crash Slash?" Kevin arricciò il naso. "Mai sentito".
"Non è stato ancora pubblicizzato a dovere. Non in questa... zona. Ma ci piacerebbe che
tu lavorassi su questo nuovo videogioco. In questo nuovo videogioco. Se accetti, il lavoro è
tuo".
"Quanto pagate?"
"Duemila a settimana, più l'auto, più assistenza medica, più esequie a nostro carico".
"Esequie…?"
"Solo uno dei tanti extra... non che tu ne abbia bisogno".
Il signor Go tirò fuori una penna d'oro, scribacchiò qualcosa sul foglio e lo girò per
metterlo davanti a Kevin.
"Firma qui".
Kevin prese la penna. Era stranamente pesante. Per un momento ancora esitò.
"Duemila a settimana" ripeté.
“Sì. Più l’auto.”
"Che auto?"
"Quella che preferisci".
"Ma non mi ha spiegato cosa devo fare. Niente riguardo al lavoro..."
Il signor Go sospirò. "D'accordo. D'accordo. D'accordo. Lascia perdere. Troveremo
qualcun altro".
"Un momento..."
"Se non t'interessa!"
"M'interessa". Kevin aveva fiutato odore di soldi. Duemila a settimana, più un'auto! Che
importava se il signor Go sembrava matto da legare e se lui non aveva mai sentito parlare né
della compagnia né del videogioco... come si chiamava? Bash Smash Clash.
Cercò rapidamente uno spazio bianco sul foglio e vi scarabocchiò il proprio nome.
Kevin Graham. Mentre scorreva sulla pagina, la penna sembrò diventare rovente nella sua
mano. Durò appena un paio di secondi, il tempo necessario a firmare, ma subito Kevin la lasciò
cadere con un grido e sollevò le dita per cercarvi il segno d'una bruciatura. E invece niente.
Il signor Go raccolse calmo la penna, se la rimise in tasca e riprese il foglio firmato.
"Fatto" disse. "Benvenuto a Smash Crash Slash 500 Plus"
“Quando comincio?"
"Hai già cominciato". Il signor Go si alzò. "Presto ci metteremo in contatto con te". Fece
un cenno. "Prego. Vai fuori".
Kevin stava per esplodere. Una parte di lui avrebbe voluto tirare all'ometto un pugno
sul naso. Vai fuori, davvero! Ma la mano gli faceva ancora male e lui aveva soprattutto voglia
di andarsene. Poteva passare dalla sala giochi a Piccadilly. Oppure tornare a casa e farsi un
pisolino. Qualunque cosa, pur di togliersi da lì.
Tornò nell'altra stanza. Miss To non c'era, ma la porta che dava sulle scale era aperta.
Soltanto allora notò l'ennesima stranezza. La porta brillava come se tutt'intorno
all'intelaiatura fosse stato fissato un tubo al neon.
Mentre usciva, la luce gli danzò negli occhi, abbagliandolo. "Che diavolo...?" borbottò fra
sé. Filò dritto a casa, senza mai fermarsi.
Non c'era molta gente in giro, quando svoltò nella sua strada. Erano le tre e mezzo, e a
quell'ora le madri andavano a prendere i bambini a scuola o preparavano la merenda in
cucina. Quelle che non lavoravano, cioè.
Cranwell Grove era una lunga strada tranquilla a forma di mezzaluna, costeggiata da
decorose case a schiera vittoriane. Circa metà delle case apparteneva a una cooperativa, e il
padre di Kevin era stato abbastanza fortunato da ottenerne una in fondo alla fila, alta due
piani, con un portoncino di vetro colorato e l'edera che si arrampicava su un lato. A Kevin,
naturalmente, non piaceva. Aveva litigato coi vicini. (Che bisogno c'era di farla tanto lunga per
quello stupido gatto? In fondo gli aveva tirato un solo mattone...).
Ed era una zona troppo tranquilla per i suoi gusti. Troppo noiosa. Avrebbe di gran
lunga preferito vivere per conto proprio in un appartamento.
Aveva appena raggiunto il portone quando vide l'uomo. Di solito non badava ai
passanti, ma due cose in quel tizio attirarono la sua attenzione. La prima era che indossava un
completo nero. La seconda era il suo modo di camminare: rapido, deciso. E puntava proprio
verso casa sua. Senza ombra di dubbio.
Il suo primo pensiero fu che quello era un poliziotto in borghese. Infilando la chiave
nella serratura, passò rapidamente in rassegna le ultime settimane. Aveva grattato
un'autoradio da una BMW parcheggiata in Camden Road. E una bottiglia di gin dalla rivendita
di alcolici vicino alla stazione. Però, in entrambi i casi, nessuno lo aveva visto. Che fosse stato
inquadrato da una telecamera nascosta? Ma anche così, com'erano riusciti a trovarlo?
L'uomo era più vicino, abbastanza perché Kevin lo vedesse bene in faccia.
Rabbrividì.
La faccia dell'uomo era rotonda e inespressiva, la bocca una sottile linea orizzontale, gli
occhi opachi come biglie. Come se avesse subito un intervento di chirurgia plastica che lo
avesse lasciato con più plastica che pelle. Perfino i capelli sembravano dipinti sul cranio.
Più o meno a una ventina di metri da Kevin, si fermò.
"Che cosa vuo...?" cominciò Kevin.
L’uomo tirò fuori una pistola.
Kevin sbarrò gli occhi, più sbalordito che spaventato. Quella era una scena che aveva
visto migliaia di volte. Nei film e nei telefilm gli attori non facevano che spararsi addosso. Ma
adesso era diverso. Quel tizio, un perfetto sconosciuto, era sì e no a dieci passi di distanza. Era
in Cranwell Grove e aveva in mano...
L'uomo sollevò la pistola e prese la mira.
Kevin strillò e si chinò di scatto. L'uomo sparò. Il proiettile si conficcò nella porta, pochi
centimetri sopra la testa di Kevin, scheggiandola.
Pallottole vere! Fu quello il suo primo, assurdo pensiero. Quella era una vera pistola
che sparava pallottole vere.
Il secondo pensiero fu ancora più spaventoso. L'uomo stava prendendo di nuovo la
mira.
Chissà come, quando si era chinato, era riuscito a non mollare la presa sulla chiave.
Adesso, senza staccare gli occhi dall'uomo, la girò nella serratura e quasi pianse di sollievo
sentendo la porta aprirsi alle sue spalle. Vi si appoggiò e in pratica ruzzolò dentro mentre il
pistolero sparava di nuovo, stavolta colpendo il muro e facendogli schizzare addosso
frammenti d'intonaco e di mattoni. Kevin atterrò sul tappeto nell'ingresso, si rigirò, strappò la
chiave dalla serratura e sbatté la porta. Per un momento rimase lì ansante, il cuore che gli
batteva così forte da sentirlo rimbalzare contro le costole.
Impossibile che una cosa del genere succedesse proprio a lui. Un momento... cos'è che
stava succedendo a lui?
Si sforzò di riordinare le idee. Un pazzo era evaso da un manicomio e adesso girava per
Cranwell Grove, sparando a qualunque cosa si muovesse. No. Sbagliato. Quel tizio gli era
venuto dritto incontro. Non c'erano dubbi. voleva uccidere proprio Kevin. Ma perché? Chi era?
Perché proprio lui?
Sentì un trapestio all'esterno. Era ancora lì! Si preparava a entrare! Kevin si guardò
attorno, disperato. Era solo in casa?
"Mamma!" chiamò. "Papà!"
Nessuna risposta.
Poi vide il telefono. Sicuro! Avrebbe dovuto pensarci subito. Là fuori c'era un pazzo
pericoloso, e lui aveva sprecato secondi preziosi invece di chiamare subito la polizia.
Sollevò il ricevitore, ma prima di riuscire a comporre il primo 9, una raffica di pallottole
esplose tutt'attorno a lui. A quanto pareva, il suo aggressore aveva deciso di a-taccare la
serratura. Kevin sbarrò gli occhi inorridito, mentre la porta si spalancava.
D'istinto afferrò urlando il tavolino sul quale si trovava il telefono e lo fece oscillare,
disegnando un ampio arco. Fu fortunato. Il tavolino raggiunse la porta proprio mentre l'uomo
la varcava, colpendolo dritto in faccia. L'uomo barcollò all'indietro e crollò a terra.
Kevin rimase immobile a riprendere fiato, stordito. Gli spari ancora gli risuonavano
nelle orecchie, la testa gli girava.
Cos'è che voleva fare? Oh sì. Chiamare la polizia. Ma quando aveva afferrato il tavolino,
il telefono era caduto ed era finito a terra, fracassandosi. Ce n'era un altro in camera dei
genitori, ma era irraggiungibile. Sua madre chiudeva sempre la porta a chiave, da quando lo
aveva scoperto a frugarle nella borsetta.
Però in fondo alla strada c'era un telefono pubblico. Meglio fare una corsa laggiù che
restare in casa, perché prima o poi il pazzo avrebbe ripreso i sensi. E lui non ci teneva a
trovarsi nei paraggi quando fosse successo.
Scavalcò il corpo e uscì di casa.
E si bloccò. Perché c'era un altro uomo che veniva dritto verso di lui... ed era identico al
primo. Non somigliante... identico. Come due manichini nella stessa vetrina. Stesso completo
scuro. Stessa faccia vuota. Stesso passo deciso. E stava estraendo...la stessa massiccia pistola
argentata.
"Va' via!" urlò Kevin. Indietreggiò barcollando in casa proprio mentre l'uomo sparava.
Il proiettile perforò il vetro colorato del portoncino e si conficcò in un quadro nell'ingresso.
Stavolta Kevin non aveva difese. Aveva già usato il tavolino e lì intorno non c'era altro, a parte
l'ombrello di sua madre.
Doveva scappare. Non aveva alternative. Era disarmato. Inerme. Era stato appena
assalito da un matto... e ora sembrava che il matto avesse un gemello.
Mugolando fra sé, Kevin attraversò di volata l'ingresso e salì le scale, inciampando per
non perdere d'occhio la porta. Fece appena in tempo a intravedere un'ombra, e poi l'uomo
entrò deciso, camminando e sparando all'impazzata.
Un proiettile sfiorò le spalle di Kevin, che urlò e si lanciò fuori dalla finestra.
Trascurando di aprirla. Vetro e legno esplosero tutt'intorno a lui, accecandolo mentre
precipitava e atterrava a quattro zampe sulla tettoia della rimessa accanto alla cucina. Un
polso gli faceva male e, quando lo guardò, scoprì di essersi tagliato: il sangue gocciolava rosso
fra pollice e indice. Con una smorfia, tirò fuori dalla carne una scheggia di vetro. Per fortuna
non si era rotto un braccio o una gamba. Perché ne avrebbe avuto bisogno.
Dalla sua postazione accucciata poteva controllare tutti i giardini sul retro, non solo di
Cranwell Grove ma anche di Addison Road, la strada parallela. Una distesa di rettangoli di
prato verde, separati da muretti e staccionate, punteggiati da serre, rimesse, attrezzi da
giardino e barbecue.
Ma non ebbe il tempo di ammirare il panorama. Perché una mezza dozzina di uomini
armati, identici ai primi due, avanzava attraverso i giardinetti, scavalcando le staccionate,
calpestando i prati.
"Oddio..." mugolò.
Alle sue spalle, l'uomo che aveva fatto irruzione in casa si affacciò alla finestra rotta e
prese la mira. Kevin si tuffò in avanti e atterrò di schiena sul prato, una caduta che gli tolse il
fiato e lo lasciò stordito. L'uomo alla finestra sparò. La pallottola centrò un girasole,
tagliandolo a metà. Kevin scattò in piedi e corse verso il capo opposto del giardino, scavalcò di
slancio la staccionata e finì, con un grido furibondo, nella vasca dei pesci rossi del vicino. Era
bagnato fradicio. Aveva una spalla indolenzita, la ferita al braccio che pulsava e lo stomaco
sottosopra, ma il terrore gli metteva le ali ai piedi.
All'improvviso gli venne in mente che, da quando quell'incubo era iniziato, nessuno
aveva detto una sola parola. C'erano almeno otto uomini in nero a inseguirlo, e nessuno di loro
aveva detto "ba". E nonostante il fracasso degli spari, nessuno degli abitanti di Cranwell Grove
era uscito a vedere che succedeva. Non si era mai sentito così totalmente solo.
Gocciolando, uscì dalla vasca e volteggiò sopra il muro e nel giardino accanto. Vide un
cancello: lo spinse, ed emerse in uno stretto vicolo che dava sulla strada. Zoppicando - doveva
essersi storto una caviglia volando fuori dalla finestra - ne emerse appena in tempo per
saltare su un autobus in partenza.
Si accasciò sollevato su un sedile, e mentre l'autobus acquistava velocità lanciò
un'occhiata fuori dal finestrino. Quattro degli uomini in nero - o forse erano altri quattro erano arrivati in Cranwell Grove e si erano fermati in mezzo alla strada. Quattro manichini in
vetrina, pensò Kevin. A dispetto di tutto, provò un impeto di soddisfazione. Chiunque fossero,
li aveva battuti. Li aveva seminati.
E poi sentì le motociclette.
Sbucarono rombando dal nulla, superando gli uomini in nero e sfrecciando verso
l'autobus. Erano nove, enormi, tutte cromature scintillanti e pneumatici neri. E tutti e nove i
motociclisti indossavano un'identica tuta di cuoio color malva che li ricopriva da capo a piedi.
E avevano la faccia nascosta da un casco argentato e occhialoni neri.
"Oddio..." bisbigliò Kevin.
Nessuno sull'autobus sembrava essersi accorto di lui. Benché fosse sporco, coi capelli
arruffati, fradicio d'acqua e di sudore, gli altri passeggeri lo ignoravano completamente.
Perfino il bigliettaio gli passò davanti con un sorriso vacuo.
Che cosa gli stava succedendo? Che cosa stava succedendo?
La prima motocicletta si portò all'altezza dell'autobus. Il motociclista armeggiò dietro
di sé ed estrasse un'arma da un'ingombrante fondina che portava a tracolla. Kevin lo fissò a
bocca aperta. Era una specie di bazooka, un affare lungo almeno tre metri e grosso quanto un
tronco d'albero. Uggiolando di terrore, tese una mano verso il campanello. Il motociclista
sparò.
L'esplosione fu così forte da spaccare diversi finestrini. Una donna anziana con un
giornale fu scaraventata via dal sedile, atterrò in fondo all'autobus... e continuò
tranquillamente a leggere. L'autobus sterzò, salì sul marciapiede e s'infilò nella vetrina di un
supermercato. Kevin si coprì gli occhi e urlò. Il mondo gli roteò attorno mentre le ruote del
bus stridevano e slittavano sul pavimento del supermercato. Qualcosa di soffice lo colpì a una
spalla, e quando aprì un occhio vide una valanga di carta igienica piombargli addosso
attraverso lo squarcio che il bazooka aveva aperto nel veicolo. L'autobus continuò
l'attraversamento del supermercato. Investì scatole di fiocchi d'avena e bottiglie di latte,
sbandò fra le bibite e i surgelati, e finalmente si fermò fra i cibi per cani. Kevin aprì l'altro
occhio, lieto d'essere ancora vivo.
Era coperto di schegge di vetro e d'intonaco, polvere e carta igienica. Gli altri
passeggeri erano ancora seduti ai loro posti, e guardavano fuori dal finestrino, in apparenza
solo blandamente sorpresi da quella deviazione inattesa.
"Ma che diavolo avete?" urlò Kevin. "Non vedete quello che succede?"
Nessuno gli rispose.
La vecchia signora finita in fondo all'autobus voltò una pagina del giornale e gli rivolse
un sorriso vago.
Fuori dal supermercato i motociclisti parcheggiarono in un semicerchio perfetto. Poi
smontarono e s'incamminarono verso i resti della vetrina. Soffocando un singhiozzo, Kevin si
alzò sulle gambe malferme.
Ebbe appena il tempo di tuffarsi fuori dall'autobus prima che saltasse per aria,
squarciato dai bazooka come una grossa scatola rossa.
In qualche modo - accecato dalla polvere e dai detriti, assordato dal fracasso delle
esplosioni, guidato dal puro istinto di sopravvivenza - uscì dal supermercato. Saltò oltre il
bancone dei formaggi... non abbastanza in alto, però: atterrando, infilò un piede nel
Camembert e finì sul pavimento.
Al di là del bancone c'era una porta, e Kevin l'attraversò trascinando un piede che non
solo gli faceva male ma puzzava di formaggio francese stagionato. Dall'altra parte c'era un
magazzino e, più oltre, una piattaforma di carico.
Due uomini in camice bianco scaricavano una partita di carne fresca. Entrambi lo
ignorarono. Carne fresca. Di colpo Kevin seppe come doveva sentirsi una bistecca.
Finalmente - passando per i vicoli, accucciandosi dietro le auto parcheggiate,
guardandosi intorno alla ricerca di uomini in nero e motociclisti in tuta color malva raggiunse Camden High Street. Ora tre elicotteri gialli ronzavano sopra la sua testa e gli bastò
guardarli per capire che anche quelli ce l'avevano con lui. Forse era intuito, il suo. O magari
c'entrava il fatto che avessero AMMAZZA KEVTN GRAHAM scritto in rosso sulle fiancate. Di
sicuro, sapeva che erano il nemico. Che cercavano lui.
Se la cavò per miracolo un altro paio di volte. Un motociclista lo individuò davanti a
Waterstones e sparò un razzo che lo mancò per un pelo, distruggendo la libreria e
cospargendo High Street con un uragano di pagine in fiamme. Pochi secondi dopo, un
elicottero lanciò un missile aria-terra a ricerca di calore che si sarebbe dovuto sintonizzare su
di lui e disintegrarlo in una singola gigantesca esplosione. Invece gli andò bene. Si trovava
vicino a un negozio di elettrodomestici, e all'ultimo momento il missile fu confuso dai camini
elettrici in mostra. Gli passò sopra e s'infilò nella vetrina, radendo al suolo quello e altri tre
negozi vicini.
Kevin fu scaraventato a diversi metri di distanza dalla forza dell'esplosione, ma senza
riportare troppi danni.
Per le nove di sera, quasi tutti i negozi di High Street erano ridotti in macerie. Le
fermate dell'autobus e i lampioni erano stati spezzati, le cassette delle lettere sradicate, gli
uffici demoliti. E quando l'orologio batté le nove, fu polverizzato da una testata termonucleare
lanciata da un elicottero.
I motociclisti in tuta color malva non si vedevano da nessuna parte. Del resto sarebbe
stato impossibile percorrere High Street usando qualunque cosa che non fosse un trattore.
Non era rimasto granché della strada, a parte una serie di crateri enormi.
D'altro canto, i motociclisti erano stati sostituiti da una squadriglia di draghi volanti
verde e argento, con code da scorpione, artigli stile rasoi e occhi simili a riflettori, pronti a
incenerire qualunque cosa si muovesse.
Ma non c'era niente che si muovesse.
La notte era caduta, e Camden Town con essa.
Kevin Graham stava accucciato in una delle voragini aperte dalle bombe. Aveva i vestiti
a brandelli - un'intera gamba dei suoi jeans era sparita - ed era coperto di sangue, fresco e
secco. Aveva un taglio su un occhio e una chiazza nuda sulla testa, dove gli si erano bruciati i
capelli. Aveva pianto. Le lacrime gli avevano lasciato tracce sudice sulle guance.
Era rannicchiato sotto un materasso volato fuori da un negozio di mobili. Il materasso
aveva tutta la sua gratitudine. Lo nascondeva agli elicotteri e ai draghi. Era l'unica cosa
morbida rimasta nel suo mondo.
Doveva essersi addormentato, perché di colpo si rese conto che c'era di nuovo luce. Il
sole era sorto, e tutto intorno c'era silenzio. Tremando, sollevò il materasso e si raddrizzò.
Rimase un momento in ascolto e poi uscì dal cratere.
Era vero. L'incubo era finito. Le armate che gli avevano dato così ostinatamente la
caccia erano scomparse.
Si stiracchiò, sentendo il calore del sole sulla schiena, e girò lo sguardo sulle macerie
fumanti che fino al giorno prima erano state una prospera periferia londinese.
Be', non gliene importava. Al diavolo Camden Town. Era vivo!
E finalmente sapeva cosa fare.
Doveva tornare in città e ritrovare gli uffici della Galactic Games.
Doveva dire al signor Go che era stato tutto un errore, che non gli interessava una carriera nei videogiochi e tanto meno gli interessava Smash Crash Slash 500, neanche se era il
videogioco più popolare dell'universo. E adesso ci credeva.
Semplicemente, si chiedeva a quale parte dell'universo si riferisse il signor Go.
Ecco cos'avrebbe fatto.
Il signor Go avrebbe capito. Avrebbe stracciato il contratto e la cosa sarebbe finita lì.
Mosse un passo e si fermò.
Sopra di lui, risuonò una specie di tuono. Per un momento riempì l'aria: uno strano
rimbombo rotolante, seguito da una pausa e da uno schianto metallico.
Un temporale estivo?
All'estremità opposta del campo di battaglia comparve un uomo in nero.
Kevin vacillò. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, un singhiozzo gli si strozzò in gola.
Conosceva quel suono. Lo conosceva fin troppo bene.
Il suono di una sala giochi. Qualcuno, da qualche parte, aveva appena infilato un'altra
moneta.